Anni ’50. Domenico (Leonardo
Mason) vive in un villaggio tra le Dolomiti – una
comunità di montanari dal carattere aspro come quelle cime – con il
padre Pietro (Marco Paolini), che per lui è
poco più che un estraneo, un alcolista che tutti in paese
considerano malvagio e buono a nulla. Finché non arriva l’occasione
per riscattarsi: il diàol, un vecchio e temibile orso,
torna a uccidere vacche. Pietro scommette allora con Crepaz
(Paolo Pierobon), suo datore di lavoro, di
uccidere l’orso in cambio di denaro. L’indomani parte da solo per
la caccia, ma Domenico, saputo della scommessa, lo raggiunge. Così
padre e figlio si addentrano nel bosco continuando insieme la
ricerca, che diventa un’occasione per ritrovarsi.
Marco Segato,
padovano, costruisce assieme ad altri veneti – Marco Paolini ed
Enzo Monteleone, suoi cosceneggiatori, e Jolefilm
– il suo esordio La pelle dell’orso, ambientato
alle Dolomiti, a caccia del quadrupede del titolo, ma anche di
un’Italia rurale perduta, con un occhio al western e l’altro a
seguire le orme di Carlo Mazzacurati e di quel
saper raccontare la provincia che ce lo ha fatto amare.
Bellissimo l’inizio: una sorta di
carnevale montanaro, in processione tra bosco e paese, a ribadire
un legame potente, ancestrale con una natura dai mille colori e
sfumature, creando un’atmosfera suggestiva, che mostra subito come
il regista sappia raccontare la civiltà contadina, ma crea anche
elevate aspettative, non pienamente corrisposte in seguito.
La scelta del genere western è
efficace nel ritrarre quel mondo rurale anni ’50, anche grazie a un
cast ben scelto. Facce segnate, volti ben caratterizzati,
ambientazioni tra bar fumosi, risse, partite a carte e scommesse,
vita dura, pasti frugali, un fuoco per scaldarsi e perfino una
“cowgirl”, che però sa essere anche accogliente e materna (Sara,
Lucia Mascino).
La pelle dell’orso
recensione del film di Marco Segato
Il regista abbraccia con convinzione
il film d’immagini, supportato dall’ottima fotografia di
Daria D’Antonio, rendendo la natura protagonista nel suo duplice
aspetto di madre e matrigna. Mostra sguardo acuto nella scelta
meticolosa delle inquadrature, sia quando esplorano il paesaggio,
sia quando si soffermano su particolari significativi nell’economia
della storia.
Su questi elementi cardine
s’innestano varie direzioni narrative, ma la sceneggiatura non ne
segue fino in fondo nessuna, risultando troppo ellittica. Il film
non è il racconto di formazione del giovane Domenico: si osserva la
vicenda con i suoi occhi, ma si capisce poco di lui, dei suoi
sogni, perché ci si possa appassionare alla figura del ragazzino,
che peraltro sembra già fin troppo “adulto” e responsabile
all’inizio. Non è neppure pienamente un film d’avventura: le
vicende che vedono protagonisti padre e figlio in caccia sono
prevedibili, le tappe dell’avvicinamento alla preda si susseguono
lineari fino allo scontro finale, senza vere emozioni e colpi di
scena. Infine, non è un film su Pietro: non approfondisce ma sfiora
solamente la storia di quest’uomo duro e schivo, un “orso” egli
stesso. Oltre questo parallelismo c’è una storia umana che non
viene esplorata, ferma restando la buona interpretazione di
Paolini, che ben si adatta a un registro minimalista fatto
soprattutto di sguardi ed espressività corporea.
In La pelle
dell’orso, manca il coraggio di sviluppare a pieno
una di queste tracce, arricchendola di elementi per coinvolgere
maggiormente lo spettatore e portare l’intero lavoro ai livelli di
alcune sue parti.