Dustin Hoffman,
assieme a Robert De Niro e Al Pacino è uno dei più
amati attori americani e condivide con i due colleghi anche
l’apprendistato all’Actor’s Studio. È
forse tra i tre quello che meno risponde, sulla carta, ai canoni
del successo hollywoodiano: di bassa statura, non bellissimo, ma
con un’espressività e una capacità mimetica invidiabili, che gli
hanno consentito, nella sua lunga carriera, di affrontare ruoli di
ogni tipo.
Da quelli drammatici a quelli da
commedia, personaggi negativi, figure di perdenti, così come ruoli
ironici e comici, dimostrandosi sempre all’altezza del compito. Il
tutto, unito a una grande tenacia e perseveranza, nonostante un
inizio non facile.
Dustin Hoffman
nasce a Los Angeles l’8 agosto del 1937 da una pianista jazz e un
attrezzista della Columbia Pictures. Respira
dunque fin da piccolo aria di cinema e se ne appassiona, nonostante
in un primo momento si iscriva alla facoltà di medicina. Passa poi
al Conservatorio, dove studia pianoforte. Intanto inizia ad
avvicinarsi alla recitazione e si esibisce sul palcoscenico della
Playhouse di Pasadena. Capisce presto che per tentare la strada
dell’attore deve andare a New York. Qui, a partire dal ’60, ottiene
piccoli ruoli in teatro e contemporaneamente frequenta
l’Actor’s Studio. Vive assieme ai colleghi e amici
Gene Hackman e Robert Duvall. I primi ruoli di
peso, sempre in teatro, arrivano nel ’64 con Aspettando Godot e nel
’66 con Il viaggio del quinto cavallo, che gli vale un
riconoscimento come miglior attore. Ed è proprio dal teatro che
arriva anche la grande occasione per passare al cinema: nel ’67
partecipa alla commedia Eh? , che ottiene un buon successo e
soprattutto annovera tra i suoi spettatori il regista Mike
Nhicols.
È la svolta nella carriera di
Dustin Hoffman, che viene subito reclutato per
interpretare Benjamin Braddock ne Il laureato. L’attore
californiano appare perfetto nel ruolo del giovane laureato
coinvolto in una relazione con una donna più grande di lui (Mrs.
Robinson/Anne Bancroft). Relazione senza futuro,
dal momento che Benjamin non ha nulla in comune con Mrs.
Robinson, né con tutta la generazione cui lei appartiene (è
infatti un’amica di famiglia dei genitori di Ben). Proprio la
distanza che separa questi due mondi è al centro del film. Il
protagonista infatti s innamorerà poi di Elaine, figlia di Mrs.
Robinson. Con questa coetanea Benjamin sembra finalmente instaurare
un rapporto autentico, interrotto bruscamente quando Elaine scopre
la relazione di lui con Mrs. Robinson, e ripreso altrettanto
bruscamente nel finale, quando Benjamin sottrae la ragazza
dall’altare, dove lei ha appena pronunciato il fatidico “sì” con un
altro uomo. E proprio nei minuti finali – i migliori del film a
detta dello stesso Mike Nichols – sta la piccola-grande rivoluzione
dei due giovani protagonisti: si ribellano alle convenzioni sociali
vigenti, al futuro preparato per loro dai genitori, negano la
Chiesa e l’istituzione matrimoniale – significativo l’uso del
crocifisso da parte di Benjamin nella sequenza finale – e fuggono
da quel mondo che non capiscono e non accettano.
Questo ovviamente pone il
problema del “dopo”: cosa costruire al posto di quel sistema? Cosa
fare della propria vita, ora che ne sono padroni? La questione
resta aperta, espressa al meglio nella scena finale, nei loro
sguardi e nei volti, dove il sorriso lascia presto il posto a
un’espressione perplessa e incerta. Il film ottiene grande
successo, le cui motivazioni vanno ricercate, oltre che nell’ottima
interpretazione offerta dagli attori, nell’abilità del regista che
sa leggere e anticipare il disagio esistenziale e la voglia di
ribellione d una generazione, apparso poi in tutta la sua chiarezza
nel ’68; nel buon ritmo della pellicola, via via più incalzante;
nell’innovativo uso della musica pop a commento delle immagini –
celeberrima la colonna sonora di Simon &
Garfunkel. La pellicola dà ad Dustin
Hoffman la notorietà, oltre che la sua prima nomination
all’Oscar.
Iniziano così i suoi travagliati rapporti con l’Academy,
che critica aspramente in quell’occasione per non aver sospeso le
celebrazioni dopo l’assassinio di Martin Luther
King. Per molti anni non sarà più invitato alla cerimonia
e otterrà la meritata statuetta solo 11 anni dopo.
Nel ’69, per Dustin arriva
l’occasione di farsi dirigere da John Schlesinger,
come coprotagonista di Un uomo da marciapiede. Qui si evidenziano
tutte le capacità mimetiche di Dustin Hoffman, che
riesce a diventare Rico, ladro zoppo che affianca Jon
Voight/Joe Buck nelle sue peregrinazioni su e giù per New
York, alla ricerca di donne per le quali prostituirsi. Ma non è
così facile. I due uniscono le loro sventure e, se ciò non serve a
procurargli miglior fortuna – Voight non riesce a trovare “prede” e
Dustin Hoffman muore di tisi – cementa però una
commovente amicizia. Alla base della riuscitissima trasformazione
di Dustin Hoffman, una rigorosa applicazione del
Metodo Strasberg e l’attenta osservazione
dell’andatura di persone claudicanti per le strade, per riprodurne
al meglio i movimenti. Per questa interpretazione, l’attore, molto
amato in Italia, guadagna il David di Donatello.
Lo stesso anno, sposa Anne Byrne, dalla quale avrà una figlia. Nel
’70 lo vuole Arthur Penn nel suo western atipico –
il primo dalla parte degli indiani – che svela la vera natura della
“mitica” conquista del West: la sistematica distruzione di un
popolo pressoché impossibilitato a difendersi. Qui l’attore di Los
Angeles veste i panni di Jack Crabb: ultracentenario che racconta
la sua epopea nel west. Adottato da bambino dagli indiani cheyenne
in seguito alla morte dei genitori, impara ad amarli e a
rispettarli. Torna poi tra i bianchi e partecipa alla battaglia di
Little Big Horn, di cui è l’unico superstite. Sarà però sempre in
bilico tra la sua identità di “uomo bianco” e l’affetto per il
nobile popolo indiano che lo ha cresciuto, e che vede sterminato e
vessato da bianchi senza scrupoli. Il tutto però non assume i toni
del dramma, ma piuttosto della commedia, seppur con risvolti
tragici. Non mancano ironia e sarcasmo.
Il ’71 lo vede alle prese
con un personaggio e una pellicola molto criticate all’epoca, per
l’uso della violenza che mostravano apertamente. Si tratta di Cane
di paglia di Sam Peckimpah. Il ruolo è doppio e complesso: il
matematico David Sumner, appena trasferitosi in Cornovaglia con la
moglie, ha buon senso, è razionale come vuole la sua professione, è
docile, remissivo, o almeno così sembra. Ma quando “il nemico” (un
gruppo di ragazzotti del posto) mette in pericolo la sua
tranquillità familiare, prima violentando la moglie e poi cercando
di introdursi in casa sua, prevale in David l’istinto e si scatena
la sua parte violenta. Si tratta dunque di una riflessione sulla
violenza, su come essa si annidi anche dentro l’individuo
apparentemente più tranquillo, facendo riemergere il lato
animalesco e istintuale che è in ciascuno di noi.
L’anno successivo porta
Dustin Hoffman nel nostro paese, dove lo vuole
Pietro Germi per recitare al fianco di
Stefania Sandrelli in Alfredo,
Alfredo. Un’altra grande interpretazione, in cui
l’attore dà prova del suo istrionismo in un ruolo molto diverso dal
precedente, è quella di coprotagonista in Papillon di
Franklin J. Schnaffer (1973), in cui affianca
Steve McQueen. Il film, tratto dal romanzo
autobiografico di Henry Charrière, è incentrato sulla prigionia di
quest’ultimo nella colonia penale della Cayenna, Guyana francese,
recluso perché condannato per un omicidio di cui si dice innocente.
Tra numerosi tentativi di fuga, punizioni esemplari e indicibili
torture, instaura un rapporto d’amicizia con un altro detenuto,
Hoffman/Louis Dega, un falsario. La coppia si regge sui contrasti e
funziona benissimo: McQueen alto, forte e tenace, Hoffman piccolo e
miope, ma tenace anch’egli e astuto. Alla fine riusciranno a
riguadagnare la libertà. McQueen è premiato col Golden
Globe. Hoffman invece attende ancora premi importanti in
patria. Nel ’74 interpreta un altro personaggio non facile: il
cabarettista americano Lenny Bruce, che sconvolse gli Usa negli
anni ’50 e ’60 con i suoi show dissacranti e critici del costume
americano, contro cui si scagliava con forza e senza rinunciare
all’uso di un linguaggio colorito. La sua vita era una continua
lotta contro il perbenismo imperante e per i suoi show, tacciati di
oscenità, fu spesso arrestato. Il regista, Bob Fosse, sceglie poi
di mostrarne anche il lato privato: una personalità piena di ombre,
che Lenny cercava di scacciare ricorrendo alle droghe. Nei panni di
questo personaggio, acclamato, eppure solitario, paladino della
libertà d’espressione, Hoffman è ancora una volta del tutto a suo
agio e ottiene la nomination al Golden Globe e
all’Oscar.
Due anni più tardi, Dustin
Hoffman ha l’occasione di lavorare di nuovo con
John Schlesinger, che lo dirige ne Il maratoneta,
un thriller che scorre sul filo di una tensione sempre viva,
contrapponendogli un altro mostro sacro della cinematografia:
Laurence Olivier. Dustin
Hoffman regge il confronto e non sfigura affatto,
tanto da ottenere il suo secondo David di
Donatello come miglior attore protagonista. Dello stesso
anno è un’altra pellicola che ha fatto epoca, entrando nella storia
del cinema. Forse il miglior film mai girato sul mestiere del
giornalista: Tutti gli uomini del
presidente di Alan J. Pakula,
ricostruzione meticolosa e fedele dell’inchiesta Watergate,
con
Robert Redford e Dustin Hoffman nei panni dei due
giornalisti Woodward e Bernstein, che con la loro abnegazione
ricostruirono la vicenda e portarono alla luce le prove dello
scandalo, costringendo il presidente Usa Nixon alle dimissioni.
Il 1979 è per Dustin
Hoffman l’anno della consacrazione definitiva anche in
patria. Interpreta infatti Ted Kramer nel film di
Robert Benton Kramer contro
Kramer. Qui, è un padre di famiglia che si ritrova di
punto in bianco da solo a badare al figlioletto Billy, di pochi
anni, dopo che la moglie (una bravissima
Meryl Streep) l’ha lasciato. Fra mille
difficoltà, specie all’inizio, scopre un rapporto più profondo col
bambino, che accudisce amorevolmente, finché la madre, stabilizzata
la propria situazione, chiede la custodia del figlio. Ma Ted non è
più disposto a rinunciarvi. Inizia così un’aspra battaglia tra gli
ex coniugi. È dunque la storia di questo rapporto di incondizionato
affetto che cresce di giorno in giorno tra padre e figlio, quasi a
voler dimostrare come, raggiunta dopo il ’68 la parità tra i sessi,
questa non vada interpretata solo a vantaggio della donna, ma anche
dell’uomo, che può rivendicare il diritto ad occuparsi del figlio,
laddove la madre sia assente o carente. Commovente interpretazione
di Dustin Hoffman, che stavolta fa incetta di
premi, finalmente anche in patria: David di Donatello,
Golden Globe e Oscar come miglior Attore
protagonista. Resta celebre il discorso col quale riceve
quest’ultimo premio, ringraziando, sì, ma non abdicando alle
critiche rivolte all’Academy negli anni precedenti. Commenta
ironico la statuetta, dopo averla osservata per alcuni istanti:
«Non ha i genitali, ma porta una spada» e non esita a ribadire:
«Sono sempre stato critico nei confronti dell’Academy, e a
ragione», riferendosi alla competizione, a sua detta artificiosa e
anzi addirittura dannosa, che questo tipo di premi instaurano tra
attori – le altre nomination erano per Jack Lemmon, Al
Pacino, Peter Sellers, nei confronti dei quali dice: “Mi
rifiuto di credere che li ho battuti”- , sottolineando invece come,
nella sua visione, tutti appartengano alla stessa grande famiglia,
maestranze comprese, anche se a queste ultime non sono mai concesse
le luci della ribalta. Degno discorso di un grande attore, figlio
di un attrezzista di Hollywood. Oscar anche per
Meryl Streep come miglior attrice. Nel 1980
Dustin Hoffman, della cui vita privata si sa poco,
si sposa per la seconda volta, con Lisa Gottsegen, dalla quale avrà
quattro figli.
Ormai le capacità di Hoffman e il
suo eclettismo sono noti e apprezzati in tutto il mondo. A
suggellare ulteriormente questo stato di cose è l’enorme successo
di pubblico riscosso nel 1982 dalla commedia Tootsie, in cui
l’attore, diretto qui da Sidney Pollack,
interpreta il disoccupato Michael Dorsey che per trovare lavoro
escogita lo stratagemma del travestimento: fingendosi donna
(Dorothy Michaels detta appunto Tootsie), riesce a diventare una
diva delle soap operas. La pellicola unisce comicità e ironia e
Hoffman dimostra di adattarsi benissimo anche ai panni femminili.
Per l’interpretazione ottiene il Golden Globe. Una
curiosità: in terra nostrana, viene omaggiato anche da
un’esordiente Luca Carboni, che così intitola il
suo album nel 1984: …intanto Dustin Hoffman non
sbaglia un film. E come dargli torto? Nel 1985, infatti, Dustin
ottiene l’ennesimo grande successo, dando corpo al personaggio di
Willy Loman in Morte di un commesso viaggiatore, sia per il cinema
che per il teatro. Al suo fianco recita John
Malkovich, nel ruolo del figlio primogenito.
Dustin Hoffman caratterizza in modo perfetto
l’anziano Willy, che vede frustrate le speranze riposte nel figlio
e al contempo avverte il peso dell’età che avanza. Fonte del film e
dello spettacolo è l’opera omonima di Arthur
Miller.
Tre anni dopo, l’attore di Los
Angeles ci offre un’altra interpretazione memorabile, che
certamente tutti ricordano: quella del fratello autistico di
Tom
Cruise in Rain Man di
Barry Levinson. Tom
Cruise/Charlie Babbit scopre a trent’anni di avere un
fratello maggiore autistico, che era stato ricoverato in un
istituto quando Charlie era molto piccolo, per paura che potesse in
qualche modo nuocergli. I due trascorrono un periodo insieme, in
cui tra alti e bassi, imparano a conoscersi. Ray è dotato di uno
spiccato talento matematico, ma anche estremamente sensibile,
meticoloso e ossessivamente abitudinario. Charlie ne è dapprima
infastidito e mal sopporta di doversi occupare di lui, ma imparando
a conoscerlo instaura con lui un rapporto di profondo affetto. Alla
fine la separazione è resa necessaria dalle particolari cure di cui
Ray ha bisogno. Restano celebri molte battute del film che riesce a
trattare il problema della diversità in maniera ironica e spesso
divertente, facendo però riflettere. Impegnativo ruolo per
Dustin Hoffman, che non tradisce le aspettative e
offre una delle sue migliori prove d’attore, immedesimandosi al
meglio nei panni di Ray. Secondo Oscar per lui. Una giovane
Valeria Golino interpreta Susanna, la compagna
di Charlie.
Il decennio ’90 si apre con due
pellicole leggere: Dick Tracy e Hook – Capitan
Uncino di Steven Spielberg. In quest’ultima
recita accanto a Robin Williams.
Il ’92 è l’anno di Eroe per caso, dove Dustin
Hoffman è diretto dal regista inglese Stephen
Frears per interpretare Bernie Laplante, eroe involontario
cui Andy Garcia vuol rubare le luci della ribalta
e i guadagni. Commedia ben orchestrata da David Webb
Peoples, che mette a nudo i meccanismi dell’informazione
sensazionalistica americana e stigmatizza l’abitudine alla
spettacolarizzazione. La seconda metà degli anni ’90 vede l’attore
americano alle prese con produzioni cinematografiche magniloquenti
come Sleepers e Virus Letale e con un’altra pellicola che affronta
il tema dello spregiudicato cinismo dei mezzi di comunicazione,
spesso al servizio di scopi estranei al bene comune:
Mad City – Assalto alla notizia.
Dustin Hoffman è appunto il reporter Max Brackett
che, preso in ostaggio da John Travolta/Sam Baily,
sfrutta la situazione a scopo sensazionalistico senza alcuno
scrupolo. Regia di Costa Gavras. Nel ’97, ancora sul tema
dell’informazione manipolata, stavolta a fini politici – una guerra
contro l’Albania inventata a tavolino e paventata per distogliere
l’opinione pubblica dagli scandali sessuali che coinvolgono il
presidente Usa – un film che riporta Dustin
Hoffman sotto la direzione di Barry
Levinson: Sesso e potere. I frutti sono più che buoni,
grazie alla perizia di Dustin e di un’altra icona del cinema
americano, che lo affianca: Robert De Niro.
Il nuovo millennio vede
Dustin Hoffman diretto da Gary
Fleder in La giuria (2002), nei
panni di Wendell Rohr: un avvocato appassionato del suo mestiere,
alle prese con un dovere etico da compiere, opposto ad un cinico
consulente di giuria impersonato dall’amico Gene
Hackman. Nello stesso anno, Hoffman recita in coppia con
Susan Sarandon nel film drammatico diretto da Brad
Siberling, Moonlight Mile – Voglia di
ricominciare. Partecipa poi a
Neverland di Marc Forster (2004),
dove interpreta il ruolo dell’impresario di James Barrie/Johnny
Depp, l’inventore di Peter Pan. Ritroverà il regista in Vero
come la finzione (2007), divertente commedia corale che riflette in
maniera intelligente sullo scorrere del tempo e sul rapporto fra
realtà e finzione. Nel 2005 Dustin prende parte al sequel di
Ti presento i miei: Mi presenti i tuoi? nei panni
del padre di Ben Stiller/Gary Fotter. Gary
infatti, dopo essersi fatto conoscere dalla famiglia della sua
fidanzata Pam Byrnes/Teri Polo nel primo episodio, ora le presenta
i suoi genitori. I coniugi Focker sono Dustin
Hoffman e Barbra Streisand. Umorismo in
pieno stile Usa, come anche nel terzo episodio della serie, targato
2010, Vi presento i nostri, in cui si aggiungono all’allegra
compagnia due nipotini. L’attore di Los Angeles prende parte anche
a una commedia per ragazzi, nel 2008, diretto da Zach
Helm. Si tratta di
Mr. Magorium e la bottega delle meraviglie.
Veste proprio i panni del mago in questa favola colorata, che parla
con leggerezza ai più piccoli del tema della morte. Accanto a lui
Natalie Portman. Negli ultimi anni Hoffman è stato
la voce del Maestro Shifu nel film d’animazione Kung Fu
Panda (2008), di cui vedremo il sequel quest’anno, e
di Roscuro nell’altro film animato Le avventure del topino
Despereaux (2009). In questi giorni, oltre che con
Vi presento i nostri, è nelle sale in
La versione di Barney, commedia di
Richard Lewis con Paul Giamatti.
Il vulcanico Hoffman, che a 73 anni suonati non sembra proprio
intenzionato ad andare in pensione, sta poi lavorando al suo
esordio alla regia, con la commedia
Quartet.