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Disastro a Hollywood: recensione del film con Robert De Niro

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Disastro a Hollywood: recensione del film con Robert De Niro

Arriva al cinema distribuito da Medusa Film, Disastro a Hollywood, la commedia direttada Barry Levinson, e con protagonisti Robert De Niro, Stanley Tucci, Robin Wright, Stanley Tucci, Kristen Stewart, Catherine Keener, John Turturro.

In Disastro a Hollywood Un produttore cinematografico d’eccezione (Robert De Niro) ci accompagna per una settimana nel difficile mondo di Hollywood. Lo seguiamo nelle varie tappe delle sue giornate, tra figli, ex mogli amiche e ex mogli ancora amate che però non riescono ad avere la meglio sul proprio lavoro, tra star capricciose, festival imminenti e major tiranne.

Un affresco asciutto e a tratti eccessivo del mondo del cinema, quello dell’industria, che si nasconde agli occhi del pubblico, quello delle star capricciose (un inedito e divertente Bruce Willis nella parte di se stesso), dei registi divisi tra l’arte e il mercato, della produttrice rigida che ‘o fai come dico, o mi prendo il tuo film’, delle piccole grandi tragedie di quelli che lo star system proprio non lo reggono e decidono di uscirne definitivamente (vedi il produttore suicida) … e tra tutti il produttore, diventato quasi atarassico a tutte le sue incombenze, che si barcamena tra tutti cercando di non soccombere.

Disastro a Hollywood – Un affresco asciutto e a tratti eccessivo del mondo del cinema

Film ironico ma distaccato, il punto di vista è quello di un osservatore superiore, che guarda i personaggi alle prese con i loro meschini problemi, trattandoli con freddezza, senza scendere nel dettaglio psicologico, ma semplicemente raccontando quello che succede quasi in maniera documentaristica. E meno male. Il film scorre via, senza pretese, e senza una storia di fondo, solo problemi su difficoltà dai quali il nostro eroe alla fine verrà sopraffatto. Cast d’eccezione: oltre a De Niro, Sean Penn e Bruce Willis nei panni di se stessi, Robin Wright, Stanley Tucci, Kristen Stewart, Catherine Keener, John Turturro.

Star Trek: recensione del film di JJ Abrams

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Star Trek: recensione del film di JJ Abrams

Uno sfavillio di luce galattica avvolge lo spettatore che si lascia prendere da una storia di nascita e origini. Ancora una volta, come già accaduto per il Batman di Christopher Nolan, per il restyling del mito si torna alle origini dell’uomo (o nel caso, del vulcaniano), alla nascita e all’educazione, per capire i ruoli i rapporti i sentimenti che legano gli eroi che tante avventure hanno attraversato insieme sull’enterprise tra tv e cinema in Star Trek.

J.J. Abrams orchestra tutto con maestria ed equilibrio, misurando emozione e phatos, adrenalina e battaglie, prediligendo lo spostamento della camera al cut della pellicola, per farci seguire con lo sguardo, per accompagnarci nei meandri di una storia bella e ben raccontata, da un punto di vista visivo ma soprattutto da quello narrativo, merito di due sceneggiatori di tutto rispetto Roberto Orci e Alex Kurtzman che insieme avevano già dato prova di sapere il fatto loro con transformers, usando la commedia per entrare nell’action puro e per arrivare attraverso di esso ai sentimenti primordiali del bene e del male, dimensioni talvolta banalizzate ma sempre attuali.

Star Trek – Uno sfavillio di luce galattica avvolge lo spettatore

Merito anche di un cast convincente, Star Trek si dipana in tutta la sua notevole durata, senza pesare minimamente sullo spettatore, dosando con reminiscenze (oso dire) kubrickiane riferimenti ben più calzanti e vicini come star wars e coinvolgendo lo spettatore che esce dalla sala soddisfatto, con gli occhi pieni di immagini poderose ed emozionanti.

Star Trek è distribuito da Paramount Pictures.

X-Men le origini – Wolverine: recensione del film con Hugh Jackman

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“Voglio il sangue…” adrenalinico e a tratti malinconico X-Men le origini – Wolverine di Gavin Hood, perfettamente interpretato da Hugh Jackman, è uno dei film più attesi della stagione, e finalmente dal 29 maggio abbiamo potuto vederlo in tutto il suo ruvido splendore.

Una storia triste quella di Jimmy Logan, alias Wolverine, costretto all’esilio e alla fuga, in continua ricerca di se stesso e di una sua nemesi che potrà forse un giorno liberarlo dal suo senso di colpa. Una Nemesi che ben presto scoprirà essere sempre stata al suo fianco, impersonata Victor Creed/Sabretooth, suo simile ma completamente abbandonato ai suoi istinti, che Logan tenta costantemente di domare.

X-Men le origini – Wolverine – “Voglio il sangue…” adrenalinico e a tratti malinconico il Wolverine di Gavin Hood

Liev Schreiber and Hugh Jackman in X-Men- le origini - Wolverine (2009)
Gentile concessione di © 20th Century Fox

Un lunga ricerca, interiore ed esteriore, che porterà Logan lontano dal Mondo, solo per rientrarvi bruscamente quando la sua tranquillità verrà compromessa dagli intrighi del villain di turno, il colonnello Striker, già visto in X2, principale fautore del mito che diventerà Wolverine, l’uomo bestia indistruttibile munito di scintillanti artigli di adamantio.

Difficile però parlare di controllo tra esplosioni colossali e scontri leggendari, doti sovrumane, brama di vendetta e di potere. E proprio così che X-Men le origini – Wolverine si presenta, un grande blockbuster di intrattenimento con un grande potenziale purtroppo inespresso per fare spazio al glamour di muscoli e frasi un po’ costruite.

Un Hugh Jackman in forma smagliante (anche troppo) da volto e voce ad un anti-eroe fondamentalmente buono, che ha sentimenti ed umanità ma che ha anche una forte dose di sensi ed istinto da animale, un anti-eroe indistruttibile in maniera indirettamente proporzionale alla sua anima lacerata dalle guerre, dalla sofferenza, dal rimorso, dalla voglia di fuggire ma quella ancora più grande di trovare un posto nel mondo. Un film che si pone a metà tra cine-fumettone e a film più ambizioso, una bella storia ma che non lascia traccia. Niente di serio insomma, ma allo stesso tempo niente di faceto, in piena corrispondenza con la dualità di un personaggio che Jackman interpreta con diligenza.

La regia di Gavin Hood in X-Men le origini – Wolverine si fa sentire e funziona per il genere, cerca di conciliare il momento drammatico con quello più spettacolare che grazie a lui è spettacolarizzato. Interessante la cerchia di comprimari che si stringono intorno all’eroe di adamantio, spicca su tutti Victor Creed/ Sabretooth, interpretato da un ottimo Liev Schreiber, che qualche volta mette ko il collega artigliato non solo letteralmente ma anche sulla scena, ma belli sono i personaggi di Silver Fox (Lynn Collins) e dello scarmigliato Gambit (Taylor Kitsch), sicuramente il più coreografico ma anche meno credibile. Lavoro di routine invece per Danny Huston, alias Colonnello Striker, l’algida disumanità dell’uomo fa contrasto con le emozioni del mutante introducendo un tema che è caro agli X-Men e che è stato ampiamente dispiegato nella trilogia dedicata agli uomini straordinari (specialmente nel primo e secondo capitolo).

 

State of Play – scopri la verità: recensione del film

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State of Play – scopri la verità: recensione del film

Arriva al cinema distribuito da Universal Pictures State of Play – scopri la verità, il film drammatico diretto da Kevin Macdonald, e con protagonisti un cast d’eccezione composto da Russell Crowe e Ben Affleck.

In State of Play – scopri la verità Crowe interpreta il reporter Cal McCaffrey che, grazie alla sua scaltrezza, si ritrova a risolvere un mistero di delitti e collusione nel quale sono coinvolti alcuni dei politici e degli uomini d’affari più promettenti del paese. Il membro del congresso degli Stati Uniti Stephen Collins (Ben Affleck), bello e imperturbabile, è il futuro del suo partito politico: onorevole eletto, è il presidente di un comitato che supervisiona la spesa della difesa. Tutti gli occhi sono puntati su questo astro nascente che dovrebbe rappresentare il suo partito nella prossima corsa alla Casa Bianca. Tutto questo finché la sua assistente/addetta alle ricerche ed amante viene brutalmente assassinata e segreti seppelliti da tempo cominciano a tornare alla luce.

 “I bravi giornalisti non hanno amici, ma solo fonti”. In questa frase della direttrice di The Washington Globe (l’attrice Helen Mirren), lo spirito del thriller al veleno “State of Play”, per l’ottima regia di Kevin McDonald, con un Russell Crowe superlativo.

L’attore Premio Oscar è un veterano reporter di Washington alle prese con una serie di omicidi collegati con un astro nascente della politica interpretato da Ben Affleck. Crowe torna a fare scintille nel suo ruolo, vero e appassionato, di un uomo comune, fuori moda, interessato a far bene il proprio lavoro, che vuole trovare il cuore della notizia senza scorciatoie. Convince Affleck, come Robin Wright  nei panni di sua moglie. Brava Rachel McAdams che nel thriller è una blogger del W. Globe, un po’ ingenua ma agguerrita, mentre si conferma fuoriclasse di sempre Helen Mirren che dirige il giornale con piglio british.

di Orietta Cicchinelli

Duplicity: recensione del film di Julia Roberts

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Duplicity: recensione del film di Julia Roberts

Duplicity, cioè doppio gioco, malafede ma anche inganno spionaggio e tradimento. Questi gli ingredienti del film che, ahimè, vengono meno alle premesse. Un film scritto e diretto da Tony Girloy (Michael Clayton) promette assai più di quanto in questo caso non mantenga. Un uomo e una donna si incontrano e passano una notte insieme, senza pensare che quella sarà l’inizio di una pseudo- storia infinita che non si vede l’ora che finisca.

Girato in moltissime locations, Duplicity assume colori e sapori diversi per ogni posto che le due spie, Clive Owen e Julia Roberts (già coppia super sexy in Closer), attraversano nel corso del loro “colpo” per vivere felici e contenti, combattendo contro la connaturata forma mentis della spia che li obbliga a non fidarsi nemmeno l’uno dell’altra. I loro viaggi, nel tempo e nello spazio, sono accompagnati da un esasperato affastellamento di gap temporali e un uso dello split screen fastidioso fino all’inutile che frammenta lo sguardo come a voler economizzare il tempo mostrando più cose insieme, senza una vera e propria funzione narrativa.

Una storia complicata che in maniera complicata viene raccontata. E’ vero, lo spettatore smaliziato riesce ad entrare nei cunicoli stretti e intricati delle narrazioni più complesse, ma in questo cosa un montaggio approssimativo confonde davvero lo spettatore calibrando male il ritmo e bruciando il colpo di scena finale che pure è ad effetto. Nonostante una regia poco organica il film è scritto benissimo ed interpretato ancora meglio dagli attori, su tutti i comprimari Tom Wilkinson e Paul Giamatti.

Augurandoci che Michael Clayton sia la regola e Duplicity l’eccezione, Tony Gilroy delude come regista ma mantiene alto l’onore dello scrittore di L’Avvocato del Diavolo, la trilogia di Bourne e altri.

RocknRolla: recensione del film di Guy Ritchie

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RocknRolla: recensione del film di Guy Ritchie

Gangester movie (RocknRolla) strampalato quello di Guy Ritchie dove improbabili cattivi si mescolano a traditori e a boss opportunisti. Un debito da saldare, una truffa subita, un gruppo di malviventi e una contabile molto sexy quanto determinata sono gli ingredienti di una scoppiettante commedia travestita da un action-gangster-movie, dove tutto sembra quello che alla fine non è. Abbandonate le 300 spade alle Termopili, Gerard Butler è decisamente convincente nel ruolo di One Two, seriosamente sarcastico. Nel cast anche la bella e sensuale Thandie Newton nei panni della contabile del boss doppiogiochista Tom Wilkinson/Lenny Cole.

RocknRolla: crimine e illegalità nei bassifondi londinesi

RocknRolla racconta il modo criminale e dei bassifondi della Londra contemporanea, dove il mercato immobiliare è diventato il business più importante, anche più di quello della droga e i criminali ne sono gli imprenditori più entusiasti. Ma chiunque voglia entrare in questo mercato – dal piccolo malvivente One Two (Gerard Butler), al misterioso miliardario russo Uri Obomavich (Karel Roden) – deve fare i conti con un solo uomo: Lenny Cole (Tom Wilkinson). Gangster della vecchia guardia, Lenny sa come arrivare ai suoi obiettivi e tiene per il collo tutti i burocrati, gli intermediari o i criminali che contano.

Basta solo una telefonata e Lenny può far scomparire ogni impedimento burocratico. Ma come gli dice sempre il suo braccio destro Archy (Mark Strong), Londra è a un punto di svolta nella malavita, con i grandi criminali che vengono dall’Est, i criminali affamanti e disperati della strada e tutti che vogliono cambiare le regole del commercio e del crimine. Con la quantità di soldi che circola, tutto il mondo criminale di Londra vuole prendere parte agli affari. Ma mentre i grandi nomi del mondo del crimine ed i piccoli criminali si battono per ottenere il dominio, l’affare multimilionario finisce nelle mani di una rockstar drogata (Toby Kebbell) – il figliastro di Lenny che era stato creduto morto ma che invece è assolutamente vivo.

RocknRolla cast

Come è ormai segno distintivo di Guy Ritchie, il film si basa su una buona regia scandita da un montaggio che in poche battute riesce a rendere completamente il complesso di una scena. Esempio ne è la scena di sesso tra Butler e la Newton, efficace e divertente insieme. Presentato nella sezione Proiezioni Speciali del Festival Internazionale del film di Roma, la pellicola ha riscosso successo presso coloro che hanno avuto la possibilità di vederla, purtroppo messo in programma per poche repliche. Uscirà al cinema questo fine settimana, dopo un’anteprima tenutasi lunedì 20 aprile all’UGC Cinemas.

Gran Torino: recensione del film con Clint Eastwood

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Gran Torino: recensione del film con Clint Eastwood

Un monumento vivente del cinema come Clint Eastwood non può sbagliare un colpo, nemmeno raccontando una storia semplice, e molto americana, come il suo ultimo Gran Torino. Clint questa volta si mette nei panni di Walt Kowalski, veterano della guerra in Corea, razzista, nazionalista, ultra-conservatore, con la bandiera americana che sventola sul suo portico, probabilmente elettore di Bush figlio per ben due volte, incompreso dai suoi figli (e nuore vipere e nipoti opportunisti), presta le sue uniche attenzioni alla sua Gran Torino del ‘72, frutto di una vita passata a lavorare per la Ford, portandolo ad un’avversione naturale verso chiunque si permetta il lusso di comprare auto che non siano americane (i figli in primis).

Ha messo su una corazza così dura che è (quasi) impossibile scalfirla, deve proteggersi in continuazione dai musi gialli che hanno messo piede nel suo quartiere e ora sono i suoi vicini di casa. Ma ecco che i due ragazzi Hmong che gli abitano accanto riescono a fare breccia nel suo animo: sebbene abbiano la stessa età dei suoi nipoti, Sue e Thao non si sono lasciati corrompere dalla civiltà consumistica occidentale, ma hanno saputo conservare e rispettare le loro tradizioni asiatiche, così come Walt avrebbe voluto facessero i suoi nipoti.

Gran Torino filmClint Eastwood continua dunque sulla scia della sua ultima produzione, regalando agli spettatori un film essenziale, con lui al centro, protagonista incredibile che si confronta con le sue convinzioni e il suo presente, con la storia che è stata e con quello che è adesso. Ma il regista, vera e propria leggenda del cinema, riesce con un’essenzialità incredibile a portare sullo schermo pregiudizi, conflitti, relazioni, conversioni. Prende tutta l’umanità che lo circonda, nella maniera più essenziale possibile, e la trasforma in una poesia ruvida ma vibrante, concisa ma pregna di emozione.

Reduce dal trionfo di Million Dollar Baby e dal suo straordinario dittico bellico, Flags of Our Fathers e Lettere da Iwo Jima, Eastwood torna nella provincia americana, che sembra non stancarsi mai di raccontare con un occhio saggio ma spietato. Che sia poi un testamento di revisionismo personale non c’è da escluderlo, dal momento che nella vita vera, l’uomo Clint Eastwood è sempre stato un repubblicano convinto, non troppo diverso dal protagonista del film, tuttavia, forse proprio come Walt, nella sua maniera granitica e introversa, il regista sembra porsi domande anche sulla sua stessa vita, sul suo modo di affrontare le cose, sulle posizioni sempre molto nette nella sua carriera. Questo aspetto personale si è sempre scontrato con la grande sensibilità che ha dimostrato nel corso di una carriera in continuo crescendo. Un netto passo in avanti da quell’attore belloccio con “sole due espressioni”.

La narrazione di Gran Torino è seguita in maniera semplice e lineare, i dialoghi sono cuciti addosso al personaggio (gag strepitose sono quelle tra Walt e il barbiere di origini italiane) e gli eventi portano naturalmente a un climax di tensione che si scioglie in lacrime amare. Nessun effetto speciale, flashback, flashforward, nessuna inquadratura manieristica, eppure il grande cinema si riconosce in questo film: la semplicità è sempre la miglior scuola.

La verità è che non gli piaci abbastanza: recensione del film con Ben Affleck

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La verità è che non gli piaci abbastanza è il film del 2009 diretto da Ken Kwapis e con protagonisti un cast d’eccezione composto da Jennifer Connelly, Jennifer Aniston, Scarlett Johansson, Drew BarrymoreBen Affleck, Justin Long, Bradley Cooper e Kevin Connoll.

Che vuol dire quando lui non ci chiama, non ci dice mai Ti Amo, non ci vuole sposare…? La risposta che danno Greg Behrendt e Liz Tuccillo nel loro libro “He’s Just Not That Into You: The No-Excuses Truth to Understanding Guys” è che La verità è che non gli piaci abbastanza. Su questo binario iniziale muove il film di Ken Kwapis (Licenza di matrimonio), tratto dall’omonimo best-seller degli sceneggiatori di Sex and tha City(la serie).

La verità è che non gli piaci abbastanza, la trama

La verità è che non gli piaci abbastanza è la storia di Gigi che è una frana con gli uomini e non riesce a percepire e leggere bene i “segnali” di  Conor che lungi dall’essere interessato da Gigi, corre dietro ad Anna che invece comincia una relazione adulterina con Ben, marito di Janine che è amica di Gigi e di Beth, la quale è fidanzata da 7 anni con Neil che si rifiuta di sposarla e così via. Storie parallele che si intrecciano mostrando le relazioni d’amore nel loro nascere, costruirsi, nel loro disfarsi, nella loro sostanza di compromesso armonico tra le due parti. Un film intessuto sulla regola che tutte le persone sono uguali e si comportano, davanti alle medesime situazioni, allo stesso modo. Una regola che finisce con l’essere infranta poiché alla fine della storia, chi merita un premio lo riceve, chi si ama davvero resta insieme, chi invece ha distrutto resta solo e chi invece è stato lasciato trova la forza di ricominciare e di ricostruire la propria vita.

La verità è che non gli piaci abbastanza, in 129 minuti, dipana le sue storie con freschezza senza mai eccedere nel patetismo o nel romanticismo smielato, strizzando un occhio allo spettatore che ride dei personaggi ma ride anche di sé, rispecchiandosi in alcune delle situazioni rappresentate. Il film ha il suo punto di forza in un cast stellare, dove la frangia femminile fa la parte del leone comprendendo: Jennifer Connelly, Jennifer Aniston, Scarlett Johansson, Drew Barrymore (anche produttrice), Busy Philipps. A queste bellissime si contrappongono Ben Affleck, Justin Long, Bradley Cooper, Kevin Connolly. 

Forte soprattutto di una sceneggiature brillante di Abby Kohn e Marc Silverstein, il film tira dritto per tutta la sua durata, senza stancare, risultando divertente e alla fine non troppo retorico. Interessante è la struttura simile a documentario di costume sulle esperienze sentimentali delle persone comuni, interessante soprattutto perché alla fine mopstra che lo stereotipo sociale per cui è sempre e solo la donna a soffrire per amore, viene a cadere. Il film dunque non è parziale ma paritario e mostra molte situazioni reali rendendo così persone hollywoodiane, personaggi reali. La verità è che non gli piaci abbastanza si conclude con l’implicita riflessione che non è vero che La verità è che non gli piaci abbastanza, ma che ogni storia è a se stante, ed ogni reazione umana dipende da una coscienza diversa, da un percorso individuale, che qualche volte finisce con l’essere condiviso dall’altro.

Il mai nato: recensione del film di David S. Goyer

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Il mai nato: recensione del film di David S. Goyer

Scritto e diretto da David S. Goyer, acclamato sceneggiatore dei Batman di Nolan. Il mai nato si presenta come un horror riuscito, che a classici temi di fantasmi, della compresenza del mondo dei morti con quello dei vivi, associa volti nuovi, come quello di Odette Yustman, simbologie e credenze di connessioni tra i gemelli, e temi caratterizzanti, come il misticismo e la cabala ebraica e il tema dell’esorcismo che rimanda a ben più noti e riusciti film di genere.

La trama de Il mai nato si dipana nell’atmosfera fredda e invernale del film, dondogli insolita solidità considerando il genere che spesso e volentieri non da molte spiegazioni. Goyer cerca di dare profondità alla storia anche attraverso il tempo arrivando addirittura a scomodare un bambino morto ad Auswitz. Resta un film di non troppo ampio respiro, pieno di ogni stereotipo tipico del genere, ma si distingue dai vari Scary Movie che non danno troppo importanza alla trama.

Il mai nato si presenta come un horror riuscito

Straordinario come di consueto Gary Oldman, che tolti i panni dell’ormai commissario Gordon, indossa quelli del coraggioso rabbino esorcista. Interessante e mai scontata è l’idea del male che si nutre della paura della propria vittima, metafora, anche se un po’ troppo stiracchiata, del momento storico che vive il mondo.

Il mai nato recensione

Inkheart – La leggenda di cuore d’inchiostro: recensione del film

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E se tutte le favole che si leggono ad alta voce prendessero vita propria entrando nel nostro mondo? Questo diventa un grande problema per Mortimer Folchart, rilegatore e, si scoprirà in seguito, lingua di fata, capace di dar vita a ciò che legge. Il problema è ancora maggiore quando per ogni personaggio che viene fuori dai libri, una persona del mondo reale vi finisce dentro. Ed è questo il motore di Inkheart – La leggenda di cuore d’inchiostro: la ricerca decennale di un famigerato libro che prima ha sputato fuori buoni e cattivi, e poi ha risucchiato dentro la moglie di Mortimer, detto Mo.

Il cinema ha sempre attinto dalla letteratura, sia per quanto riguarda i soggetti da trattare, sia per le storie vere e proprie che vengono narrate, basti pensare a La Storia Infinita, e al legame che si crea tra il piccolo lettore Bastian e il regno di Fantasia. E proprio una relazione simile lega Mo e Inkheart, ma laddove Bastian è affascinato dal libro e volle continuare a leggere, per Mo la lettura diventa un peso, un fardello troppo pesante, e che infatti suo malgrado passerà alla figlia.

Inkheart La leggenda di cuore d’inchiostro il fantasy tra fiaba e narrazione

Inkheart – La leggenda di cuore d’inchiostro, pur avendo dell’ottimo materiale per una storia se non Infinita, quantomeno Fantastica, crolla su se stesso. Quando tutto è possibile, ma niente è permesso, quando il super eroe con i super poteri ha già le sue responsabilità e non deve rendersene conto durante il viaggio, il meccanismo si inceppa e si hanno risultati come Inkheart, che purtroppo per gli appassionati del genere non ha sostanza, anche se bisogna riconoscere che è la dimostrazione di come si possano realizzare begli effetti visivi senza budget astronomici.

Un cast avvero eccezionale con Brendan Fraser e Helen Mirren non basta a far decollare Inkheart – La leggenda di cuore d’inchiostro che cerca di portare lo spettatore al gran finale trascinandosi dietro stralci di tensione mal formulata e che promette di esplodere alla fine ma che invece crolla su se stesso lasciando l’ormai smaliziato spettatore a bocca asciutta.

I love Shopping: recensione del film con Isla Fisher

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I love Shopping: recensione del film con Isla Fisher

I love Shopping Isla Fisher interpreta Rebecca Bloomwood, shopping dipendente e giornalista in attesa del grande incarico presso una prestigiosa rivista di moda.

I love Shopping, tratto dal best seller omonimo si Sophie Kinsella, è una commedia mediamente divertente, leggera e con il lietofine romantico. Seppure ricorda Il diavolo veste Prada, per la forte presenza del mondo della moda nella storia, il film ha ben poco delle atmosfere raffinate e super griffate della pellicola di Frankel. La storia si risolve in un finale buonista in cui tutti hanno ciò che vogliono e gli errori sono ripagati a prezzo scontato, cosa che nella vita reale non esiste, ma trattandosi del meraviglioso modno della celluloide, tutto è concesso.

Isla Fisher interpreta una Shopaholic, una maniaca dello shopping, delle spese inutile e superflue che sembrano tuttavia vitali. Anche se non è tra le commedie più brillanti degli ultimi anni, il film gode di una certa freschezza per l’interpretazione della protagonista e per la rappresentazione caricaturale di Robert Stanton nei panni del funzionario che cerca in tutti i modi di far quadrare i conti della signorina Bloomwood, merito del regista P.J. Hogan (Il matrimonio del mio migliore amico) che sa bene come fare commedia.

Operazione Valchiria: recensione del film con Tom Cruise

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Operazione Valchiria: recensione del film con Tom Cruise

Operazione Valchiria di Brian Singer riporta al cinema un genere di guerra che da molto tempo non si vedeva sugli schermi, un tipo di film che mette da parte ogni giudizio morale e che si fa intrattenimento, senza snaturare il genere classico. Singer mostra la sua personalità, ma lo fa con misura, lasciando andare avanti la storia, che per struttura e scrittura, corredata anche da un ottimo cast, parla da solo e lo fa decisamente bene.

Operazione Valchiria racconta di uno dei tanti colpi di stato che furono tentati dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale. Come ha detto lo stesso regista, un film che ambisce ad intrattenere anche se se ne conosce la fine. Infatti, Singer ha fatto ironicamente riferimento al Titanic di James Cameron, che ha sbancato i botteghini di tutto il mondo pur se il pubblico sapeva come sarebbe andato a finire.

Operazione Valchiria

Messi da parte per una volta gli orrori contro gli ebrei il film racconta di come, seppure nella follia generale della Germania nazista, non tutti i generali (interpretati da Tom Cruise, Bill Nighy tra gli altri) di Hitler fossero come lui; proprio una battuta di Kenneth Branagh lo dice: “dobbiamo dimostrare alla storia che non tutti eravamo con lui”.

Un film gradevole, che pur svelando dall’inizio il suo finale non scarseggia di tensione e ritmo, ben costruiti dal regista che per una volta si è prostrato al genere confezionando un film che seppure non rimarrà nella storia del cinema, resta un momento godibile di intrattenimento. Operazione Valchiria è stato girato con fondi tedeschi.

 

Yes Man: recensione del film con Jim Carrey

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Yes Man: recensione del film con Jim Carrey

Metti la strepitosa capacità espressiva di un Jim Carrey. Metti una situazione da manuale di sceneggiatura, col ribaltamento di una situazione iniziale nel suo contrario. Metti che gli americani le commedie le sanno fare con la stessa serietà di un melodramma epico. Ed ecco Yes man, film brillante, portatore di una ventata di ottimismo che rispecchia la volontà del nuovo cinema americano di lasciarsi dietro anni di terrorismo e guerre chimiche per lasciarsi andare a un sorriso a trentadue denti. La parola Sì diventa in questa pellicola simbolo di cambiamento, di una speranza riposta nel futuro, di un accettare entusiasticamente ciò che la vita propone di giorno in giorno.

Yes Man

Da impiegato divorziato che rifiuta a priori ogni occasione di vivere, mettendo addirittura a repentaglio i propri affetti, Carl (Jim Carrey) si lascia convincere da un vecchio amico (il cui incontro è però abbastanza forzato) a partecipare a una chiassosa e grottesca convention di un mezzo santone che predica la via del Sì per aprirsi al meglio alla vita. Un po’ scettico, Carl comincia il suo percorso di conversione che lo porterà a trovare l’amore, consolidare le sue amicizie, e persino ad avanzare di carriera, il tutto in una serie di situazioni comiche e paradossali, che solo la bravura di Jim Carrey riesce a sostenere.

Perfetta comprimaria risulta essere Zooey Deschanel, l’eccentrica donna di cui Jim Carrey si innamora, bislacca almeno quanto lui (i testi delle canzoni che suona con la sua band sono una piccola chicca), diventa la protagonista di un amore che non vuole essere melenso e stucchevole, ma stravagante e libero almeno quanto i due personaggi.

Ma si sa, in ogni commedia buonista che si rispetti, c’è sempre la morale sottesa a chiudere i giochi: non sempre si può dire sempre di sì a priori, rischiando di fare quel che non si vuole; le scelte si devo fare sempre con la piena consapevolezza. Solo così si può veramente dire di sì alla vita.

 

Il curioso caso di Benjamin Button: recensione del film con Brad Pitt

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Cosa accadrebbe se le persone, invece di invecchiare, ringiovanissero? È proprio questa la storia di Benjamin Button, nato vecchio con gli acciacchi del tempo, ma con un animo giovane e curioso. Un film che dall’inizio annuncia la sua fine, inevitabile, anche per chi, come Benjamin, ha avuto una vita diversa, straordinaria. Tratto dal racconto di Francis Scott FitzgeraldIl curioso caso di Benjamin Button racconta vita ed avventure di Benjamin, che pur vedendo il mondo da una prospettiva diversa, resta un essere umano, con debolezze e pregi, doti e difetti.

Diretto di David Fincher, che aveva lasciato il pubblico incollato alle poltrone dei cinema con Zodiac, bello seppur a tratti pesante, Il curioso caso di Benjamin Button esce dai canoni del regista, diventando un prodotto anonimo nelle mani della storia stessa, vero punto di forza della pellicola. Una regia impersonale quindi, che lascia un po’ a bocca asciutta i cultori dell’ottimo regista di Seven e Fight Club. Lascia indifferente anche la fotografia candidata all’Oscar di Claudio Miranda, fedelissimo di Fincher, che pure in Panic Room aveva svolto un bel lavoro, ma che in Benjamin Button osa troppo e sfiora la finzione, soprattutto nelle scene in cui si vuole ricreare la luce dell’”ora magica”.

Il curioso caso di Benjamin Button

Buona prova del cast: Brad Pitt comincia ad abituare il suo pubblico a grandi interpretazioni, anche se qui non è all’altezza del suo ruolo in Jesse James che gli fruttò la Coppa Volpi a Venezia; Cate Blanchett, semplicemente bellissima, eterea ed evanescente resta una delle regine del cinema; notevole anche l’interpretazione di Tilda Swinton che porta con sé un fascino d’altri tempi.

La sceneggiatura, nelle mani di Eric Roth, premio Oscar per Forrest Gump, mostra con misura e poesia, senza mai scadere nel romanticismo scontato, un’esistenza particolare, vite che si intrecciano per trovarsi a metà strada, attraverso un diario, un racconto che è allo stesso tempo una scoperta e una riflessione sulla vita, sul suo valore, sulla sua fugacità. Il curioso caso di Benjamin Button  ha riscontrato un notevole successo di critica, ma un entusiasmo tiepido da parte del pubblico d’Oltreoceano. Candidato a 13 premi Oscar tra cui: Miglior Film, Miglior Regia, Miglior attore protagonista, Miglior attrice non protagonista, Miglior Sceneggiatura, Miglior Fotografia.

Lasciami entrare recensione del film di Thomas Alfredson

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Lasciami entrare recensione del film di Thomas Alfredson

Lasciami entrare – Dal 1897, data di uscita di Dracula di Bram Stoker, ad oggi, molti sono stati gli scrittori ed i registi che si sono lasciati ispirare dal grandissimo romanzo gotico dello scrittore irlandese. Chi più chi meno, tutti hanno mantenuto i tratti affascinanti del terribile e sanguinario conte Dracula, pur con nomi diversi e varianti tra il serio ed il faceto. Tuttavia, mai come nel caso di Lasciami Entrare (Låt den rätte komma in di Thomas Alfredson), il mito del vampiro è stato stravolto ed allo stesso tempo conservato con tali tratti di grazia e gradevolezza.

Lasciami entrare racconta la storia di una bambina, una piccola vampira, che viene accudita da un uomo (probabile che non si tatti del padre), che la notte caccia per lei, affinché possa sopravvivere. Questo piccolo gioiello svedese conserva una fedeltà quasi romantica al romanzo e, pur sembrando un film che starebbe bene nella selezione delle pellicole per il Giffoni Film Festival, assume tratti inquietanti ed allo stesso tempo misteriosi, uscendo dal genere splatter- horror che purtroppo imperversa nelle sale cinematografiche, per elevarsi ad un horror, oserei dire raffinato, raccontato con toni intimisti ma freddo nel rappresentare la ferina violenza che caratterizza la natura della piccola protagonista.

Lasciami entrare-recensione

L’inquietudine del titolo (Lasciami entrare) si concentra in due scene, in cui Eli la vampira chiede ad Oscar di invitarla ad entrare, altro tratto di fedeltà letterale al romanzo originale. L’interpretazione delle conseguenze di un ingresso, per così dire, senza invito, passate sotto silenzio in Stoker, vengono interpretate qui in maniera inquietante, senza però scadere nello splatter, mantenendo ancora una volta una delicatezza più unica che rara in film con questa tematica. Anche la potenzialità sessuale e sensuale del vampiro, viene affrontata qui in toni teneri e delicati, soprattutto a causa della giovane età dei personaggi.

Lasciami entrare è godibile, anche per chi non ama l’horror, che pur distanziandosi  dal genere, vi rimane perfettamente collocabile.

Australia: recensione del film con Hugh Jackman

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Australia: recensione del film con Hugh Jackman

Australia, il ritorno al cinema di Luhrmann è stato presentato anche come il ritorno del grande e romantico genere epico drammatico di cui esempio memorabile nella storia del cinema è Gone with the Wind.

Tuttavia, pur comprendendo tutti gli elementi necessari, quali una donna un uomo una terra selvaggia una guerra, non riesce a legare tutto in un corpus omogeneo. La storia è avvincente e ben scritta, ma presenta troppi tempi morti. In molti momenti sembra che il film sia finito, sia da un punto di vista della risoluzione della trama, che anche dalle splendide inquadrature ad allargare che Luhrmann ci somministra in alto dosaggio per tutto il film.

Splendida interpretazione è offerta dalla terra madre del regista, l’Australia, bellissima e selvaggia, ma anche crudele e fertile ossimoricamente insieme; la luce del tramonto su cui si apre il film accompagna tutta la storia con i suoi toni caldi così come l’affascinante figura del vecchio aborigeno, spirito guida del giovane protagonista, ma anche preservatore della terra e della magia di quei luoghi. Australia è sicuramente una lettera d’amore del regista alla sua patria, come già hanno detto in molti, e questo è visibile dalla presentazione del titolo che giganteggia sullo schermo e nella sala, dalla scelta di rendere personaggio narratore e filo conduttore il piccolo aborigeno “mezzo-sangue” che rappresenta l’unione delle due razze, ma anche tutti gli infiniti e insanabili strupri che l’uomo bianco ha operato sulle persone e sulle terre in tutta la storia del mondo.

L’Australia, bellissima e selvaggia, ma anche crudele e fertile ossimoricamente insieme

Leit Motiv del film è Over the Rainbow dal film The Wizard of Oz, che assume il preciso significato dei sogni che si possono realizzare così come avverrà alla fine. Dopotutto se Luhrmann ha fatto cantare a ballerine di can-can e bohemien canzoni come The Show Must Go On oppure Heros, è accettabile anche questa scelta musicale che, oltre ad accordarsi col tema, evita anche l’anacronismo, dato che i fatti del film cominciano nel 1939, anno di uscita di The Wizard of Oz. 

Assolutamente perfetti i due protagonisti, Nicole Kidman e Hugh Jackman, nei loro ruoli, ed esilarante è il dialogo iniziale riguardo ai cavalli che l’altezzosa Lady Ashley legge in doppio senso. In definitiva un film che presenta l’unica grande pecca nella regia. Luhrmann, nato come regista di teatro, dimostra di sapersi muovere decisamente bene negli spazi ristretti della sua trilogia della tenda rossa (Ballroom: gara di ballo; Romeo + Giulietta; Moulin Rouge!). Tuttavia è molto più difficile gestire una scenografia che, nel caso di Australia, diventa personaggio.

Appaloosa: recensione del film con Viggo Mortensen

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Appaloosa: recensione del film con Viggo Mortensen

E’ stato presentato alla Festa del cinema di Roma Appaloosa, il film diretto da Ed Harris con protagonisti oltre al noto attore anche Viggo Mortensen  Jeremy Irons.

In Appaloosa Due amici, Viggo Mortensen e Ed Harris, vagano per il vecchio west portando la giustizia laddove ce n’è bisogno, così arrivano ad Appaloosa, una piccola città dove un cattivissimo Jeremy Irons se ne infischia delle leggi e fa a modo suo. I due pistoleri si insedieranno nella cittadina e cercheranno di portare la pace fino a che un ingresso in scena inaspettato cambierà le cose e soprattutto i rapporti tra i due personaggi.

Sulla scia dei western originari, strizzando l’occhio allo spaghetti western per l’ironia con cui è trattata la materia, Appaloosa è un film piacevole, scritto in maniera eccellente da Robert Knott e da Ed Harris e diretto in maniera classica e lineare dallo stesso Harris anche protagonista. Basandosi su una storia semplice e tradizionale il racconto viene messo in scena passando per tutti i punti classici che caratterizzano il genere: l’amicizia tra due uomini, un cattivo senza scrupoli, una donna che “si mette in mezzo”.

Appaloosa, una piccola città dove un cattivissimo Jeremy Irons se ne infischia delle leggi

L’elemento che però rende il film particolarmente appetibile è proprio l’ironia con cui è affrontata la storia, con due attori, Mortensen e Harris, come al solito in grande forma. Molto bello anche il personaggio della Zellweger, una donna indecisa e “libertina”, sicuramente un personaggio anomalo rispetto ai cliché di genere.

Il film ha aperto le sezione Proiezioni Speciali del Festival del Film di Roma, uno dei pochi film godibili che sono stati presentati alla manifestazione, fa dell’ironia e della splendida scrittura i suoi punti forti.

Un matrimonio all’inglese: recensione del film con Colin Firth

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Un matrimonio all’inglese: recensione del film con Colin Firth

Dalla pièce teatrale di Noel Coward, un bel film sulle dinamiche familiari, e su come sia difficile conciliare aspetti diversi di persone che si ritrovano a convivere forzatamente. Regine della scena sono la bella Jessica Biel, novella sposina di Ben Barnes, detentrice delle easy cirtues, i facili costumi del titolo, e l’eccezionale Kristin Scott Thomas, nervosa e dittatrice madre di Barnes. A completare i quadro uno sciatto e depresso Colin Firth nei panni del padre reduce di guerra e Kris Marshall, comprimario che resta impresso in qualunque sua performance (Love Actually, Funeral Party) che qui interpreta il maggiordomo complice della bella americana trapiantata nelle fredda e nebbiosa campagna inglese.

In Un matrimonio all’inglese un giovane appartenente alla borghesia inglese, durante i suoi viaggi incontra un bellissima e giovane vedova americana, se ne innamora e la sposa, ma viene il momento di presentarla alla propria famiglia e proprio in questi casi, le cose non vanno sempre bene. Sulla scia di Ti presento i miei, un’altra sulle dinamiche familiari, questa volta però raffinata dalla postdatazione degli eventi, ambientati all’inizio del XX secolo.

Un matrimonio all’inglese, il film

Tutto sembra cominciare bene per i novelli sposi, almeno fino a che le due donne, madre e moglie, si dichiarano guerra con colpi bassi e gag esilaranti. Una commedia ironica e divertente con un finale a sorpresa che intesse nella trama una vena malinconica rappresentata da Firth, decisamente in grande forma. Da notare anche la performance della Biel, lasciate alle spalle le serie tv e le commedie demenziali, regala un bel ritratto di donna indipendente e ribelle, affiancata da una sempre splendida Kristin Scott Thomas. Barnes, reduce dalle battaglie di Narnia, e prossimamente al cinema nei panni di Dorian Grey (ancora al fianco di Firth) risulta un po’ offuscato da tanta bravura.

Un matrimonio all’inglese, scritto e girato da Stephan Elliott, che si basa soprattutto sui personaggi, su una buona scrittura e sulla campagna inglese, sempre in ottima forma. Piacevole, sicuramente tra i più belli visti a Roma nella Selezione Ufficiale del Festival Internazionale del film.

La Duchessa: recensione del film con Keira Knightley

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La Duchessa: recensione del film con Keira Knightley

Basato sul libro di Amanda Foreman, La Duchessa è un sontuoso film che racconta le vicende private e pubbliche di Georgiana Spencer sposata duchessa del Devonshire. Regina della scena, in splendidi corsetti e eccentriche acconciature, è la regina hollywoodiana dei film in costume, Keira Knightley. Il film, diretto con classica eleganza da Saul Dibb, si basa appunto sulla vicenda storica di Georgiana, e percorre le pagine della biografia a lei dedicata dalla Foreman.

Il personaggio di questa donna moderna e forte, seppure intrappolata nelle rigide regole dell’etichetta emerge on estrema chiarezza e forza dalla splendida interpretazione della Knightley che ancora una volta si dimostra interprete sensibile e sicura, anche per personaggi complessi come era questo il caso. Parlando di Georgiana Spencer non si può non parlare della sua più illustre discendente, Lady Diana Spencer, la sfortunata principessa del Galles, che pure visse nell’amore della gente e nel disamore di chi invece avrebbe dovuto amarla di più, proprio come succede alla protagonista del film, che si trova a condividere la casa e il marito con quella che paradossalmente si rivela essere la sua migliore amica.

La Duchessa, il film

Intrappolata in un matrimonio senza amore, molto diverso da quello che lei sperava, Georgiana si rifugia nella vita pubblica, diventando be presto regina delle feste dell’alta società londinese e maestra di moda, sfoggiando abiti sempre più vistosi e sfarzosi che finiscono per dettare legge in fatto di moda. Anche nella vita politica, la duchessa diventa un personaggio di spicco, quando decide di sostenere la campagna elettorale del suo amate segreto, interpretato da Dominic Cooper, già visto in Mamma Mia! come  promesso sposo. Al fianco di Keira, un’eccezionale Ralph Finnies nei panni del Duca di Devonshire fa sfoggio della sua elegante figura e del suo sguardo di ghiaccio che gli valgono un’interpretazione eccellente, decisamente notevole.

Anche se nel complesso il film appare non pienamente compiuto per quello che riguarda la regia, classica ma a tratti quasi timida di Dibb, è notevole per l’apparato scenografico, costumi compresi di Michael O’Connor e per le interpretazioni dei due protagonisti. Nel cast anche Haley Atwell nei panni di Bess Foster, amante del duca e amica della duchessa, e la sempre splendida Charlotte Rampling che invece interpreta la madre di Georgiana.

Ultimatum alla terra: recensione del film con Keanu Reeves

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Ultimatum alla terra: recensione del film con Keanu Reeves

Dalla pietra miliare del cinema di genere fantascientifico, ecco Ultimatum alla terra, di Derrickson, remake dell’omonimo film del 51 di Robert Wise.

La trama del nuovo Ultimatum alla terra

Klaatu è un alieno che giunge sulla Terra per avvertire il genere umano che verrà presto sterminato da una civiltà superiore, se non interrompe immediatamente la distruzione del pianeta.

 

Nonostante il genere possa promettere il meglio agli spettatori visionari, il film di Derrickson si basa principalmente sul contatto umano dell’alieno, incarnato da Keanu Reeves, ormai avvezzo a sorgere da sostanze gelatinose in condizioni quasi embrionali. Se all’epoca di Wise, in piena Guerra Fredda l’ultimatum dell’alieno Klaatu era rivolto principalmente ai conflitti ai quali l’uomo è notoriamente incline, questo remake, fedeli ai tempi che cambiano e alle esigenze dei nuovi spettatori, parla di crisi globale, includendo la distruzione del pianeta non solo per i conflitti, ma soprattutto per l’eccessiva sfruttamento che l’uomo ne fa.

Tematiche politiche quindi, che mai come in questo periodo di profonda crisi paragonato al ’29 sono attuali, e riescono ad accendere l’attenzione dello spettatore. All’ottusità dei soldati, rappresentati in maniera quasi caricaturale, ecco ergersi per per contrasto la figura della dottoressa Benson (Jennifer Connelly) che riesce a scongiurare la fine del pianeta, non con la diplomazia né con il cervello, ma con il cuore, grazie alla sua rappacificazione con il figliastro (Jaden Smith).

Ultimatum alla terra è un film che quindi più che sugli effetti speciali, pur di ottima fattura, basa il suo punto di forza sull’ottimistica seppur amara considerazione che l’uomo può salvarsi solo da solo, e proprio in questo momento, quando si è sull’argine, sul ciglio della distruzione totale, può cambiare e diventare migliore. Nel cast anche Katie Bathes, nei panni del segretario di stato USA.

Mamma mia: recensione del film con Meryl Streep

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Mamma mia: recensione del film con Meryl Streep

Mamma mia che musical! E’ proprio il caso di dirlo. Donna, una donna di mezza età con un passato da figlia dei fiori, sta preparando il matrimonio per la sua unica figlia della quale non si conosce il padre. La fanciulla, desiderosa di conoscere il suo genitore, invita tre possibili candidati alla carica di “padre” al matrimonio, innescando una sorta di commedia degli equivoci…

La storia è solo un pretesto abbastanza pittoresco per mettere in scena un divertentissimo, quasi pacchiano, musical scandito dalle leggendarie canzoni degli ABBA, che magari quelli della mia generazione non conoscono bene, fatta eccezione forse, solo per Mamma Mia!, ma che quelli un pochino più grandi, hanno canticchiato al cinema insieme alla spumeggiante, eccessiva, sopra le righe, sempre eccezionale  & Co.

I colori dell’isola greca di sposano con le belle e irriverenti coreografie per incorniciare numeri memorabili come quello di Mamma Mia!, oppure di Dancing Queen, o ancora la struggente e bellissima scene di The Winner takes it all.

Straordinario il cast femminile (Meryl Streep, Amanda Seyfried) che illumina la scena senza lasciare spazio ai maschietti che quasi sono relegati a grigie comparse nello sfavillante luccichio di Meryl Julie e Christine. Eccezionali Dynimite Girl.

Changeling: recensione del film di Clint Eastwood con Angelia Jolie

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L’ultimo lavoro di Clint Eastwood, Changeling, uscito da poco nelle sale italiane ha tutte le caratteristiche per arrivare lontano. Il film racconta la storia vera di Christine Collins (Angelina Jolie), giovane madre sola alla quale viene rapito suo figlio di 9 anni, Walter. La donna combatterà contro tutti per riavere suo figlio, e quando la polizia le restituisce un bambino che non è il suo, lei sfiderà le istituzione, e la polizia in primis, per raggiungere il suo obbiettivo. Pellicola toccante a tratti straziante ma che lascia una forte impronta nell’ultima inquadratura di una Angie/Christine che ha ritrovato la speranza di poter riabbracciare un giorno il suo Walter.

Changeling, il film

Come ormai ci ha abituati da tempo, Clint Eastwood realizza una pellicola di grande spessore umano, ma soprattutto di grande valenza tecnica supportato da una forte sceneggiatura di J. Michael Straczynski  e da un cast eccellente, su tutti la splendida protagonista Jolie che offre una performance toccante e rabbiosa, intensa ed emozionante, molto convincente, e già si parla di secondo Oscar, per lei che ha ricevuto già la statuetta per il ruolo in Ragazze Interrotte nel 1999.

In quello che può essere letto come una specie di manifesto femminista, dove una donna sola combatte contro un sistema ottuso per i propri scopi e il proprio diritto a essere madre, Clint Eastwood impianta la sua visione del mondo, dura, irreprensibile e spietata, sfoderando però una grandissima sensibilità nella rappresentazione di questa donna, appoggiandosi anche ad una interprete in stato di grazia. In una recente intervista, la Jolie ha dichiarato non senza emozione di essersi ispirata a sua madre, da poco scomparsa, per interpretare la decisa e battagliera Signora Collins. Il risultato è strepitoso a l’attrice dimostra grande padronanza del metodo per riuscire ad attingere alle proprie emozioni e trasformarle in arte in maniera così autentica.

È incredibile la versatilità dell’attrice che negli ultimi anni ha lavorato in progetti assolutamente differenti, a partire da Beowulf di Robert Zemeckis, in cui ha lavorato a stretto contatto con computer grafica ed effetti speciali, passando poi per l’action più puro e fisico di Wanted – Scegli il tuo destino, di Timur Bekmambetov. Nella sua prima collaborazione con Eastwood, la Jolie dimostra davvero di riuscire ad interpretare ogni tipo di ruolo con grande gravità e convinzione.

Clint Eastwood racconta l’America

Nonostante il film sembra discostarsi leggermente dalla sua filmografia direttamente precedente, il fatto che Changeling sia basato su una storia vera continua a collocare il regista in quel racconto della realtà, della società americana attraverso molteplici lenti: le storie, i tempi, le classi sociali e le persone comuni che, in situazioni particolari, diventano piccoli e grandi eroi nazionali.

Oltre ad Angelina Jolie nel cast anche l’ottimo John Malkovich nei panni dell’integerrimo reverendo Briegleb, Jeffrey Donovan, Jason Butler Harner. L’impronta di Clint si nota dunque, e non solo nella composizione del film ma anche nella colonna sonora, scritta da lui, che ricorda molto quella di un suo film fortunata e bellissimo film precedente, Mystic River. Con grande sorpresa per il tema trattato e la scelta narrativa, Clint Eastwood racconta la maternità, l’America, le sua contraddizioni, e in Changeling lo fa con una rinnovata delicatezza di linguaggio e stilistica.

Il Cavaliere Oscuro: recensione del film con Heath Ledger

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Il Cavaliere Oscuro: recensione del film con Heath Ledger

Arriva al cinema Il Cavaliere Oscuro di Christopher Nolan con protagonisti Christian Bale, Heath Ledger, Morgan Freeman, Michael Caine e Aaron Eckhart.

Il più nero episodio della saga dell’uomo pipistrello sta imperversando nelle sale di tutto il mondo, sbriciolando record di incassi come fossero biscotti e lasciando dietro di sé una lunghissima scia di spettatori entusiasti ed ammirati. Il Cavaliere Oscuro, uscito in Italia il 23 luglio, è l’ultimo lavoro di Chris Nolan, ma chi l’avesse già visto può tranquillamente parlare di opera d’arte. Una Gotham buia e cattiva è lo sfondo della caccia al Joker, un criminale folle e terribile, che alleatosi con i clan mafiosi della città vuole distruggere l’unico baluardo di speranza che ancora resiste nella corrotta Gotham City: Batman.

Ancora una volta Nolan sradica il genere fumettistico dalle sue più profonde convenzioni e trasforma il film in un capolavoro per interpretazioni attoriali, effetti meccanici e soprattutto movimenti di macchina. La mdp vola su grattacieli attraverso la città in mezzo alla gente per raccontarci una storia di paura e di duplicità, di dubbi e di contrasti, facendoci immergere ancor di più nella oscura mente di Bruce Wayne. Se in Batman Begins infatti abbiamo scoperto le radici e le motivazioni dell’uomo, in questo nuovo capitolo riusciamo ad entrare nella mente dell’eroe, quello che non esita a farsi cattivo per salvare la sua città. Batman è l’eroe che Gotham merita, ma non quello di cui ha bisogno, queste parole pronunciate dall’ormai commissario Gordon sono il riassunto dei tormenti interiori, sono la risoluzione dell’eterno contrasto tra luce ed ombra nell’animo di wayne/batman. Un film che passerà alla storia non solo per i risultar al box office.

Il Cavaliere Oscuro

Il Cavaliere Oscuro, giustizia e follia secondo Christopher Nolan

Anche in questo film, come nel terzo Spiderman, i cattivi sono tre (Joker, Due facce/Dent e la mafia), ma la profonda differenza con l’uomo ragno è la perfetta funzionalità di ogni individualità a formare un disegno coerente e splendidamente scritto, teso e accattivante, mai scontato, fino alla fine. Se Christian Bale si conferma lo splendido interprete di tutte le sue performance, così come i mostri sacri Morgan Freeman, Michael Caine e Gary Oldman, è davvero interessante vedere come i cattivi, Heath Ledger e Aaron Eckhart siano magistralmente in grado di interpretare personaggi complessi e duplici nel loro squilibrio, entrambi speculari rispetto al loro nemico giurato.

Se in Harvey (due facce)Dent, la duplicità, la tendenza ad ascoltare la parte oscura di sé, emerge piano e resta alla fine non pienamente espressa anche se completamente motivata, in Joker il discorso sulla duplicità appare riduttivo. Ledger è bambino e omicida, divertente e terrificante sin dalla sua prima apparizione, dalla sua prima vittima, è un agente del caos, come egli stesso si definisce, colui che entra nel sistema per distruggerlo, colui che sovverte le regole provando piacere nella sofferenza altrui, gioca con la morte e spinge fino al limite la parte buona di Batman.

Il Cavaliere Oscuro

Tuttavia il suo grande errore è quello di sottovalutare l’essere umano, Joker alla fine conterà sul libero arbitrio dei cittadini, dando per scontato il loro comportamento, anche lui alla fine si baserà su una regola, e questo sancirà la sua sconfitta. Splendido e terrificante insieme, il Joker di Heath Ledger da nuova linfa, nuova immagine ad un personaggio che relegato sulle pagine dei fumetti aveva perso il suo spessore emotivamente destabilizzante.

Ancora una volta James Newton Howard e Hans Zimmer ci immergono nella Gotham dark di Nolan con una colonna sonora da brivido che lascia trasparire le personalità diverse dei due compositori e allo stesso tempo le fonde in tracce emozionanti che trasportano lo spettatore coinvolgendolo sia emotivamente che mentalmente. Il Cavaliere Oscuro è dedicato alla compianta memoria di Heath Ledger, già leggenda, e di un operatore morto durante le riprese.

E venne il giorno: recensione del film con Mark Wahlberg

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E venne il giorno: recensione del film con Mark Wahlberg

Prima di recensire l’ultima fatica di M. Night Shyamalan abbiamo aspettato di sondare un po’ il terreno, e di sentire un po’ in giro cosa ne pensasse sia la critica più autorevole sia lo spettatore medio.

Le reazioni sono state molto diverse: c’è chi osanna l’ennesimo capolavoro del regista indiano, chi invece dichiara il totale fallimento dell’opera tacciando il film di banalità nei contenuti e nei pretesti drammaturgici.

E venne il giorno non è sicuramente tra i migliori di Shyamalan. I dialoghi sono abbastanza scontati, per non dire totalmente fuori luogo in più di una occasione, gli attori sono per la maggior parte monolitici. Dopo la splendida interpretazione in The Departed, che gli ha fruttato addirittura una candidatura agli Oscar, Mark Walberg delude (c’è chi dice che sia stato scelto apposta e che il suo personaggio sia volutamente “imbranato”, c’è chi invece sostiene un madornale errore nella scelta del protagonista); la bella Zooey Deschanel non fa altro che abbagliare il pubblico con il suo sguardo ceruleo, merito di madre natura e non certo di una sua particolare capacità recitativa. Spicca tra tutti John Leguizamo, che interpreti un mafioso (Carlito’s way di Brian de Palma), un nano ubriaco (Moulin Rouge! di Baz Luhrmann) o un giovane veronese violento (Romeo+Giulietta ancora di Luhrmann), quest’attore regala sempre performances intense e di alto livello.

Da un punto di vista tecnico E venne il giorno è comunque perfetto, il regista di Il sesto senso e di Signs ci da ancora una volta prova della sua profondissima conoscenza del mezzo cinematografico. Shyamalan è capace di fare appello alla parte più oscura dell’animo umano risvegliando paure che solo maestri come Hitchcock riescono tutt’oggi a smuovere.

Il vero pregio di questo film è proprio questo: un meccanismo della suspence costruito in maniera magistrale, che incolla lo spettatore alla poltrona fino alla fine e lo lascia senza respiro fino all’uscita dalla sala. Fare paura con niente, questa è stata la grande opera di Shyamalan con E venne il giorno. Non ci sono mostri, non ci sono catastrofi naturali evidenti, solo il vento d’incubo che porta con sè la più spaventosa e la più terribile delle minacce: la perdita dell’istinto di sopravvivenza. Non c’è niente di più soprannaturale, niente che fino oggi sia stato portato al cinema ha minato così nel profondo la sicurezza che si ha guardando su uno schermo una storia che non ci appartiene. Shoccante.

La mummia – La tomba dell’Imperatore Dragone: recensione del film con Brendan Frazer

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Arrivata La mummia – La tomba dell’Imperatore Dragone, terzo capitolo la saga moderna sui cacciatori di mummie più famosa del globo lascia l’amaro in bocca a tutti gli aficionados di Rick O’Connell e consorte.

Questo terzo episodio vede un ormai in pensione Rick O’Connell che cerca di adattarsi alla normalità della vita quotidiana, cercando di mettere da parte il suo spirito di avventura. La bella Evelyn, in questo episodio interpretata da Maria Bello che sostituisce la splendida Rachel Weisz, invece vive di ricordi, scrivendo romanzi che parlano delle sue avventure passate, e leggendoli in club per signore. A riportare nella vita dei coniugi annoiati un po’ di sale è Alex, il loro unico figlio, cresciuto con la stessa passione dei genitori per l’avventura e per i guai.

La mummia – La tomba dell’Imperatore Dragone, il film

Ricco di spunti narrativi, questo film promette assai più di quanto non mantenga. Infatti, pur basandosi su un’idea fondante buona, la scrittura del film lascia parecchio a desiderare. I personaggi non sono all’altezza dei due capitoli precedenti, né lo sforzo della Bello riesce nel suo intento. Molto brava nelle parti drammatiche, attrice di grande sensibilità, si trova a sostenere una parte che non le si addice, sia perché la Evelyn O’Connell della Weisz era più altezzosa e raffinata, meglio accostandosi così al carattere ruvido del suo partner maschile, sia perché la scrittura non le è stata d’aiuto rendendola più che ironica, a tratti ridicola.

Michelle Yeoh in La mummia - La tomba dell'Imperatore Dragone (2008)
© 2008 – Universal Studios

Anche l’eroe protagonista, un Brendan Frazer/Rick O’Connell leggermente sottotono, non stupisce né colpisce come in passato, ancora una volta a causa di una storia scritta approssimativamente. Oltre alla conferma del divertente personaggio di John Hannah, ancora una volta nei panni dell’imbranato Jonathan Carnahan, che a dispetto dell’andamento globale resta una figura godibile e demenziale quanto basta, le new entry non sono da considerarsi di grande rilievo, fatta eccezione ovviamente per i Michelle Yeoh, una delle regine del cinema orientale, e per Jet Li, perfido Imperatore Dragone.

La storia d’amore tra il giovane Alex(Luke Ford) e la bella figlia immortale (Isabella Leong) della sacerdotessa/strega, seppure suggerita sin dall’inizio, non è spiegata dagli eventi, e viene messa in scena senza una vera e propria causa scatenante. Inoltre, anche il contrasto generazionale, l’astio che c’è tra genitori e figli, non viene approfondito, pur essendo uno spunto interessante, un tema originale trattandosi di un film d’azione.

Jet Li in La mummia - La tomba dell'Imperatore Dragone (2008)
© 2008 – Universal Studios

E proprio l’azione sicuramente non manca. Seppure con una scrittura (di Alfred Gough e Miles Millar) lasciata quasi al caso, il film mantiene una sua godibilità estetica, essendo gli effetti speciali sapientemente utilizzati. Merito del talento del regista, Rob Cohen (The Fast and The Furious), per gli action-movies, che riesce a tenere l’attenzione desta anche con degli strumenti così poco affilati.

Stephen Sommers, regista e scrittore delle due pellicole precedenti, compare come produttore e c’è notizia di una sua sceneggiatura dal titolo La Mummia: la tomba dell’Imperatore Dragone non accreditata e datata 2001 (!).

The Mist: recensione del film di Frank Darabon

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The Mist: recensione del film di Frank Darabon

Dopo un tremendo nubifragio, una fittissima ed anomala nebbia (mist del titolo) scende su una cittadina americana. Questo il misterioso prologo di The Mist, che vede tornare alla regia Frank Darabon (Le ali della libertà), dopo quasi dieci anni dall’uscita di Il Miglio Verde. Proprio come dieci anni fa, il regista si occupa della trasposizione di un romanzo di Stephen King, anche se ne modifica l’andamento e soprattutto il finale, con l’entusiasta approvazione di King stesso.

La pubblicità di The Mist ci ha fatto credere che il film fosse l’ennesimo splatter-horror fantascientifico con disgustosi mostri che divorano indifesi esseri umani. Tuttavia il film non si risolve affatto in questo. Con un lavoro di scrittura molto accurato, anche se a tratti didascalico, Darabon entra nel supermercato, scena principale del film, ed osserva le persone da vicino. Frequenti infatti, molto più del necessario, i primi piani. Quello che viene fuori è l’incondizionata e ingiustificabile cattiveria umana. In The Mist, oltre ai terribili mostri nascosti nella nebbia, sono gli esseri umani che mostrano la loro peggiore essenza, la loro mostruosità. Numerose le caratteristiche del racconto che ricordano la presenza di King alla base della storia, come l’esistenza di un mondo parallelo ed ostile, oppure come la figura della fanatica religiosa (una Marcia Gay Harden particolarmente in forma, inquietante), che genera il panico e che scatena la violenza degli uomini contro i loro simili, indice efficace di quello che nella cronaca quotidiana è l’integralismo religioso.

I tipi, i caratteri umani vengono messi in scena nelle loro peggiori varianti, tutti i difetti dell’uomo vengono portati a galla dalle circostanze, anche se non manca poi l’eroe, l’uomo integerrimo e coraggioso, che cerca di risolvere le cose nella maniera più ragionevole possibile. Proprio questa figura, il protagonista, sarà quello punito nella maniera più crudele alla fine del film, e non dagli extraterrestri. Finale pessimistico, quindi, per un film che pur avendo qualche momento di tensione, può essere considerato un horror perché fa paura, ma anche perché mette a nudo l’essere umano nelle sue sfaccettature peggiori, e genera appunto orrore e senso di distacco nello spettatore.

Con un discreto risultato al box office il film si posiziona al quinto posto nella classifica italiana dei film più visti. La resa del film è basata esclusivamente su inquadrature ravvicinate con cambi frequentissimi di fuoco, probabilmente con l’intento di pilotare l’attenzione dello spettatore a seguire gli spostamenti dell’azione nello stesso quadro, ma che non sono al servizio della storia.

The Mist potrebbe essere molto di più di un horror poiché mette nudo i moti dell’animo umano, prevalentemente cattivo, tuttavia il suo limite risiede nel voler spiegare attraverso i dialoghi ciò che le immagini e la storia mostrano in modo molto più efficace. La cattiveria, la violenza, mostrate nella loro crudeltà non hanno bisogno di essere spiegate, si mostrano autonomamente nella loro incomprensibilità.

L’uomo che ama: recensione del film con Pierfrancesco Favino

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L’uomo che ama: recensione del film con Pierfrancesco Favino

Il film di Maria Sole Tognazzi si presenta autonomamente dal titolo “L’uomo che ama”, e se c’è qualcosa di chiaro in questo film è appunto questo: il protagonista, Pierfrancesco Favino, è innamorato. Tuttavia nessuna buona storia può reggersi solo su un presupposto, infatti Favino, non solo ama, ma soffre, piange e fa soffrire.

Un film presuntuoso per come si presenta: un saggio sull’amore visto dall’uomo. In realtà si risolve in un racconto per immagini che smarrisce il filo conduttore facendo smarrire anche lo spettatore, una serie di lunghe passeggiate e di docce che vedono come protagonista Favino che si barcamena tra una bellissima ed innamoratissima Bellucci che soffre, ed una misteriosa e sfuggente Rappoport che fa soffrire.

L'uomo che ama recensione

Annunciato come un film innovativo che dovrebbe mostrare l’altra metà dell’amore, si risolve nella fiera della banalità: anche l’uomo soffre, anche la bellissima viene lasciata, l’amore viene e va. Niente di eccezionale anche da un punto di vista della regia da videoclip della Tognazzi. L’uomo che ama è capace di affossare anche attori bravi come Favino, ormai lanciato verso una carriera internazionale, e la Rappoport che aveva offerto una splendida prova ne La Sconosciuta di Tornatore. Deludente soprattutto perché scelto per inaugurare la sezione Premiere del Festival di Roma.

Rabelais/Sade

La distruzione, quindi, come la creazione, è uno dei mandati della natura
(Sade, La filosofia del Boudoir)

Il fatto che esistano dei bisogni sessuali negli esseri umani e negli animali è spiegato in biologia con la assunzione di un «istinto sessuale», per analogia con l’istinto di nutrizione (nel caso della fame). Il linguaggio d’ogni giorno, per quanto concerne i bisogni sessuali, non possiede una parola che corrisponda a «fame», mentre la scienza fa uso, a questo proposito, del termine «libido».
(Freud, Le aberrazioni sessuali)

“La borghesia non può più in alcun modo liberarsi della propria sorte […] e […] qualunque cosa un borghese faccia, sbaglia”
(Pasolini, Teorema)

Escono a distanza di poco tempo, 1974 e  1975, forse i due film in assoluto più estremi che la storia cinematografica del nostro paese abbia mai visto.
Si tratta di La grande abbuffata di Marco Ferreri e Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini.
Molto spesso parte della critica ha accostato questi film per i loro tratti in comune.
Se indubbiamente i due film presentano aspetti simili in certe situazioni rappresentate, nei temi e negli assunti  che li muovono, diverse sono invece sono le premesse ideologiche e  tematiche, nonché gli sviluppi espressivi e le strategie linguistiche messe in atto dai due autori, entrambi passati alla storia come provocatori e fustigatori di costumi.
Vediamo brevemente le trame di entrambi i film.

La grande abbuffata. Quattro uomini -un pilota di linea, un giudice, un produttore televisivo, un ristoratore- si chiudono in una villa nei pressi di Parigi al fine uccidersi mangiando oltremisura. A loro si unirà poi una maestra d’asilo. Uno per volta moriranno tutti, mentre la maestra si rinchiuderà nella villa.

Salò o le 120 giornate di Sodoma. Il film è basato sull’opera del marchese De Sade Le 120 giornate di Sodoma, ma trasposto nella Repubblica Sociale Italiana.
Quattro signori, rappresentanti altrettanti aspetti del potere (Eccellenza, Monsignore, Presidente, Duca) si riuniscono in una villa in compagnia di altrettante meretrici (tre di loro ecciteranno dei signori mediante racconti, mentre la quarta le accompagnerà al pianoforte).I signori rapiscono un gruppo di ragazze e ragazzi tra le brigate partigiane per disporne crudelmente e indiscriminatamente attuando su di essi atroci perversioni, seviziandoli e torturandoli. Il regolamento stilato dai quattro signori proibisce ogni insubordinazione, l’assoluta obbedienza e le pratiche religiose punibili con la morte, nonché i coiti tra individui di sesso diverso. Durante l’orgia finale di sesso e violenza, due giovani collaborazionisti dei signori improvvisano maldestramente qualche passo di valzer.

Sono evidenti i nodi comuni alle due pellicole. Entrambe fanno leva sull’eccesso (e infatti il Monsignore di Salò commenta il crudele regolamento stilato dai quattro signori con la frase “Tutto è buono quando è eccessivo”). La prima pone l’accento sugli eccessi alimentari (ma non manca l’aspetto sessuale, proprio dell’altro film), l’altra sugli eccessi sessuali (ma non manca l’aspetto del cibo, dominante in quella di Ferreri).  C’è forse un dato ulteriore, che accomuna queste due opere, ma tale dato è assunto e sviluppato in maniera differente dai due registi: il loro fondo critico nei confronti di alcuni aspetti caratteristici della società neocapitalistica, quali l’edonismo antiumanitario, assoluto e indiscriminato, e l’altrettanto assoluta opulenza, nonché le perversioni spesso represse.  Benché l’acredine e il piglio provocatorio sia comune a entrambi i film (e pressoché anche all’intero opus dei due autori), scrivevo poco più sopra che diversa è invece la modalità con cui la critica viene messa in atto dai due registi.
La grande abbuffata (di cui Pasolini stesso aveva scritto sulla rivista “Cinema Nuovo” nel numero di settembre-ottobre 1974, elogiandone alcuni aspetti e rimproverando invece l’arbitrarietà e la mancanza di articolazione dei principi metafisici e metaforici che sembrano aleggiare nel film, già colti da Maurizio Grande) si presenta, così come altri film del secondo Ferreri (dopo la fase di “commedie nere” quali La donna scimmia e L’ape regina), quale film “eventico” o fenomenologico, un po’ come il precedente Dillinger è morto (1968) o il successivo L’ultima donna (1978).
Non si può dire che in questi film vi sia una trama, intesa in senso tradizionale, come intreccio dove a un conflitto iniziale debbano seguire azioni che conducano al suo scioglimento, ma piuttosto una serie di eventi, atti (più che azioni drammaticamente dette) interpolati a una situazione di base pressoché priva di intreccio.
Del resto, quello della trama così intesa è un concetto forse più proprio di certa letteratura (il romanzo classico), o al limite di buona parte del teatro (almeno fino a Beckett escluso), mentre non è necessariamente attributo specifico del cinematografo.
Nel caso specifico di questo film, la situazione di base è presto detta e potrebbe essere liquidata in due righe: quattro amici appartenenti alla borghesia medio-alta compiono un quadruplice pantagruelico suicidio. Tutto il resto di ciò che vediamo nel film, dalla passione del pilota Marcello per le macchine d’epoca, alle inclinazioni artistiche del produttore Michel che suona il piano o improvvisa dei passi di danza, ai siparietti del cuoco Ugo che imita il Brando de Il padrino, non è che una serie di eventi accessori a quella situazione di base che segue il suo proprio clinamen del tutto indisturbata e in maniera inarrestabile, come inarrestabile è l’orgia gastronomica dei protagonisti. Tali eventi accessori, del resto, non contraddicono, non ostacolano, ma neppure accelerano l’iter della situazione di base.
D’altro canto Ferreri non ci lascia spiegazioni palesi del perché i suoi quattro protagonisti decidano di darsi ad eccessi alimentari fino a morirne. Probabilmente, non ne abbiamo bisogno. Egli non voleva fornirci che un apologo, privo di scavo psicologico (e del resto i personaggi –sempre che a Ferreri interessi ciò che siamo soliti definire “personaggio”- mantengono i nomi degli attori che li interpretano: Ugo-Tognazzi; Michel-Piccoli; Philippe-Noiret; Marcello-Mastroianni; Andreà-Ferreol), dove i protagonisti sono presentati dapprima come esemplari della borghesia medio-alta, ritratto ognuno nel suo ambiente personale, grigio, vacuo, squallido, ed osservati poi nella villa solo nel loro comportamento (con sguardo eventico, dicevamo), come animali.
Risultano illuminanti a questo proposito le parole del regista: “Nel mio film il mangiare diventa l’ultima speranza e disperazione presente davanti agli uomini. Più che dei significati metaforici particolari ho voluto rappresentare, come davanti allo specchio, dei personaggi della nostra società: sono stanco dei film sui sentimenti ed è per questo che ho voluto fare un opera fisiologica. (…) Ora è tempo di ritornare all’uomo come animale fisiologico. Non al corpo come realtà edonistica, ma come unica, tragica realtà di questa vita”.
Ed ecco, non è che il corpo l’unica tragica realtà di questa vita, allo stesso modo che per gli animali, così per gli uomini: l’assunto materialista di Ferreri è semplicissimo, tale che non necessita di spiegazioni logiche, quasi una tautologia.
Ma cosa accade quando è un borghese -ovvero un appartenente a quella classe che fa dell’autosufficienza, dell’autoconservazione, dell’integrità morale spesso paralizzante, dell’abbondanza i propri modus vivendi- a realizzare questa “tragica realtà” del corpo?
Un borghese non può che accostarsi ad essa in maniera automaticamente perversa, poiché si riappropria del naturale e delle sue uniche tragiche certezze (il corpo e il suo sostentamento) in maniera violenta ed eccessiva: egli è un complice della società dei consumi e della sua cultura (quella delle norme per il giudice interpretato da Noiret, quella dello spettacolo per il produttore Piccoli, quella del benessere alimentare e del successo dei personaggi di Tognazzi e Mastroianni), per cui il ritorno alla natura e all’animalità fisiologica –che è anche, come vedremo successivamente, un regressus ad uterum o ad nihil- non può attuarsi più secondo le norme (borghesi) della autoconservazione, ma attraverso la pulsione di morte in pieno disprezzo verso il proprio essere.
Se i protagonisti ferreriani appaiono in certo qual modo come folli o masochistici latori di un disprezzo antiumanitario,  i quattro signori del film pasoliniano sono inequivocabilmente dei sadici, mossi anch’essi da disprezzo. La differenza più evidente tra i quattro protagonisti ferreriani e i quattro signori del film di Pasolini è che questi ultimi sono uomini di Potere. Ma se Ferreri, per sua stessa affermazione, non ha voluto tanto rappresentare dei significati metaforici (quelli che del resto Pasolini, nel suo articolo su La grande abbuffata, aveva criticato come inerti e arbitrari perché non compiutamente articolati), Pasolini invece si serve almeno di due livelli metaforici.
Il primo è quello del sesso inteso come metafora dei rapporti di potere, come dominio diretto esercitato da alcuni individui sul corpo di altri (simile in questo, a un altro film maledetto, anch’esso, come Salò, uscito postumo: Querelle di Fassbinder).
Un sesso non più vissuto –come accadeva nella Trilogia della vita (Il Decameron, I racconti di Canterbury, Il fiore delle mille e una notte) in maniera totalmente naturale, sempre gioiosa anche nelle sue manifestazioni che la nostra cultura tende a demonizzare (il poeta omosessuale e i tre giovani ne Il fiore delle mille e una notte, ad esempio), ma esclusivamente come borghese possesso, dove gli atti sessuali non hanno mai come fine il piacere che da essi –naturalmente- deriva, ma il piacere che deriva dall’infliggerlo come crudeltà alle loro vittime. Del resto, la sessualità dei quattro signori, appare come perversa perché ancora –Freud alla mano- infantile (anale-escrementizia), o consumata sui corpi morti delle vittime nel finale.
Anche i quattro personaggi del film ferreriano, hanno, a ben vedere, una sessualità ancora infantile: evidente nel giudice Philippe che chiede alla maestra Andreà di sposarlo dopo che questa gli ha praticato un rapporto orale (stesso atto che abbiamo visto compiere precedentemente –ed è significativo- dalla sua balia), o nel fallocentrismo latente di Marcello, o in Ugo, che muore ingurgitando un enorme paté facendosi masturbare da Andreà.
In oltre, benché i personaggi de La grande abbuffata non siano visti secondo un modello tradizionale di scavo psicologico, è pur vero che molti tratti del film sono leggibili secondo certi parametri della letteratura psicoanalitica e antropologica.
In questo senso mi sembrano illuminanti le teorie di Abraham riprese poi da André Green.
Abraham distingue due modalità nella fase orale dello sviluppo della libido: la prima in cui prevale la suzione (del seno materno); la seconda (che corrisponde alla sottrazione del seno materno) in cui prevale il piacere di mordere e lacerare che corrisponde alla fase sadico-orale.
I personaggi ferreriani apparirebbero dunque tutti appartenenti alla seconda fase descritta da Abraham: essi sembrano sfogare il piacere di mordere e lacerare legato alla fase sadico orale connessa alla sottrazione del seno materno. Il giudice Philippe (rimasto sessualmente puer, come notava Pasolini), d’altro canto muore proprio dopo aver ingurgitato un gigantesco budino a forma di seno. Potremmo dire, in termini psiconanalitici, che egli ha realizzato il desiderio di incorporazione del seno materno proprio di quella fase dello sviluppo della libido. La figura materna del film è naturalmente il personaggio della maestra Andreà, che accompagna i quattro nel loro disfacimento, che è dunque anche una sorta di regressus ad uterum, simile (ma più cruento) a quello dei personaggi del successivo Chiedo asilo, che nel finale ritornano alle acque –materne- del mare.
Veniamo ora al secondo livello metaforico del film di Pasolini, che è quello della Storia. Il romanzo di Sade, autore settecentesco, trasposto nella Repubblica Sociale, coi quattro signori che citano a più riprese anche scrittori posteriori al tempo in cui il film è ambientato, non è un gratuito gioco colto d’autore.
Questa operazione può intendersi meglio alla luce dell’Abiura dalla trilogia della vita scritta dal poeta friulano all’indomani dell’uscita del film, protestando contro la falsa tolleranza che aveva scavalcato la lotta per la liberazione sessuale e il proliferare dei film boccacceschi usciti a seguito della sua trilogia.
In essa, Pasolini scrive fra l’altro: “Il crollo del presente implica anche il crollo del passato. La vita è un mucchio di insignificanti e ironiche rovine.”
È l’amara constatazione di un intellettuale che si rende conto che le armi della propria logica, della sua cultura e della sua coscienza storica non sono sufficienti a contrastare l’orrore del suo tempo, poiché il presente mantiene un terrificante rapporto di specularità col passato, e il Potere omologante di oggi, della neocapitalistica società dei consumi, non è diverso da quello fascista, come non è diverso dai crudeli personaggi sadiani: essi hanno come unico fine il dominio pieno e antiumanitario degli esseri umani.
Notava giustamente Moravia a proposito del film che in esso Pasolini si è servito “di Sade come di una pietra da lanciare contro la società italiana, con l’intento provocatorio di farla uscire allo scoperto, fuori dalla sua corruzione e dalla sua contraddittoria condanna dell’omosessualità.”
Lo sguardo di Pasolini è qui, in questo suo ultimo film, amaro più che altrove. La logica stessa, che egli adoperava da intellettuale per fustigare i costumi, non è che un prodotto della società dominante, un ulteriore strumento di tirannia di cui essa si serve per stabilire delle norme, discriminando ciò che è logico e ciò che non lo è. Ecco allora dove risiede la differenza sostanziale che separa il film di Pasolini da quello di Ferreri. Quest’ultimo ha lo sguardo di un entomologo o di un etologo, e come tale non riconosce alcuna logica alla cosiddetta società civile ma neppure –a livello metafisico- alla realtà stessa (ed era Pasolini stesso a notarlo, nell’articolo più volte citato su La grande abbuffata: “una contestazione assoluta, che mette in scacco «globalmente» la logica del reale, non ammettendo la possibilità di alcun genere di logica”): per Ferreri l’uomo non è aristotelicamente animale razionale, e dunque egli non può dare spiegazioni logiche né alla naturalezza del corpo (tanto nella sua creazione che nel suo disfacimento inteso anche come regressus ad uterum), né del quadruplice suicidio pantagruelico da lui messo in scena.
Pasolini ha invece l’amarezza di chi ha creduto fermamente, da intellettuale, che la logica e la ragione potessero essere ristabilite, con passione civile, anche lì dove sembravano “regnare l’arbitrarietà e il mistero”, benché la logica borghese del buon senso comune sia stata da lui criticata in più occasioni (l’episodio del film Le streghe “La terra vista dalla luna”, “Teorema”). Quella di Pasolini è una presa di coscienza da parte di un uomo, come scriveva Moravia “tradito dal suo paese”, per il quale ha lottato con forte passione, suo modo, ma ne è stato come respinto per la sua diversità morale e sessuale. Quella diversità sessuale che la società italiana borghese gli aveva fatto sentire come nemica, in un senso di colpa latente.
Anche il linguaggio è usato nei film in maniera differente: se per i protagonisti di Ferreri il linguaggio è quello della chiacchiera (heideggerianamente, il linguaggio del “si dice”) tipicamente borghese, usato come funzione meramente fatica (e forse in questo legato al puro piacere di dire, e perciò alla fase orale), i signori del film di Pasolini citano a memoria Baudelaire, Nietzsche, Klossowski: sono uomini di potere che hanno fagocitato la cultura dei pensatori “incendiari” di otto e novecento.
La condanna del Salò di Pasolini riguarda dunque in maniera specifica il Potere e la società borghese, quella di Ferreri certi aspetti della cultura borghese, ma il suo film appare distante da possibili visioni in termini politici o di lotta di classe (poiché da entomologo che non crede all’animale razionale, semplicemente, da anarchico disincantato non può credere neppure all’animale politico, ma solo all’animale in quanto tale?) e dunque la sua condanna viene ad assumere tinte metafisiche e kafkiane, come di un’oppressione dalla quale non è dato uscire, ma alla quale ci si può solo arrendere senza troppe rimuginazioni, come fosse “l’unica tragica realtà di questa vita”, la nostra stessa esistenza corporea che conosce la creazione come il disfacimento.

Festen: analisi di una sequenza

Festen: analisi di una sequenza

Festen (Dogme #1-Festen, Dan., Sve., 1998) è il primo film girato secondo i dettami del manifesto del movimento Dogma 95. I primi ad aderire al movimento, oltre al regista del film in questione Thomas Vinterberg e all’altro firmatario del manifesto (detto “voto di castità”) Lars Von Trier, furono Kristian Levring e Soren Kragh-Jacobsen.

Come è noto, il manifesto si proponeva di contrastare una certa tendenza del cinema che siamo soliti definire mainstream, rinunciando agli effetti speciali, agli investimenti ad alto budget, alle luci, a musiche non diegetiche, etc… , reagendo così anche all’impiego delle tecnologie digitali in uso nei film hollywoodiani e indicando una proposta alternativa di uso delle nuove tecnologie.

Eppure non si può non essere iconoclasti. Specialmente se si è della razza che farebbe cinema anche con gli specchietti retrovisori, o anche senza specchietti, semplicemente viaggiando in moto o attraversando la città. (Enrico Ghezzi)

Analizzando qui una sequenza del film, mi propongo di rintracciarne le affinità di tipo tecnico e linguistico con tutta una serie di altri canali mediatici storicamente e linguisticamente diversi da quello cinematografico in senso tradizionale. Da qualche tempo a questa parte si assiste infatti a quella che alcuni critici e teorici dei media hanno definito nei modi più diversi “contaminazione”, “ibridazione”, “intersezione”, “rimediazione”, etc… tra i linguaggi dei media così come storicamente li conosciamo e il nuovo volto che essi stanno assumendo nell’era del digitale.

Come nota giustamente Sanfilippo nel suo saggio La mimesi come produzione, i primi “film dogma” Festen e Idioti (Dogme #2-Idioterne, Dan., Sve., Fra., Ola., Ita., 1998)  sono spie di un nuovo corso della produzione cinematografica che “cerca di attestare il suo potere mimetico non attraverso l’ideologia dell’illusione referenziale ma imitando alcune pratiche diacritiche del video amatoriale”.

In tal senso, l’operazione svolta da Vinterberg con Festen si configurerebbe dunque come la ricerca di una strategia narrativa, espressiva mimetica diversa da quella dell’illusione referenziale del cinema classico e dell’attuale cinema mainstream, che sembra trovare il proprio corrispettivo linguistico appunto nelle varie pratiche attuali di video amatoriale.A questo proposito è necessario innanzitutto guardare al modo in cui i registi firmatari del manifesto si accostano al nuovo mezzo digitale, e dunque la telecamera da essi scelta.

Vintenberg usa delle telecamere da consumer più che da prosumer (e in tal senso la sua scelta apparirebbe, almeno sotto questo aspetto, più radicale di quella di Von Trier, che invece usa per il suo Idioti una telecamera analogica tradizionale da cui elimina però le lenti anamorfiche). Ne consegue un diverso modo di girare, di inquadrare, di narrare. Lo stesso Von Trier propone come nuovo termine atto a definire le operazioni da lui svolte in quanto operatore: “puntare”, più che un “inquadrare”.

L’operazione svolta da Vinterberg con Festen

Festen filmViene messa da parte la regolarità del découpage tradizionale, e il modo di girare sembra farsi più sensibile alle tentazioni del caso. Mi sembra che ritorni a questo proposito un’affermazione di Godard, che vale la pena citare per intero: “Ci sono grosso modo due generi di cineasti. Quelli che camminano per la strada con la testa bassa e quelli che camminano con la testa alta. I primi per vedere quel che avviene attorno a loro sono costretti ad alzare spesso e d’improvviso la testa e girarla ora a sinistra ora a destra e cogliere con una serie di sguardi ciò che si presenta ai loro occhi. Essi vedono. I secondi non vedono nulla, guardano, fissando la loro attenzione sul punto preciso che li interessa. Al momento di girare un film le inquadrature dei primi saranno ariose, fluide (Rossellini), quelle dei secondi precise al millimetro (Hitchcock). Nei primi si troverà un découpage senza dubbio disparato ma sensibilissimo alla tentazione del caso (Welles), e nei secondi dei movimenti di macchina non solo di straordinaria precisione in teatro di posa ma con un valore astratto di movimento nello spazio (Lang).”

Ciò è simile a quanto possono trovarsi a fare coloro i quali usano la videocamera compatta o qualsiasi strumento da consumer o videoamatore (oggi anche i più avanzati modelli di telefoni cellulari). Un videoamatore probabilmente non si dà tanto pensiero di ottenere un’inquadratura corretta o un corretto découpage secondo le regole della grammatica cinematografica. La sua attenzione è invece di volta in volta attirata da questo o da quell’elemento, da questa o quella situazione, in maniera più o meno casuale e imprevedibile.

Credo che in effetti Vinterberg somigli ai cineasti che camminano a testa bassa. Non sembra curarsi, proprio come un cineamatore della precisione delle inquadrature offrendo un decoupage disparato ma sensibilissimo alla tentazione del caso. Vengo ora all’analisi di una sequenza del film che mi sembra particolarmente rappresentativa di quanto appena enunciato.

È la sequenza in cui Kristian, dopo essere stato scacciato dal fratello Mikhael, rientra nella sala dove si sta festeggiando il sessantesimo compleanno di suo padre, tra parenti e amici, dinanzi ai quali ha accusato il genitore di aver abusato sessualmente di lui e della sorella (ora morta suicida) da bambini, e ora accusa violentemente la madre di essere rimasta indifferente di fronte alle atrocità compiute dal marito sui figli.

Kristian rientra nell’Hotel dove si tiene il festeggiamento, e si dirige con decisione verso la sala da pranzo. Un montaggio parallelo ci mostra il percorso di Kristian e ciò che avviene nella sala del festeggiamento, dove sua nonna sta cantando una canzone di fronte ai commensali. Il momento in cui Kristian rientra nell’Hotel è ripreso con una macchina a mano particolarmente vivace: la macchina inquadra dall’alto il pomello della porta ruotato da Kristian. Quando questi entra, la mdp lo riprende dapprima frontalmente, poi lo segue lasciandocene intravedere la quinta. Nel momento in cui la porta viene aperta c’è un sensibile aumento di illuminazione, così forte (e brutalmente inelegante, sporco) da non lasciarci percepire in maniera netta i contorni dell’ambiente. Stacco. Si torna alla sala da pranzo, dove la nonna di Kristian, inquadrata in MF in piedi di spalle sta cantando davanti ai commensali. A uno stacco segue un primo piano della donna ripresa di profilo. Dopo un altro stacco vediamo Kristian, inquadrato prima –wellesianamente- dal basso e poi di spalle a MF percorrere i corridoi dell’albergo e aprire le porte che conducono alla sala dove si tiene il ricevimento.

Segue un’altra inquadratura in PP del profilo della nonna di Kristian, poi un’altra inquadratura di Kristian di spalle mentre apre una seconda porta, ripresa con una lente a focale corta che distorce le linee dell’inquadratura, quindi di nuovo un’inquadratura di Kristian ripreso dal basso, e un PP della nonna nella sala da pranzo pressoché identico al precedente. A questo punto la mdp propone un ulteriore primo piano della nonna ma da una diversa angolazione, inquadrando il volto della donna frontalmente. Dopo un breve zoom all’indietro, la mdp, seguendo, quasi, il rumore della porta della sala da pranzo mentre viene aperta, panoramica brutalmente a schiaffo verso sinistra, per farci scoprire la sorgente del rumore: è Kristian, che appena rientrato, si dirige nuovamente verso il suo posto a tavola e facendo tentennare il bicchiere per richiamare l’attenzione degli ospiti, si accinge a riprendere il suo j’accuse nei confronti della madre. Uno stacco in jump-cut (che viola per altro la regola dei 30°) ci mostra Kristian in MF mentre riprende la parola, ma a questo punto una nuova panoramica a schiaffo verso destra scopre il fratello di lui Mikhael che prontamente si accinge a scacciare nuovamente Kristian dalla sala, aiutato da altri due invitati. Stacco sul nero dell’abito di uno degli invitati.

La macchina riprende ora lateralmente Kristian che si dimena mentre viene portato con forza verso l’uscita della sala. Segue un PP che include Kristian e Mikhael, poi un PPP del padre dei due mentre chiede che il figlio sia allontanato. Dopo un altro stacco ecco un CM della tavolata, che include sul fondo il gruppo di invitati che trascinano a viva forza Kristian fuori dalla porta. Stacco. Altro primo piano di Kristian fuori dalla porta. Stacco. Un invitato, ripreso dal basso, che si oppone a Kristian e chiude la porta della sala. La mdp inquadra per qualche istante la porta chiusa. Panoramica a schiaffo verso destra. Stacco. Segue un primo piano del padre di Kristian, che esprime la sua costernazione per l’episodio e invita la madre perché riprenda a cantare.

Anche da questa descrizione si può evincere come il modo di girare di Vinterberg costituisca qualcosa di profondamente diverso rispetto alla cinematografia mainstream, e come egli si accosti invece a certe soluzioni del video amatoriale, con il loro carico di disattenzioni, sporcature e quanto la grammatica cinematografica considera “errori”. Ne sono testimonianza, ad esempio, i succitati movimenti di panoramica a schiaffo, sporchi, ineleganti, così come alcuni stacchi di montaggio (la jump cut su Kristian che riprende posto a tavola, e lo stacco conclusivo sul volto del padre), nonché le sensibilissime variazioni nei toni della luce: una per tutte, le sovraesposizioni che si verificano quando i personaggi aprono delle porte.

Tutto ciò arriva a configurare, come sostiene Sanfilippo nel saggio più sopra citato, come una strategia mimetica alternativa e un regime di enunciazione altro rispetto a quello convenzionalmente stabilitosi nella narrazione cinematografica. Sanfilippo parla infatti di “sguardo soggetto”, indicando con ciò la figura produttrice dell’enunciazione che imprime una forte soggettività alla visione (a differenza di un enunciatore “oggettivo”, ma che non è ancorabile a una coscienza soggettiva vera e propria, che fa anche trasparire l’attività del processo di produzione del racconto. Con le dovute cautele, credo che tale discorso sia paragonabile a quello fatto a suo tempo da Pasolini a proposito della soggettiva libera indiretta.

Si tratta sostanzialmente della presa di possesso da parte di un narratore-autore (letterario, cinematografico, etc.) del discorso di un personaggio della sua opera, facendo sì che questo influenzi linguisticamente la stessa modalità di esposizione del narratore. Pasolini sosteneva che cinematograficamente si può giungere  ciò quando lo stile del film è influenzato dallo stato d’animo dominante di uno dei personaggi e che ciò consenta al regista una certa libertà linguistica e tecnica provocatoria, anche a prezzo di rompere il tabù del cinema classico che vuole che non si avverta la presenza della macchina da presa.

La macchina di Vinterberg, invece, “si sente”, e in maniera forte, quasi avesse fatto propria la soggettività ribelle di Kristian, e si sente fino a far coincidere il poverismo ascetico-asettico del Dogma con una forte matrice metalinguistica e materica. Nel film di Vinterberg infatti le inquadrature sono sporche, sgranate o sovraesposte, e si vedono, per un attimo, operatori in campo. I contorni delle inquadrature si sfaldano per effetto delle sfocature e delle sovraesposizioni fino a non poter più discernere in maniera netta campo e fuori campo. Come per Kristian tutto deve essere rivelato sfidando il padre, così per Vinterberg (e il suo operatore Dod Mantle) tutto diventa inquadrabile, da tutto la telecamera può essere attirata, proprio come l’occhio del cineamatore più sprovveduto ma sensibilissimo alle tentazioni di una realtà in fieri.

Benedetto Alessandro Sanfilippo, La mimesi come produzione, in Passages. Drammaturgie di confine, a cura di Antonella Ottai, Bulzoni Editore, Roma. In realtà non si può parlare di macchina da presa in senso stretto, essendo il film girato con una telecamera digitale. Per ragioni di comodità qui viene comunque usata la sigla “mdp”. Pier Paolo Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, Milano.

 

Flags of Our Father e Call of Duty: dallo schermo al gamepad

Flags of Our Father e Call of Duty: dallo schermo al gamepad

La sequenza presa in questione è tratta dal film Flags of Our Father, e l’analisi proposta si sviluppa tramite  un lavoro comparativo tra la sequenza del film e alcune sequenze tratte dal videogame di guerra Call of Duty; scopo di tale lavoro è quello di individuare assonanze tra le immagini di uno e dell’altro prodotto preso in questione avvalorando la tesi di una reciproca influenze tra i due mezzi analizzati mediata dallo sviluppo della computer grafica, e il conseguente cambiamento dell’estetica, del film e del videogame, proprio in virtù dell’influenza sopracitata.

La lunga sequenza dello sbarco

Prendiamo in esame la lunga sequenza dello sbarco delle truppe americane sull’isola giapponese di Iwo Jima,  teatro di violenti scenari di guerra, spesso accostata da molta critica alla sequenza dello sbarco in Normandia girata da Spielberg (che figura come produttore del film di Eastwood ) per Salvate il soldato Ryan. Tale affermazione risulta approssimativa nel momento in cui non tiene conto della spettacolarizzazione operata da Eastwood, il quale, diversamente dall’autore di Lo squalo, ricostruisce interi scenari in computer grafica, svincolando spesso la mdp dal suo referente indicale e puntando invece su una ricostruzione di intere scene in post-produzione; in tal senso, l’operazione compiuta accosta il film alle modalità di creazione operata dai videogame;  ovviamente non ci sarebbe nulla di particolare se tale intervento si limitasse ad una mera ricostruzione ex-novo operata dalla computer grafica: in realtà il film di Eastwood merita un approfondimento nel momento in cui egli  sembra ricalcare alcune modalità di riprese tipiche dei giochi di guerra FPS (first person shooter).

Ad avvalorare ciò, l’uso frequente di soggettive, o semi-soggettive dei militari intenti a far fuoco, o le numerose scene -caratteristiche proprio di questo genere di gioco- in cui il regista posiziona l’arma in diagonale nella parte bassa dell’inquadratura. Un espediente quest’ultimo tipico dei giochi FSP, ove lo scopo è ovviamente quello di creare un’interazione visiva tra lo schermo e il giocatore. Partendo da tali presupposti, è facile intuire il perché Clint Eastwood abbia usufruito di tali artifici compositivi: l’intento del regista è, in una prima analisi, quello di rendere lo spettatore partecipe alla guerra, liberandolo dalla sua condizione di spettatore passivo e immettendolo direttamente nello scenario di guerra, in una posizione che lo interpella e lo chiama in causa rendendolo attivo al limite delle possibilità offerta dallo schermo. Il passo successivo di un’operazione del genere è senz’altro il cinema 3d e le nuove forme ludiche di tipo interattivo(quelle offerte dal videogame appunto).

Flags of Our FatherA livello puramente formale quindi, il lavoro del regista si configura come una ripresa dei codici del linguaggio dei FPS game, rivolgendosi allo spettatore -nei momenti che rappresentano la guerra- instaurando un rapporto di interazione: tal interazione è spronata esclusivamente dall’impianto visivo ed esclude il coinvolgimento fisico, il quale è invece una prerogativa del videogame (gamepad). Per esemplificare tutto ciò basti mettere a confronto  le immagini qui riportate per capire quanto le modalità di ripresa del film di Eastwood siano debitrici al videogame FPS: le riprese in first person del videogame si configurano nel film come delle soggettive, le quali però, non appartenendo a nessuno(non vediamo quasi mai chi regge l’arma), elevano il ruolo dello spettatore a protagonista in prima persona (figure 2A e 2B); si tratta di “soggettive intercambiabili che rendono lo spazio una risultante dell’incrocio fra i diversi punti di vista dei personaggi in gioco”  e trovano le proprie origini nel videogame; anche i numerosi sguardi in macchina (figure 4A e 4B) da parte di terzi, che nel videogioco si rivolgono al character guidato dal player, nel film si rivolgono direttamente allo spettatore; laddove quindi, le modalità di ripresa del videogame vanno ad interpellare il giocatore, il film mettendo in scena i medesimi schemi compositivi attiva direttamente lo spettatore/giocatore rendendolo player del film e della guerra inscenata.  Come precedentemente affermato, il rapporto di influenza tra  cinema e videogame non è unilaterale; laddove il cinema va alla ricerca di espedienti visivi coinvolgenti propri dei videogiochi, è anche vero che sempre più spesso i videogame vanno verso una teatralizzazione propria del film, soffermandosi sempre di più sulla storia e costruendo sequenze sempre più realistiche che, svincolate dal gioco, si configurano come delle vere e proprie sequenze filmiche.

Di conseguenza il videogame esplora nuove possibilità, caratterizzando maggiormente i personaggi e gli scenari, proprio forte della fascinazione subita dal cinema. In tal senso basti confrontare un trailer di un film con i nuovi trailer dei videogame per capire quanto queste due arti visuali guardino l’una all’altra. Detto ciò, possiamo dedurre che, se il videogame tende verso il cinema cercando in esso la possibilità di rendere il gioco più realistico, il cinema da parte sua sembra che aspiri alle possibilità ludiche offerte dal videogame, come se volesse –paradossalmente- svincolarsi dagli intenti realistici per favorire una forma che miri invece ad un rapporto più interattivo con lo spettatore(vedi in tal senso il grande successo dei nuovi film in 3d).

Rapporto dialettico il film di Eastwood instauri con il videogame

Proprio partendo da tale considerazione cerchiamo di capire che tipo di rapporto dialettico il film di Eastwood instauri con il videogame. A prescindere dagli elementi prettamente formali, la scelta di Eastwood di far riferimento all’estetica del videogame va inquadrata all’interno del contesto e del tessuto narrativo del film stesso: il film infatti non è altro che il racconto di un falso storico, e va a distruggere uno dei simboli americani (la fotografia dei Marines che piantano la bandiera sulla collina di Iwo Jima). In tal caso, potremmo azzardare dicendo che la guerra rappresentata da Clint Eastwood non poteva essere del tutto realistica (come lo era invece la sequenza d’apertura di Salvate il soldato Ryan), in quanto lo stesso film si snoda attorno all’immagine falsa della fotografia. Un film dunque che si presenta come un gioco sull’immagine (quello della fotografia che in realtà un falso), e come l’immagine di un gioco(la rappresentazione dei soldati americani che piantano la seconda bandiera). Ovvero: Clint Eastwood si diverte a smontare la fotografia e con essa il mezzo fotografico e le sue capacità documentaristiche e mette in scena la “recita” dei militari che inscenano la seconda volta la conquista di Iwo Jima piantando una seconda bandiera.

Di conseguenza a tale considerazione viene messa in gioco la dicotomia finzione-realtà, sia in rapporto alle immagini sia a livello. La trama stessa si impernia sul rapporto tra finzione e realtà, e tale rapporto ovviamente trova riscontro nella nostra sequenza, dal momento in cui questa, forte della computer grafica che impera in maniera evidente, invece di adottare un approccio documentaristico(vedi Redacted), fa affidamento appunto all’iperrealismo ricreato dal computer, con un virtuosismo tale che va a discostarsi dalla realtà stessa, stravolgendola e rendendo invece la sequenza più vicina ad uno dei tanti momenti che si vivono giocando a Call of Duty e giochi affini. È come se il regista, partendo da una considerazione che va ad abbattere e contestare la veridicità del mezzo (sempre riferimento alla fotografia), avesse scelto anche formalmente un tipo di immagine che, scevra dal suo indice di riferimento, manifestasse la perdita del luogo reale e palesasse la sua inadeguatezza ad elevarsi a mezzo testimoniale.