Ogni autore riesce sempre, in qualsiasi spazio, a raccontare se
stesso e le sue ossessioni, e così Yorgos
Lanthimos fa nei film e nei cortometraggi, in
Nimic, per esempio.
Sono presenze anestetizzate dal
punto di vista empatico, emotivo e umano i personaggi di
Yorgos Lanthimos. Richiusi nella propria
solitudine, anche quando circondati da famigliari, amici, colleghi,
o semplici sconosciuti, questi uomini e donne generati dalla fucina
creativa del regista greco vivono sull’onda di una passione
repressa, un folgore emotivo spento sul nascere.
Marionette tra le mani del loro
creatore, questi personaggi vengono posti in un ambiente dove tutto
gioca su continue associazioni visive e nulla è lasciato al caso.
Che sia uno spot per Gucci, un lungometraggio, o un corto, quella
che scorre sullo schermo è pura fantasia messa in scena da uno
stile rodatissimo e ormai facilmente identificabile. Ritorna dunque
anche in Nimic, cortometraggio presentato
all’interno del Ravenna Nightmare Film Festival, lo spazio
quotidiano, famigliare, ellittico, che si avvolge su se stesso
soffocando il protagonista. Una realtà che schiaccia i suoi
componenti, li sdoppia, li priva della loro unicità rendendoli
ancor più soli, ossessionati dal tempo che passa, da una realtà che
non capiscono e che li getta nel baratro della propria mente e
sconosciuta interiorità.
“Perché dovrebbe essere inquietante
la realtà dell’uomo?” Si chiedeva Federico Fellini. “È inquietante
nel momento in cui ci mettiamo in conflitto con essa; quando
tentiamo di interpretarla, di schematizzarla, allora sì che si
distorce, si deforma, ci aggredisce. Ma se noi l’accettiamo per
quel che è, mi sembra che non ci sia nulla di sconcertante in
questa realtà”. Perseguitato da una mefistofelica figura femminile
(Daphne Patakia), il protagonista del corto
interpretato da
Matt Dillon tenta dunque di rinchiudere il
momento entro i confini della logica per poi caderne vittima. Solo,
al centro del proprio incubo mentale, l’uomo scinde il proprio Io
dal proprio Sè, generando un’ombra che lo perseguita, lo insegue,
assettata dei suoi ricordi, della sua felicità quotidiana, della
sua esistenza.
La recensione di Nimic, il
cortometraggio di Yorgos Lanthimos
Un incontro fortuito sulla
metropolitana, sostenuto da un apparente sguardo innocuo, lascia
dunque spazio a una ricerca osannata del tempo perduto, sottratto,
manipolato. Non è un caso che questo gioco circolatorio di verità
celate, vite sdoppiate e identità rubate, scaturisca proprio da una
domanda sul tempo: “Do you have the time?”, “sa
l’ora?”.
Basta solo nominarlo, il “tempo”
perché si inneschi un movimento circolare, nel quale tutto il mondo
del protagonista senza nome (e per questo senza una propria
unicità, che permette agli altri di sottrargli l’identità) parta,
ritorna, perdendosi, in un senso destabilizzante.
È una reiterazione continua fatta di
parole, gesti, sguardi replicati dalla donna-ombra, quella di
Nimic; un riflesso perfetto esacerbato da un uso sapiente, quanto
perturbante, di un fish-eye atto a deformare la realtà per
gettare i protagonisti al centro di uno sguardo dispotico. L’uso di
tale ripresa amplifica lo spazio deformandolo, dotandolo di una
sfericità innaturale, che rimanda al concetto di tempo non più
lineare, bensì circolare: è un tempo che inizia senza finire, in
continue ed eterne repliche tutte uguali tra loro. In questo puzzle
dove ogni tessera è ben riposta e nessun pezzo è andato perduto,
anche la colonna sonora gioca un ruolo predominante.
La musica classica non solo dona
sontuosità all’opera, ma esacerba un senso di profondo malessere,
rimarcando i confini di una giornata condannata a ripetersi e
rigenerarsi al sorgere del sole come il fegato di Prometeo. Posto
lo sguardo attento del regista greco, anche l’ambiente si dilata, i
corpi si allungano perdendo la propria fisicità e naturalezza.
Uomini, donne e bambini si stagliano dinnanzi alla macchina da
presa come alieni, spettri provenienti da un aldilà personale,
rinchiusi in un limbo lasciato aperto e ora pronti a vagare sulla
spinta di uno sguardo in metro tra le vie terrestri,
nell’ordinarietà della vita reale.
C’è più arte cinematografica in
questi 11 minuti che in tanti lungometraggi lasciati scorrere su
schermi abbaglianti occhi di spettatori annoiati e poco stimolati.
Con Nimic, Lanthimos destruttura per l’ennesima
volta il modo di vedere il mondo, così da creare un girone
infernale su suolo terrestre abitato personaggi trincerati in manie
di controllo verso le proprie e altrui azioni, incamerandoli
all’interno di scenari paurosi celanti regressione e repressione,
paura e follia, sensualità e sublime dolore.
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