La notizia ufficiale apparirà
soltanto il 19 aprile, ma l’ultimo film di Matteo Garrone, Big
House, sembra avviato verso la selezione ufficiale del 65 festival di Cannes. Il regista italiano,
divenuto famoso grazie a Gomorra e già premiato con il Gran Prix
Speciale della Giuria nel 2008, ha scelto come tema del suo ultimo
film il mito dei reality show e il modo in cui questi influiscono
sulla vita di determinate persone. La scelta di tale soggetto, un
fenomeno tipico del mondo contemporaneo, conferma l’interesse di
Garrone per il tessuto sociale e materiale in cui viviamo e la sua
necessità di scandagliare situazioni reali e concrete.
Il regista, classe 1968, già dai
suoi esordi manifesta infatti un forte interesse per le dinamiche
sociali, accompagnato da uno stile peculiare di fare cinema. Egli,
infatti, dopo essersi diplomato al Liceo Artistico nel 1986, si
dedica per molti anni soltanto alla pittura, imparando così tutto
il potere delle immagini e la loro forza prima di avventurarsi nel
mondo del grande schermo.
L’esordio di Garrone come regista,
nel 1996, non passa inosservato: con il cortometraggio Silhouette
vince il Sacher Festival organizzato da Moretti e, l’anno
successivo, è già in grado di girare il suo primo lungometraggio,
Terra di Mezzo. Questo film, diviso in tre parti, racconta tre
storie di immigrazione (una delle quali è ripresa dal corto
Silhouette) ambientate nella città di Roma e ha già in nuce quel
particolare stile, il fondere insieme la fiction e il documentario,
la storia e la forza dell’immagine reale, che Garrone porterà
avanti lungo tutta la sua filmografia.
Negli anni 1997/1998
gira due documentari: il primo a New York, Bienvenido espiritu
santo e il secondo a Napoli, Oreste Pipolo, fotografo di matrimoni.
Il 1998 è un anno particolarmente produttivo per il regista, poiché
prima firma, insieme a Massimo Gaudioso e Fabio Nunziata, il
cortometraggio Un caso di forza maggiore e poi, da solo, il suo
secondo lungometraggio, Ospiti, presentato alla Mostra d’Arte
Cinematografica di Venezia. Questa pellicola, che racconta la
storia di due ragazzi albanesi arrivati da poco a Roma, tratta il
tema dell’immigrazione da un punto di vista originale e prosegue il
filone iniziato con Terra di Mezzo: le riprese sembrano quasi da
documentario, viene utilizzata molto la telecamera a spalla e la
realtà entra nella storia in maniera prepotente, sia per le
ambientazioni reali e per il suono in presa diretta, che per
l’impiego di attori non professionisti. Il cinema per Garrone non
deve essere solo spettacolo, ma un mezzo al servizio della realtà.
Un mezzo forte che, grazie, alle immagini, possa non tanto
denunciare determinate dinamiche, ma riportarle, comunicarle e
quasi trascenderle attraverso le immagini.
Il suo stile, che deriva dalla
combinazione sapiente di elementi di assoluta improvvisazione e da
un’attenta ricerca formale, è diverso da quello di chiunque altro e
giunge a maturazione nel suo terzo lungometraggio, Estate Romana.
Questo film, una fiction che si avvicina molto al genere della
commedia, è girato con uno stile documentaristico e vede come perno
narrativo la città di Roma in attesa del Giubileo. Una Roma non
solo impacchettata e ribaltata da cantieri e palazzi in
costruzione, ma soprattutto percorsa da eccentrici protagonisti che
testimoniano nuovamente i disagi esistenziali che Garrone aveva
accennato nei suoi film precedenti.
Inoltre il suo modo di
concepire il cinema e l’originalità tipica dell’autodidatta si
concretizzano in produzioni molto particolari: la sua troupe è
sempre numericamente ridotta, quasi una famiglia, lui stesso spesso
e volentieri è l’operatore di macchina, proprio per quell’esigenza
di cogliere gli attimi di realtà che entrano nella finzione, per
essere sicuro di riuscire a rendere quell’insinuarsi della vita
vera nell’interpretazione attoriale. Fino a questo momento, però, i
film di Garrone non riscuotono alcun successo di pubblico. Il suo
nome, infatti, circola solo tra i critici e all’interno dei
festival.
La svolta nella sua carriera si ha
solo nel 2002, quando l’Imbalsamatore, presentato anche a Cannes,
vince il David di Donatello per la miglior sceneggiatura. Questo
film, prodotto dalla Fandango di Domenico Procacci, attraverso il
rapporto a tre che si instaura tra un nano imbalsamatore, il suo
assistente e la ragazza di quest’ultimo, disegna un triangolo
ambiguo di individui perdenti, egoisti e borderline, in lotta tra
loro nella ricerca disperata di un legame affettivo durevole e
profondo. Il noir di Garrone, nonostante il budget consistente
messo in campo dalla casa di produzione, mantiene fede al suo stile
originario: ogni orpello e arricchimento viene messo da parte,
l’attenzione per lo scorrere della realtà resta comunque
preponderante, così come la ricerca formale. Ciò che interessa al
regista è la rivelazione dell’essenziale, l’equilibrio effimero tra
la realtà e l’astrazione pittorica.
Tale tendenza stilistica prosegue
nel 2004 con l’uscita nelle sale di Primo Amore, in concorso alla
54°Berlinale, la storia drammatica di un orafo che impone alla sua
ragazza una dieta rigidissima perché si avvicini il più possibile
al suo modello di donna ideale. Una storia di amore folle e
perverso che Garrone prova a registrare oggettivamente, sospendendo
ogni giudizio. Questo film, così come i precedenti, non vuole
essere una denuncia sociale. Il regista, infatti, nonostante metta
in scena personaggi apparentemente ossessivi e malati, dà sempre
l’impressione di voler restare al di fuori delle loro vicende.
Garrone non critica, non dà certezze, né risposte, ma opera una
costante ricerca all’interno delle pieghe dell’animo umano.
Ricerca che incontra
finalmente il successo di pubblico con Gomorra nel 2008. Il film,
che prende titolo e tema dall’omonimo libro di Roberto Saviano, non
cerca infatti di dare conto della complesse vicende della camorra
napoletana, ma segue, con la consueta sete di reale tipica di
Garrone, le vicende di cinque soggetti, cinque personaggi immersi
nella delinquenza ordinaria che guida le loro vite. Anche qui le
ambientazioni non sono ricostruite e il regista dà conto
dell’atmosfera labirintica delle Vele di Scampia girando dentro
l’edificio, segue i protagonisti con la telecamera in spalla
cercando di avvicinarsi il più possibile a loro senza però poter
entrare nelle loro psicologie, nelle loro teste, riporta l’orrore
quotidiano senza fronzoli, senza facili spiegazioni.
Il film, vincitore a Cannes e
vincitore nelle sale italiane, oltre ad avere il merito di
denunciare le insopportabili condizioni di vita che la camorra
impone a parte della popolazione partenopea, ha anche il pregio di
aver finalmente portato al successo Matteo Garrone dopo dieci anni
di carriera. Personaggi del suo calibro, infatti, non solo
garantiscono una rivalutazione del cinema italiano all’estero, ma
aprono la strada ad una nuova poetica filmica, in grado di unire
ricerca stilistica e sostanza narrativa.