Si è svolta, dopo la proiezione del
film Alaska, la conferenza
stampa che ha visto protagonisti il regista Claudio
Cupellini, gli attori Elio
Germano ed Elena Radonicich insieme
agli sceneggiatori Filippo Gravino e
Guido Iuculano accompagnati dai
produttori Fabrizio Donvito e Paolo
Del Brocco.
Le prime domande, sospese tra
riflessioni personali e curiosità, hanno investito quasi subito
Germano e il ruolo da lui portato sullo schermo, quello di Fausto,
un ragazzo ambizioso che cerca di trovare un modo per dare una
svolta significativa alla propria vita, alla ricerca del benessere
e della felicità; così, gli è stato chiesto come si è
approcciato al suo personaggio e come ha deciso di costruirlo,
sottolineando l’arco narrativo che esso seguo: da ragazzo
arrabbiato a capo di un prestigioso albergo a cinque stelle lodato
ed amato dai suoi dipendenti.
Cupellini sottolinea l’aggressività
iniziale di Fausto, furore comune alla rabbia “giovane” che
contraddistingue il protagonista: con il passaggio degli anni- se
ne avvicendano cinque- e l’ampliarsi dell’arco narrativo stesso-
contraddistinto da una struttura ciclica, che già aveva utilizzato
nel precedente film Una vita
tranquilla, i personaggi crescono, maturano,
compiono delle scelte e si evolvono, fino ad arrivare alla
condizione che vivono nelle scene finali. La storia stessa- secondo
Germano- è concepita come una sorta di salita dal respiro epico,
finalizzata al raggiungimento di un unico scopo: la felicità,
raggiungibile anche a costo di gravi sacrifici (come ben presto
scoprono i due protagonisti), anche a costo di mettere da parte i
sentimenti in nome di una logica legata al benessere e al denaro.
La ciclicità stessa della storia, ad esempio, qui nella pellicola
torna collegando in qualche modo l’inizio con la fine, solo con un
valore opposto: dal conflitto alla pacificazione, all’equilibrio,
con una maturazione dei due personaggi, una crescita che li spinge
ad affermarsi sempre di più. Si può prendere, ad esempio, il
personaggio di Nadine, volontariamente descritta come una donna
forte delle proprie fragilità, indipendente, “tratteggiata” in tal
modo per allontanarsi da un cliché retrò legato ad un solo
personaggio maschile dipinto come un cavaliere ottocentesco
portatore di buoni sentimenti.
L’aspetto legato alla crescita di
Nadine e Fausto è importante perché strettamente connesso con la
struttura da romanzo di formazione che ha il film: gli incontri che
fanno durante il loro percorso permettono ai due giovani di
maturare e di trovare dei modelli da seguire- o da non seguire- per
trovare la loro strada verso il successo, per scovare finalmente
quel posto nel mondo che tanto agognano dall’inizio; la storia
stessa dell’amour fou che lega i due vive- e si nutre- dei
loro alti e bassi emotivi, di quei “corsi e ricorsi” che incontrano
anche con le loro scelte, determinate dalle alterne sorti della
sfortuna.
Passando attraverso tutti gli stremi possibili,
aggiunge Germano, i due riescono a trovare un equilibrio, un
equilibrio che forse in qualche modo avevano già in
fieri, e che emergono con il passare del tempo; Fausto,
ad esempio, è un uomo buono, anche se all’inizio si lascia prendere
facilmente dalla rabbia; senza scendere in manicheismi inutili,
tutti i personaggi sono dotati di mille sfaccettature che li
rendono complessi, mai piatti: ognuno di loro porta dentro di sé i
“germi” di una bontà.
Nello scrivere la sceneggiatura, gli
autori si sono ispirati ad un romanzo cult
come Il Grande Gatsby per
mettere in scena la dicotomia tra amore e desiderio, in mezzo ai
quali sorge sempre l’ostacolo più grande: la realtà. Per Fausto, ad
esempio, la realizzazione sotto tutti i fronti passa attraverso la
scalata sociale, mentre per Nadine nemmeno esiste, è troppo
occupata a trovare una sua dimensione effettiva. La ricerca della
felicità, percorso arduo che entrambi decidono- egoisticamente- di
intraprendere, porta necessariamente ad una forma di infelicità
inflitta a qualcun altro: ad analizzare questo aspetto è Germano
stesso, che riflette sul fatto che viviamo in un mondo dove la
felicità consiste nel raggiungere un obbiettivo, anche a costo di
scavalcare, nel peggiore dei modi, il prossimo; ma i percorso che
compiono Nadine e Fausto consiste in una vera e propria epifania,
che li spinge a realizzare che continuare ad affannarsi per
costruire la propria immagine di vincenti ad ogni costo non li
appaga fino in fondo, anzi, lascia loro un vuoto emotivo es
esistenziale che li comporta a provare delle forme di disagio e
sofferenza. E forse, in fin dei conti, la felicità consiste nel
riuscire a fare qualcosa per qualcun altro, in una vera e propria
forma di “egoismo costruttivo”, nonostante le apparenze; aver
imparato la differenza tra il “dare” e “l’avere” è proprio il
segno dell’effettiva crescita compiuta dai due protagonisti.
Riflettendo riguardo al titolo, sono
proprio i due sceneggiatori a fornire un’ulteriore chiave di
lettura: Alaska non è solo il
nome di una discoteca, è un chiaro riferimento ad una terra gelida
ed aspra, che evoca il mito della corsa all’oro, un luogo dove
anche se ci si abbatte, si cade e si perde- in definitiva- la
partita, ci si rialza sempre con la consapevolezza di averci
magnificamente provato in ogni singola fibra dell’essere.