Cambio di programmi per
Kevin Smith, che dopo aver confermato l’intenzione
di portare al cinema il terzo capitolo di
Clerks, sembra invece aver deciso di
trasferire Hit Somebody sul piccolo
schermo, nella forma di una miniserie. Ad annunciarlo è stato lo
stesso Smith, via Twitter, spiegando che la decisione di portare
Hit Somebody sul piccolo schermo, apre la strada a un nuovo
progetto, che sarà comunque il suo ultimo lavoro per il cinema.
La vicenda di Hit Somebody è stata
del resto abbastanza travagliata: inizialmente era previsto si
svolgesse attraverso due film, poi la mancanza di finanziamenti
l’aveva ridotta a un solo lungometraggio; le dimensioni della
storia hanno poi portato alla decisione di trasformarla in una
miniserie tv. Smith tornerà così a lavorare per il cinema con
Clerks III; il regista ha peraltro in cantiere anche un film
d’animazione dedicato agli stessi personaggi.
Già col ruolo di Phil Dunphy in
Modern FamilyTy Burrell
ha dato prova delle sue capacità di comico: l’attore ora avrà
nuovamente modo di mostrarle, vista la sua probabile partecipazione
al nuovo film dedicato ai Muppets. La notizia
potrà farà felici i suoi fan, meno coloro che attendevano di vedere
Miss Piggy avere a che fare con Christoph
Waltz: la partecipazione dell’attore al progetto a questo
punto sembra definitivamente tramontata.
Il film vedrà
Kermit e compagnia viaggiare in Europa, finendo
per essere braccati dalla legge, tra agenti dell’Interpol – il
ruolo di Burrell – e femme fatale russe. La sceneggiatura è stata
scritta dal regista James Bobin assieme a
Nick Stoller. Le riprese cominceranno nei prssimi
mesi; Burrell darà prossimamente la voce al Mr Peabody nella
versione DreamWorks del vecchio cartone animato Mr
Peabody & Sherman, mentre sarà sugli schermi in
The Skeleton Twins, con Bill
Hader e Kristen Wiig.
No, non è un clamoroso dietro
front, ma l’idea di Aykroyd per un eventuale
quinto capitolo della saga degli Acchiappafantasmi. Dan
Aykroyd non ha certo avuto vita facile nel portare avanti
il terzo film dedicato agli
Acchiappafantasmi: nonostante il progetto
sia ancora in attesa del via libera della Sony, con l’intero cast
confermato – a eccezione ovviamente di Bill Murray
– l’attore sembra in pieno trip creativo, avendo già cominciato a
parlare del quarto e del quinto film, che vedrebbe i protagonisti
finire all’Inferno.
Aykroyd ha detto che vedere i
Ghostubusters nell’Aldilà sarebbe grande, ma che ci vorranno uno o
due film prima che questo succeda: il lavoro sarebbe già a buon
punto, scritto dallo stesso Aykroyd assieme al suo collaboratore
storico Tom Davis e promette di essere il più
comico di tutti. L’attore ha dichiarato che se la Sony
darà il via libera a Ghostbusters 3,
probabilmente ci sarebbe spazio per un ulteriore ritorno: tuttavia
lo stesso attore ha affermato che è arrivato il momento di avviare
effettivamente il progetto, altrimenti c’è il rischio che i
protagonisti gettino la spugna e visto che sono gli stessi a
detenere i diritti, senza di loro il film non potrà essere
fatto.
Dopo i ritorni di Andrew
Garfield ed Emma Stone e le new entries
Shailene Woodley (Mary Jane Watson) Jamie
Foxx (Electro) e Dane DeHaan (Harry
Osborn), il sequel di Amazing Spiderman
trova un’ulteriore conferma: quella di Martin
Sheen, nel ruolo dello zio Ben. A confermarlo è stato lo
stesso Sheen, che ha affermato di essere stato contattato dalla
produzione, non avendo però offerto particolari sul come si
articolerà la sua parte. L’attore ha anche confermato che le
riprese prenderanno il via in febbraio.
Il personaggio dello zio Ben moriva
nel primo film, quindi è presumibile che il suo ritorno avverrà
attraverso flashback o sequenze oniriche. L’uscita di
The Amazing Spider-Man 2
è stata fissata per il 2 maggio 2014.
Gollum è uno dei
personaggi tolkieniani più complessi e affascinanti mai incontrati
nella letteratura del ‘900. All’interno del corpus di Tolkien è
senza dubbio il più ambiguo, cupo e misterioso, nonché quello verso
il quale si prova maggiore senso di compassione e insieme di
repulsione. Ne Lo Hobbit, Gollum ha un
ruolo minore, ruolo che viene tuttavia ampliato a dovere ne
Il Signore degli Anelli, in cui diventerà
uno dei personaggi chiave.
Il mio tesssoro!Gollum
La sua nascita potrebbe risalire al
1928, nel racconto Glip, in cui Tolkien scrive di un
personaggio molto simile a Gollum e dal quale
potrebbe essere poi nato così come lo conosciamo.
In un primo momento Tolkien aveva
fatto di Gollum una creatura piuttosto amichevole
e onesta, che ammette di aver perso al gioco degli indovinelli
contro Bilbo e si offre di aiutarlo. Poi però la sua natura cambia
e diventa la creatura infida che ben conosciamo. In realtà però ne
Lo Hobbit la creatura rimane piuttosto nell’ombra,
in quanto lo stesso Tolkien dice di non sapere “chi o che cosa
fosse”. Solo nel 1937, quando Tolkien comincia a sistemare i
suoi appunti su Il Signore degli Anelli, abbiamo la
possibilità di sapere qualcosa in più di lui: nel capitolo
L’ombra del passato infatti Gandalf racconta la storia di
Gollum a Frodo nel dettaglio, basandosi sulle sue indagini e le sue
supposizioni.
Nel 2466 della
Terza Era della Terra di
Mezzo, Sméagol va a pesca insieme a Déagol suo cugino.
Il secondo cade dalla barca nell’Anduin e trova sul fondale un
anello. Alla vista del ninnolo Sméagol impazzisce,
aggredisce il cugino uccidendolo ed entra in possesso di quello che
si rivelerà essere l’Unico Anello, forgiato da
Sauron in persona nella fucine del Monte Fato.
Sméagol, di mente e cuore debole, si lascia
avvelenare dall’oggetto, con la conseguenza terribile di essere
bandito dalla sua famiglia e dai suoi amici. Si rifugia così in un
esilio volontario sotto le montagne, avendo preso ad odiare la luce
del Sole e della Luce (“faccia gialla” e “faccia pallida”).
A quel periodo risale la sua
trasformazione in Gollum, poiché viene
soprannominato così a causa dell’orribile rumore di gola che
emette. Nel suo nuovo rifugio comincia ad adattarsi all’oscurità
nutrendosi solo di pesci crudi e orchi. Gollum
tenne per sé l’Anello per circa 500 anni, chiamandolo Tesoro,
perché l’unica cosa al mondo di cui avesse cura, l’unica di cui gli
importasse davvero. Dopo questi 500 anni, Sauron cominciò a
riacquistare consistenza e ammassò la sua ombra a Nord, nel Bosco
Atro. L’Anello avvertì che il potere che l’aveva generato stava
diventando più forte e abbandonò Gollum.
Ma in quel momento accadde qualcosa
di prodigioso, qualcosa che nemmeno l’Anello poteva immaginare,
infatti Bilbo Baggins, un piccolo hobbit della Contea
lo trovò e se ne impadronì. In questo momento abbiamo ne Lo
Hobbit l’entrata in scena di Gollum che
sfiderà Bilbo al gioco degli indovinelli con lo scopo di
imbrogliare e di mangiare lo sventurato (e apparentemente gustoso)
ospite. Dopo la rocambolesca fuga di Bilbo, non sappiamo più nulla
di Gollum fino a che ricomparirà misteriosamente
ne Il Signore degli Anelli al seguito della
Compagnia nelle miniere di Moria.
Gollum insieme a Frodo e Sam in una scena de Il Signore degli
Anelli
In realtà dopo la perdita
dell’Anello, Gollum trovò il coraggio di uscire
dal suo rifugio, vagando alla ricerca del suo Tesoro, fino a che
non venne catturato e torturato da Sauron stesso. Da lui l’Oscuro
Signore apprende della strada che ha preso l’Anello e comincia a
trovare interessante la Contea e i Baggins. Intanto Gollum viene
lasciato libero nelle Paludi Morte, dove incontrerà Aragorn che lo
cattura e lo mette sotto chiave presso re
Thranduil nel Bosco Atro. Gli Elfi però
impietositi dal suo aspetto misero ed emaciato, abbassano la
guardia permettendogli di scappare.
Da quel momento
Gollum troverà rifugio nelle miniere di Moria,
dove si imbatterà proprio nella Compagnia e nel nuovo “padrone del
Tesoro”. Da qui in poi la sua storia è ben nota: segue la
Compagnia, tenta di attaccare Sam e Frodo sull’Emyn Muil e dienta
la loro guida fino al Nero Cancello e a Minas Morgul. Poi li
accompagna tra le fauci di Shelob per poi incontrare di nuovo gli
hobbit sulle pendici dell’Orodruin, dove si compirà il suo destino.
Alla sua morte, Gollum ha circa 600 anni, una longevità che deve
principalmente al suo lungo possesso dell’Anello, che gli ha
impedito di invecchiare, pur rovinandogli l’anima e la mente. Un
po’ come è successo a Bilbo che nei 60 anni in cui ha avuto con sé
l’Anello non è invecchiato di un giorno, cominciando però a
sentirsi verso la fine un po’ “sottile”, come “del burro spalmato
su troppo pane”.
Prima di trasformarsi in
Gollum, Gandalf ci informa che Sméagol era molto
simile ad un hobbit e amava molto il Fiume e l’acqua. Sulla base di
queste informazioni possiamo dedurre che potesse appartenere al
ceppo degli Sturoi, ovvero quegli hobbit che amavano l’acqua e le
imbarcazioni. Non tutti gli hobbit infatti amano i corsi d’acqua,
come ben testimonia Sam nel momento in cui è costretto ad
imbarcarsi per seguire il corso dell’Anduin.
Il possesso
dell’Anello muta profondamente Gollum, lo rende
miserabile e malvagio, molto furbo e violento, forte nonostante
l’apparente fragilità, oltre a mutarne anche i gusti alimentari. Si
può benissimo dire che l’Anello conferisce a
Gollum una personalità dissociata. “Lui odia e
ama l’anello, proprio come odia e ama se stesso” come dirà
Gandalf, che più di tutti sembra essere capace di spiegare il
comportamento ambivalente di Gollum, nonostante forse solo Frodo
riesca a capire fino infondo come si deve sentire in realtà la
creatura.
Solo con Frodo infatti la parte
buona, Sméagol, tornerà a galla, riuscendo a
restituirgli un po’ di serenità. Proverbiale infine è la sua
avversione per gli Elfi, e tutto ciò che è fabbricato e prodotto da
loro, questa sua repulsione lo contrapporrà ancora di più al suo
alter ego per eccellenza, ovvero Sam, che invece adora gli elfi e
tutto ci che rappresentano.
Ne Il Signore degli Anelli il personaggio di
Grima Vermilinguo è l’unico che può vagamente essere paragonato a
quello di Gollum per affinità di carattere e comportamento.
Entrambi infatti sono doppiogiochisti e sono schiacciati da un
potere malefico superiore, inoltre entrambi tradiranno i loro
padroni.
Nella trilogia de
Il Signore degli Anelli diretta da
Peter Jackson, Gollum è uno degli
elementi più rivoluzionari e più riusciti dell’intera saga, oltre a
rappresentare una vera e propria pietra miliare per la tecnica
della motion capture. Jackson infatti, in collaborazione con la
Weta
Digital, mise a punto una particolare tecnica che
potesse permettere di realizzare una creatura digitale con tutte le
movenze e le caratteristiche di un attore in carne ed ossa.
Ad interpretare Gollum chiamò
quindi Andy Serkis che prestò movimenti corporei e
facciali alla sua controparte digitale. La motion capture è ora una
tecnica digitale che ha raggiunto livelli di verosimiglianza
altissimi ma, ricordiamo, venne creata proprio per dare una forma
credibile alla nostra piccola e infida creatura. Gollum è al 13°
posto tra i migliori 100 personaggi cinematografici di sempre
secondo Empire, oltre a godere di una miriade di citazioni, in
cartoni animati e serie tv, tra le quali ricordiamo quella epica di
Big Bang Theory in cui il protagonista Sheldon sogna di essersi
trasformato in Gollum dopo essere entrato in possesso per caso
dell’anello usato per girare alcune scene del film. La sua frase
maggiormente rappresentativa “il mio tesssssoro” è entrata
a far parte del linguaggio comune trai giovani (e non) fans della
saga.
Nuovo arrivo per Prisoners,
thriller firmato da Dennis Villeneuve: entra nel
cast Terrence Howard, che affiancherà il
protagonista Hugh Jackman.
La storia ruota attorno a un padre
la cui figlia è vittima di un rapimento, assieme ad una sua amica.
Quando le ricerche della polizia falliscono, il protagonista decide
di muoversi in prima persona, catturando quello che lui pensa
essere il responsabile, entrando in conflitto col detective che
segue le indagini, interpretato da
Jake Gyllenhaal.
Il cast di Prisoners
comprende anche Maria Bello, Viola
Davis, Melissa Leo e Paul
Dano, la sceneggiatura è stata firmata da Aaron
Guzikowski e l’inizio delle riprese è previsto per
febbraio, puntando all’uscita sugli schermi nell’autunno 2013.
Terrence Howard sarà prossimamente sugli schermi con The
Butler, Movie 43 e
Ten.
L’orgoglio americano non poteva non
partorire un film sull’uccisione del suo nemico numero uno degli
ultimi vent’anni: Osama Bin Laden. Il 19 dicembre 2012 e in Italia
il 10 gennaio 2013 arriverà nelle sale italiane Zero
Dark Thirty, che racconta proprio le gesta della Navy
SEAL che il 2 maggio 2011, alle 00:05 ora locale, ha rintracciato e
ucciso il numero uno di Al Qaeda.
La star
cinese Wang Xuequi si è unito al cast del
prossimo Iron
Man 3 nel ruolo del Dottor Lu. La notizia è stata
annunciata da Deadline, secondo il quale
il film diretto da Shane Black è nella sua
fase finale di riprese a Pechino. Xuequi è noto per aver
interpretato Warriors of Heaven and
Earth e Bodyguards and
Assassins. Nel casti ritorna il protagonista Robert
Downey Jr. nei panni di Tony Stark. Fanno parte del cast
anche Ben Kingsley, Don
Cheadle, Guy
Pearce, Gwyneth
Paltrow, Jon
Favreau, Paul
Bettany, Rebecca
Hall e Scarlett Johansson. Iron Man 3 uscirà in Nord America 3D e 2D il 3
maggio 2013. Per tutte le notizie sul film vi segnaliamo il nostro
speciale: Iron Man 3.
Arriva al cinema distribuito da
20th Century Fox, Ruby Sparks, il
film diretto da Jonathan Dayton, Valerie Faris e con protagonisti
Paul Dano e
Zoe Kazan. E se quello che scriviamo prendesse vita
davanti ai nostri occhi? Se, per un fortuito caso, persona di cui
scriviamo, un completo prodotto della nostra fantasia, prendesse
corpo davanti a noi, vivendo e mangiando e parlando con noi, come
se fosse una persona reale? E’ questa la straordinaria e magica
realtà con cui deve fare i conti Calvin, uno scrittore con il
“blocco”.
In Ruby Sparks
Calvin Weir-Fields è un trentenne che a 19 anni ha pubblicato un
grande romanzo amatissimo da lettori e editori, ma da allora,
nonostante fama e successo non riesce più a scrivere nulla, fino a
che non sogna Ruby, una ragazza che lo ispirerà in tal misura da
spingerlo a scrivere di lei. Calvin si getta a capofitto in questa
nuova avventura, raccontando della sua ragazza da sogno: ne
descrive le abitudini, il carattere, i gusti, l’aspetto. Tutto di
Ruby gli pace, perché è lui ad inventarla riga dopo riga, e luila
rende così perfetta ai suoi occhi che finisce per innamorarsene.
Nonostante la completa assenza di amici, a parte il fratello, e di
rapporti umani, la vita di Calvin comincia a migliorare, proprio
grazie a questa magnifica invenzione di inchiostro. Fino a che Ruby
non apparirà per magia nella sua casa: una ragazza in carne e ossa,
occhi chiari e grandi, capelli rossi e guance paffute, invaderà la
casa e la vita di Calvin, che asseconderà di buon grado questa
misteriosa magia.
A sei anni dal delizioso e geniale
Little Miss Sunshine, Jonathan
Dayton e Valerie Faris ci raccontano
Ruby Sparks, un’altra storia che ha
nell’intuizione iniziale una buona percentuale del suo successo, e
nel racconto svolto con grande delicatezza e criterio l’arma
vincente. La storia diventa il principale elemento di veicolazione
delle emozioni, in un film che racconta della necessità di avere
qualcuno accanto, ma anche della solitudine, dell’ambizione e della
capacità di conciliare se stessi con i propri sogni.
Grandi protagonisti del
film sono Paul Dano e Zoe Kazan anche
autrice della sceneggiatura e nipote del grande Elia. Proprio la
sceneggiatura riesce a coinvolgere in maniera sorprendente perché,
una volta che il prodigio avviene e Ruby diventa reale, è naturale
chiedersi come la storia potrà procedere senza annoiare,
sviluppandosi lungo una retta temporale definita.
Ruby
Sparks riesce benissimo a tenere il ritmo della sua
storia, con dialoghi brillanti, svolte interessanti, messa in gioco
di sentimenti e comportamenti tanto umani ma allo stesso tempo che
appaiono assurdi in una persona “finta”. E infatti Ruby si rivelerà
essere tutt’altro che una persona finta, al contrario di Calvin,
che preferisce il buio, la solitudine, la realtà uguale a se
stessa, senza possibilità di evoluzione o cambiamento. Fanno parte
del cast in due piccoli ma divertenti ruoli Annette Bening e Antonio
Banderas. Ruby Sparks è una
commedia dolce e romantica, sotto alcuni aspetti anche inquietante,
ma anche intelligente e con un finale che allarga il cuore.
Le riprese di Thor: Il mondo delle Tenebre (Thor: The Dark World) stanno volgendo al
termine, e forse arriva uno degli ultimi contributi sul set di
Londra. Infatti, la troupe ha girato alcune scene di massa a St.
Paul.
La nuova trilogia annunciata di
Star Wars ha innalzato gli animi di addetti ai
lavori e fan, come in questo caso. Infatti, Samuel L. Jackson sembra davvero entusiasta per la
notizia di un’altra trilogia,
È da tanto tempo che i
fratelli Wachowski (Andy e
Lana, che adesso si fanno chiamare la Nave
Spaziale Wachowsi) non mettono mano alla macchina da presa
per raccontarci una storia. Finalmente, le geniali menti dietro
alla trilogia di Matrix, hanno
abbandonato il loro ritiro artistico, che durava dai tempi del poco
felice Speed Racer del 2008.
Apocalypse Now è
il film culto del 1970 diretto da Francis Ford
Coppola e con protagonisti nel cast Martin
Sheen, Marlon Brando, Robert Duvall e Dennis
Hopper.
Anno: 1979
Regia: Francis
Ford Coppola
Cast: Martin
Sheen, Marlon Brando, Robert Duvall, Dennis Hopper
Trama: Saigon
1969. Il capitano Benjamin L. Willard (Martin
Sheen), uno stanco ed alienato ufficiale dei marines,
viene convocato in tutta fretta per una missione speciale e
segreta.
Alla presenza di alcuni ufficiali
della sezione informazioni militari e forse di alcuni membri dei
servizi segreti gli viene commissionato il delicato incarico di
risalire il fiume Nung sino ad addentrarsi nella lontana e
pericolosa giungla cambogiana. Qui, secondo intercettazioni radio,
si trova il colonnello Walter E. Kurtz (Marlon
Brando) pluridecorato ufficiale dei berretti verdi; il
compito tassativo è quello di eliminare il colonnello, senza
esitazione alcuna. Il motivo? Sembra che l’ufficiale disertore si
sia messo a capo di un piccolo esercito di soldati-sudditi e si sia
reso protagonista di una serie di atrocità, prova della sua ragione
ormai compromessa.
Imbarcatosi su una piccola chiatta
e scortato da un ristretto quanto improbabile equipaggio ignaro
della meta e dello scopo della missione, il capitano Willard inizia
così un lungo viaggio attraverso il paese in guerra che lo dovrà
condurre al cospetto del misterioso colonnello scomparso.
Nel 1979, Francis Ford
Coppola riesce finalmente a completare quello che sarà
destinato a diventare uno dei film culto per più generazioni
e pietra miliare del cinema di guerra. Una delle testimonianze più
crude e allucinanti di un conflitto, quello del Viet-nam, che ha
indelebilmente segnato la coscienza di un paese e forse di tutto il
mondo occidentale.
Apocalypse Now è
un film liberamente ispirato al celebre romanzo di Joseph
Konrad, Cuore di tenebra, di cui però Coppola
cambia ambientazione spazio-temporale. Coppola vuole rappresentare
un viaggio, un lungo viaggio attraverso la guerra e che della
guerra deve mostrare tutti gli orrori, l’inutilità e la forza
alienante, l’assuefazione alla violenza quotidiana che si è
costretti a praticare.
Così il fiume Nung, presenza
costante per quasi tutto il film, diventa una sorta di simbolo, una
linea concettuale che collega tutte le varie fasi della narrazione,
un filo conduttore a cui si ritorna dopo ogni avventura affrontata
dal protagonista.
Ed una volta tornati sulla barca,
unico rifugio dove potersi sentire al sicuro, il capitano Willard
sfoglierà pagina dopo pagina il lungo dossier sull’uomo da scovare
ed uccidere. Il percorso di avvicinamento non solo fisico ma
sopratutto intellettuale tra il carnefice e la sua vittima è
indubbiamente l’aspetto più interessante del film. Willard conosce
gradualmente i profili psicologici di quell’eroe di guerra che
prima dei trent’anni era arrivato ad un passo dall’essere generale
e che sicuramente sarebbe diventato capo di stato maggiore. Allora
capire il motivo della sua pazzia, della sua degenerazione mentale
improvvisa e inspiegabile diventa per Willard un’ossessione, Kurtz
e il fascino e il magnetismo che trasmette la sua vita diventano
un’ossessione.
Il lungo e dantesco viaggio
attraverso la giungla porterà Willard e la sua truppa ad incontrare
personaggi e situazioni quasi farsesche, al limite del grottesco;
su tutte la conoscenza dell’eccentrico tenente William “Bill”
Kilgore, interpretato da un superlativo Robert
Duvall, comandante di un reggimento elicotteristico, la
1st Cavalry Division. Kilgore è un signore della guerra
che “ama i suoi ragazzi e che non si farà mai un graffio” e che si
getta all’attacco di villaggi vietcong sulle note inquietanti della
Cavalcata delle Valchirie di Wagner e che ama l’odore di
napalm al mattino perchè “è l’odore della vittoria”.
Quindi l’incontro con le playmate
giunte per sollevare il morale dei soldati, l’escursione tra
trincee senza comando dove si spara senza sapere a chi e per quale
motivo oltre ai vari attacchi dei guerriglieri nascosti sulle
sponde del fiume.
Ma il vero protagonista attorno al
quale ruota tutto il film, resta e rimane questo misterioso ed
enigmatico colonnello Kurtz, figura ombra che pur non comparendo
per tre quarti del film ne è in realtà il cuore pulsante. Kurtz
appare e si materializza solo negli ultimi quaranta incredibili
minuti in cui la scena viene dominata in modo incontrastato dal
grande Marlon Brando.
Forte di una presenza scenica unica
e forse ineguagliabile, Brando interpreta uno dei suoi personaggi
forse più complessi e tormentati e che per questo gli si addice
maggiormente. Sempre ritratto nell’ombra, e confuso nelle tenebre
del suo sinistro tempio “dall’odore di morte stagnante”, Kurtz è il
signore di un esercito di uomini-spettri che sembrano vittima di
uno strano incantesimo e che da lui subiscono supinamente le più
pazzesche atrocità. Cadaveri disseminati sugli alberi, sulle
scalinate insanguinate di un antico palazzo, forse una pagoda
buddista, un’atmosfera di morte e follia di fronte alla quale
Willard rimane sconvolto.
Al cospetto di Kurtz, il
capitano è vittima di quel fascino e di quella capacità
affabulatoria di un uomo che esalta la metodicità e la disciplina
dell’esercito vietnamita prevedendone la futura quanto inevitabile
vittoria. Kurtz è filosofo di morte e di violenza che disegna
sofismi sul terrore, sull’orrore al quale il soldato americano non
sarà mai avvezzo. Ma nei monologhi del colonnello leggiamo una
denuncia, una critica alle contraddizioni e all’illogicità dei
comandi americani i quali costringono i loro ragazzi a diventare
spietati assassini per richiamarli poi a rispettare stupidi dettami
morali.
Come un altro ufficiale che lo
precedette in quell’incarico, anche Willard è sul punto di cedere
alla filosofia e alla forza persuasiva del colonnello ma la sua
razionalità e il rifiuto di quella degenerazione lo salverà dalla
follia e lo porterà al compimento della sua missione.
Apocalypse
Now è un film che come pochi altri induce a
riflettere sull’atrocità della guerra e sui limiti a cui può
portare la follia umana. Un film tormentato e psicologico,
allucinato e allucinante nelle sue atmosfere e nelle sue musiche
che hanno in The end dei Doors l’apertura e la chiusura
più degna e indovinata che Coppola potesse scegliere.
Riprese durate un anno e mezzo
nella giungla delle Filippine tra tornadi e tifoni che distrussero
più volte il set; Sheen che si ferì ad una mano ed ebbe un infarto
che rese necessaria una controfigura in talune sequenze. Brando che
fece impazzire Coppola tanto da rifiutarsi di girare le riprese con
il grande attore affidandole al suo vice; un montaggio durato più
di due anni.
Un’odissea che portò il regista a
perdere una ventina di chili e che mise a rischio il suo matrimonio
per una crisi depressiva che lo colse per la paura di non portare a
compimento il suo sogno. Ma i grandi capolavori hanno spesso
gestazioni lunghe e difficili, complesse e tormentate, forse
necessarie a rendere il risultato tanto eccellente. Noi non
smetteremo mai di ringraziare Coppola di non aver ceduto, di non
aver desistito dall’idea e dall’utopia di terminare questo film. Un
film che consigliamo di vedere nella sua versione Redux in
quanto la consideriamo migliore e più esaustiva, comprendente
sequenze chiave e fondamentali per capire al meglio una narrazione
non facile.
Gli Anni Ruggenti
è un film del 1962 diretto da Luigi Zampa e con
protagonista nel cast Nino Manfredi, Gino Cervi,
Michèle Mercier, Gastone Moschin.
La trama de Gli Anni Ruggenti
1937, XV anno fascista. Salvatore
Acquamano (Gino Cervi) è il podestà di un piccolo
paese a pochi chilometri da Alberobello; un cugino impiegato nel
ministero lo avverte dell’arrivo imminente di un gerarca in
incognito incaricato di effettuare un’ispezione sul territorio.
Convocato tutto il consiglio
comunale, composto tra gli altri anche dal burbero segretario
politico Carmine Passante (Gastone Moschin), il
panico si diffonde immediato viste le innumerevoli magagne che
rischiano di essere smascherate.
Il tanto temuto ispettore è
individuato nella figura di un giovane forestiero appena giunto da
Roma, un certo Omero Battifiori (Nino Manfredi)
che si spaccia per un assicuratore in cerca di nuovi clienti.
Peccato che il giovane e spigliato presunto gerarca sia in realtà
quello che dice di essere ma il gioco degli equivoci è ormai
iniziato e sarà quasi impossibile fermarlo.
Gli Anni Ruggenti, il film
E’ il 1962 quando Luigi
Zampa dirige questo brillantissimo esempio di
tragicommedia all’italiana; un affresco quanto mai ironico e
divertente su un periodo storico molto particolare e di cui ancora,
in quegli anni, si percepivano gli echi e i freschi ricordi.
Una sceneggiatura scritta a sei
mani ed in cui Zampa si avvale della preziosissima collaborazione
di Ruggero Maccari e sopratutto di Ettore
Scola. E crediamo che proprio Scola abbia contribuito
particolarmente, in sede di scrittura del film, a bilanciarne la
forte carica ironico-satirica con una certa eleganza e gravità di
base, tipica del suo fare cinema.
Gli anni
ruggenti infatti non è solo una semplice commedia in
cui si ride, e molto, grazie al susseguirsi di situazioni farsesche
e divertenti rese ancor più esilaranti da attori eccezionali e
dalla grande carica comica; ma è anche e innanzitutto un film che
al contempo vuole riproporre e affrontare temi e problematiche
legate al “ventennio” da poco concluso.
Divertire e far riflettere,
sorridere sì ma di un sorriso spesso amaro che alla lunga si smorza
in una sorta di ghigno, in una smorfia, come da tradizione della
grande tragicommedia nostrana.
Mostrare la tipica società fascista
di provincia, di una provincia lontana da Roma, da piazza Venezia e
dalle grandi adunate; una provincia così lontana dal centro di
potere da sentirsi al sicuro da occhi e orecchie indiscrete e poter
così dar libero sfogo alla sua irresistibile smania di corruzione.
Il quadro che Zampa ci propone è impietoso: funzionari di partito,
dirigenti sanitari, scolastici e loschi mestieranti in camicia nera
che utilizzano quella particolare congiuntura storico-politica per
arricchirsi, ampliare il proprio volume di affari, assecondare i
propri interessi e il tutto a scapito della povera gente.
Non c’è ideale, non c’è convinzione
sincera in qualcuno o qualcosa ma solo sete di danaro, sete di
ricchezza. Straordinari nel fornirci i classici esempi di questa
provincia corrotta e basata sul malaffare sono Gino
Cervi, podestà che utilizza la sua posizione per sfruttare
più e peggio di prima gli stessi braccianti che lavorano le sue
terre e Gastone Moschin, segretario politico dalla
mascella protesa e il petto sempre gonfio ma in realtà pavido come
un agnellino.
Nino Manfredi
invece interpreta con la solita maestria il protagonista della
storia, il vero perno su cui ruota tutta la narrazione. Giovane
impiegato onesto e innocentemente fedele al partito, avrà suo
malgrado modo di conoscere tutto il marcio che può nascondersi
sotto il velo di legalità, fermezza morale e borghese di uomini
fieri e orgogliosi fascisti. Avrà modo di constatare come le loro
ruberie si riversino sulla povera gente che, in un piccolo borgo
pugliese, può ancora vivere accampata nelle caverne nascoste tra le
montagne. La composta ed educata amicizia che nasce con il dott. De
Vincenzi, intellettuale anti-fascista, interpretato da un sempre
meraviglioso Salvo Randone, aiuta il giovane protagonista ad aprire
gli occhi su quello che si cela dietro ad un apparente
benessere.
Il dott. De Vincenzi sarà per Omero
una sorta di Virgilio che lo guiderà in questo viaggio dantesco
verso la verità.
Attori impeccabili, straordinari
nel rivestire ognuno il ruolo loro assegnato, una sceneggiatura
elegante quanto divertente ed amara, una ricostruzione storica e
sociale fedele ed impietosa. Gli anni
ruggenti è un film che consigliamo fortemente in
quanto diverte, fa conoscere e riflettere anche se alla fine,
forse, è la nostalgia il sentimento che rimane…nostalgia di un
cinema che fu.
Serenity è il film
del 2005 diretto da Joss Whedon
prima di dirigere The Avengers e con
protagonisti Nathan Fillion, Morena Baccarin e Alan
Tudyk.
Trama: In un
futuro remoto, il capitano Malcom “Mal” Reynolds – un disilluso
veterano che ha combattuto, dalla parte dei perdenti, una guerra
civile tra pianeti – sbarca fortunosamente il lunario compiendo
piccoli crimini e trasportando passeggeri e merci (senza fare
troppe domande) sulla sua astronave classe Firefly “Serenity”. È a
capo di un equipaggio esiguo ed eclettico – che è per lui la cosa
più vicina ad una famiglia – litigioso, insubordinato, ma fedele
fino alla morte.
Quando Mal
aveva accettato di trasportare a bordo Simon Tam, un giovane
dottore, con la sua instabile e telepatica sorella River, aveva
imbarcato molto più di quello che si aspettava. I due sono fuggiti
dall’Alleanza – la coalizione che domina il sistema planetario dopo
la guerra – che non si fermerà davanti a nulla pur di riavere la
ragazza. L’equipaggio, abituato a navigare non visto ai margini del
sistema, si trova improvvisamente intrappolato tra questa forza
militare inarrestabile e i Reavers: barbari selvaggi e antropofagi
che vagano ai limiti dello spazio.
Ricercato, l’equipaggio comincia
presto a scoprire che il pericolo più grande alla loro incolumità
potrebbe essere proprio a bordo della “Serenity”. River, la giovane
ricercata, malgrado le cure del fratello dà segni di essere
imprevedibile e pericolosa.
Serenity, tra Star Wars e Blade Runner
Serenity
è un film di fantascienza del 2005, diretto
da Joss Whedon, che ha una lunga esperienza da
sceneggiatore e fumettista, al suo primo film da regista. Il
lungometraggio è basato sulla serie televisiva fantawestern
Firefly, di cui è la conclusione.
Il suo punto di forza è
il suo essere user friendly: sceneggiatura semplice e
nessun virtuosismo registico fine a sé stesso. La trama presenta
tutti gli elementi di una storia comune a tante: un gruppo ben
assortito di buoni, un cattivo che li insegue, una missione da
compiere e un mistero finale svelato.
L’unico difetto tangibile di
Serenity è la quasi totale mancanza di
scene madri e di battaglie ad alto tasso di spettacolarità, difetto
legato allo scarso budget. Paradossalmente però, proprio la
mancanza di questo tipo di scene, sulle quali poggia oramai il 100%
della produzione spettacolare americana, ha permesso una maggiore
cura dei personaggi, della storia e degli elementi di contorno.
Nel cast, tra gli attori
protagonisti, troviamo Nathan Fillion nei panni di
Malcom “Mal” Reynolds, Morena Baccarin in quelli
di Inara Serra e Alan Tudyk che interpreta Hoban
“Wash” Washburne.
Nonostante la sua semplicità e la
fruibilità della trama, questa pellicola fu accolta
superficialmente al botteghino: circa 39 milioni di dollari in
totale, all’incirca pari ai costi di produzione, guadagnando solo
con la vendita del DVD, specie online grazie ad Amazon.
Nel marzo 2007 un sondaggio online
del sito della rivista britannica SFX ha inaspettatamente collocato
Serenity come migliore film di
fantascienza della storia, davanti a titoli decisamente più
blasonati quali
Guerre stellari,
Blade Runner o 2001: Odissea nello spazio.
Sunshine è un film
del 2007 diretto da Danny Boyle e con
protagonisti Cillian Murphy, Chris Evans, Rose Byrne,
Michelle Yeoh, Cliff Curtis e Mark Strong.
La trama del
film Sunshine
Nel 2057 il Sole
si sta spegnendo e la Terra rischia l’estinzione. Per tentare di
salvarla, è stato mandato in missione un esperto equipaggio
composto da due astronauti e un gruppo di scienziati, a bordo
dell’enorme astronave Icarus II, con l’incarico di gettare e
detonare nella stella una gigantesca bomba nucleare al fine di
riattivare le reazioni nucleari all’interno del Sole ed evitarne lo
spegnimento.
A compiere la stessa missione sette
anni prima, era stata mandata l’astronave Icarus I, quasi identica,
di cui però si erano perse le tracce prima che raggiungesse il
Sole.
Fanno parte dell’equipaggio il
capitano (Kaneda), un fisico (Robert Capa), una biologa (Corazon,
detta Cory), il primo ufficiale addetto alle comunicazioni
(Harvey), un esperto matematico (Trey), la co-pilota (Cassie), un
ingegnere (Mace) ed uno psicologo (Searle). Durante il viaggio
verso il sole, il gruppo ha una serie di vicissitudini, dettate
soprattutto dal nervosismo che la difficile e delicata missione
scatena in loro.
Sunshine, la fantascienza secondo
Danny Boyle
Sunshine è un
film di fantascienza del 2007
diretto da Danny
Boyle, regista, tra gli altri, di Trainspotting. La matrice del film è
puramente apocalittica, essendo la storia basata su un evento tanto
caro a Hollywood: la fine del Mondo causata da eventi spaziali
catastrofici. Se Armageddon, uscito nove anni
prima, delegò a un grosso meteorite il compito di mettere fine alle
nostre vite, Sunshine si affida al
graduale spegnimento del sole. Rispetto però a tanti film sul
genere, lo fa da una prospettiva anticonvenzionale: puntando
soprattutto sulla psiche dei protagonisti. In coloro che sono
chiamati a salvarci si innesca infatti una tensione scatenata
dall’istinto per la sopravvivenza.
D’altronde si sa, in
situazioni di pericolo emergono tanti difetti tipici dell’uomo, e
le diatribe tra i personaggi quasi fanno dimenticare che il
pericolo principale sia lo spegnimento del sole. Del resto lo
sceneggiatore Alex Garland – ispiratosi alla teoria della morte
termica dell’universo – ha così spiegato la sua idea: “Ciò che
mi interessava era l’idea che si potesse arrivare ad un punto in
cui la sopravvivenza dell’intero pianeta ricadesse sulle spalle di
un solo uomo, e come questo potesse dargli alla testa”.
L’egoismo dei protagonisti finisce per diventare più pericoloso del
sole stesso.
La scelta del cast da parte del
regista Danny Boyle si basò su scelte decisamente
etniche. Decise di scegliere un cast artistico misto e complesso,
in modo da incoraggiare un processo più democratico, similmente a
come era avvenuto per il film Alien di Ridley Scott. L’equipaggio venne composto con
attori di nazionalità americana e asiatica, supponendo che nel
futuro i programmi spaziali della NASA e il Programma spaziale
cinese fossero comunque quelli più avanzati, ignorando però quelli
cinesi e brasiliani pure molto avanzati, onde evitare un cast
esageratamente disparato. Il produttore, Andrew
Mcdonald, richiese inoltre che venisse selezionato un cast
che potesse ostentare un accento americano di alto livello.
La produzione del film
La produzione del film fu funestata
da iniziali problemi di finanziamento. Nel marzo 2005, dopo aver
ultimato Millions (2004) il regista
Danny
Boyle venne preso in considerazione per dirigere
3000 Degrees, un progetto della Warner
Bros. Allo stesso tempo però Boyle ricevette una sceneggiatura
scritta da Alex Garland, che aveva già affiancato
il regista nel 2000, con The Beach e nel
2002 con 28 giorni dopo. Assieme al
produttore Andrew Mcdonald presentarono la
sceneggiatura alla 20th Century Fox, che però si dimostrò
riluttante a finanziare un film simile al recente remake di
Solaris visti bassi incassi ottenuti dalla
pellicola.
Il film venne quindi finanziato
indirettamente, affidandosi alla Fox Searchlight Pictures. Il
budget iniziale stimato però si aggirava sui 40 milioni di dollari,
troppi anche per la Fox Seachlight, e quindi Mcdonald cercò altri
finanziatori nel Regno Unito, ottenendo aiuti dall’Ingenious Film
Partners.
Curiosità sul film
Sunshine
Lo sceneggiatore Alex Garland per
scrivere Sunshine si ispirò direttamente alla teoria della
morte termica dell’universo, in particolare da un articolo che
«proiettava il futuro dell’umanità in una prospettiva
completamente scientifica ed atea». L’articolo era stato
pubblicato da un periodico scientifico statunitense, e Garland si
chiese cosa sarebbe successo se il sole fosse morto. Garland
sottopose quindi la sceneggiatura al regista Danny Boyle che la
accolse di buon grado, rimuginando da tempo l’idea di girare un
film fantascientifico ambientato nello spazio. Boyle e Garland
lavorarono sulla sceneggiatura per un anno, ideando oltre 35
progetti durante i loro esperimenti.
La storia venne inoltre scritta in
parte per riflettere la brillante e «necessaria arroganza»
della scienza della vita reale, nel momento in cui agli scienziati
del mondo viene presentata la crisi che minaccia la Terra.
L’ambientazione temporale della
trama, 50 anni nel futuro, venne scelta per non sembrare troppo
distante dalla realtà odierna, ma al tempo stesso per permettere un
viaggio verso il sole con tecnologia avanzata e futuristica. Vari
consulenti scientifici, teorici del futuro e produttori di
strumentazioni tecnologiche vennero consultati per meglio delineare
una strumentazione realistica.
Boyle considerò inoltre la storia
di Sunshine come un approccio controintuitivo al problema
contemporaneo del surriscaldamento globale, con la morte del sole
che diventa una minaccia. Originariamente, Sunshine venne
pensato con un’introduzione di una voce fuori campo che racconta
dei genitori che insegnano ai figli di non guardare il sole, e di
come i bambini sarebbero invece stati spinti a farlo proprio dal
divieto.
Boyle descrive il sole come una
personalità quasi divina all’interno del film, creando una
dimensione psicologica per gli astronauti a causa delle sue enormi
dimensioni e della sua potenza.
Per ricreare l’ambientazione, Boyle
e Garland, si affidarono anche a impiegati della NASA e a vari
astrofisici. Un fisico in particolare, Brian Cox dell’università di
Manchester, venne consultato per istruire gli attori, dopo che il
regista aveva notato il lavoro svolto da Cox con il cast del
programma televisivo Horizon. Il fisico tenne regolari
lezioni ai membri del cast sulla fisica del sole.
Cox consigliò inoltre a Boyle e
Garland di ridurre le dimensioni della bomba nucleare trasportata
dall’astronave Icarus II, per parificarla alle dimensioni
dell’isola di Manhattan, anziché delle dimensioni della Luna come
inizialmente pensato.
Nel retroscena del film, la causa
della morte del Sole è una Q-ball, ma secondo Cox il Sole nella
realtà non sarebbe denso abbastanza per fermare una Q-Ball. Boyle
ha quindi deciso di usare arbitrariamente una licenza poetica per
descrivere tale scena, impossibile nella realtà.
Il regista Gus Van
Sant gira il film Paranoid Park
nel 2007. Un ragazzino di nome Alex, che frequenta la scuola
superiore e ha la patente di guida, ama correre in skateboard, per
le strade di Portland. Il suo più caro amico, Jared, un giorno gli
propone di visitare con lui un posto molto speciale: il Paranoid
Park. Là, esiste la più importante ed impegnativa pista artificiale
per gli skaters della città. Una sera Alex si reca al
Paranoid Park da solo.
E’ uno dei ragazzi più giovani, per
cui subito gli altri skaters s’accorgono della sua
presenza. Pare che Alex non abbia l’intenzione di gareggiare, forse
perché intelligentemente sa che il suo livello di preparazione è
basso. Un ragazzo più “maturo” gli va incontro, con un gruppo di
amici. Alex gli presta il suo skateboard. In seguito, lui si farà
convincere che con loro sarebbe bello montare su un treno in corsa.
La ferrovia passa nei pressi del Paranoid Park. Alla fine, Alex
effettivamente salirà su un treno in corsa, accompagnato dal solo
ragazzo cui aveva prestato lo skateboard. Una guardia però
si accorge della loro presenza, ed arriva a batterli con la mazza.
Alex istintivamente alza il suo skateboard. Con questo,
lui colpisce la testa del sorvegliante, il quale, intontito, è
costretto ad indietreggiare. Per una pura fatalità, nello stesso
momento, un altro treno corre sul binario attiguo. Il corpo del
sorvegliante si spezza a metà, mentre Alex capisce d’aver commesso
un omicidio, guardando il volto morente.
Paranoid Park è costruito
essenzialmente tramite l’inquadratura fissa sui volti dei ragazzi.
Bisogna che ne possiamo leggere il pensiero. Nel caso di Alex,
subentreranno i sensi di colpa, per aver commesso un omicidio,
benché accidentalmente. Van Sant inquadra il volto, lasciando che
questo si giri, in maniera lenta. E’ l’avvisaglia che la persona
cercherà di evitare il contatto con gli altri. Spesso, il volto
all’inizio si vede in primo piano, ponendosi innanzi a noi. Ma
subito esso si girerà, da un lato. La visione di profilo si
percepirà facendo finta di se stessa. Se Alex è il personaggio
avente i sensi di colpa, a smascherarli ci proverebbe davvero solo
la sua amica Macy. Anche lei gioca a guardare frontalmente, salvo
poi girare il volto da un lato.
Nella scena dell’interrogatorio a
scuola, Alex potrebbe svelare al poliziotto se non la verità
quantomeno i suoi problemi. Il ragazzino maneggia la fotografia del
guardiano ucciso. Egli dapprima ha gli occhi chini sul tavolo, e
poi li alza, fronteggiando il poliziotto inquisitore. Valutiamo che
Alex alla fine non si tradisce. La sua espressione resta fredda ed
impassibile, impedendo così al poliziotto d’insospettirsi. Sin
dall’inizio del film, noi capiamo che Alex è un bravo ragazzo. Pare
che neppure la separazione dei genitori, o la spensieratezza del
fratellino, ne mini la tranquillità di carattere. Alex ha la
maturità di schivare i più sbruffoni skaters del Paranoid
Park, e persino ci dichiarerà (con la sua voce narrante) che
toglierebbe la verginità alla fidanzata Jennifer solo riconoscendo
d’amarla. Forse, l’impassibilità di Alex innanzi al poliziotto
inquisitore nasce dalla convinzione che lui, in fondo, stia già
morendo dentro.
Van Sant non prende una posizione
netta, in chiave moralistica, inquadrando i sensi di colpa del
ragazzino. Pare che Alex, sapendo d’essere un buono da sempre (di
natura), pensi che la sua condanna a ricordare l’omicidio (per
tutta la vita) già basti, pure senza l’incarcerazione.
Simbolicamente, si giustifica così l’insistenza di Van Sant a
cercare il volto, che abbandoni il rivelarsi frontale, in favore
d’un nascondimento laterale. Sembra che Alex tiri un sospiro di
non-sollievo. Il volto che abbandona il rivelarsi frontale in
favore del nascondimento centrale varrà sia facendo finta di se
stesso, sia nella prima accettazione della pena, per cui comunque
l’anima avrà una ferita insanabile. Probabilmente, a noi viene
naturale di provare compassione per Alex, influenzati dalla sua
bontà caratteriale. Il volto certo colpevole del ragazzino avrebbe
una freddezza non tanto calcolata (tacendo, per evitare la
prigione), bensì malinconicamente abbandonata a se stessa, nella
convinzione che una tragica fatalità vi si fosse abbattuta.
All’inizio, Alex pensa all’idea di consegnarsi spontaneamente alla
polizia, invocando persino la legittima difesa (per le mazzate
ricevute dal guardiano).
In
seguito, più concretamente, egli telefona al padre per cercare di
raccontargli tutto. Il caso, però, torna a dirigere la vitalità del
ragazzino. Né il padre né lo zio di Alex risponderanno alla sua
chiamata. Percepiamo bene la strana fatalità del momento. La
telefonata a casa dello zio si compie alle cinque del mattino, in
piena notte, quando è verosimile pensare che lui risponderà per
forza, svegliato dal letto in cui dorme. Van Sant lascia che il
destino salvi Alex dalla condanna sociale (col carcere), ma non da
quella interiore (per i rimorsi).
Qualcosa di simile accade nel film
Match Point, di Woody
Allen (2005). Sono frequenti le inquadrature in cui Alex
ha il volto di profilo, ma chino su se stesso. Così, percepiamo
bene l’interiorità della colpa. Alex si porterà gli occhi
virtualmente nel cuore. Quando Alex cammina nei corridoi della sua
scuola, esteticamente emerge il dettaglio della mano sinistra. Essa
può distendersi verso il cuore, oppure impugnarsi (valendo solo per
se stessa). In Alex percepiamo una dialettica etica, fra il buon
animo (che passivamente indurrebbe ad ammettere la colpa) ed il
pragmatismo della freddezza (che resisterebbe alle accuse del
poliziotto o dell’amica Macy, tacendo il più possibile la verità a
loro).
Il cuore assieme al pugno, dunque.
Alex è pure il nome assegnato da Kubrick al capobanda dei drughi,
nel celebre film Arancia meccanica (1971). Il
ragazzino disegnato da Van Sant vive a Portland, in Oregon, e
risente (tanto per gli abiti quanto per i capelli lunghi) della
cultura grunge, dalla vicina Seattle. La contestazione alla società
di Alex-Paranoid Park non è
prevaricatrice come quella di Alex-Arancia
meccanica, esibendoci essenzialmente un
nichilismo rassegnato. Noi stimiamo Kurt Cobain il
padre sia della musica grunge sia della cosiddetta generazione X
(in cui le persone avrebbero perso gli ideali alti, verso la
comunità, privilegiando quelli bassi, verso gli affetti privati).
In Paranoid Park, Alex assolutamente non
vorrebbe fare del male a nessuno, né dirige una banda di
scalmanati. Solo, l’immaturità d’un raptus, congiunta ad
una buona dose di fatalità avversa, lo trasforma malinconicamente
in un assassino. Nello stesso Paranoid
Park, i grandi skaters forse si limitano a
spacciare le droghe leggere, contestando la società con la
rassegnazione della gara fra di loro (di nuovo: negli affetti
privati, rinunciando a complicarli pubblicamente, tramite la
politica).
Il ragazzino Alex
all’inizio sembra interessarsi ai problemi del mondo (citando la
fame e la seconda guerra in Iraq). I suoi amici invece non
avrebbero una sensibilità politica, bensì unicamente bassa (negli
affetti privati). Commesso l’omicidio, ad Alex mancherà il tempo
utile per pensare ai problemi del mondo. E’ il momento in cui lui
s’assimila agli skaters del Paranoid
Park, attanagliato dalla rassegnazione per i sensi di
colpa.
Il nichilismo di Alex ci pare
freddo, come il duro cemento della pista. Gli skaters del
Paranoid Park vivono unicamente girando a vuoto, fra un primo ed un
secondo salto in curva. Lo stesso accade per la macchina da presa.
Anche la mente di Alex segue gli skaters, girando a vuoto,
da un salto a sinistra ad uno verso destra, o viceversa.
Simbolicamente, è l’arrovellarsi (come nel più classico mal di
testa) per i sensi di colpa. Gus Van Sant sceglie d’inquadrare gli
skaters con una fotografia sgranata, ricorrendo pure a
videoregistrazioni amatoriali (da scene realmente accadute).
Immaginiamo che la mente di Alex ormai sia stata sporcata
(dall’omicidio), e poi insabbiata (tacendo l’ammissione della
colpa). Il film non ci racconta come si conclude l’inchiesta del
poliziotto. In fondo, riconducendo lo skateboard rinvenuto
nel fiume (col DNA del guardiano ucciso) al suo legittimo
proprietario, tutte le bugie di Alex cadrebbero, e lui sarebbe
immediatamente accusato. Se ascoltassimo le parole del destino,
sembra che il ragazzino possa davvero farla franca.
Nel film, una delle canzoni è
questa: “If you have a problem, I don’t care what it is, if you
need a hand, I can assure you this… It’s a fact that people get
lonely, ain’t nothing new” (Billy Swan, 1974).
In un periodo in cui l’attenzione
alla condizione della donna è sempre più al centro delle tempeste
mediatiche che ogni giorno ci assalgono, anche Peter Jackson ha
pensato bene di inserire una “quota rosa” nel suo adattamento de
Lo Hobbit. Il romanzo infatti è
totalmente al maschile, senza neanche un personaggio minore,
nemmeno sullo sfondo come invece accadeva ne Il Signore
degli Anelli in cui spiccavano almeno tre personaggi
femminili di rilievo e di spessore (Arwen, Galadriel e Eowyn).
Dall’alto della sua conoscenza
tolkieniana, Jackson ha inserito nella trama del film il
personaggio di Galadriel, particolarmente amata dal pubblico per la
bellezza del ruolo, ma sicuramente in gran parte per la grandiosità
dell’attrice che l’ha già interpretata nella trilogia precedente:
Cate Blanchett.
Ma chi è
Galadriel? Da dove viene e perché è così amata,
ammirata e anche temuta? Ebbene la bellezza e la potenza di
Galadriel arrivano da lontano, poiché elle è uno degli elfi più
antichi che abbiamo mai toccato le sponde della Terra di Mezzo. Lei
discende direttamente da Finarfin suo nonno, e dal nobile Finwe.
Aveva sempre richiamato l’ammirazione di Feanor per la lucentezza
dei suoi capelli dorati, ricambiando però le attenzioni dello zio
con estremo sdegno a causa del comportamento spavaldo di
quest’ultimo. Feanor infatti credeva che nei suoi capelli fossero
rimasti intrappolati i raggi luminosi d Laurelin e Telperion, e si
dice inoltre che dalla luce dei suoi capelli l’ingegnoso elfo
trasse ispirazione per forgiare i Silmaril.
Conobbe Celeborn ad Alqualondë,
dove dimorava con sua madre Earwen, al quale rimase legato per il
resto della sua lunghissima vita. Ella aveva infatti molti nomi, ma
scelse quello di Galadriel perché le era stato dato da colui che
amava. Scelse, insieme a Celeborn, l’esilio da Aman dopo essersi
ribellata ai Valar durante l’Ottenebramento di Valinor ad opera di
Morgoth e Ungoliant, rifugiandosi nella Terra di Mezzo senza mai
partecipare alla guerra contro Angband, fortezza di Melkor.
Galadriel è
conosciuta anche come l’elfo uomo, a causa della sua statura e
delle sua forza incredibile, sia fisica che spirituale, avveniva
così spesso che i suoi disaccordi con Celeborn fossero molto più
accesi perché nessuna delle due parti cedeva all’altra. Accadde
così che dopo qualche tempo trascorso nell’Eregion, regno fondato a
nord di quella che divenne poi La Contea, i due coniugi si
separassero a causa dell’inimicizia di Celeborn con i Nani, con i
quali invece Galadriel andava d’accordo. Strascico di questa
simpatia tra Galadriel e i Nani può essere considerato il
particolare rapporto che si crea tra Gimli e Galadriel durante la
permanenza della Compagnia a Lorien.
La Dama donerà al Nano tre dei suoi
capelli d’oro e tramite la sua intercessione Gimli fu l’unico nano
a poter vedere Valinor, che raggiunse insieme a Legolas dopo molti
anni dalla fine della Guerra dell’Anello. La Dama si rifugiò quindi
a Lorien, che divenne la sua casa, mentre Celebron rimase a ovest
delle Montagne Nebbiose.
In questo stesso periodo accadde
che Sauron riuscisse ad ingannare i fabbri dell’Eregion, primo tra
tutti Celebrimbor, fabbricatore di Anelli, fino a che lui stesso si
accorse delle menzogne di Sauron e si ribellò. Affidò a Galadriel
Nenya, uno dei tre Anelli degli Elfi. Dopo 1800 anni di
separazione, Galadriel andò alla ricerca di Celeborn, e lo trovò a
Imladris, o Gran Burrone, insieme a Elrond Mezzelfo. Lì dimorarono
per molti anni fino a quando si trasferirono a sud, presso
Belfalas. Qui Galadriel incontrò per la prima volta Gandalf, che le
consegnò l’Elessar, la preziosa gemma elfica che sarebbe poi
passata ad Aragorn anni dopo.
Dopo la morte del primogenito
Amroth, nel 1981 della Terza Era, Galadriel e Celebron si
spostarono definitivamente a Lorien. Nella Terza Era Galadriel
entra a far parte del Bianco Consiglio al capo del quale avrebbe
preferito Gandalf, e non Saruman come invece fu. Il ruolo di
Galadriel è fondamentale durante il viaggio a Sud della Compagnia
dell’Anello, in quanto Lothlorien è una tappa importantissima del
viaggio dell’Anello verso Mordor. Fondamentale per capire il suo
personaggio e la sua psicologia è il momento in cui Frodo chiede
alla Dama di prendere l’Unico, rifiutandone il peso e la
responsabilità.
Galadriel fortemente tentata da
quell’offerta riesce tuttavia a resistere alla tentazione
rappresentata dall’Anello e “lasciò ricadere il braccio, e la
luce scomparve, e improvvisamente rise, e si rimpicciolì: tornò ad
essere un’esile donna elfica, vestita di semplice bianco, dalla
voce morbida e triste. <<Ho superato la prova >>,
disse. <<Perderò i miei poteri, e me ne andrò all’Ovest, e
rimarrò Galadriel>>.” (Il Signore degli Anelli – La Compagnia
dell’Anello).
Galadriel fa molti doni preziosi ai
viandanti, e tra questi regala la gemma elfica ad Aragorn, che lei
sa destinato a sposare sua nipote Arwen, un seme di Mallorn a Sam e
la fiala con la luce di Earendil a Frodo. Inoltre, ospita Gandalf dopo il suo combattimento mortale con
il Balrog di Morgoth. Durante la Guerra dell’Anello Galadriel e
Celeborn vengono attaccati diverse volte a Lorien, fino a che non
si ricongiungono a nord con re Thranduil del Bosco Atro e
purificano quei luoghi dall’influenza negativa del passaggio di
Sauron. Con la distruzione dell’Unico Anello, Galadriel, con tutti
gli alti elfi della Terra di Mezzo, decide di ritornare nel Reame
Beato di Valinor, dopo aver assistito al matrimonio di Arwen e al
funerale di Re Theoden. Parte con
Bilbo, Frodo e
Gandalf dai Porti Grigi il 29 settembre 3021,
ricongiungendosi alla figlia Celebrian e alla casa del padre
Finarfin.
Sua figlia aveva infatti sposato
Elrond Mezzelfo e dal suo matrimonio erano nati Elladan, Elroir e
la bella Arwen Undomiel, sposa di Aragorn figlio di Aratorn ed
erede al trono di Gondor. Tuttavia Celebrian venne ferita quando
Arwen era ancora una bambina e decise di partire per l’Ovest,
lasciando la sua famiglia nella Terra di Mezzo. Celeborn raggiunse
poi Galadriel all’Ovest qualche anno dopo.
Come già anticipato, il ruolo di
Galadriel nella trilogia de Il Signore degli Anelli è stato
affidato a Cate Blanchett, dopo che Kyle
Minogue (prima scelta) fu scartata perché troppo bassa.
Peter Jackson ha reinserito il personaggio di
Galadriel nella sua sceneggiatura de Lo Hobbit, ma non sappiamo
ancora bene in che misura la Bianca Dama di Lorien farà parte della
storia, a parte la scena che la vuole coinvolta, insieme a Hugo Weaving, Ian McKellen e Christopher Lee per il Bianco Consiglio.
Il film
Satantango, del regista ungherese
Bela Tarr, fu girato nel 1994. Vi si narra il
collasso d’una fattoria collettiva, ai tempi del comunismo. I pochi
abitanti si lasciano andare alla vita, persa ogni speranza per un
futuro migliore. A loro, resta soltanto la bottiglia d’alcol. La
noia nichilistica di tutti è però improvvisamente scossa, quando si
sparge la notizia che il pseudo-santone Irimias, ufficialmente dato
per disperso, tornerà in paese (assieme al suo guardaspalle
Petrina). Gli abitanti cominceranno a temere che dovranno
andarsene. Lo spettatore può sapere che il comando di polizia
zonale ha affidato ad Irimias una missione segreta. Egli chiederà
ai vecchi compaesani tutti i loro risparmi, promettendo che li
baratteranno con un vero lavoro (senza più l’abitudine alla puzza
del bestiame, o dei campi arati). Ma sarà solo un inganno,
virtualmente per lasciare che il comando di polizia distrugga la
fattoria.
Satantango ha il bianconero fotografico,
permettendoci di percepire la vitalità smorta dei compaesani. La
sua durata al cinema è di ben 435 minuti. Una lunghezza che segue
la dilatazione dello spleen esistenziale. Sembra che la
gente voglia solo ubriacarsi. Ciò alla fine comporta un profondo e
lungo addormentarsi. La volontà d’abbandonarsi alla frenesia della
vita inevitabilmente si contraddirà. Bela Tarr usa piani-sequenza
che durano 10 o persino 15 minuti. Allora, l’azione dei personaggi
finisce per addormentarsi. Noi vedremo quasi esclusivamente il loro
ambiente circostante. Il film vale esteticamente per la fangosità
nelle relazioni sociali (costruite sulle menzogne od i sospetti), e
la piovosità del destino (il quale incombe se non ferendo
quantomeno appesantendo la vita, con le sue complicazioni). La
desolazione delle terra ungherese è solo in piccola parte dovuta al
crollo dell’utopia collettivistica.
In
Satantango, lo Stato mantiene il suo
potere coercitivo, grazie alla stazione di polizia zonale. I
discorsi del comandante (ricevuti Irimias e Petrina) paiono
chiari: “Qui tutto dipende dal mio umore… Le gente non ama la
libertà, ne ha paura…” . Lo Stato, con la polizia, imporrà
ancora il suo ordine sociale. Esso agirebbe paradossalmente
liberando tutto il popolo, mentre ne controlla l’individualismo. E’
l’utopia del collettivismo. Esteticamente, interessa che il
comandante faccia derivare il potere dal mero
umore. Il film
Satantango è costantemente bagnato in via
percettiva. Gli umori delle persone paiono sempre umidi. Ognuno è
sospettoso nei confronti degli altri: per i tradimenti sentimentali
(tramite la procace signora Schmidt), o per le furberie sugli
affari (specialmente, dal signor Schmidt). Lo pesudo-santone
Irimias porta a compimento il destino, quando esso letteralmente
precipiterà sui personaggi.
Bela Tarr sceglie
di non mostrarci la distruzione della fattoria. Solo, accade che
gli abitanti taglino un armadietto, usando il badile. La lama
precipita sul legno, come la pioggia autunnale. Nel film, muore
solo l’innocente Estike. Lei è ancora una bambina, ciononostante ha
già raggiunto la maturità sociale, capendo la desolazione della
vita ubriacata, dentro la fattoria. Estike arriva a seviziare il
suo amato gattino. E’ la percezione fangosa della vitalità. Il
gattino sembra trito e ritrito nella mani di Estike, come nel campo
da arare. La morte però accade in modo più rarefatto. Estike
avvelena prima il gatto, e poi se stessa. La morte sopraggiunge
dolcemente, senza alcuna precipitazione. Torna comunque la
percezione dell’umore, in quanto il veleno va bevuto. Estike muore
dolcemente, perché il destino va percepito nell’astrattezza di se
stesso. L’universalità pare qualcosa che si distenda sopra
i singoli enti. Il veleno si diffonderà su tutto il corpo.
L’universalità del destino, nelle intenzioni del regista, andrà
“bevuta” da Estike, siccome per lei “gli angeli vedono e
capiscono… non c’è nulla da temere. La bambina avrebbe il dono
della fede. Qualcosa che le permetta più astrattamente un bagno,
sotto la pioggia battente, senza subirne il taglio (per le punte
delle gocce). Nella scena iniziale, l’inquadratura rimane fissa. Un
gruppo di vacche compare da lontano, uscendo dalla propria stalla.
Lentamente, la macchina da presa inizia a seguirne il pascolo. La
carrellata in orizzontale ambiguamente può mantenere la fissità
dell’inquadratura, quando il nostro sguardo si fa parare, dai muri
di più stalle.
Bela Tarr
cerca un’immagine frapposta. Come le vacche scorrazzeranno per
l’aia, così la nostra visione si dipanerà oltre le varie pareti.
Forse Satantango va percepito nella
frapposizione del destino sulla vita dell’uomo, col primo che
rallenterà la seconda. La pioggia in qualche modo taglia ed
appesantisce. Essa ci ostacola, e per Tarr anche a suo piacimento.
Nella scena in cui gli abitanti lasciano il loro paese, il
tergicristallo del loro camion gira in maniera solo disordinata
(senza alcun ritmo). Il regista inquadra la luce quasi
esplosivamente tramite un suo varco in profondità. Agli inizi del
film, ad esempio, la comparsa dell’uomo avviene dalle nostre
spalle. Sarà la prima testimonianza del continuo fronteretro
chiaroscurale in cui si rallenta ogni azione individuale. Spesso i
personaggi si nascondono e (paradossalmente) non si nascondono.
Basta inquadrarli dalla loro schiena. Bela Tarr
non nega la vitalità dei personaggi. Ma questa pare appesantita
(dalla noia nichilistica). Nell’oscurità di tutti i personaggi,
resta il varco d’una luce continuamente in attesa d’attrarli a
sé.
C’è una scena in cui la cinepresa
abbandona il nostro punto di vista per avvicinarsi alla finestra,
quasi entrandovi. Ma alla fine le tendine non s’apriranno più. E’
il contraltare percettivo, in chiave ambientale, della figura umana
che si muri esibendo solo la propria schiena. Nel film
Satantango, l’illuminazione resta
costantemente sulla soglia di sé. Gli uomini possono darsi le
spalle fra di loro, appoggiandosi ai muri delle stalle, come se
giocassero a nascondino (mentre spiano). Però, solo la regia
proverebbe a contare il momento buono per passare all’azione. La
narrazione evita sempre ogni forma di suspense. I
personaggi si nasconderanno e basta. Le loro discussioni paiono
inconcludenti. La stessa missione del falso profeta Irimias, agli
occhi dei suoi antagonisti, sarà più il frutto d’una suggestione
(innanzi al sacrificio di Estike), che non d’una coercizione.
Invece, i movimenti della macchina da presa potrebbero contarsi.
All’inizio del film, c’è una carrellata in orizzontale. Noi vediamo
in successione le figure del vaso, del muro, della vacca e del
rubinetto. La regia avanza una sorta di countdown
nichilistico. Un po’ alla volta, la scenografia si spoglia della
presenza antropocentrica (data dai vasi e dai muri) per diventare
più naturalistica. Allora, la regia troverà l’universalità della
piatta inquadratura fissa. In realtà, alla fine resta il rubinetto,
che permette alla vacca di bere. La naturalità dell’acqua
simbolicamente sarà già in via d’annullamento. Paradossalmente,
pare che il rubinetto strozzi la vitalità della vacca, incombendo
su questa. L’acqua sarà appesantita non solo dal più naturale
diluvio, ma pure nell’antropocentrismo della sua canalizzazione.
Frequentemente, il film mostra che i personaggi si lavano entro una
piccola bacinella. Non ci pare una scelta praticissima. Sembra
difficile lavarsi bene in così poco spazio. La bacinella sarebbe il
contraltare artificiale della più naturale pozzanghera. Mancando
una vera e propria immersione nell’acqua (dalla vasca), il corpo
nudo si comporterebbe come il fango, che subito appesantisce il
bagnato.
Nel film
Satantango, la regia ci aiuta a percepire
i movimenti virtualmente piovosi della vitalità umana. Bela
Tarr cercherà un’inquadratura che scandisca il compiersi
del destino avverso ai compaesani. C’è una scena in cui noi vediamo
prima il braccio d’un uomo, e poi un bicchiere sul tavolo. La
cinepresa si sposta lentamente, in orizzontale. Il braccio si
distende, e la mano prenderà il bicchiere. E’ il momento in cui
l’uomo vuole bere. In seguito, il braccio si distende in direzione
opposta, rimettendo il bicchiere sul tavolo. La scena si ripeterà
ancora. L’inquadratura si percepirà in via pendolare. Ma è un
countdown che, per l’appunto, non porta a nulla, lasciando
che il personaggio del bevitore semplicemente s’addormenti. Il
braccio, incurvato per prendere il bicchiere, avrà la stessa
configurazione del rubinetto per le vacche. Ciò conferma la
percezione estetica che la vitalità si faccia strozzare. Il film
Satantango è interamente costruito
sull’inerzia narrativa. La stessa missione di Irimias accade solo
astrattamente. Il rubinetto strozza la vitalità della vacca, ed il
braccio che prende il bicchiere (col vino al posto dell’acqua)
quella dell’ubriacone.
Il film
Satantango va percepito nella continua
frapposizione degli elementi scenografici. La visione del rubinetto
taglierà quella della vacca, la visione del braccio taglierà quella
del bicchiere, magari nell’alternanza di se stesse (quando la
macchina da presa si sposti da sinistra a destra, o viceversa). Non
c’è alcuna flessibilità percettiva. Ove l’inquadratura si faccia
binaria, il primo elemento parrà semplicemente spalmato sul
secondo, nella solita pesantezza della loro fangosità. Anche per
questo, uno dei personaggi si lamenta del suo spleen
esistenziale dichiarando: “La flessibilità è ciò che ho
perso”. Nella scena più famosa del film, Bela Tarr usa un
piano-sequenza di 15 minuti. L’illusione che l’alcol rivitalizzi
fermenta sul ballo dei compaesani, al bar. In realtà,
malinconicamente noi percepiamo che loro si lascino andare al solo
addormentarsi. Là, manca completamente ogni flessibilità
coreografica. I compaesani si limitano ad allargare le braccia,
così da spalmare la fermentazione dell’alcol.
Nicola Deorsola,
già aiuto regista di Rubini e Veronesi, esordisce dopo una lunga
attesa dovuta alle difficoltà nel reperimento di fondi, e lo fa
scegliendo il genere romantico, che mette in scena in maniera
classica: nel punto di vista e nello stile registico. Sembra
sposare l’ottica adolescenziale dei suoi protagonisti: la
psicologia e l’analisi si rivelano quasi del tutto inutili, mentre
Ilaria “guarisce” semplicemente grazie all’amore. Il grande amore
dei ragazzi, che è più forte della menzogna “a fin di bene”, e
anche quello che emergerà dai cuori dei genitori. Vorrei
Vederti Ballare si muove tra tono leggero e tono serio, ma
l’elemento prevalente è il romanticismo.
La storia d’amore è il fulcro del
film. Il resto – l’approccio da commedia e i temi anche forti (il
conflitto coi genitori, l’anoressia, l’elaborazione del
lutto) – ruota attorno. Lo dimostra anche lo stile registico:
primissimi piani, inquadrature classiche del genere romantico,
paesaggi suggestivi di Calabria, dove il film è ambientato, oltre a
un montaggio evocativo (a sottolineare romantiche similitudini) e
alla colonna sonora in francese curata da Giuseppe Fulcheri –
mente del film di cui è anche soggettista, sceneggiatore e
produttore.
In Vorrei Vederti
Ballare, Martino (Giulio Forges
Davanzati) e Ilaria (Chiara Chiti) sono
due ragazzi in conflitto coi genitori: il primo col padre
(Alessandro Haber) – uno psicologo rigido e
autoritario che vuole organizzargli la vita – mentre la madre è
morta da alcuni anni. È iscritto a psicologia, ma studia e
frequenta poco; invece, segue le sue passioni: le tartarughe, il
cinema e Ilaria, che osserva esercitarsi a danza dalla finestra di
casa. Ilaria, dal canto suo, ha una madre (Giuliana De
Sio) ex ballerina, con cui si scontra continuamente e che
la opprime, scaricandole addosso le sue frustrazioni. Mentre suo
padre è del tutto assente. Entrambi i ragazzi chiedono, in fondo,
affetto e una reale attenzione. S’incontrano quando Ilaria inizia a
soffrire di disturbi alimentari e va in terapia proprio dal padre
di Martino. Quest’ultimo, allora, coglie l’occasione: fingendosi un
giovane collega del padre, riesce ad avere in cura Ilaria. I due si
aiuteranno a vicenda, iniziando un percorso di apertura verso
l’altro, di crescita che sfocerà in una storia d’amore e
ridisegnerà i loro rapporti coi genitori.
Il regista fa il suo compito, senza
rischiare o stupire. Si sbizzarrisce un po’ solo col personaggio di
Gastone, interpretato in maniera molto divertente da
Gianmarco Tognazzi, che finalmente vediamo in
veste comica e con un’espressività meno rigida di quella che
ultimamente gli conosciamo. Per il resto, tutto è abbastanza
prevedibile, a forte rischio di banalità, forse rassicurante ma non
emozionante e non dissimile da altre prove del genere. Il tutto
rende il film nel complesso più adatto al salotto di casa che non
alla sala cinematografica.
Il cast di Vorrei Vederti
Ballare punta sui giovani – Chiara Chiti,
già diretta da Matteo Rovere, e Giulio
Forges Davanzati, noto soprattutto per aver partecipato ad
alcune fiction, offrono buone prove – ma si avvale anche di
collaborazioni illustri: i già citati Giuliana De Sio,
Alessandro Haber e Gianmarco Tognazzi e
anche Paola Barale che in look da diva anni ’50 è
una cassiera col sogno del cinema. Prodotto da Falco Produzioni in
collaborazione con Rai Cinema, è nelle sale dal 6 dicembre.
Il sito italiano
Badtaste.it ha pubblicato quattro interessantissime featurette
direttamente dal backstage dell’atteso Les
Misérables in cui possiamo entrare dentro
Ecco una nuova foto di
Henry Cavill nella tuta di Superman, pubblicata in
copertina dalla rivista francese Studio Ciné Live.
L’attore, diretto da Zach Snyder, sarà impegnato
nel suo primo ruolo davvero importante da protagonista nel prossimo
L’Uomo
d’Acciaio, ennesimo e speriamo vincente adattamento
della storia del supereroe kryptoniano.
Con Cavill, partecipano al film
Amy Adams nei panni della giornalista Lois Lane e
Laurence Fishburne è il suo caporedattore Perry
White. Inoltre del cast fanno aprte anche Diane
Lane e Kevin Costner, che interpretano i
coniugi Kent, e Ayelet Zurer e Russell
Crowe che interpretano invece i genitori naturali di
Clark/Superman, Lara Lor-Van e Jor-El. Il bravissimo
Michael Shannon sarà il villain, Generale Zod, e
Antje Traue sarà Faora.
Ecco il primo poster ufficiale del
prossimo film a “basso” budget di Michael Bay. Si
intitola Pain&Gain e vede
protagonista una indedita coppia tutta muscoli,
Comingsoon.net riporta che l’acclamato
regista di Drive, Nicolas Winding
Refn, è in tratative per dirigere, per la Columbia
Pictures, l’adattamento di The
Equalizercon Denzel Washington. Si
tratta di una serie anni ’80 in cui il protagonista è un soldato
detective che si fa assumere da chi non riesce a risolvere i propri
problemi.
Intanto Refn è impegnato ad
ultimare il suo ultimo film che ha visto doppiare la sua
collaborazione con Ryan Gosling: Only
God Forgives, per il quale non si ha ancora una data
d’uscita.
Il sito americano IGN ha pubblicato il
primo poster ufficiale di Oblivion,
l’atteso sci-fi tratto dall’omonima graphic novel che vede
protagonista assoluto l’inossidabile Tom
Cruise.
Accanto a Tom ci saranno altri
volti più o meno noti del grande schermo: Morgan
Freeman, l’ex Bond girl Olga Kurylenko,
Andrea Riseborough, Nikolaj
Coster-Waldau (noto ai più per il suo ruolo di Jaimie
Lannister nella serie HBO Game of Thrones) e il premio Oscar
Melissa Leo. A dirigire il film ci sarà
Joseph Kosinski anche autore del fumetto.
Ecco la trama del film:
Jack è un ex soldato, l’ultimo
sopravvissuto sulla Terra, devastata dalla guerra contro una razza
aliena. Dopo aver ritrovato un’astronave distrutta, la storia
dell’unica superstite al suo interno lo trascina in un’ avventura
che cambierà per sempre il loro destino. Jack mette in discussione
tutto ciò che credeva di sapere sul suo mondo, sulla sua missione e
su se stesso. In un inseguimento per terra, aria e spazio. Jack è
costretto a un confronto con i suoi superiori per conoscere la
verità.
Oblivion
uscirà esclusivamente in IMAX il 12 aprile e nel formato classico a
partire dal 19 aprile. Ovviamente si tratta di date USA, mentre
quelle italiane non sono ancora note.
La Walt Disney Pictures sembra
intenzionata a ritornare nel paese delle meraviglie di Lewis
Carroll. Infatti, secondo Variety lo studios ha assunto Linda
Woolverton per scrivere
La 20th Century Fox ha annunciato che il reboot dei Fantastici
Quattro uscirà il 6 Marzo 2015 per la regia di Josh Trank
(Chronicle), su una sceneggiatura scritta da Michael Green e
Jeremy Slater.
Raccontiamo ora di Thorin
Scudodiquercia, Re Sotto la Montagna e principale fautore
degli eventi raccontati ne Lo Hobbit.
Thorin è il capo della compagnia dei 12 nani che
parte, con
Bilbo e
Gandalf, per riconquistare il tesoro sotto la Montagna
Solitaria e sconfiggere definitivamente Smaug.
Thorin Scudodiquercia
Al drago infatti si deve il suo
esilio dal regno che comprendeva in origine le terre comprese tra
Dale e la Montagna Solitaria, cuore del regno. All’inizio del
viaggio dimostra una certa diffidenza verso
Bilbo e verso l’utilità che il piccolo hobbit può
avere nell’aiutarlo a riconquistare il suo tesoro. Lungi infatti
dal credere di riuscire effettivamente a sconfiggere il drago,
Thorin tende soprattutto a voler riconquistare l’oro e
l’Archipietra, la mistica gemma di rara bellezza ed infinito pregio
andata perduta quando la reggia della montagna è stata occupata da
Smaug.
Thorin II, detto
Scudodiquercia, nasce nell’anno 2746 della Terza Era, è figlio di
Thrain e nipote di Thror, ha un carattere molto più austero
rispetto a quello dei suoi compagni di viaggio e le sue vicende,
precedenti a quelle raccontate ne Lo Hobbit, vengono raccontate da
Tolkien stesso nell’appendice A de Il Signore degli Anelli.
Quasi per caso, Thorin
incontra Gandalf il Grigio a Brea, mentre lo stregone
stava viaggiando per raggiungere la Contea. Dopo un primo incontro
fra i due,
Gandalf iniziò a mettere assieme molti tasselli di un
mosaico di cui non sapeva il disegno. Anni prima infatti a Dol
Guldur aveva trovato nelle segrete un nano che gli aveva consegnato
una mappa appartenuta alla gente di Durin con una chiave, così
capisce quindi che quel povero nano morente era Thráin II. Nel
secondo incontro con Thorin, Gandalf espone il suo piano per l’impresa,
sarà una azione furtiva che richiederà poche ma fidate persone.
Nell’impresa dovrà poi esserci un hobbit, essendo questi coraggiosi
all’accortezza, e soprattutto avendo un odore sconosciuto al drago
che difende il tesoro come suo.
Nel film di Peter
Jackson, Lo Hobbit: Un Viaggio
Inaspettato,Thorin
Scudodiquercia è interpretato da Richard Armitage, fascinoso attore inglese
noto per i suoi ruoli televisivi e per essere apparso di recente in
Captain America: Il Primo
Vendicatore. Le reticenze
con cui è stato accolto il suo aspetto da nano, dovute soprattutto
alla giovinezza dell’attore rispetto all’idea e alle descrizioni
tolkieniane relative al personaggio, sembrano essere state fugate
dai primissimi trailer del film, in cui Armitage dimostra di essere
un Thorin all’altezza del suo rango.