Guarda il trailer del
film Star
Trek di JJ Abrams, primo
capitolo del nuovo franchise con protagonisti Chris
Pine, Zachary Quinto e Eric Bana.
https://www.youtube.com/watch?v=3PM1pvOzn_w
La pellicola è un film di
fantascienza del 2009 diretto da JJ
Abrams. È l’undicesima pellicola della serie
cinematografica di Star
Trek e il secondo per incassi al botteghino dopo il suo
sequel Into Darkness – Star Trek.
Il film è un reboot
della serie classica di Star Trek (1966-1969) e ha per tema
le prime avventure dei personaggi della serie. Il riavvio della
saga viene giustificato all’interno della storia con l’introduzione
di una linea temporale alternativa: un universo parallelo che non
modifica il continuum delle precedenti serie. Un anziano Spock
(Leonard Nimoy) torna accidentalmente indietro nel tempo dopo
essere stato risucchiato da un buco nero (singolarità quantistica
creata dalla “Materia Rossa” usata dallo stesso nel tentativo di
salvare il pianeta Romulus da un supernova), interferendo così con
gli eventi.
Il film è stato distribuito in
Italia dalla Universal Pictures l’8 maggio 2009. Si è aggiudicato
il premio Oscar per la categoria “miglior trucco” e ha ricevuto
altre tre candidature.
La pellicola è stata dedicata alla
memoria di Gene Roddenberry, ideatore della serie di Star Trek, e
di sua moglie Majel Barrett Roddenberry, scomparsa durante la
lavorazione del film.
Distribuito da 01 e Rai Cinema in 250 copie, il 22 gennaio esce
al cinema NINE (leggi la recensione), di Rob Marshall. In
occasione della proiezione anticipata, cine-filos e la stampa
italiana hanno incontrato il regista e il cast del film, nella
bellissima cornice dell’Hotel St. Regis di Piazza della Repubblica
a Roma.
Prima di ogni altra cosa, Marshall ha esordito manifestando la
sua gioia per essere a Roma a presentare il suo film, esprimendo la
sua grande ammirazione per la bravura e l’umiltà dell’ottimo cast
italiano che ha partecipato al film. “Non è un remake di 8 1/2-
sottolinea Marshal – è una versione cinematografica del musical, ha
più sostanza concettuale del mio precedente musical (Chicago), è
per un verso più complesso, parla di come nasce, di come si fa un
film”.
Si presenta nella piccola sala del
Palazzo delle Esposizioni avvolto in una giacca scura e una
sgargiante camicia verde che spunta dal colletto: è Michael Mann,
noto e molto apprezzato regista di molti capolavori del cinema
contemporaneo, da Heath – La Sfida, a Collateral. In occasione
dell’attesissimo Nemico Pubblico, in Italia il 6 novembre, Mann ha
incontrato la stampa e ha spiegato le ragioni del suo eroe:
“Abbiamo considerato in primo luogo la leggenda di Dillinger, il
suo mito. Poi ho scelto di metterne a fuoco la vita reale, le
passioni che muovevano l’uomo, al di là dei generi cinematografici
e degli stereotipi del personaggio. Si è tentato di mostrare un
uomo che aveva raggiunto l’eccellenza in un arte particolare:
quella delle rapine alle banche. Ho provato a mostrare la sua
rinascita dopo un lungo periodo di reclusione. Che decide di fare?
Che strada intende seguire? Vuole recuperare il tempo perso.” Mann
ha esposto l’hic et nunc della vita del gangster, la sua mancanza
di prospettiva futura, ma allo stesso tempo il profondo carisma del
personaggio, e al suo fianco “una gang nichilista, feroce che corre
senza la voglia di raggiungere un traguardo.”
Le domande sono state incentrate
soprattutto sul suo annunciato Thor, trasposizione
al cinema del fumetto che vede protagonista l’eroe delle mitologia
nordica, ma anche il suo lavoro d’attore tra cinema e teatro. Per
quanto riguardo il suo prossimo cine-fumetto Kenneth Branagh è
stato molto chiaro: Scelgo la storia perché la ritengo
interessante e non faccio caso alla fonte, poco importa se si
tratti di Shakespeare o di un fumetto. Thor mi piace perché parla
di una divinità del Tuono, il che è affascinante.
Rispondendo alla nostra domande su
come riesce a parlare al cinema con le parole del teatro in maniera
efficace Branagh ha parlato della complessità di alcune scelte che
si trova a fare: “in Molto Rumore per Nulla, la figura
dell’uomo vigoroso e macho non può essere descritta a voce dalle
donne come avviene a teatro, così ho pensato che la cosa migliore
fosse inquadrare direttamente Denzel Washington su un cavallo
bianco. Chi meglio di lui rappresenta il fascino mascolino nella
sua totalità(ride)“.
Concedendosi a molte foto e a pochi
autografi Kenneth Branagh ha lasciato la sala
sorridente e ha affidato il pubblico alla proiezione della serie
Wallander, tratta da una serie di racconti svedesi, nella quale
interpreta il tormentato protagonista.
Dopo i fasti di Broadway arriva
sugli schermi italiani Nine, il musical
diretto dal candidato al premio Oscar per
Chicago (miglior film), Rob
Marshall. Dopo Cathrine Zeta-Jones e
Renee Zelwegger, Bob si trova a dirigere un cast di
stelle ad impersonare tutte le donne della vita del protagonista,
il regista Guido Contini, bene interpretato da Daniel Day Lewis. Le sue donne, la madre
Sofia Loren, la moglie Marion Cotillard, la musa Nicole Kidman, l’amante Penelope Cruz, la costumista e amica Judy Dench, la prostituta
Fergie e la giornalista di moda Kate Hudson, incorniciano i suoi pensieri, le
sue angosce, la sua crisi artistica, con numeri davvero eccezionali
diretti con grande senso del gusto e del ritmo.
A chi non può fare a me no di
pensare a 8 ½ di Fellini, film
d’ispirazione del musical americano, è lo stesso
Marshall a rispondere all’inizio della conferenza
stampa romana: “Non è un remake del film di
Fellini, ma una trasposizione cinematografica del
musical”. E con questa dichiarazione si chiude il confronto
artistico tra le due pellicole. Anche se c’è da dire che lo stile
onirico della narrazione ricorda e ricalca non solo lo stile di
Fellini in generale, e non solo 8 ½, ma
proprio la sua impostazione mentale di cosa erano per lui la vita i
sogni e il cinema. Come già detto un cast d’eccezione a ricostruire
questa vicenda, e tra tutte le magnifiche attrici due menzioni
speciali: a Marion Cotillard che interpreta la
moglie, Luisa, di una delicatezza e di una decisione insieme
davvero impressionanti, una giovane attrice che si affaccia ad una
carriere che ci auguriamo sia lunga e solida, ma già decorata di un
Oscar e di molti titoli e collaboratori
di tutto rispetto. Altra protagonista da segnalare è senza dubbio
Kate Hudson, forse la ‘sorella minore’ in un
cast così altisonante, ma davvero una sorpresa per energia,
vocalità e senso della scena.
Nine, non è un remake del film
di 8 ½ di Fellini
Ma da meno non sono le altre
splendide donne: l’amante Penelope Cruz (alias Carla) che mette al
servizio di Marshall il suo talento ma anche la
sua prorompente bellezza latina e la sua sensualità, inedita la
Dench con caschetto, convince e diverte;
e ancora la Loren, in un piccolo cameo,
sicuramente provata dagli anni, ma con una presenza scenica
immutata, aggiunge fascino ad una pellicola ispirata a
Fellini e che a suo tempo fu interpretata dal suo
amico Marcello. E quando si parla di musical e c’è lei, l’algida
Nicole, non si può non dire che come canta lei nessuna, anche se il
personaggio è appannato dagli altri, e pur risultando importante
per Guido/Daniel, resta un po’ meno impresso delle altre.
Ma il ritmo, la sensualità più
diretta viene affidata, ancor prima che al corpo, alla voce e alle
movenze di Fergie: un po’ ingrassata, la cantante
interpreta Saraghina, la prostituta che ‘insegna’ l’amore ai
giovanissimi curiosi, trai quali anche Guido. Be italian, da lei
interpretato è senza dubbio la sequenza più coinvolgente
dell’intero film, rivista e reinterpretata in maniera
magnifica.
E fondamentalmente è questo il
Nine di Marshall, un
film estetico, che pur presentando tematiche e relazioni complesse,
si ferma alla superficie, alla bellezza dei costumi, delle
inquadrature, ad una struttura narrativa semplice ma che non chiede
nient’altro che di essere guardata e apprezzata. Un inno a
quell’Italia resa famosa da Fellini, a
quell’eleganza che sembrava universale negli anni ’60, a quella
vita ‘dolce’ che resterà sempre uno stereotipo di bellezza nel
passato del Paese.
Nine Trailer ufficiale
Nine: cast e trama
NINE è un musical
che racconta la vita del famoso regista Guido Contini (il 2 volte
Premio Oscar Daniel Day Lewis) alle prese con uno dei momenti più
drammatici della sua ispirazione creativa. A complicare
ulteriormente la situazione le numerose e bellissime donne che gli
gravitano attorno: la moglie, il premio Oscar Marion Cotillard,
l’amante, il premio Oscar Penelope Cruz, la sua musa creativa, il
premio Oscar Nicole Kidman, la confidente e collaboratrice, il
Premio Oscar Judi Dench, un’avvenente giornalista di moda, Kate
Hudson, e la madre, il premio Oscar Sophia Loren.
Nel cast del film
Nine protagonisti sono Daniel
Day-Lewis, Penélope Cruz, Sandro Dori, Marion Cotillard, Sophia
Loren, Kate Hudson, Nicole Kidman, Stacy Ferguson, Judi Dench,
Martina Stella,
Elio Germano, Ricky Tognazzi, Giuseppe Cederna, Enzo Squillino
Jr., Giuseppe Spitaleri, Roberto Nobile,
Valerio Mastandrea, Remo Remotti, Monica Scattini, Roberto
Citran
Quando risultano poche 3 ore
di film. Pensando a
vari aggettivi con il quale iniziare la recensione del film
dell’anno, mi è risultato difficile individuarne uno che cogliesse
a pieno tutta l’essenza di Avatar. Così ho pensato
a tutto ciò che si prova nel vedere il film e mi sono detto perché
non scrivere un commento… Quando risultano poche 3 ore di film.
Sono poche perché nella visione non
si riesce a coglierne il passare; Sono poche perché il mondo creato
dal regista è talmente ben delineato e costruito nel minimo
dettaglio che risultano troppo poche per riuscire a dargli un’equa
giustizia. Sono poche perché grazie al 3D vivere per solo 3 ore in
quel mondo è davvero troppo poco.
Detto questo, sperando di essere
riuscito a esplicarvi quanto sia imperdibile un film
come Avatar, veniamo a cosa c’è di negativo
nel complesso. Sicuramente è da sottolineare una sceneggiatura
troppo(forse) semplice a discapito di una rappresentazione che ha
nel complesso e nell’assurdo(visivo) una forte peculiarità. Un
soldato occidentale vive tra gli indigeni di una tribù primitiva.
Si innamora della nativa principessa, si divide tra la fedeltà alla
sua vecchia civiltà e alla nuova che lo ha accolto e il restante
può essere immaginato …
Anche il triangolo che si va a
formare fra Jack Sully (Sam
Worthington), Neytiti (Zoe
Saldana) e Tsu’tey (Alonso) è
volutamente tenuto a bada quasi a volerlo soffocare per non doversi
poi trovare qualche conflitto di troppo da risolvere nello
svolgersi delle folgoranti sequenze di guerra. Ma la
semplicità narrativa da forza a dei principi semplici e chiari che
sono disseminati nel film e che non hanno bisogno di essere esposti
in maniera complessa per poter assumere dei connotati
universalmente tangibili.
Per la sua essenza semplice, la
storia scorre veloce e chiara lasciando anche spazio a momenti ti
autentica riflessione. Veniamo dunque ad uno dei tanti pregi del
film e nello specifico del regista: l’equilibrio.
James Cameron nel film è abilissimo nel
bilanciare scene mozzafiato con momenti profondamente riflessivi
che ci permettono di assorbire con la dovuta tempistica i vari
riferimento concettuali.
La semplicità della storia inoltre
permette a
James Cameron di arrivare ad un livello talmente
alto di messa in scena che si ha quasi la voglia di possedere un
avatar e poter gironzolare in Pandora.
L’aspetto estetico e visivo è dichiaratamente centrale nel film, ma
come sta accadendo da qualche anno ad oggi gli effetti digitali
sono molto spesso fini a se stessi; ecco il punto chiave, in
James Cameron non lo sono o meglio la
spettacolarità che con essi si può produrre è solo un espediente
per riuscire a sopportare un attimo narrante, un atteggiamento o
una sensazione, trasformandola in qualcosa di più di quello che
potremmo afferrare nella vita reale.
Avatar, il film campione
d’incassi di James Cameron
Quello che accade nel visivo,
ahimè, non avviene nel campo del sonoro. Infatti, altra nota
dolente che non riesce mai a venire fuori se non per pochi attimi è
la colonna sonora composta da James Horner. Le sue
partiture accompagnano sufficientemente la narrazione ma non
riescono mai ad essere degne dell’epicità delle immagini e ad avere
una personalità tale da potersi distinguere.
In conclusione in
Avatar il cast è assemblato con cura, tutti i
personaggi sono credibili nelle proprie vesti e all’altezza del
compito, forse un punto in meno a Giovanni Ribisi
per il quale anche la scrittura del suo personaggio differisce
dalle sue caratteristiche.
Quando si parla di romanzi al
cinema si tende a storcere sempre un po’ il naso, qualche volta il
fedele lettore resta deluso, altre volte lo schermo non rende
davvero giustizia ai personaggi di carta e inchiostro. Peggio
ancora quando si tratta di classici di grande seguito e tradizione
rivoluzionati per aspetto e caratteristiche. Tuttavia non è il caso
dello Sherlock Holmes di Guy Ritchie, un bel film, nient’altro da dire,
in perfetto stile del regista.
Il nostro Sherlock egregiamente
impersonato da Robert Downey jr. nella sua seconda giovinezza
offre un ritratto convincente avvincente e irriverente
dell’investigatore privato più famoso di sempre, nato dalla penna
di Sir Artur Conan Doyle, affiancato dal fedele e
mai come ora intrigante Dottor Watson, un Jude Law in gran forma. Ottimo duetto dunque
che si completa e si equilibria con una ironia leggere e mai fuori
luogo. Sono proprio loro la forza del film, la loro alchimia, il
loro essere vicendevolmente d’aiuto all’altro, il loro rispecchiare
un rapporto d’amicizia che a scanso di accuse varie di
omosessualità latente non ha paura di mostrarsi nella sua genuina
sincerità. Tutto questo a scapito però dei personaggi secondari, le
donne in particolare, che ci sono ma risultano un decor quasi
trascurabile.
Ritchie sottopone al pubblico,com’era già
stato annunciato, un Sherlock Holmes intatto nelle
sue facoltà deduttive ma decisamente più sporco, prestante ed
eccentrico di quello che eravamo abituati a pensare. E lo stesso
trattamento è stato riservato a Watson, non più composto medico
sottomesso seppur apprezzato,ma compagno, spalla e qualche volta
artefice. Ma Guy Ritchie fa di più, non solo fa uscire il
mito fuori di sé con la già citata operazione di “svecchiamento”,ma
lo riconduce alle sue origini. Niente è davvero profondamente
diverso dal romanzo: lo Holmes di Conan Doyle
alterna periodi di eccessiva attività mentale a periodi letargici,
è abile nei travestimenti, è irriverente verso le istituzioni ma
sempre a loro fa riferimento, mantenendosi sul filo di ciò che è
lecito. E tutto questo Ritchie ce lo mostra senza i filtri che la
penna di Doyle ha avuto considerando i tempi. Il regista offre uno
spettacolo a suon di pugni allo spettatore contemporaneo, ma allo
stesso tempo strizza l’occhio al fedele lettore (ad esempio
inquadrando l’insegna di Baker Street, o il numero 221b della
stessa strada) dando equilibrio ad un film che si lascia vedere
nonostante il sostanzioso numero di minuti.
E’ un po’ quello che è successo
James Bond, quando invece di un attore bello ed
elegante, è stato interpretato dal forzuto e un po’ trucido
Daniel Craig, un cambio di rotta decisamente
azzardato ma riuscito.
Sherlock Holmes – il
montaggio riesce a tenere alta la suspense
Assolutamente ben fatte le scene
d’azione, il montaggio riesce a tenere alta la suspense anche se
alcuni tratti del film risultano prolissi. Per quanto riguarda la
trama, l’esoterismo massonico di sottofondo ricorda vagamente le
trama di From Hell che viene rievocato anche nell’ambientazione ma
che non lasciano spazio a nessuna credenza extra sensoriale. Tutto
è spiegato con la scienza e con qualche trucco da prestigiatore, il
resto lo fa l’uomo, con le sue paure.
Scritto bene e recitato ancora
meglio, lo Sherlock Holmes di Ritchie è
sicuramente un film da vedere che lascia spazio a possibili sequel
che forse inaugurerà un nuovo filone alternativo a quello dei
cinefumetti.
Dorian
Gray è un film che vuole sottolineare la sua
autonomia rispetto all’opera da cui è tratto a partire dal titolo:
il film di Oliver Parker è infatti ispirato al
capolavoro dell’eccentrico Oscar Wilde,
Il Ritratto di Dorian Gray, ma ne prende
le distanze poiché volto a sottolineare gli aspetti più vari del
personaggio di Dorian.
Se il romanzo muoveva dal ritratto
e lasciava immaginare al lettore i vizi del protagonista, senza mai
esplicitarli (ad eccezione di un delitto molto rilevante da lui
commesso), il film è incentrato totalmente sulla figura di Dorian.
Apprendiamo diversi aspetti del suo passato e tangibile è la sua
evoluzione: ingenuo ventenne egli diventa poi un uomo corrotto
dedito al piacere che maturerà infine la distinzione tra piacere e
felicità.
Sedotto dalle parole di Lord Henry
Wotton, Dorian Gray deciderà di vendere
l’anima pur di conservare in eterno bellezza e giovinezza: a
invecchiare è il suo ritratto, che riporterà tutti i marchi della
sua progressiva depravazione. Il ritratto è una presenza oscura il
cui orrore è intuibile per gran parte del film, per poi essere
esplicitato in scene molto efficaci. Molte inquadrature adottano il
suo punto di vista quando è l’anima di Dorian a scrutare dopo
essere indagata. Originale e di forte impatto la scelta di rendere
il ritratto una creatura viva e orripilante, che marcisce ed emette
spaventosi suoni: di grande suggestione l’uso degli effetti
speciali, soprattutto nel finale che lascia un po’
stupito lo spettatore (e l’appassionato del romanzo).
Dorian Gray è
un dark come previsto, con una nota
horror accentuata
Il film è dark
come previsto, con una nota horror accentuata. Le
scenografie, gli ambienti vittoriani e la fotografia fredda e cupa
contribuiscono a rendere più tenebrosa la vicenda narrata. Il tono
dark è evidenziato anche dalla suggestiva colonna sonora composta
da Charlie Mole, mentre l’accurata ambientazione è consolidata
dagli ottimi costumi d’epoca di Ruth Meyers. Dorian
Gray non è però un’opera esente da difetti: la prima parte
è certamente superiore alla seconda, nella quale la sceneggiatura
prende maggiormente le distanze dall’opera di Wilde; a partire dal
personaggio inventato di Emily Wotton sino al
finale, di certo spettacolare ma anche un po’ distante dal romanzo.
Degna di nota è anche un’anticipazione narrativa: il delitto
commesso da Dorian avviene molto prima del previsto e non
nell’ultima parte della vicenda, come nel romanzo.
Ma Dorian
Gray non può essere apprezzato se paragonato al
capolavoro di Wilde: bisogna guardarlo come un’opera a sé. È però
opportuno sottolineare che lo spirito del romanzo è conservato nel
film e che trovano spazio anche gli aforismi più amati. Il
protagonista non sarà biondo e dagli occhi azzurri come nell’opera
originale, ma ha gli occhi e il volto di Ben
Barnes, che di fascino non manca: e l’obiettivo di Parker
è proprio quello di insistere sull’idea che gli ideali della
bellezza mutano con il tempo, ed è per questo che
Dorian Gray è un giovane dagli occhi e
capelli scuri. Tuttavia, come il film insegna, non bisogna
soffermarsi sull’aspetto: per questo è necessario riconoscere che
la prova di Ben Barnes supera certamente le aspettative. Il
giovane attore è espressivo e incarna perfettamente il Dorian
ingenuo e corrotto poi.
Notevole anche l’interpretazione di
Colin Firth: Henry Wotton è di certo un
personaggio che si discosta dai ruoli interpretati da lui in
passato, ma l’attore si dimostra assolutamente all’altezza del
mordace e filantropo tentatore che influenza Dorian. Buone anche le
prove di Ben Chaplin, ovvero il pittore Basil
Hallward, e
Rebecca Hall (Emily Wotton). Al di là del tema
dell’immortalità, sempre attuale e riprodotto nel film come nel
libro (“Sono un dio”, dice Dorian), Dorian Gray è quindi
un film che sarà apprezzato da chi non indugerà nel paragone con il
romanzo. Certamente non è un film che lascia indifferenti, ma che
susciterà impressioni positive o negative a seconda dello
spettatore. E come ci ricorda Oscar Wilde: “Vi è solo una cosa al
mondo peggiore del far parlare di sé, ed è il non far parlare di
sé”.
A dispetto dello scorso anno, nel
2009 Roma apre bene. Triage di
Tanovic (premio oscar per ‘No man’s land’)
racconta la storia di un fotoreporter Mark, interpretato da un
Colin Farrell davvero in vena alle prese con
un misterioso trauma subito in Kurdistan, mentre cercava di
immortalare il reportage della vita.
Per la prima parte
Triage scorre lento, senza grandi
cambiamenti nel ritmo narrativo, costringendosi all’interno di
schemi convenzionali, addirittura banali, nonostante la profonda
esperienza che il regista ha della guerra (Tanovic è bosniaco). Le
scene sono crude pur non mancando di una certa bellezza estetica,
soprattutto nelle inquadrature di paesaggio, gli interpreti buoni,
trai quali spicca il medico ‘di frontiera’, interpretato da Branko
Djuric, già compagno di viaggio di Tanovic per No Man’s Land e ora
responsabile di una performance davvero notevole, fredda e
coinvolgente insieme.
Triage
Uno sguardo sulla guerra da parte di chi la guerra la vive ma non
la fa.
Nella seconda macro sequenza, che
possiamo individuare nel ritorno a Dublino di Mark e nella
progressiva presa di coscienza dei protagonisti che ‘qualcosa è
cambiato’, il ritmo
di Triage rallenta ancora e se
all’inizio abbiamo visto l’attaccamento del protagonista al suo
lavoro, adesso possiamo entrare nelle dinamiche di coppia,
scoprendo un’altrettanto importante figura femminile, Helena (Paz
Vega) moglie di Mark e motore dell’azione in questo frangente.
Anche la Vega, come Farrell e Djuric, offre una buona
interpretazione, avvalorata anche dall’uso di una lingua,
l’inglese, che non è la propria.
La svolta sia tematica che
stilistica avviene con l’entrata in scena di Christopher
Lee, nei panni dello psichiatra franchista Joaquin
Morales, nonno di Helena e intenzionato, su richiesta della nipote,
a portare la guarigione nella mente tormentata del
fotoreporter.
Un ritmo un po’ discontinuo che si
salva verso il finale e regala un’impronta fluida al racconto pur
non rendendolo eccelso. Ma se nel ritmo il film ha qualche pecca,
nella sceneggiatura e nell’interpretazione ha i due punti forti.
Una scrittura di dialoghi salda e precisa, funzionale ma anche
lievemente sarcastica, che riecheggia nella profonda e possente
voce di un Lee che si conferma una leggenda, un uomo che ha fatto
la storia del cinema, ma anche la storia dell’occidente così come
lo conosciamo, avendo vissuto sulla sua pelle le grandi guerre
moderne, soprattutto i 5 anni del secondo conflitto mondiale.
Attori superlativi che forse vanno
al di là di quello che è il valore registico, che pure regala
qualche bel momento e soprattutto un finale straziante, in grado di
commuovere ma anche di smuovere gli animi, un finale che ti
accompagna per un po’ fuori dalla sala.
Triage
– Uno sguardo sulla guerra da parte di chi la
guerra la vive ma non la fa.
Planet 51
– In un pianeta esterno alla nostra galassia, la vita prosegue
placida ed ordinaria senza grandi scossoni, fino a che atterra
dalla spazio profondo una navicella aliena. Da essa uscirà un
temibile…..astronauta della Nasa! Questo è Planet
51: una piccola storia che potrebbe definirsi un E.T. alla
rovescia. Il Captano Charles T. Baker, fascinoso astronauta
americano, arriva su un pianeta sconosciuto convinto di dover
piantare solo una bandierina. In realtà avrà una sorpresa, si
troverà davanti ad una civiltà del tutto uguale alla nostra, solo
costituita da omini verdi e simpatici: degli alieni! Solo che la
sua prospettiva sarà capovolta, è lui infatti l’alieno, il diverso
proveniente da un altro mondo.
Come il piccolo E.T. si deve
nascondere dalla forze armate grazie all’aiuto di Elliot, così
Charles sarà costretto a scappare dalle autorità locali che
vogliono rinchiuderlo nella base 9 (tipo la ‘nostra’ area 51?).
Planet 51: una
piccola storia che potrebbe definirsi un E.T. alla rovescia.
Ancora una volta il cinema, questa
volta quello d’animazione, ci sottopone ad un grave problema
sociale, quello della xenofobia, raccontandoci una storia dai toni
leggeri e non molto pretenziosa, infarcita di citazioni e che
spesso tocca la retorica più bassa in diversi dialoghi. Il film
affronta l’argomento che dovrebbe essere quello centrale con un
distacco che a volte sfugge e senza la dovuta profondità
concettuale che altri prodotti dello stesso genere sono riusciti a
dare. La retorica dei contenuti però non impedisce un buon
tratteggiamento dei personaggi, qelli secondari e ‘non umani’
soprattutto, mi riferisco a Rover, la sonda spaziale
spaventosamente simile al famosissimo Wall-E, e ovviamente al
cucciolo di cane alieno, un piccolo Alien in miniatura che conserva
sia le caratteristiche fisiche del mostro di Cameron (forma della
testa, corrosività dei liquidi corporei) sia quelle caratteriali
(vedi la sorte del povero postino).
Un film senza pretese che offre
ugualmente degli spunti di ilarità e di interesse, se non altro
(per i cinefili) quello di rintracciare le varie citazione di cui
il film è pieno, da quella banale dell’atterraggio con la colonna
sonora (auto-cantata dall’astronauta) di 2001: Odissea nello
Spazio, a quella palese di E.T. (la fuga in bicicletta), a quella
un po’ più ricercata di Non aprite quella porta nel finale.
Nonostante la modestia del progetto
e del risultato finale Planet 51 è da considerarsi
un prodotto coraggioso almeno per quello che riguarda l’aspetto
produttivo (coproduzione Spagna/Uk/USA), infatti nessuna delle
grandi Major imperanti nel settore dell’animazione, vedi Pixar o
DreamWorks, ha collaborato al progetto.
Nemico pubblico –
Il digitale è nato come la strumento della diretta, sfrutta
l’immediatezza dell’immagine. Poi arriva Michael
Mann, e tutto quello che si studia sul digitale come
mezzo economico per realizzare un film di bassa qualità va in fumo.
Perché Mann con il digitale ci ha realizzato
Collateral, Miami
Vice ed ora arriva Nemico
Pubblico, il suo film forse più personale più aperto
alla sperimentazione, ma allo stesso tempo un film che rivoluziona
il modo di guardare al cinema e al genere in particolare.
La storia è quella famosissima
oltreoceano di John Dillinger, un criminale specializzato nelle
rapine in banca che nei primi anni ’30 ha fatto tremare le
istituzioni americane. Ma questo Dillinger che Mann ci dipinge con
la sua spettacolare fotografia sgranata è un po’ più articolato,
complesso rispetto alle sue precedenti rappresentazioni. Mann è
partito dalla fine, da quando il bandito John deve ricominciare la
sua vita dopo un lungo periodo di reclusione. E lui scegli di
raccontarlo alla vecchia maniera, come fosse un western. Un uomo
prima di tutto, un duro che si atteggia a divo, ma che nella realtà
ha ispirato in prima persona la costruzione della figura divistica
negli anni dello star system.
Nemico pubblico –
Mann ha riportato sulla schermo la figura mitica del
crimine
Mann ha
riportato sulla schermo la figura mitica e umana attraverso un
incredibile Johnny Deep che nelle corde oscure del
bandito ha trovato le sue, offrendo in questo modo
un’interpretazione davvero convincente che affascina e si confà
alla figura carismatica che ci viene presentata. Una persona
carismatica dunque ma anarchica, che si scontra sia con la
criminalità organizzata che ovviamente con la legge, impersonata da
un bravissimo Christian Bale nei panni di Melvin Purvis,
l’agente speciale che ha dato la caccia a Dillinger. Una
recitazione sommessa fatta più di silenzi e sguardi che di parole
che si aggiunge alle già numerose rilevanti interpretazioni di
Bale. Ma chi brilla davvero in un universo di uomini è Marion Cotillard, semplicemente eccezionale
nei panni della donna del bandito Billie Frechette: se qualcuno
avesse avuto dubbi sul fatto che il suo Oscar fosse stato assegnato
agli strati di trucco in La Vie en Rose, adesso deve ricredersi.
Marion riesce ad essere potente e fragile, bella e crudele
mantenendo le sue sembianze delicate.
Quello che però lascia un po’
l’amaro in bocca è una scrittura non troppo perfetta. A tratti
apparentemente poco attenta a quelli che sono i nodi del racconto,
sicuramente una sceneggiatura meno rarefatta avrebbe dato i giusti
accenti ad una storia intrigante e ad un personaggio di tutto
rispetto e di grande spessore. Peccato anche per l’aspetto musicale
del film, che se nel finale regala insieme ad un sapiente montaggio
attimi di reale suspense, nel corpo del film è estremamente
rarefatta e quando compare, lo fa con prepotenza violentando il
corso delle immagini.
Nonostante questo,
Nemico Pubblico è un’esperienza visiva
totale; la ripresa in digitale da l’impressione non di un
film d’epoca, ma di essere esattamente lì, nel 1934, con Dillinger
e la sua gang rabbiosa e anarchica ad accumulare denaro senza mai
curarsi del futuro, ed è esattamente ciò che Mann voleva accadesse.
Proiettare lo spettatore nella storia, fargli vivere tutto ciò che
è davvero successo, negli stessi luoghi che nel tempo sono
diventati quasi leggendari, fargli assaggiare quasi l’odore della
polvere da sparo che copiosamente viene utilizzata lungo tutto il
film.
Una pellicola forse leggermente al
di sotto delle aspettative, ma che surclassa i generi e le
definizioni aprendo ancora una volta una sperimentazione visiva e
concettuale del cinema laddove si credeva fosse stato già detto
tutto. E questo tipo di rivoluzioni spettano soltanto a chi, come
Mann, conosce profondamente il cinema e per questo
è in grado di modificarne i codici.
Brotherhood – Tutti ne parlano, nessuno
ne racconta. L’omosessualità è senza dubbio un tema inflazionato e
talvolta banalizzato. Ecco che dalla Danimarca arriva un piccolo
gioiello e ogni racconto visto o ascoltato in precedenza sullo
stesso tema diventa banale. Brotherhood
di Nicolo Donato racconta la storia di due
ragazzi, Jimmy e Lars, che si uniscono ad un gruppo di neo-nazi,
salvo poi scoprire tra loro una passione ardente e autentica che
collide violentemente con l’ideologia che i due dovrebbero
abbracciare. La scelta sarà presto inevitabile: seguire i propri
sentimenti o scegliere il gruppo?
Brotherhood, con una gestazione di
quattro anni, arriva al Festival di Roma sorprendendo ed
emozionando, ma soprattutto facendo riflettere sul tema dell’
identità sessuale, ma anche su quello più profondo della scelta,
del cambiamento della vendetta e della punizione. Brotherhood è un
film fatto bene, costruito con attenzione e diligenza, con una
fotografia notevole e degli interpreti eccezionali. Vince il Gran
Premio della Giuria e Marc’Aurelio d’oro.
La trama di
Brotherhood segue linee guida
apparentemente convenzionali ponendo nella parte finale l’accento
sulle conseguenze delle proprie scelte e delle proprie azioni
presenti e passate. Con un misto di delicatezza narrativa e durezza
delle immagini e dei temi trattati il film di Donato arriva al
cuore e al cervello spingendo oltre la naturale organizzazione
narrativa riguardo ai film sull’omosessualità che si vedono in
giro. E’ prima di tutto una storia di crescita, una storia d’amore,
una storia dura che svolta nel finale in maniera tanto interessante
quanto inaspettata anche se annunciata.
Le conseguenze delle proprie azioni
si pagano nel bene e nel male, si esce cambiati dai traumi della
vita, ma tante volte la sofferenza non riesce a scalfire quelle che
sono convinzioni assurde e tante volte simulate, il rimorso non
attecchisce lì dove non c’è terreno fertile e tante volte l’amore
si trova nei momenti, nei posti e con le persone mai
immaginate.
Tutto questo è
Brotherhood, un ritratto bellissimo di
una storia d’amore.
Julie &
Julia – Con l’età si cambia, e nel mondo del cinema
spesso si ci adatta a quello che viene offerto, soprattutto se sei
un attore e in particolar modo se si tratta di una donna. Questa
regola non vale per Meryl Streep che ha saputo fare degli ultimi
anni a degli ultimi film veri e propri successi di pubblico e
critica, pur non trattandosi di film ‘impegnati’.
La Streep si è infatti data con
risultati eccellenti alla commedia, ed ecco, dopo Il Diavolo
Veste Prada e Mamma Mia!, nei panni della cuoca più famosa
d’America, Julia Child, nell’ultimo film scritto e diretta da Nora
Ephron, presentato in anteprima al Festival di Roma per celebrare
il Marco Aurelio d’Oro alla carriera che Meryl ha ricevuto per
l’edizione 2009. Julie & Julia racconta le storie
parallele di Julia (la Child) quando comincia ad appassionarsi alla
cucina e scrive il suo libro di cucina francese per la casalinghe
americane, e di Julie segretaria che 50 anni dopo gli inizi della
Child, decide seguendo la sua ispirazione di realizzare in un anno
tutte le ricette del libro di Julia.
Bravissimi attori (con la
Streep si ricordano un elegante Stanley Tucci ed una sempre più brava Amy Adams) e storia interessante basata sulle
scelte che possono cambiare la vita, sulle dinamiche matrimoniali e
sull’amore che si prova per ciò che si fa, non riescono a fare
dell’idea un grande film soprattutto per la durata eccessiva, due
ore, che a tratti sembra non sussistere affatto lo svolgimento
degli eventi, qualche volta addirittura stentati. La regia della
Ephron è discreta, anche troppo e non valorizza la materia prima
che ha avuto a disposizione.
I due episodi si differenziano per
ritmi e esiti espressivi: tanto è spumeggiante e godibile quello
della Streep, tanto è abbastanza prevedibile e scontato quello che
vede protagonista la pur brava Adams. Tuttavia Meryl non
sbaglia un colpo, ancora una volta offre una prestazione
eccellente, confermandosi l’attrice migliore del momento (uomini
compresi), sopra le righe e vagamente eccentrica la sua Julia è
vivace e vagamente isterica, appoggiata con classe e discrezione da
quell’ottimo attore che si conferma essere Stanley Tucci, nel ruolo di Paul Child, marito
di Julia.
Tratto da una storia vera e da due
libri: Julie & Julia di Julie Powell (il
personaggio di Amy Adams e da My life in France della stessa Julia
Chirl, Julie & Julia è un film godibile,
per due ore di buon cinema e sorrisi, senza esagerare però…
Curiosità: un bel cammeo di Dan Aykroyd.
Prima la notizia dell’inizio di un
nuovo film, poi qualche foto, poi la notizia shock (l’attore
protagonista muore durante una pausa dalle riprese), poi ancora le
voci: “il film si finirà!”, le prime immagini, il trailer,
l’anteprima mondiale a Cannes e poi il grande annuncio per gli
aficionados del Festival di Roma:
Parnassus – L’uomo che voleva ingannare il
diavolo proiettato in anteprima italiana nell’ambito
dell’omaggio a Heath Ledger.
Il grande giorno infine è arrivato
e il pubblico è accorso numeroso ad osannare non solo la memoria di
Heath, ma ad accogliere calorosamente la
delegazione, Terry Gilliam e (l’altissima)
Lily Cole. Saluti di benvenuto, applausi e luci
spente: la lunga attesa è finita.
Il dottor
Parnassus (Christopher
Plummer) è un uomo vecchissimo, capo di una bizzarra
compagnia di ambulanti che gira per le strade di Londra con il suo
Carrozzone: l’Inmaginarium. Ma ci accorgiamo subito che qualcosa
non va, qualcosa di strano si nasconde dietro un specchio magico al
centro del palco di Parnassus, una porta
verso altri mondi, dove le sembianze umane cambiano a seconda
dell’animo della persona che viene trasportata all’interno.
Alla compagnia si aggiunge presto
un nuovo elemento, Tony, un giovane che è stato ripescato dal
London Bridge, dove penzolava da una forca. Che sia buono o
cattivo, Tony si unisce a Parnassus e qui
comincia il suo viaggio. La grande curiosità del pubblico è stata
infine soddisfatta. Parnassus – L’uomo che voleva ingannare
il diavolo di Terry Gilliam, pur non
godendo della luce di un prodotto eccelso, riesce a catturare ed
affascinare, le scene di una Londra umida e triste, nella povertà
del carrozzone di Parnassus assumono un
fascino particolare e la storia misteriosa riesce a far scorrere
via le due ore del film con facilità.
Pur risultando confuso nella trama
soprattutto nella parte finale, Parnassus – L’uomo che
voleva ingannare il diavolo è un bel film, tripudio
di effetti speciali che hanno colmato delle difficoltà di
produzione che sono insorte durante la lavorazione a causa
dell’accidentale morte di Ledger. Ma a dimostrazione che
l’industria cinematografica ha ancora un anima, sono accorsi tre
amici di
Heath, Depp,
Law e Farrell, a sostituire l’amico e a dargli il
volto nei diversi mondi che il suo personaggio attraversa.
Gilliam è stato chiaro durante la
conferenza stampa: le modifiche alla sceneggiatura sono state
minime dopo la traumatica interruzione, ma il dubbio resta,
qualcosa di poco organico permane alla fine del film che lascia un
po’ l’amaro in bocca, forse determinato dalle altissime
aspettative. Il tripudio di colori e le grandi interpretazioni
tuttavia restano, facendo di Parnassus – L’uomo che voleva
ingannare il diavolo un film che si ricorderà, per la
sorte assurda toccata al protagonista, per la storia, in profondità
crudele e involontariamente profetica, per la dimostrazione che
nonostante il cinema sia sempre più un’industria e non una fabbrica
di sogni, esiste ancora un’anima in un lavoro ritmato dai numeri
del guadagno.
La scritta finale, quasi come un
epitaffio recita: un film di Heath Ledger e dei suoi amici, omaggio che
Gilliam ha sottolineato definendosi soltanto il realizzatore di un
prodotto che era stato pensato esattamente in quel modo dall’attore
australiano.
American
Prince/American Boy: a Profile Of Steven Prince; è
questo il titolo completo del documentario evento della IV edizione
del Festival internazionale del film di Roma per la sezione L’altro
cinema – Extra diretta da Mario Sesti.
L’hanno ribattezzato il film
‘perduto’ di Martin Scorsese, un omaggio all’amico
Steven Prince che ebbe una piccola parte in “Taxi
Driver”. Tutto parte nel lontano 1978 quando Scorsese
gira un lungo documentario, “American Boy: A profile of
Steven Prince”, un’interminabile nottata hippy in cui
Steven racconta la sua vita di eccessi, sospesa tra anfetamine,
alcool, donne e loschi figuri. Di lì il silenzio, durato oltre
trent’anni ed oggi l’opera nascosta del regista italo-americano,
che fece di Prince un’icona pop a cui anche
Tarantino si sarebbe ispirato in “Pulp Fiction”
(nella scena in cui una Uma Thurman in overdose si risveglia grazie ad
un’improvvisata iniezione di adrenalina), viene riportata
alla luce da Tommy Pallotta, che ne riprende il viso in primo piano
dopo tanti anni, ma che tutto sommato non sembra poi così cambiato,
esclusi i capelli bianchi e un po’ di rughe; al tempo nemmeno uno
stravagante come lui può sfuggire. Il nuovo documentario alterna
alle testimonianze di oggi alcune immagini di ieri dirette da un
Martin Scorsese ben vestito, dalla barba lunga e i
capelli gellati.
Il risultato è un viaggio nella
vita di Prince che a tratti sembra la copia spudorata di una
sceneggiatura, che ha nell’incredibile il suo forte e nella
“fottuta fortuna” del protagonista il surreale. Se non fosse
che non è una sceneggiatura e quella non è una vita inventata.
Seduto alla poltrona, bevendo un bicchiere di vino dopo l’altro il
protagonista affronta i meandri della mente rievocando il suo
passato sostenendo che la vita va presa al volo e che l’oggi è più
importante del domani. Il tutto con la stessa follia e la stessa
spensieratezza del Prince di Scorsese, come se in qualche modo il
trascorrere del tempo non lo abbia nemmeno sfiorato.
The Warrior and The
Wolf – Una guerra antica nelle regioni sperdute
e inaccessibili della Cina imperiale spinge un esercito a sostare,
durante un rigido inverno, in un paesino fantasma, abitato solo da
mistici e forse da un popolo maledetto.
Le premesse per un film epico e
misterioso ci sono tutte, e per certi versi The Warrior
and The Wolf di Tian
Zhuangzhuang offre una visione magnificente e disperata
dell’uomo continuamente in lotta con se stesso, con il suo dovere e
con la natura ostile, sia in forma per così dire metereologico, sia
in forma mistico-magica, una caratteristica difficile da
considerare realistica per l’occidente ma che nella mentalità e
tradizione orientale appartiene agli interstizi della
quotidianità.
La storia di
The Warrior and The Wolf si basa su
pochi elementi: la fedeltà del lupo verso il compagno che si
sceglie per la vita, la storia della Cina imperiale e delle sue
guerre per sedare le rivolte, la tradizione e l’onore del guerriero
che sono fondamentali per quelle culture.
Lang Zai Ji,
questo in titolo originale della pellicola, è una storia
affascinante che forse non viene raccontata con la giusta
chiarezza, una trama non perfettamente lineare e non completamente
strutturata lascia lo spettatore in uno stato di confusione. Ma
quel che davvero inficia la buona riuscita del film è la cattiva
delineazione delle dinamiche interne tra i personaggi, ad esempio
non sono chiari i rapporti tra il protagonista e il generale Zang,
prima di riluttanza poi di dedizione, e allo stesso modo la
relazione di amore/odio con la bella Maggie Q. non viene chiarita,
non si spiegano le dinamiche del cambiamento né se ne danno
motivazioni sostanziali.
The Warrior and The
Wolf di Tian Zhuangzhuang offre
una visione magnificente e disperata dell’uomo
Tuttavia The Warrior and
The Wolf resta una bella esperienza visiva: le scene
di battaglia, magnificamente costruite; i paesaggi sterminati dal
fascino antico; anche le riproduzioni digitali dei lupi sono
notevoli e il fascino che quest’animale esercita sulla cultura di
ogni tempo è innegabile, eterno cattivo nelle favole al cinema è
sempre dipinto come bestia nobile e schiva. Forse proprio per
questa caratteristica di monogamia, l’uomo ne ha particolare
considerazione sentendolo in qualche modo simile a sé.
The Warrior and The
Wolf – in concorso al Festival Internazionale del
Film di Roma, Lang Zai Ji, è un unicum nella
storia del concorso, una storia dal sapore antico e maledetto che
però non viene espressa secondo tutte le sue potenzialità.
C’era un volta la commedia
all’italiana, oggi non c’è più. Luca Lucini con
Oggi Sposi tenta la titanica impresa di
riportare alla luce quello che di più caratteristico c’era nel
nostro cinema passato: l’amarezza del sorriso, la caricatura e la
critica alla società ipocrita. Il risultano non è pienamente
riuscito anche se qualche spunto interessante c’è e viene colto
parzialmente soprattutto se coinvolti sono
Michele Placido e
Luca Argentero, il cui episodio dei quattro, è senza
dubbio il più divertente.
Tuttavia Oggi
Sposi non brilla per acutezza, pur rappresentando una
valida alternativa al cine-panettone che più ridanciano è senza
dubbio più volgare e meno costruito. Oggi Sposi si avvale anche di
buoni attori che si calano bene nei personaggi stereotipati e che
danno verve a storie un po’ deboli, basti come esempio l’esasperata
soubrette svampita di Gabriella Pession che
lavorando per accumulo, condensa nel personaggio tutto il peggio
del divismo spicciolo italiano. In definitiva film mediocre che
punta sulla risata facile ma non riesce a tenere un ritmo che a
tratti sembra sfuggire di mano alla stesso regista creando
caos.
Il
concerto – Un direttore d’orchestra
allontanato dal suo lavoro per aver difeso i suoi musicisti ebrei
durante la seconda guerra mondiale, è ridotto a fare le pulizie
nello stesso teatro che un tempo lo osannava ad artista indiscusso.
Si presenterà a lui una sola occasione di realizzare il suo sogno,
tornare a dirigere la sua orchestra e ritornare allo splendore
della musica. Radu Mihaileanu acclamato regista di
Train de vie, ritorna con una storia
forte e commovente, che diverte ed emoziona, eccezionale.
Il
concerto – Mihaileanu si conferma un capace narratore
per immagini, sia dal punto di vista del linguaggio, sobrio e
contenuto, sia per la storia, l’umanità e la freschezza con cui
racconta questa storia di sofferenza e riscatto.
I personaggi, tratteggiati con
poche linee guida che ne caratterizzano la provenienza e gli
stereotipi, si mescolano in questo colorato spaccato di umanità:
gli ebrei praticanti sono gentili, ma attenti al profitto e al
commercio; i russi veraci allegri e dediti alla bottiglia; gli
zingari confusionari ma con una grande dote innata per il ritmo e
la musica; i comunisti più radicali ancora sognatori ed
idealisti. Una parodia sociale costruita magistralmente,
un’armonia di realtà e creature diverse che nella musica, nel
concerto di Tchaikovsky per violino ed orchestra, trovano il loro
riscatto, la speranza di una ritrovata dignità e realizzazione
personale.
Il
concerto – Mihaileanu si conferma un capace narratore
per immagini
Il regista si fa in mezzo ai
personaggi, magistralmente interpretati, e ne scova paure e
difetti, doti e ambizioni, aggiungendo addirittura una punta di
mistero che alla fine si rivela un saldo legame umano, una
ritrovata felicità, un’ottimismo senza retorica che pervade come un
dolce velo la storia così come la musica dona espressività ed
emozione ad un epilogo forse improbabile ma ben costruito e
potente.
Come pochi film Il
concerto riesce a far piangere e ridere allo stesso
tempo regalando due ore di cinema così come dovrebbe essere:
divertente, emozionante, impegnato ma soprattutto poetico nella sua
semplicità, un difficile equilibrio che Mihaileanu riesce a
raggiungere nella sua pienezza.
Presentato nella Selezione
Ufficiale fuori concorso a Roma, Il
concerto è senza dubbio una delle migliori pellicole
viste all’Auditorium nell’anno 2009.
Il vincitore della seconda edizione
del Festival di Roma, Jason Reitman, si presenta allo stesso
pubblico capitolino con Tra le nuvole,
una commedia dal gusto vagamente cinico e decisamente disincantato
insieme alla super star George Clooney e a la Vera Farmiga, altra
vecchia conoscenza del Festival per The
Departed.
George Clooney è un uomo che si occupa di
licenziare impiegati per conto di altri, viene ‘assoldato’ da
diverse imprese e viaggia nel mondo in aereo, le nuvole sono la sua
casa più dello squallido monolocale che ha come quartier generale a
Oahama. La sua vita è perfetta, niente legami, niente rimorsi, solo
una valigia piccola e compatta dentro la quale con metodo rinchiude
tutto il suo mondo. Tutto questo dura fino a che la minaccia di un
progetto di licenziamenti via internet non lo metterà all’erta, e
l’incontro con una bella viaggiatrice non farà tremare le sue
fondamenta di scapolo impenitente.
Tra le nuvole
– Reitman regala un altro film frizzante e
divertente
Scrivendo magistralmente e
dirigendo con la sua personale impronta, Reitman regala un altro
film frizzante e divertente, ben costruito e recitato con
leggerezza.
Come già ci ha abituati in passato
con Juno e Thank You for
Smoking, Reitman costruisce la
storia su solide premesse (in genere la presentazione del
personaggio principale attraverso le sue stesse parole) poi
comincia il racconto che per quanto acuto e divertente si possa
presentare non scade mai nel già visto, riservando sempre un finale
a sorpresa che non ci si aspetta e che regala, soprattutto per
questo film, un finale agrodolce, vagamente cinico ma con
l’ottimismo che risiede nel cambiamento e nella redenzione.
È Skellig di
David Almond ad aprire invece la sezione sempre
molto propositiva di spunti narrativi che vanno oltre il mero
intrattenimento per soli piccoli. Anche quest’anno non si
smentisce, presentando come prima opera un curioso film, che fa del
suo lato fantastico la sfumatura più
interessante. Skellig ruota
attorno al piccolo Michael, da poco approdato insieme alla propria
famiglia in una decadente e pericolante casa.
Motivo del trasloco, la
gravidanza della madre, incinta e pronta a regalare a Michael una
sorellina. Peccato che la bimba nasca con una rara e pericolosa
malformazione al cuore. Michael, combattuto dagli eventi, finisce
per scoprire in giardino, all’interno di un vecchio magazzino, uno
’strano uomo’. Sembra un barbone, non riesce ad alzarsi, è sporco,
mangia insetti ed ha una ’strana’ schiena. Accudito con amore e
passione da Michael, Skelling, questo il suo nome (come al
solito un ottimo Tim Roth che col passare degli
anni sembra diventare sempre più bravo ad offrire interpretazione
degne di nota), finirà per ritrovare le forze, finendo per
svelargli il suo incredibile segreto…
Un opera, come anticipato che ha
nella sua chiave fantastica la sua migliore peculiarità e come
pezzo forte senza dubbio l’interpretazione dei suoi protagonisti,
che oltre al Tim Roth mangiatore di insetti, che
grazie ad un buono make-up, diventa una presenza scenica a tratti
inquietante, e il giovane protagonista Bill Milner
che certamente non sfigura, riuscendo talvolta anche ad insidiare
lo scettro di re della pellicola ma, per brevi istanti al
“mostruoso” Roth.
Il regista dal canto suo forse non
riesce a mantenere in equilibrio stabile fra i due nodi
centragli del film, e pecca anche un pò di inesperienza sul
fantastico e il mistero, tirando troppo per le lunghe gli enigmi
dietro alla figura di Roth, diventando quasi un estenuante attesa,
che a tratti ridimensiona l’opera, forse anche per l’eccessiva
durata. Tuttavia, il risultato totale è di un film godibile ad un
largo pubblico, che sia disposto a credere al fantastico e che
assieme ai protagonisti si faccia trascinare per le vie di una
Londra in secondo piano, quasi anonima.
Skellig –
Ottimi alcuni riferimenti significanti sulla figura di Tim
Roth, degni di approfondimento, che dietro ad esse vi sia
celato qualche messaggio subliminale.
Barbarossa – Quando con un occhio si
guarda alla Storia e con l’altro all’intrattenimento
cinematografico si fa spesso grande cinema, lo dimostrano i tanti
capolavori storici che sono arrivati nelle sale negli ultimi anni.
Questa equazione tuttavia non si verifica sempre e purtroppo
Martinelli è caduto in pieno nella trappola che si è preparato da
solo. Film pretenzioso e costoso,
Barbarossa si presenta come una storia
forte, epica, soprattutto reale, che promettendo tanto, delude
profondamente lo spettatore. Una storia lunga scritta male e
raccontata peggio.
L’intreccio è confuso, portato
avanti seguendo i singhiozzi di un montaggio apparentemente casuale
che non aiuta ad appassionarsi alla storia con tempi morti e
momenti risolutivi trattati troppo in fretta, annoiando per i 139
minuti della sua durata. Martinelli si porta dietro l’eredità di
regista di videoclip, proponendo un prodotto i cui blocchi
narrativi non hanno consequenzialità né producono la giusta armonia
che un racconto dovrebbe avere tra le sue parti. Pur supportato da
tecnologie all’avanguardia come la crowd replication (per la prima
volta in una produzione italiana), il regista mostra la sua
inesperienza a sfruttarne il potenziale espressivo, inficiando la
credibilità dell’immagine, come esempio per tutti valga l’utilizzo
del digitale per riprodurre il sangue nella battaglia di Legnano:
asettici schizzi rossi che partono dalle ferite dei guerrieri per
proiettarsi verso lo spettatore, a ricordare gli altrettanto finti
schizzi di sangue dei titoli di coda dello snyderiano 300; sarebbe
bastato il sangue finto che nella tradizione italiana dell’horror
ha espresso sempre bene, seppure in maniera talvolta grottesca, il
disgusto e lo scempio dei corpi.
Gli ingenti mezzi
messi a disposizione di Martinelli impallidiscono di fronte ad una
sceneggiatura cattiva e senz’anima. Il regista cerca di dare un
ritmo, ma senza seguire uno spartito mette male l’accento con
l’abuso di ralenti che non sono giustificati dalla narrazione.
Eppure buone sono le
interpretazioni di Rutger Hauer e F.
Murray Abraham a dispetto dei ‘nostri’ attori. La bella
Kasia Smutniak, alle prese con un personaggio
controverso e complesso, non fa che ripetere gli stessi gesti
scarmigliati e confusi per tutto il film e
Raz Degan, nella sua stentata interpretazione, sembra
l’unico elemento che possediamo per orientarci nel tempo, in quanto
pare che il trascorrere degli anni nella storia venga misurato
tramite in progressivo grado di disordine dei capelli dell’attore
protagonista.
Le musiche di accompagnamento sono
anonime, approssimative e senza il respiro epico e poetico che la
storia dei ribelli avrebbe meritato. E’ vero, il coraggio andrebbe
premiato, poiché Martinelli si dimostra coraggioso scegliendo
sempre temi che vanno oltre il contemporaneo panorama delle storie
italiane da cinema, né drammi familiari né cine-panettoni quindi,
ma purtroppo non mette a frutto l’originalità dell’idea con la
realizzazione di un buon prodotto. Barbarossa si potrebbe definire
un passo falso, un altro dopo il non entusiasmante Carnera, e se è
vero che ‘errarehumanum est, perseverare autem diabolicum’.
Baarìa – “Noi
Torrenuova vogliamo abbracciare il mondo intero, ma abbiamo le
braccia troppo corte”. Questa la sintesi finale, che con voce
stanca e fiacca proclama Peppino Torrenuova. E per qualcuno questa
frase si adatterebbe anche alle ambizioni cinematografiche del
regista del film. Una cosa è certa, solo un felice matrimonio tra
un maestro del cinema come Giuseppe Tornatore e la
Musa della Settima Arte poteva dar vita ad un film così. Mezzo
secolo di storia sapientemente raccontati da una regia che si
trasforma in occhi e da occhi che si fanno cuore pulsante di un
fiume di vite, raccontate magnificamente.
Tornatore
rivendica una libertà registica che in Italia è difficile trovare,
regalandoci una speranza (per il futuro) e un’importante
conferma. Sapiente nelle scelte registiche, formidabile nella
direzione degli attori, soprattutto i più piccoli.
Convince la modella siciliana
Margareth Madè, che in
Baarìa vede il suo esordio, più di quanto
faccia il bello e dannato Raoul Bova interpretando un giornalista
romano. Efficaci e divertenti le interpretazioni di Lo
Cascio, Ficarra (un gradino sopra gli altri),
Picone, Aldo Baglio,
Michele Placido e della strepitosa Lina Sastri in particolare. Qualche
legittimo dubbio sulla frequente ed eccessiva presenza del
personaggio/macchietta interpretato da Beppe Fiorello (Accatto i
dollari! Scangiu Dollari!) eccessivamente cabarettistico.
Il regista dice in molte interviste
che si tratta del suo film più personale, quello che avrebbe voluto
fare dopo i sessant’anni. Ed effettivamente il film ha un po’ il
sapore di un “testamento”, come se Tornatore avesse scritto le sue
memorie, riassuntive tra l’altro del suo modo di fare cinema, del
suo amore per l’immagine, curata e compiacente sino
all’esagerazione. Le storie si intrecciano, si annodano e si
snodano mentre gli anni passano in questo ottimo film corale, di
ampio respiro.
Alcune note di demerito.
Innanzitutto il montaggio e la regia di alcune sequenze del film.
Disattenzioni e stacchi bruschi disorientano lo spettatore che
fatica a trovare il suo posto nella sovrabbondanza di travelling
(dolly e carrellate) che filmano la Bagheria ricostruita
splendidamente da Mauro Sabatini (in Tunisia). La regia di
Tornatore sottolinea l’importanza della scenografia ma a volte
calca un po’ troppo la mano. Anche le musiche del maestro Ennio
Morricone danno da pensare. Una ridondanza inaspettata, commentano
le scene in modo eccessivo, protagoniste anche quando dovrebbero
lasciar il posto alle immagini.
Grande attenzione ai particolari,
Tornatore sembra dirigere ogni scena, anche la più piccola, con
cura e amore paterno, rasentando in più occasioni la perfezione.
Una pellicola in stile barocco che trasuda a volte poco sentimento,
vero e originale. Come a dire che Baarìa è senza
dubbio bellissimo, ma Nuovo Cinema Paradiso è più vero, più
sincero. Certamente un ottimo film, da vedere e rivedere, con
spunti e invenzioni formidabili, che entra di diritto nella
cinquina dei film che rappresenteranno l’Italia nella notte degli
Oscar. Troppo lungo per i gusti d’oltreoceano?! Speriamo di no.
Qualcuno ha avuto da ridire sul
fatto che un film così apertamente schierato (Peppino il Comunista
vede rosso, c’è poco da fare) sia stato prodotto dalla Medusa
dell’amatissimo Silvio Berlusconi. A questa gente bisognerebbe far
capire che il cinema è anche (o soprattutto?) industria e che vive
di bravi imprenditori. In Italia spesso mancano, e i film nostrani
troppe volte si portano dietro quell’odore di vecchio e putrido che
tanto impedisce loro di varcare i nostri confini.
In definitiva, un bellissimo film,
assolutamente da vedere. Bagheria filtra i sapori e i dissapori di
un’Italia intera, con trovate divertenti e personaggi che fanno la
smorfia a certi stereotipi sui siciliani. Senza contare i numerosi
omaggi al cinema del passato. Per la sequenza che vede protagonisti
Lattuada e Sordi sul set a Villa Palagonia (Bagheria), Tornatore
scova il fotografo di scena che lavorò realmente su quel set, così
da presentare alla perfezione questo fantastico tuffo nel
passato. La regia è amorevole e quasi perfetta, la nostalgia
si fa sentire. “Per quello che saremmo potuti essere e non siamo
riusciti a diventare”. Il finale è commovente, di quelli del
miglior cinema italiano.
Un’altra nota positiva è che la
mafia in Baarìa di
Tornatore viene accennata ma non le si dà mai
troppo spazio, troppa importanza. Come a dire, c’è ma non si vede.
Un po’ come in tutta Italia al giorno d’oggi. Rimane un solo
dubbio, come sarebbe stato Baarìa se Tornatore lo
avesse realizzato fra qualche anno, magari dopo i sessant’anni,
come effettivamente desiderava fare? (Forse ancor più
bello….)
Voto: 8/10 Un kolossal d’autore come
Baarìa non si vedeva da anni (o forse non
si è mai visto). Bellissimo.
Prendi un po’ de
“La cosa” di John
Carpenter, lo spunto visivi di “Cloverfield”
e un po’ della visione Spielberghiana del mondo alieno ed ecco che
per magia appare District 9. Ma veniamo a noi e appunto al film.
Ambientato nel natio Sudafrica, a Johannesburg, lasciata da
Blomkamp all’età
di 18 anni per il Canada, District 9
parte come un reportage su un evento ormai cristallizzato: la
presenza di una gigantesca nave aliena sospesa sul cielo della
capitale sudafricana.
District 9:
recensione del film con Sharlto Copley
Trovate in fin di vita, disidratati
e affamati a bordo, centinaia di migliaia di “clandestini” vengono
curate e rinchiuse in un ghetto alla periferia della città. Un
ghetto vero, sporco e malsano, in cui queste creature insettiformi
sopravvivono mangiando cibo per gatti, vittime dei traffici dei
boss nigeriani della zona (anche questo basato su una situazione
reale a Johannesburg, senza connotazioni razziste). Quando la
situazione diventa esplosiva, il governo affida a una corporazione
privata, la MNU, il compito di evacuare e bonificare la zona, per
spostare gli alieni altrove. Da lì prende le mosse, tra
un’intervista e un reportage televisivo, che danno alla storia uno
straordinario carattere di film verità nella prima parte (forse
l’unico spunto interessante dell’opera), la trama che vede
protagonista un ambizioso ma ingenuo dipendente della MNU e un
alieno col figlio, determinato a far funzionare la tecnologia che
li riporterà alla nave madre e quindi in patria.
Se qualcuno si aspettava più
originalità e rivoluzione nel genere Sci-fi, rimarrà un po’ deluso.
Il film per l’appunto pecca di originalità, soprattutto riguardo
all’evolversi della storia, troppo convenzionale e più delle volte
prevedibile. Chi si aspettava un re-start per il genere Sci-fi che
tanta soddisfazione ha dato con film come Alien e Predator deve
fare ammenda di fronte ad un film lontano da quelle dimensioni.
Tuttavia, il film contiene degli
ottimi spunti registici, che per buona parte del film mantengono
alta l’attenzione. L’inizio in stile documentario incuriosisce e al
tempo stesso da un tocco sottile ed intrigante alla vicenda, e
sotto questo punto di vista il regista si dimostra bravo ad
amalgamare i vari pezzi tra il doc e la fiction, riuscendo
nell’impresa di tirare fuori un buon prodotto fruibile dal grande
pubblico in quella che ha detta di molti, anzi a dette di tutti è
la natura del cinema: l’intrattenimento.
In aggiunta c’è anche spazio alla
riflessione degli avvenimenti sociali che caratterizzano gran parte
della contemporaneità e la sua situazione a dir poco spiacevole su
ciò che riguarda la clandestinità, razzismo a cui si vanno ad
aggiungere problemi di natura di diversità religiose etc. In
definitiva il film rappresenta un tentativo sufficiente a
riproporre un genere che ha affascinato le menti di molti giovani e
che proietta il debuttante Blomkamp
verso un futuro assai migliore, sempre che Cameron con il suo
Avatar non si piazzi in mezzo e dica: “ehi sono io il maestro del
genere.” Di fronte a ciò nemmeno lo stesso Blomkamp
riuscirebbe a contraddirlo, visto che Alien è il suo film
preferito.
Ricatto
d’amore – Un pretesto banale, la scadenza della Green
Card, per una commedia romantica fresca e divertente, in pieno
stile Made in Usa. Questo è Ricatto
d’amore, in originale The Proposal,
letteralmente La Proposta.
Sandra Bullock è una donna in
carriera severa e feroce, una strega per i suoi sottoposti nella
casa editrice. Ryan Reynolds è un giovane assistente,
sottomesso e servizievole, che asseconda ogni pretesa della strega
Bullock, per realizzare il suo sogno di
diventare capo-redattore.
Ricatto d’amore
Due persone che sono a stretto
contatto i cui rigidi rapporti di lavoro impediscono di
conoscersi meglio, fino a che la minaccia per lei di essere espulsa
dagli Stati Uniti per la scadenza della sua Green Card, scatena
l’imprevisto. Reynolds sarà il prescelto, colui che , con un
matrimonio di convenienza, permetterà alla strega cattiva di
rimanere in terra USA.
Ovviamente il finale è previsto
dall’inizio, e i personaggi sono stereotipati, ma la storia corre
via senza pretese e con tanti sorrisi, con una Sandra Bullock in perfetta sintonia con i suoi
costumi austeri e in perfetta forma fisica. Elegante e raffinata
porta sulle sue spalle gran parte della storia, a dispetto di un
Reynolds mono espressivo nonostante le innumerevoli opportunità
cinematografiche che gli si stanno offrendo negli ultimi mesi.
Ricatto
d’amore è una commedia spiritosa che lascia lo
spettatore di buon umore, senza chiedere troppo e restituendo il
giusto.
G.I. Joe la nascita dei
Cobra – Stephen Sommers ci presenta ancora una volta una
pellicola d’azione che rispetta le aspettative del pubblico in
cerca di intrattenimento senza troppe pretese. Ancora la
Hasbro cerca di guadagnare sfruttando il cinema
per i suoi leggendari giocattoli, dopo il travolgente successo di
Transformers, che , almeno per il primo episodio, ha decisamente
più consistenza e valore di questo film.
La storia è quella dei Joe, una
squadra speciale che deve salvare il mondo da un gruppo di cattivi.
Niente di nuovo nella forma e nella sostanza, anche se qualche
scena ben congegnata riesce ad interessare lo spettatore, vedi la
scena dell’attacco a Parigi. I personaggi, quasi tutti volti
emergenti del nuovo panorama cinematografico, riesco a convincere,
chi più chi meno, nei ruoli loro assegnati, su tutti la bella
Rachel Nichols, la rossa Joe. Bello il personaggio
di Snake Eyes, interpretato da Ray Park, che
ricorda un po’ della malinconia degli X-Men.
G.I. Joe la nascita dei Cobra, il
film
Sommers si tira
dietro un po’ di cast della Mummia,
Brendan Fraser e Arnold Vosloo, e
combina diversi elementi action e comedy, per creare un film che
senza pretese intrattiene, ma non convince e si dimentica presto.
Anche visivamente, numerose sono le immagini e le suggestioni che
ricordano Transformers,
segno che forse le ambizioni di Sommers erano
superiori a quelle poi avveratesi.
G.I. Joe la nascita dei
Cobra è un film d’azione che sfrutta la tecnologia
spettacolare per realizzare scene ben ritmate ma non destinate a
passare in fretta nella storia del cinema e nell’immaginario degli
spettatori.
I Mangiamorte
attaccano Londra, piombano dal cielo in forma di scie di fumo nero
mortifero, attaccando maghi e babbani indiscriminatamente. In
disparte, in un piccolo bar della metropolitana londinese, Harry
Potter legge la Gazzetta del Profeta e flirta con una bella
cameriera, poi alla finestra appare
Albus Silente…e Harry viene catapultato verso il suo sesto anno
a Hogwarts, e noi con lui. Carico di attese, il sesto episodio di
Harry Potter, Harry Potter e il Principe
Mezzosangue, mantiene le promesse: più cupo e più
divertente degli altri. Evidente il ritorno al timore della
sceneggiatura di Steve Kloves che nonostante la
complessità del sesto libro, fa un ottimo lavoro di riduzione,
mantenendo il senso del film e aggiungendo qua e là qualche
efficace modifica al corso degli eventi.
In Harry ha 16 anni, deve
affrontare un nuovo anno durante il quale sarà capitano della
squadra di Quidditch, dovrà tener testa alla sua nuova popolarità
con le ragazze, farà i conti con un nuovo, profondo sentimento che
sta crescendo nei confronti della bella Ginny, sorella di Ron, avrà
una vera e propria ossessione per il suo nemico
Draco Malfoy, si imbatterà in un libro di pozioni, che è
appartenuto al ‘Principe Mezzosangue’, ma soprattutto seguirà
lezioni private con Silente, che con lui si addentrerà nei ricordi
del Signore Oscuro
Voldemort, quando era ancora un ragazzino.
Harry Potter e il Principe
Mezzosangue, il film
Ma trasformati sono anche gli
inseparabili amici di Harry, il rosso Ron, alle prese con la sua
prima ragazza, un’ossessiva biondina tutta bacini e sorrisini
frivoli, e Hermione, che si barcamena tra un insistente
corteggiatore poco raffinato e la sua inaspettata, incontrollata,
gelosia per Ron. Tanto mistero intorno a questa storia: chi è il
Principe Mezzosangue? Cosa nasconde il nuovo professore di Pozioni
sotto l’apparente cordialità? Cosa è successo alla mano destra di
Silente, annerita e morta? Che cosa affligge
Draco Malfoy? Interrogativi che troveranno una risposta nel
corso del lunghissimo film, ben 150 minuti.
I toni del racconto
in Harry Potter e il Principe
Mezzosangue si dipanano in buon equilibrio tra
il serio e il faceto, lasciando molto spazio ai menage tra i
ragazzi con gli ormoni in tumulto. Un fotografia affascinante ed
efficace, mutevole come i toni del film, accompagna i protagonisti
per le aule e i corridoi del castello rendendo l’atmosfera lieve e
greve, festosa e macabra. Alla regia, di nuovo David
Yates che se aveva fatto storcere il naso per
L’Ordine della Fenice, adesso ha preso confidenza con i ritmi
potteriani e si dimostra più capace di portare avanti la storia, ma
il merito va soprattutto a Kloves, che come detto, ha ottimizzato i
contenuti aggiungendo qualcosa. Ottimo lavoro sui personaggi, più
articolati, finalmente cresciuti anche a livello professionale.
Peccato per il finale che si sgonfia su se stesso e lascia passare
sotto silenzio una grandiosa scena finale di battaglia ad
Hogwarts.
Harry Potter e il Principe
Mezzosangue è un film più adulto, che mette da parte gli
incantesimi e si pone come pre-finale per l’ultimo atto atteso per
il 2012. Menzione speciale a tutto il cast, ancora una volta la
fucina inglese si mostra la migliore, per quanto riguarda si
attori: oltre agli ovviamente bravi Michael Gambon e
Alan Rickman, bene anche la new entry Jim
Broadbent nei panni del Prof. Horace Lumacorno, ma
soprattutto Helena Bonham Carter, mai così adatta e
apparentemente a suo agio in un ruolo, la sua
Bellatrix è superlativa.
I presupposti ci sono tutti: i
personaggi vincenti, i robot che già conosciamo e quelli nuovi, le
relazioni e le situazioni nuove da esplorare, un intreccio che per
quanto fantascientifico regge bene in Transformers – La
vendetta del caduto. Tuttavia Michael Bay
vuole strafare mettendo troppo di tutto e finendo con un risultato
appunto affollato e un po’ confusionario, soprattutto alla
fine.
La trama di Transformers – La vendetta del
caduto
Sono passati due anni dall’epocale
scontro tra Decepticon e Autobot, il governo degli Stati Uniti ha
smantellato il settore 7 e ha istituito una unità speciale, il
NEST, per combattere i focolai di Decepticon che faticano ad
ammettere la sconfitta del loro leader Megatron, intanto Sam parte
per il college, lasciandosi alle spalle dei genitori devastati
dall’inevitabile crescita del loro unico figlio, e una fidanzata
splendida e innamoratissima, ma inverosimilmente gelosa … Tutto
sembra procedere bene a parte un nuovo ed invadente compagno di
stanza, ma i guai cominciano quando Sam comincia a vedere strani
simboli in cybertroniano e gli attacchi dei Decepticon si
moltiplicano
Gli sceneggiatori, i pur bravi
Roberto Orci e Alex Kurtzman
insieme a Ehren Kruger, non hanno approfittato del
fatto che il grosso lavoro di introdurre luoghi e personaggi era
già stato fatto nel primo film e che quindi sarebbe stato più
semplice per loro portare avanti un plot definito insieme ai tanti
piccoli corollari che avrebbero seguito i diversi temi: la guerra
vera e propria, i genitori di Sam, il rapporto tra Sam
(Shia
LaBeouf) e Michaela (Megan
Fox) e così via. Il risultato dunque non è dei più
esaltanti, soprattutto nella parte iniziale, dove una forzata
ricerca della risata spinge i personaggi e soprattutto la madre di
Sam, un’eccessiva July White, a scendere nell’imbarazzo
generalizzato. Pesanti alcuni dialoghi, a volte prolissi altre
volte superflui, a tratti anche un po’ volga rotti, anche per bocca
dei robot, così compassati e dignitosi nel primo film.
Transformers 2: La
Vendetta del Caduto, in scena John Turturro
La seconda parte
Transformers 2: La Vendetta del Caduto si
risolleva con l’entrata in scena di John Turturro, eccezionale nei panni
dell’agente Simmons, relegato dal governo a vendere carne dopo lo
smantellamento del Settore 7, la sua verve resta intatta nonostante
cambi il registro tra una pellicola e l’altra. I moltissimi robot
mantengono invece le promesse, sicuramente più umanizzati che
antropomorfi, tengono la scena e perfezionano le trasformazioni, la
mdp entra nelle loro viscere metalliche e rende lo spettatore
partecipe del mutamento, merito soprattutto degli effettoni di cui
il film fa uso e abuso e che sono sicuramente perfezionati e
migliorati che in Transformers.
Si perdoni il continuo riferimento
al primo film, ma è inevitabile, soprattutto quando si va a
valutare l’evoluzione dei personaggi: un Sam più maturo e sicuro di
sé si affaccia alla vita di college e cerca di mantenere invariati
i rapporti con la splendida fidanzata, che dal canto suo non fa
propriamente una bella figura, o meglio, è sicuramente un bel
vedere, ma decisamente parla troppo e se le avessero fatto dir meno
sarebbe stato sicuramente meglio per tutti.
Ancora, i genitori più presenti
hanno il loro, seppur breve (meno dei 15 minuti di Warhol), momento
di gloria in una piccola ma intensa scena che coinvolge e quasi
emoziona alla maniera di Bay. Ma i personaggi più interessanti sono
sicuramente i robot: si delinea meglio il rapporto di Sam con il
guardiano Bumblebee, amico fedele e a suo modo affettuoso, i
Gemelli, decisamente troppo umani; capiamo meglio la natura di
Megatron, che lungi dall’essere un villain a tutto tondo sfiora la
codardia, forse offuscato dal ben più cattivo Fallen e dagli altri
numerosi e terribili, Decepticon, soprattutto il mostruoso
Devastator. Ma ancora una volta, su tutti si erge Optimus Prime:
oltre a scoprire qualcosa in più delle sue origini, lo vediamo in
azione potente e crudele contro il male nella sua incommensurabile
umanità, accompagnato ancora dalla poderosa e bellissima colonna
sonora di Steve Jablonsky che costella tutto il
film di tracce favolose.
In definitiva
Transformers 2: La Vendetta del Caduto è
un bel film fracassone, che a tratti stordisce lo spettatore e che
sicuramente perde il confronto con il primo Transformers, e che,
come differenza principale, lascia presagire un sicuro sequel per
completare la trilogia.
Moonacre e i segreti
dell’ultima luna – La 13enne Maria, cresciuta senza
la madre, resta orfana anche del padre, che a dispetto delle
apparenze, lascia dietro di sé una lunga serie di debiti che
costringeranno la ragazzina a trasferirsi in campagna nella villa
dello zio burbero a apparentemente misantropo. L’unica eredità che
Maria riceve dal padre, è un grosso libro che racconta la storia
dell’incantata valle di Moonacre.
Nel cercare di sciogliere la maledizione che grave
sulla valle, Maria farà molti incontri, belli e brutti, e scoprirà
il suo importante ruolo nella leggenda. Il film, non privo di
spunti interessanti, è un pallido esempio di fantasy che dispiega
ogni genere di banalità di genere per dar vita ad una storia un po’
scialba e telefonata. Molteplici i riferimenti a storie ben più
famose: il giardino segreto, la bella e la bestia e tanti altri in
cui la protagonista attraverso una sorta di viaggio iniziatico
compie il suo destino.
Tuttavia Moonacre e i
segreti dell’ultima luna resta un abbozzo di storia
con personaggi poco approfonditi e intreccio che sta in piedi per
mezzo di una storia nella storia. La performance di Dakota
Blue Richards, nonostante la sue doti indiscusse, viene
messa a dura prova nella versione italiana da un pessimo doppiaggio
che ne appiattisce ogni inclinazione vocale, e il fascino di
Natascha McElhone, per quanto notevole, non basta
a creare un personaggio credibile. Tristissimo anche il
cattivissimo (nell’intenzione del regista) Tim
Curry, che sebbene invecchiato e appesantito resta sempre
una presenza inquietante, anche se talvolta fine a se stessa. Nota
di merito invece ai costumi di Beatrix Aruna
Pasztor, un mix di antico e moderno, che, soprattutto
negli abiti femminili, trova la sua massima eccellenza.
L’ungherese Gabor Csupo, già
regista di Un Ponte per Terabithia, non
riesce questa volta a dare un ritmo avvincente alla storia, optando
per un racconto classico poco scandito e tutto sommato banale.
Belli gli effetti che ci mostrano leoni neri, unicorni e mandrie di
cavalli tra le onde, ma dai quali lo spettatore ormai smaliziato
non riesce a trarre meraviglia.
Bradley Cooper, astro nascente della commedia
made in USA, l’ha definito “Memento che incontra Salvate il soldato
Ryan!”. E paradossalmente, The Hangover
(Il doposbornia), in Italia, Una Notte da Leoni,
riesce nell’intento di dare un’idea generale del film, pellicola
scatenante ed irriverente che cadenza la comicità più demenziale
con una struttura alla Memento appunto che ne consolida la base di
racconto ben costruito e raccontato.
Quattro amici partono per un week
end al Las Vegas, per celebrare come si deve l’addio al celibato di
uno di loro. Dopo un brindisi per iniziare la serata, ci troviamo
direttamente in una suite d’albergo devastata, dove i nostri sono
riversati sul pavimento in condizioni di doposbornia pietose, in
compagnia di una gallina una tigre, che si scoprirà essere di
proprietà di Mike Tyson, e di un neonato battezzato sul momento
come Carlos. L’unico problema è che il futuro sposo non si trova e
nessuno ricorda nula della notte appena trascorsa. Una
Notte da Leoni seguirà i tre improbabili ed esilaranti
amici alla ricerca dell’amico perduto con la speranza di
ricostruire quello che è successo. Piccoli indizi li porteranno e
scoprire luoghi e incontri notturni.
Una Notte da
Leoni, raccontato con irriverente leggerezza da
Todd Phillips, già regista di Starsky e Hutch,
è un perfetto esempio di come la commedia riesca ad offrire un
divertimento sano e addirittura intelligente quando la storia
conduce per mano lo spettatore e presenta personaggi nei quali
identificarsi ma dei quali ridere e scandalizzarsi nella più totale
assenza di pretenziosità. Una commedia all’American Way che detta
regole di comicità che alcuni dei ‘nostri’ in Penisola dovrebbero
imparare. Infatti per quanto alcune trovate possano risultare poco
originali e già sentiti, sono inserite con una freschezza e una
precisione cadenzata nella storia che aiutano a definirla senza mai
abbassare l’attenzione divertita dello spettatore. Anche
l’eterogeneo assortimento dei personaggi contribuisce ad ottenere
quel riverbero comico in ogni battuta, in ogni occhiata d’intesa
dei tre eroi alla ricerca dello sposo sparito. Oltre al già citato
Bradley Cooper ricordiamo Ed Helms e
Zach Galifianakis, assolutamente splendidi.
Una volta tornati alle loro vite, i
quattro rimarranno amici ma purtroppo per lo spettatore nessuno
saprà mai cosa è successo durante quella notte da leoni…meno male
che sotto il sedile posteriore della mercedes è rimasta la
fotocamera con ricca documentazione!