Con le
proiezioni dei film vincitori, che si stanno tenendo oggi, si
può considerare davvero finita la IV edizione del Festival
Internazionale del Film di Roma. E’ tempo di bilanci dunque, non
solo quelli dei numeri, che la Fondazione ha reso pubblici già ieri
in serata, ma anche quelli di gradimento verso un evento che tanto
coinvolge la città e il pubblico.
Cominciamo quindi dai numeri. A partire dal budget complessivo
di quest’anno 12.5 mln rispetto ai 15.5 della scorsa edizione e dal
numero degli accreditati (7.720 quest’anno, 7.558 nel 2008) si
possono tirare già le prime somme ‘economiche’ di un evento che,
stando ai dati resi noti, è andato abbastanza bene.
Si è conclusa stasera la quarta
edizione del Festival del Film di Roma. Alla cerimonia di
premiazione super affollata, hanno potuto partecipare tutti i
possessori di biglietto e pochi fortunati accreditati messisi in
coda circa due ore prima dell’inizio dell’evento.
Premiato un gran bel film danese,
Brotherskab. Per gli attori la Mirren e il nostro Castellitto hanno
ricevuto il riconoscimento come migliori attori nella categoria dei
film in concorso della selezione ufficiale.
D: Partiamo della genesi di questo
tuo sequel di “Scusa ma ti chiamo amore”. Qual è stato il tuo
obiettivo?
FEDERICO: “Scusa ma ti voglio sposare” è un film che cerca di far
convivere al meglio dinamiche di coppie che rappresentano gli
elementi più diversi dell’amore: la passione, la voglia di buttarsi
in una nuova storia,
Scusa ma ti voglio
sposare è il seguito della storia d’amore tra Alex
(Raoul Bova),
pubblicitario trentanovenne di successo, e Niki (Michela
Quattrociocche), ora ventenne, conosciuta in un incidente stradale.
AI faro si sono promessi amore eterno, e adesso, dopo 3 anni, Alex
capisce che nonostante la differenza di età, lei è la donna che
vuole sposare. Ritroviamo i loro amici di sempre, ognuno con le
proprie storie, ognuno con le proprie attività, ognuno a confronto
con la propria crescita, i propri sogni e progetti per il futuro.
Alex chiede a Niki di sposarlo, e lei, all’inizio felice, con
l’avvicinarsi della data, sente una paura crescente che le fa fare
un passo sbagliato: manda a monte il matrimonio.
E’ sicuramente difficile recensire
un film di Federico Moccia senza passare per
superficiale, anche perchè volente o nolente il buon Moccia si è
inserito velocemente nella sacra triade italiana dei registi più
criticati assieme a Vanzina ed a Muccino. Ed è proprio a
quest’ultimo che questo Scusa ma ti
voglio sposare sembra fare il verso ora che Alex
e Niki vogliono convolare a nozze.
Indubbiamente il regista scrittore
ha il merito di aver riportato in massa gli adolescenti al cinema e
sui libri e di aver messo in discussione il loro universo in
relazione anche ai genitori che si sono sentiti in un certo qual
modo messi sotto osservazione. Ciò non toglie che fare cinema
è un arte e presuppone la crescita di un artista di pellicola in
pellicola e non una serie di storie in antitesi con la parola
evoluzione e crescita artistica. Fondamentalmente la coppia
protagonista non è più così al centro dell’attenzione come nel
prequel, attorno a loro vive un sottobosco di personaggi (amici di
lei e di lui) in piena crisi di coppia o di identità.
Così come sottolineato dallo stesso
regista scrittore in sede di intervista, si è voluto dare spazio a
tutti i personaggi del libro cercando di mantenere il film snello e
breve per non appesantire lo spettatore, purtroppo il tutto è visto
con poca profondità, senza svelare cambiamenti, percezioni, paure
che nella vita di una persona sono basilari e meriterebbero ben
altra analisi, ecco quindi che il tutto assume le sembianze di un
frullato mal congegnato e pieno di stereotipi tra l’altro (le
divergenze tra le famiglia ricca di Niki e quella popolana di Alex
ad esempio). Non sembrerà quindi strano veder tornare
all’unisono i quattro amici quarantenni dalle loro amate, spinti,
si direbbe dal film, esclusivamente dalla pochezza della loro vita
insieme in un appartamento di uno di loro.
Scusa ma ti voglio
sposare
Moccia si avvicina
a Muccino quindi? Sicuramente il romanticismo esasperato della
prima pellicola qui viene messo in secondo piano dando spazio
principalmente ai dubbi ed alle perplessità di chi sta per compiere
un passo fondamentale nella sua vita, sia essa una gravidanza, un
matrimonio o un divorzio, una pellicola quindi che punta ad
un target più eterogeneo rispetto a Scusa ma ti chiamo
amore.
Ogni tanto la luce si accende con
la gag ben congegnate di Pino Quartullo, qui nei panni di Roberto
il padre di Niki, che qualche risata riesce a strapparla senza
problemi, ma è troppo poco in un film che vuole far riflettere
sulla vita di coppia ma non dà gli elementi per farlo.
I numeri degli incassi precedenti
parlano da soli e sicuramente spianeranno la strada per ulteriori
pellicole sulla stessa falsariga, gli integralisti del cinema
“mocciano” apprezzeranno appieno anche questa nuova creatura del
Federico nazionale, chi invece non ha mai gradito l’immobilismo
artistico e la povertà di contenuti del regista romano ne stia
tranquillamente alla larga.
E’ una Jessica Hausner allegra e loquace quella che si presenta
alla Casa del Cinema in Roma forte anche delle critiche molto
positive che sta ricevendo il suo “Lourdes” in giro per il
mondo.
Ad accompagnarla, il Presidente nazionale dell’Unitalsi Antonio
Diella e il distributore e amministratore delegato di Cinecittà
Luce Luciano Sovena.
Prima di ogni cosa,
Paranormal Activity è senza alcun dubbio l’esempio
più eclatante di come una sana e costruttiva campagna virale possa
essere remunerativa sul piano degli incassi e eccezionale sul piano
dell’attenzione proiettata verso il titolo. Detto ciò, fermo
restando che non è un cattivo film per chi fosse alla ricerca di
facili emozioni , va anche detto che non vale la nomea di
nuovo Blair Witch Project e senz’altro in
nessun caso, né nell’uno né nell’altro si è stati e si è di
fronte al miracolo. Per molti motivi.
Uno. Se nel primo
caso si era di fronte ad un nuovo e sensazionale modo di vedere il
cinema e la visione, in questo caso siamo già ad un quinto/sesto
tentativo in pochi anni. Due. Anche se il film
presenta alcune sequenze molto efficaci e sorprendenti non è per
nulla dotato di una struttura narrativa ,perlomeno sostenibile per
86 minuti. Tre. Visivamente parlando dice tutto di
già visto e nulla di veramente nuovo. Nessuna qualsivoglia
caratterizzazione dei personaggi.
Traendo le conclusioni verrebbe da
chiedersi se questo non è solo il frutto di un sorprendente e
divino piano commerciale messo in atto, e che in sostanza, levando
il fumo non vi sia nient’altro da mettere sotto i denti ma soltanto
misere briciole da sgranocchiare.
Paranormal Activity, il film
Di un film come questo, a low
Budget, ci si aspetta almeno nella parte narrativa e registica il
moto pulsante del racconto, ma è proprio in questo il limite
maggiore per il film. Totalmente privo di una vera e propria
struttura (si ha la sensazione di vagare fra atteggiamenti, attimi
ed emozioni totalmente slegate le une dalle altre), sicuramente
avrebbe aiutato o quanto meno non sarebbe stato male
aggiungere qualche altro personaggio, a parte la figura dello
studioso che forse non è sfruttata al meglio. Invece, si ha
solo la geniale intuizione di soffermarsi (mentre si è nel pieno
della notte in una camera) sul quel bel espediente che è il
fuoricampo e che gente come Shyamalan, Hitchcock, lo
stesso Spielberg, Polanski, hanno
reso terrificantemente sublime. Qui diventa a tratti interessante,
ma poi senza sostegno narrativo si perde su se stesso e diventa
frutto di un protrarsi dell’attesa che rivelerà solo gli ultimi
buoni dieci minuti di paura.
La più grande delusione di
Paranormal Activity, è proprio nell’aspettativa
che tenta di creare e che si concretizza solo come suddetto in
un’unica bella sequenza. Pochissimo per un film che attraverso il
fuoricampo dovrebbe creare un crescendo di tensione insostenibile e
che dovrebbe culminare con il momento rivelatore per l’intera trama
e il film. In sostanza l’unica nota positiva che si ha è il finale
che non risulta per niente scontato e che forse diventa l’unico
momento in cui il fuori campo diventa insostenibile.
Lourdes –
Dopo una sfilza di premi ricevuti in giro per l’Europa tra i quali,
ahimè, è mancato quello a Venezia, sbarca l’11 febbraio 2010
(stesso giorno della prima visione di Bernadette a Lourdes) nei
cinema nostrani l’ultima creatura di Jessica Hausner, talentuosa
regista austriaca arrivata al suo terzo
lungometraggio. Lourdes è la storia
di Christine che trascorre la sua vita su una sedia a rotelle a
causa di sclerosi multipla. Recatasi a Lourdes per un
pellegrinaggio religioso, si scopre dopo pochi giorni miracolata ed
in grado di camminare.
Christine dovrà quindi affrontare
la gelosia e l’ammirazione degli altri pellegrini ma anche l’amore
di un affascinante membro dell’Ordine di Malta, che incomincerà a
interessarsi a lei dopo la miracolosa guarigione. Allo stesso
tempo il comitato medico preposto all’esame dei presunti miracoli,
resta incerto in quanto la malattia alla quale è soggetta la
ragazza è imprevedibile e legata anche a rapidi quanto brevi
miglioramenti. Già dal precedente film “Hotel”, la Hausner
sembra prediligere ambienti chiusi e situazioni soffocanti, non a
caso entrambe le protagoniste sotto una parvenza distaccata
nascondono un animo sensibile ma anche forte.
Lourdes
pone interessanti questioni senza però conferirne un aspetto
preciso ma preferendo stimolare nello spettatore una riflessione
sui contenuti filosofici – religiosi del lungometraggio.
La protagonista Christine non esce mai di casa, le uniche
possibilità di “svago” sono i viaggi di pellegrinaggio.
Con uno spirito disincantato e non
profondamente devoto affronta il viaggio a Lourdes con le
insicurezze tipiche di chi vive in uno stato di disabilità e non
riesce a trovare le risposte nella chiesa. “Perché è successo
proprio a me?” – “Perché alcuni guariscono e altri no?” , il
lungometraggio ci mostra crudelmente come un prete che accompagna
il gruppo della ragazza non riesca a trovare risposte esaurienti a
questi quesiti, risultando spesso evasivo e involontariamente
ironico.
“Se il Signore è buono e
contemporaneamente onnipotente perché non guarisce tutti? Forse non
è buono ma cattivo” questo si chiede uno dei tanti credenti accorsi
nelle piscine miracolose di Lourdes, la Hausner ci trasmette quindi
tutte le perplessità di chi, magari anche più volte all’anno,
compie viaggi della speranza e col tempo vede scemare quest’ultime,
ma ci mostra anche l’ipocrisia di tanti che a dispetto di dettami
cattolici ben precisi non si fanno problemi a sbeffeggiare il
prossimo se “miracolato”, il tutto è girato con tanta naturalezza e
originalità con uno stile che ricorda molto Dreyer e Bresson ma
anche Bunuel citato dalla stessa regista.
Lourdes
Maria, una giovane e bella
volontaria che accudisce Christine durante tutte le giornate a
Lourdes è l’archetipo della sua vita ideale, socievole e allegra,
preferisce frequentare i suoi coetanei, è attratta
dall’affascinante guardia dell’Ordine di Malta ed è sfuggevole nei
confronti della malattia della protagonista, durante il film
l’invidia farà un tragitto andata e ritorno nel rapporto tra i due
personaggi e Christine si appoggerà alla signora Hartl, burbera e
solitaria vecchietta senza alcun malanno fisico che tenta a Lourdes
di ritrovare un senso alla sua vita o quella che nel film viene
sbandierata più volte come “cura dell’anima” dal sacerdote di
turno.
Alla fine Christine, nonostante un
repentino peggioramento delle sue condizioni fisiche, sentirà la
necessità di non abbandonare i suoi sogni e di credere nel
“miracolo”, mantenendo intatto la positività che l’aveva
contraddistinta.
Bangkok
Dangerous rappresenta l’ennesima operazione
(fallita) di remake di film asiatici made in USA. Il film infatti
ricalca l’omonimo film del 1999, anch’esso diretto dai fratelli
Pang (Oxyde e Danny).
Certo, tra il film di dieci anni fa
e questo, le differenze di budget sono evidenti. Basti ricordare
che il ruolo del protagonista – Joe – è interpretato dal
pagatissimo Nicolas
Cage. Non è difficile immaginare – leggendo il
titolo – che lo scenario del film sia proprio Bangkok. In questo
paradiso arriva il killer professionista Joe, ingaggiato dal boss
Surat per fare fuori quattro suoi antagonisti.
Bangkok Dangerous
Per portare a termine la sua
missione, Joe decide di assoldare il ladruncolo Kong. La svolta
sarà l’incontro con la farmacista sordomuta Fon, della quale Joe si
innamora. E tanto basta per fargli mettere in discussione il suo
modo di vivere schivo e solitario. Le vicende si complicano quando
il boss Surat decide di liberarsi di lui.
Bangkok
Dangerous è un film brutale, crudo, che non si fa
mancare momenti di puro splatter. La produzione hollywoodiana e la
sceneggiatura rivisitata da Jason Richman, non
arricchiscono la pellicola del 1999. Ritmo e tensione infatti
appaiono pressoché identici, anche se per quanto alcune scene siano
inverosimili, la spettacolarità non manca.
La trama è già vista: uno spietato
killer in piena crisi esistenziale si redime e trova anche l’amore.
Banale, troppo. Neanche
Nicolas Cage appare in gran spolvero. In evidente
imbarazzo, Cage risulta pesante e poco credibile. Un remake
evitabile, che consiglio di evitare.
Alvin Superstar
2 – Dagli anni ’60 con i primi dischi, agli anni ’80
con la serie aniata fino al 2007 con il primo lungometraggio a loro
dedicato Alvin, Simon e Theodore sono dei Chipmunks di successo,
vuoi per la loro età che abbraccia più di una generazione, vuoi per
il loro innato talento a cacciarsi nei guai. Ed ora eccoli in un
nuovo Squeakquel, non un sequel o un prequel, ma qualcosa di
personalizzato nel quale, dopo una prima esperienza in solitaria,
ritornano sul grande schermo con le Chippettes, il loro
corrispetivo al femminile, grintose colorate e…neanche a dirlo,
canterine.
E fondamentalmente questo secondo
film dedicato alle stelline del rock si riduce a questo, l’incontro
tra i due schieramenti e il conseguente, sebbene breve, scontro che
porterà poi all’inevitabile amicizia tra ‘maschietti e femminucce’.
Non c’è niente che non ci sia già stato, nè altre cose in più: solo
i piccoli scoiattolini che si affacciano alla vita degli umani,
vanno a scuola e affrontano le loro paure, sempre cercando di
tenere unita quella loro famiglia atipica ma affiatata.
Alvin Superstar
2
Di più e più lunghi i numeri
musicali, perchè se nel primo film erano in tre, adesso sono in sei
a far ballare ugole e piedini sulla scena. E se è vero che il film
presenta una sceneggiatura quasi abbozzata che lascia correre gli
eventi senza una vera e propria sostanza, è pur vero che i
personaggi hanno il loro fascino, sono pur sempre dolci e piccoli
batuffoli di pelo e si potrebbe essere nel giusto se si afferma che
nonostante i citrici più snob possano storcere il naso, il film
porterà al cinema un bel po’ di gente.
Il quarto
tipo – Prendendo in considerazione l’idea che mai
come adesso siamo di fronte ad una contaminazione fra due tipologia
di film ben differenti (Fiction e Doc), e fermo restando che nella
storia questa pseudo contaminazione era già avvenuta a vari livelli
sia da una parte che dall’altra, ecco ora siamo davvero arrivati ad
un inedita estensione di questa contaminazione dove la realtà e la
finzione si mischiano in maniera totalmente angosciosa ed
inquietante.
Avevamo ampiamente avuto modo di
vedere esempi quali District
9 e Cloverfield, ma
questa operazione è qualcosa che va oltre la rappresentazione
stessa della storia in modalità documentaristica, qui siamo di
fronte all’utilizzo vero e proprio di materiale registrato dalla
protagonista della storia che anch’essa appare nel film
intervistata dal regista stesso della pellicola e che nella
finzione è interpretata da Milla Jovovich.
Il quarto
tipo
La storia è quella di una psicologa
americana – Abbey Tyler- che durante una ricerca su una serie di
disturbi del sonno che affliggevano alcuni abitanti della città di
Nome, in Alaska, si trovò di fronte a una serie di coincidenze
inspiegabili e fu vittima in prima persona di eventi
particolarmente traumatici.
Durante il suo studio la dottoressa
Tyler registrò molte delle sedute di ipnosi con supporti audio e
video che il regista abilmente e in maniera del tutto inedita,
monta ed accosta in modo diretto (tramite lo split screen) con la
ricostruzione cinematografica, quasi a voler creare una sorta di
parallelo fra il mondo reale e quello di finzione, in cui il labile
confine che divide i due mondi diventa pressoché inesistente. In
questo caso siamo di fronte ad un film che è visibilmente tratto da
una storia vera, senza nessun affabulazione di sorta. E la
sensazione è quella di non potersi dissociare dal film e dalla sua
rappresentazione, perché non è finzione.
Il risultato è un’opera che, a
prescindere dalle opinioni in merito al tema dei rapimenti alieni,
è profondamente inquietante e riesce ad aprire la porta a dubbi e
interrogativi che l’uomo e la nostra società bigotta cercano di
accantonare e di rimuovere o ancor peggio di nascondere. Sotto
l’aspetto linguistico, il film segue un buon ritmo sin dall’inizio,
veicolando abilmente (va detto)la tensione dello spettatore,
fortemente incuriosito (paurosamente) dal materiale della
psicologa, soprattutto dall’intervista con la vera Tyler che come
una voce narrante racconta gli accadimenti così come sono avvenuti.
Ma ancor più interessante è il fatto che di fronte a tutto ciò, il
film non cerca mai di giudicare o di prendere una posizione netta e
chiara. Per spiegare ciò la frase di chiusura è emblematica:
“Alla fine siete voi padroni di credere o non credere”.
Con quest’ultimo accenno, con astuzia e caparbietà,
Osunsanmi lascia a noi la facoltà di esprimerci,
rendendo il gioco ancora più indecifrabile e rendendo l’Audiance
tremendamente attivo.
In chiusura, il riferimento alla
pazzia o comunque al malessere interiore dei protagonisti e le
continue panoramiche sulle montagne innevate e l’ambientazione in
genere, rimandano a quelle “….montagne della follia” ed al genio
del suo autore, H.P. Lovecraft, padre
incontrastato di certa letteratura fantastica.
Il mondo dei
replicanti – C’era una volta Sigmund Freud che nella
sua opera “Totem e tabù” dichiarava: «l’uomo civile ha barattato
una parte della sua possibilità di felicità per un po’ di
sicurezza» – sicurezza che in Surrogates gli uomini sembrano aver
trovato in macchine che rispecchiano i loro canoni estetici e se ne
vanno in giro in loro vece a vivere la vita, mentre l’operatore,
comodamente rilassato nell’imperturbabilità della propria casa,
controlla ogni sua movenza.
Il mondo dei replicanti: il film
La vicenda prende le mosse
dall’uccisione del figlio del dottor Lionel Canter (James
Crownell), uno dei principali artefici del progetto Surrogates.
Sulle tracce del suo assassino, si mettono i detective dell’FBI
Greer (Bruce
Willis) e Peters (Radha Mitchell) che
indagheranno sui segreti della VSI, azienda produttrice dei
robot-surrogati. In un mondo ormai privo di crimine, una serie
inaspettata di morti di operatori, collegati al proprio surrogato,
desta non poche perplessità, generando psicosi. Si è diffuso un
virus che mette a rischio la vita degli operatori e dei surrogati a
loro connessi. Le vicende del detective Greer si intrecciano con la
sua vita personale, in particolare è in primo piano il
rapporto conflittuale con la moglie Maggie (Rosamund
Pike), ormai intrinsecamente legata a proprio
surrogato.
La donna entra in crisi proprio
quando un malvivente distrugge il suo “replicante”, costringendola
a ritornare alla vita fuori dalla sicurezza di casa sua. Maggie è
così costretta a tornare sulla strada e a mettersi alla ricerca
della verità. In questo mondo di automi, la minaccia non viene da
un altro pianeta. Il nemico non è l’alieno malvagio che vuole
impadronirsi del nostro pianeta (come in “La guerra dei mondi”), il
nemico – in questo caso – è dentro di noi ed è, quindi, più
pericoloso: siamo noi stessi che abbiamo deciso di non vivere la
nostra vita e delegato macchine “perfette”, ma senz’anima, a farsi
carico dei rischi della quotidianità.
Il mondo dei
replicanti diretto da Jonathan
Mostow, è uscito nelle sale italiane l’8 gennaio di
quest’anno ed è subito entrato nella classifica dei primi dieci
film del mese più visti al cinema. Mostow vince al botteghino,
confezionando un buon action-movie adrenalinico, che – tuttavia –
vede nella povertà di spunti introspettivi e nella superficialità
dell’analisi di tematiche antropologiche il suo più grande
limite.
Il vincitore della seconda edizione
del Festival di Roma,
Jason Reitman, si presenta allo stesso pubblico
capitolino con una commedia (Tra le
nuvole) dal gusto vagamente cinico e decisamente
disincantato insieme alla super star George Clooney e a la Vera Farmiga, altra vecchia conoscenza del
Festival per The Departed.
In Tra le
nuvole Clooney è un uomo che si occupa di licenziare
impiegati per conto di altri, viene ‘assoldato’ da diverse imprese
e viaggia nel mondo in aereo, le nuvole sono la sua casa più dello
squallido monolocale che ha come quartier generale a Oahama. La sua
vita è perfetta, niente legami, niente rimorsi, solo una valigia
piccola e compatta dentro la quale con metodo rinchiude tutto il
suo mondo. Tutto questo dura fino a che la minaccia di un progetto
di licenziamenti via internet non lo metterà all’erta, e l’incontro
con una bella viaggiatrice non farà tremare le sue fondamenta di
scapolo impenitente.
Tra le nuvole – recensione del film
di Jason Retman
Scrivendo magistralmente e
dirigendo con la sua personale impronta, Reitman regala un altro
film frizzante e divertente, ben costruito e recitato con
leggerezza. Come già ci ha abituati in passato con
Juno e Thank You for
Smoking, Reitman constuisce la
storia su solide premesse (in genere la presentazine del
personaggio principale attraverso le sue stesse parole) poi
comincia il racconto che per quanto acuto e divertente si possa
presentare non scade mai nel già visto, riservando sempre un finale
a sorpresa che non ci si aspetta e che regala, soprattutto per
questo film, un finale agrodolce, vagamente cinico ma con
l’ottimismo che risiede nel cambiamento e nella redenzione.
Riti magie nere e segrete
orge nel trecento è il film cult del 1973 diretto da
Renato Polselli e vede protagonisti nel cast gli
attori Rita Calderoli, Mickey Hargiay, Consolata
Maschera.
Riti magie nere e segrete orge nel
trecento, la trama
A dispetto del titolo, il film non
si svolge nel trecento ma nel contesto contemporaneo; nei
sotterranei di un castello si compiono numerosi omicidi sacrificali
e riti segreti atti a risvegliare la strega Isabella, morta sul
rogo secoli prima.
Riti magie nere e segrete orge nel
trecento, l’analisi
Polselli, regista prolifero dedito
al genere erotico, si prodiga questa volta verso il l’horror, non
esente ovviamente da contaminazioni del genere a lui caro;
l’elemento “osé” è ora marginale e ora protagonista, in sequenze
sminuite da una vena comica-probabilmente attuata per aggirare la
censura-e di debole impatto visivo.
Riti magie nere e segrete
orge nel trecento, girato nella duecentesca cittadina de
L’Aquila, vive delle suggestioni suggerite dalle ambientazioni
medievali, che si confanno al classico intreccio che muove il film:
streghe e magie tornano dunque a vivere-e morire- all’interno delle
mura del castello abruzzese.
Riti magie nere e segrete
orge nel trecento oscilla tra horror ed erotismo: la
chiave del tutto risiede nel “piacere pazzo che uccide”, frase
emblematica(anche se pronunciata in un contesto recitativo
piuttosto scandente), che giustifica la presenza dei due generi di
cui sopra, i quali vanno a compenetrarsi in maniera piuttosto
equilibrata e talvolta seducente.
Nella trama classica, la mancanza del regista, sta nel momento in
cui egli ricade nei cliché del genere: uomini con ridicoli mantelli
e fulmini a ciel sereno imperano all’interno del film, creando
talvolta momenti che sfiorano il ridicolo; a proposito di ciò non
bisogna dimenticare che la tradizionale trama del La maschera del
demonio, non aveva impedito a Mario Bava di costruire un film
assolutamente innovativo, sia nell’eleganza formale sia nelle
tematiche.
Nonostante tutto all’interno del
film non mancano sequenze seducenti, come il rogo delle donne da
parte degli abitanti del paese, che contribuisce a creare un
continuum tra passato e presente; bisogna inoltre riconoscere
il fascino del montaggio(merito dello stesso regista), che alterna
immagini sacre e profane attuando contrasti visivi
suggestivi, sminuiti però dalla ridondanza con cui viene ripetuto
ed ostentato e dai colori pop che spesso stonano inesorabilmente
con l’ambientazione. Un prodotto tuttavia personale,
sicuramente apprezzato dai fautori del genere.
Riti magie nere e segrete orge nel trecento, curiosità
Curiosità: il film è stato
realizzato nel 1971, inizialmente con il titolo La reincarnazione;
distribuito nelle sale soltanto due anni dopo, pensato per
inserirsi nel genere decamerotico che in quegli anni imperava;
Polselli si firma con lo pseudonimo Ralph Brown; Riti
magie nere e segrete orge nel trecento è conosciuto
anche come The Ghastly Orgies of Count Dracul; La reincarnazion;
Black Magic Rite:Reincarnations; The Reincarnation of Isabel.
Ritrovatasi a vivere in uno
squallido condomino abitato da strani soggetti, Nell comincia
subito ad avvertire qualcosa di strano all’interno del palazzo. Le
persone cominciano a sparire, e sarà proprio lei a rendersi conto
degli omicidi che stanno avvenendo, e ad indagare sulle
sparizioni.
La casa dei massacri –
Analisi
I modelli precedenti sono
chiaramente l’omonimo The toolbox murder (tradotto
in italiano come Lo squartatore di Los Angeles), Non aprite quella
porta, e suggestioni polanskiane derivate da
L’inquilino del terzo piano.
Con il primo condivide
la scelta delle armi dei delitti che danno nome al film; con il
secondo il volto sfigurato dell’assassino e alcune situazioni (mal
riproposte) concernenti i delitti e la vena – vagamente –
splatter; con il terzo alcuni condizionamenti enigmatici e
circostanze misteriose. Peccato che il film risulti essere un
impasto di elementi e di intuizioni sconclusionate fine a se
stesse.
Se da una parte Hopper verte sulla
costruzione di un film a carattere investigativo, seminando indizi
– talvolta – con probabili significati esoterici, richiamando
appunto l’ambiguità del regista di Rosemary’s
baby, dall’altra pare voler tornare sui suoi passi, verso
quel genere slasher e quelle esperienze sanguinolenti che lo
avevano reso noto. Ciò porta evidentemente ad un incoerenza di
fondo: il film non vive né delle – poche -sequenze splatter, né
della suspence che il regista vorrebbe creare tramite le indagini
della protagonista(un’ottima Bettis che purtroppo da sola non
basta).
Il finale de La casa dei
massacri infatti sfiora il ridicolo, laddove non ci
viene effettivamente spiegata la valenza dei simboli che
incontriamo durante il percorso, e insoddisfacente dal punto di
vista prettamente horror. La fotografia quasi televisiva aumenta lo
sgomento che si prova di fronte a tale prodotto: non ci è chiaro a
cosa stiamo assistendo, visto che in ogni caso il film non sembra
procedere lungo una linea coerente e sensata.
Ma le riflessioni del regista si
fanno interessanti per quanto riguarda la scelta
dell’ambientazione: se il Lusman Building era in origine dedicato
ad accogliere star di Hollywood, ora si ritrova ad ospitare falliti
di ogni specie ed enigmatici vecchietti attaccati ai loro piccoli
momenti di gloria (in tal caso Rance Howard, padre del Ron regista
e attore) Hooper sembra meditare sul fascino
della decadenza e del degrado, purtroppo accennando soltanto allo
spunto senza approfondirlo in nessun senso. Lo stesso assassino si
rivelerà un essere in cerca di sangue che lo liberi dal degrado
fisico, metafora forse di molto atteggiamento divistico con cui
vengono solitamente dipinte le stelle morenti del grande schermo.
Ma anche questa riflessione rimane un mero suggerimento per nulla
sviscerato e approfondito ribadendo la natura vaga ed effimera del
film.
L’ultima casa a
sinistra è il film cult diretto da Wes
Craven con protagonista David Hess, Sandra
Cassel e Lucy Grantham.
La trama del L’ultima casa
a sinistra
Mary e Phyllis, nel tentativo di
comprare marijuana si imbattono in un gruppo di psicopatici evasi
dalla galera, che le sottoporranno a violenze e torture prima di
ucciderle. In seguito i fuggitivi si rifugeranno proprio nella casa
dei genitori di Mary…
Analisi
Opera prima del regista Craven,
successivamente riconosciuto per Nightmare – Dal
profondo della notte e Scream,
ispirata dalla pellicola di Bergman La fontana della vergine o il
cult
Le colline hanno gli occhi.
Laddove Bergman ha rappresentato una leggenda svedese,
riportandoci nel contesto medievale, l’intuizione di
Wes Craven nel rimetterla in scena, è stata quella
di attualizzarla -e dal punto di vista formale, e dal punto di
vista contenutistico- pur mantenendone intatta trama e
ambientazione(bosco).
L’opera è ambientata nella realtà
odierna, ma la vera attualizzazione che palesa la distanza
dall’opera originale, sta nella rappresentazione della violenza: è
proprio l’estremizzazione dell’immagine violenta la produttrice di
senso dell’opera e punto nevralgico su cui Wes
Craven fonda le sua riflessioni critiche.
Se è vero che L’ultima casa
a sinistra presenta alcune imprudenze e forzature
nella sceneggiatura, dovute all’inesperienza del giovane regista, è
altrettanto vero che il film ha cambiato le modalità di
rappresentazione all’interno del cinema horror; ma ciò che
conta realmente all’interno del disegno finale, è il rapporto
diretto – confermato poi dalle affermazioni del regista – con
la realtà sociale di quegli anni, tra le vessazioni che si
diffondevano dalla guerra nel Vietnam e la disillusione giovanile
per la fine delle rivolte studentesche.
Le dichiarazioni dello stesso
regista infatti, chiariscono il senso dell’opera filmica: a detta
di Wes Craven infatti, le angherie e le brutalità
poi riportate nel film furono ispirate da un metraggio sulla guerra
in Vietnam.
Quindi laddove la fonte deriva da
un modello preesistente, la riflessione del regista si impernia sul
senso della violenza -propagata poi tramite il film per infondere
un senso di repulsione- legittimata dal contesto storico-culturale
vigente, e lontana dunque da una spettacolarità compiaciuta e fine
a se stessa.
Mentre sta per fare il suo ritorno
nelle sale italiane con Amabili resti…Rachel
Weisz ha accettato di entrare a far parte di
Dream House, un thriller della Universal di cui vi
abbiamo più volte accennato.
Diretto da Jim
Sheridan e scritto da David Loucka, il
film vede Daniel Craig nei panni di un uomo che
con la famiglia decide di fuggire dalla frenesia di New York e di
stabilirsi in una bella casa del New England; una casa che però ha
un passato inquietante che tornerà a perseguitare i nuovi
inquilini.
Rachel Weisz sarà la moglie del personaggio di
Craig, mentre Naomi Watts è confermata nei panni della loro ambigua
nuova vicina di casa. Le riprese avranno inizio il prossimo weekend
in quel di Toronto.
Potrebbe essere Penelope
Cruz la protagonista del nuovo, annunciato lavoro di
Lars von Trier, il “film catastrofico dai
risvolti psicologici” intitolato Melancholia.
Secondo le prime indiscrezioni,
l’attrice spagnola sarebbe stata nel mirino di von Trier fin dalla
fase di ideazione del film – che si dovrebbe girare tra Germania e
Svezia entro la fine dell’anno e che dovrebbe avere già assicurato
un posto a Cannes del 2011 – e avrebbe già ceduto alle lusinghe del
regista.
Il regista danese ha mantenuto
negli ultimi mesi il massimo riserbo sulla trama del film, non
aggiungendo nulla rispetto alle prime dichiarazioni ma limitandosi
a sottolineare, con la consueta provocatoria ironia, che questa
volta nel suo cinema “non ci saranno lieti fine.”
La sequenza presa in analisi è
tratta dal film Across the Universe, in
particolare l’analisi proposta si sviluppa tramite un lavoro
comparativo tra una sequenza del film e un videoclip dei Green Day
Wake me up When September Ends; scopo di tale lavoro è quello di
individuare assonanze tra le immagini di uno e dell’altro prodotto
preso in questione, e nel caso particolare non solo di immagini
mostrate, ma anche di storie raccontate, avvalorando la tesi di una
reciproca influenza tra i due mezzi presi in considerazione mediata
dalla contaminazione reciproca che generi e linguaggi attraversano
e “che va innanzitutto nella direzione di un collage multimediale”
[1]
La scena considerata, quella del
funerale del fidanzato della protagonista Lucy (Evan Rachel Wood),
comincia dall’arrivo della notizia della morte al fronte del
giovane. La sequenza accompagnata da un brano dei Beatles ha un
significato conchiuso che sta a sé esattamente come un video
musicale, e questo per ogni segmento del film. Le canzone in
questione è Let it Be, del 1970 (composta principalmente da Paul
McCartney anche se viene come da consuetudine attribuita al duo
compositivo Lennon/McCartney), alla quale sono accostate le
immagini prima di Lucy sconvolta e scene di guerriglia urbana nelle
quali si nota un ragazzino cantare e poi le scene montate in
parallelo di due funerali, quello del giovane marines, e quello del
bambino di colore visto cantare in precedenza, in qualche modo
legato ad un atro protagonista del film, Jojo.
Il videoclip, diretto da Michael
Perlmutter, racconta invece la vicenda di una giovane coppia che
viene separata dalla decisione di lui di rispondere alla chiamata
dello Zio Sam. La canzone del gruppo statunitense, malinconica, che
parla di memoria e ricordi e di tempi felici passati troppo in
fretta, viene raccontata proprio con la storia dei ragazzi che
all’inizio sono felici insieme e poi separati dalla guerra.
Anche se non è detto che la storia
del video finisca come quella del film (la canzone, e con essa il
video, finisce prima che possa finire anche la storia raccontata),
notevole è l’impronta che il primo, del 2005, ha lasciato nel
secondo, del 2007. E’ impossibile non ricordare il primo guardando
l’altro sia per la presenza, non trascurabile, di Evan Rachel Wood,
che interpreta entrambi, sia per tutto il bagaglio tecnico che i
due prodotti hanno in comune. Oltre all’evidente adozione, in
entrambi i casi di un montaggio parallelo, straordinario è il
lavoro sulla fotografia, calda e luminosa nelle scene gioiose per
entrambi, tendente al verde e decisamente più cupa nelle scene di
guerra. Non può esserci esempio più chiaro di come due generi, che
dovrebbero parlare lingue diverse su supporti diversi, riescono
invece a darsi mutuo soccorso per uno sviluppo di entrambi verso
nuove forme espressive, il cinema usando il digitale e il
compositing a tratti esasperato, il video adottando una narrazione
di eventi ed uno stile registico tipicamente cinematografici.
Il collage multimediale di cui
sopra è proprio questa mescolanza, questa contaminatio che si
verifica sempre più di frequente, e che in film musicali, quali
Across the Universe, non può fare a meno di essere debitrice del
genere più prossimo al musical, il videoclip. Molteplici infatti
sono gli esempi di registi che passano dall’uno all’altro genere,
tra i più disinvolti sicuramente Michael Gondry, e con risultati
eccellenti, vedi il piccolo gioiello Eternal Sunshine of the
Spotless Mind[2]. Tuttavia in questo caso, i numeri musicali
prendono il sopravvento su tutto, addirittura sulla (debole) trama
che li attraversa. Il film si riduce ad essere un percorso, la
presentazione di un momento nel suo svolgersi, nella sua
immediatezza. Al contrario di Garrone che in Primo Amore elimina,
come fa il suo protagonista, tutto il superfluo fino a raggiungere
ciò che è davvero importante, quasi un’operazione beckettiana di
sintesi e straniamento dalla concretezza del proprio essere, qui la
regista Julie Taymor, lavora per accumulo, realizzando “un film
visionario e psichedelico raccontato dai Beatles, i cui testi
acquisiscono nuova linfa, con uno sguardo al passato e uno al
presente”[3].
Il musical moderno, diverso dai
molteplici made in MGM degli anni ’40 e ‘50, consente questo lavoro
di accumulo, ma difficilmente si riesce a trovare l’armonia tra
musica ed eccessi grafici e scenografici, come invece accade con
splendente efficacia in Moulin Rouge (2001 di Baz Luhrmann). A
giustificare lo slegamento dei segmenti in Across the Universe può
intervenire, solo in parte, l’ingombrante (perché celebre) colonna
sonora che sovrasta storia ed interpretazioni.
Il tipo di rapporto dialettico che
il film istaura con il videoclip sta alla base della contaminazione
tra i generi, e qui non si parla più in maniera ristretta di generi
cinematografici, ma si ci riferisce appunto ai diversi generi di
intrattenimento/media che vengono proposti e si moltiplicano grazie
proprio all’introduzione del digitale e al nuovo e ampissimo
ventaglio di possibilità che una mente fantasiosa riesce a
concepire.
Si tratta dunque di uno
snaturamento del mezzo cinematografico oppure di un completamento,
come dichiara Metz, della sua intrinseca natura onirica? Guardando
ad Across the Universe si direbbe che sebbene la contaminatio sia
un mezzo espressivo produttivo, restano comunque ben definiti i
campi per ogni singola manifestazione artistico –comunicativa, cioè
esistono, nonostante la labilità dei confini tra gli uni e gli
altri, ambiti riservati alle storie da cinema, raccontate per il
cinema, e invece ambiti, non meno validi, che si prestano a
raccontare, come per la storia dei Green Day, un breve stralcio che
può avere o meno uno sviluppo di spazio e tempo insieme ad un senso
compiuto, come può essere un cortometraggio o un videoclip.
[1] G.D. Fragapane, Tra Fotografia
e Cinema. Nuovi spazi nell’era digitale in Passages, drammatugie di
confine a cura di A.Ottai pag. 6.
[2]Brutalmente tradotto in italiano
con Se mi lasci ti cancello con due protagonisti eccezionali, Jim
Carrey e Kate Winslet che ha ricevuto una nomination all’Oscar come
miglior attrice protagonista. Il film ha inoltre vinto una
statuetta per miglior sceneggiatura originale.
[3] Mattia Nicoletti in
http://www.mymovies.it/dizionario/recensione.asp?id=49437
Buone notizie per i fan della saga di Ghostbusters. Intervistato
da MTV, il veterano Ivan Reitman ha confermato che sarà lui a
dirigere Ghostbusters 3, il terzo episodio
della saga di Ghostbusters.
Ivan non ha voluto entrare nel merito della storia, che secondo
le ultime voci vedono il vecchio team di Ghostbusters fare da
mentori a dei ragazzi volenterosi, ma ha detto che gli
sceneggiatori Lee Eisenberg e Gene Stupnitsky sono già al lavoro su
una seconda stesura. A suo parere, la prima conteneva già trovate
“molto fighe”.
Se tutto va bene, le riprese del terzo Ghostbusters 3 sono
previste per l’anno prossimo.
Dopo anni di attesa
Ghostbusters 3 è stato finalmente ufficializzato,
ma ciononostante sono ancora molti i dubbi intorno a questo sequel.
A rivelare oggi qualche informazione in più è Sigourney Weaver, che
nel pieno della promozione di Avatar ha risposto anche a qualche
domanda riguardante Ghostbusters, mostrando un mix di scetticismo e
entusiasmo.
Leggiamo quindi le dichiarazioni
della Weaver prima di commentarle:
Temo proprio che il film si farà.
Spero che la gente sia contenta. Non so se ne farò parte, ho
ricevuto un paio di telefonate per leggere lo script. So che il
figlio del mio personaggio, Oscar, che avevo rapito, è cresciuto
diventando uno dei nuovi Ghostbusters. Potrei partecipare, non ci
vedo niente di sbagliato anche se non penso che avrei una grande
parte. Penso invece che Bill Murray ne abbia a che fare di più,
sapete, potrebbe essere un fantasma.
Harold Ramis parla di Ghostbusters
3, il terzo film sugli Acchiappafantasmi, spiffera qualche novità
sul cast e racconta un episodio legato al suo personaggio, Egon… E’
il momento giusto per fare più domande possibili alle star di
Ghostbusters riguardo a Ghostbusters 3: sta
infatti uscendo il Blu-Ray del primo film e tra poco arriverà il
nuovo videogame, e quindi sembrano tutti molto disponibili a
parlare del nuovo film, il cui script – ad opera di Lee Eisenberg e
Gene Stupnitksy – sta per essere ultimato. Tenendo conto che su
questo script dovranno dire la loro (approvandolo) Bill Murray,
Harold Ramis, Ivan Reitman, Dan Aykroyd e la Sony/Columbia, ecco
che le cose si fanno più delicate. Per fortuna sembra che siano
tutti interessati a riportare sul grande schermo la serie, in
particolare Harold Ramis, che così ha detto a Comingsoon.net:
Io ho scritto la storia del nuovo
film assieme a Lee Eisenberg e Gene Stupnitksy. Io e Dan Aykroyd
abbiamo fatto da consulenti per la storia. Stiamo aspettando di
vedere la prima bozza e capire a che punto siamo. Tutti (compresi
Bill Murray e Ernie Hudson) vogliono tornare sul set, hanno tutti
detto che lo faranno. Nessuno di noi ha firmato un contratto per
ora – nessuno di noi – ma lo spirito è quello di fare davvero
qualcosa.
Ramis ha parlato anche del suo
personaggio, Egon, a Empire, raccontando quella che potrebbe essere
una scena del film:
Mi interessa molto l’idea di dove
sia finito Egon. Ha lavorato all’Istituto Internazionale della
Scienza Immaginaria a Ginevra. Ha sviluppato una logica
post-razionale, non-conclusiva per poter ragionare sui problemi del
caos. Qualcuno gli chiede “cosa significa?” e lui risponde: “Non ci
sono modelli spaziali, concettuali o intellettuali per descriverlo,
quindi non lo sappiamo.” Egon è diventato una persona astratta: non
sa neanche lui cosa sta facendo!
Sempre nello stesso articolo,
riportato da Slashfilm, Dan Aykroyd spiega di sperare che Alyssa
Milano interpreti nel film lo stesso personaggio introdotto nel
nuovo videogame (e da lei doppiato), cioè la Dottoressa Ilyssa
Selwyn, descritta come “un personaggio legato a una storia
d’amore”, e aggiunge che anche Eliza Dushku dovrebbe far parte del
cast.
Dan Aykroyd parlando di Ghostbusters
3 a confermato il ritorno anche di Sigourney Weaver
nel cast, inoltre vuole che ci siano anche Alyssa Milano e Eliza
Dushku, e pensa a Harold Ramis come regista…
L’attore ha spiegato che la Sony sta premendo l’acceleratore sul
progetto, e si sbilancia parlando anche di riprese: “Penso che
inizieremo a girare molto presto, forse già in inverno”. Ma per
girare un film servono un regista e un cast: sembra che la Sony
stia facendo di tutto per ottenerli piuttosto in fretta. Ivan
Reitman, regista dei primi due film, non potrà partecipare perché è
“troppo impegnato nel ruolo di mega-produttore di film”, ma c’è una
buona possibilità (almeno per quanto riguarda i desideri di
Aykroyd) che sia Harold Ramis a dirigerlo. Ramis ha appena girato
Anno Uno, commedia comica scritta proprio dagli sceneggiatori di
Ghostbusters 3: “Ha un mucchio di cose in ballo, ma sarebbe
grandioso vederlo lavorare a questo film.”
American Prince/American
Boy: a Profile Of Steven Prince; è questo il titolo
completo del documentario evento della IV edizione del Festival
internazionale del film di Roma per la sezione L’altro cinema –
Extra diretta da Mario Sesti.
L’hanno ribattezzato il film
‘perduto’ di Martin Scorsese, un omaggio all’amico
Steven Prince che ebbe una piccola parte in
“Taxi Driver”. Tutto parte nel lontano 1978 quando
Scorsese gira un lungo documentario, “American Boy: A profile of
Steven Prince”, un’interminabile nottata hippy in cui Steven
racconta la sua vita di eccessi, sospesa tra anfetamine, alcool,
donne e loschi figuri.
Di lì il silenzio, durato oltre
trent’anni ed oggi l’opera nascosta del regista italo-americano,
che fece di Prince un’icona pop a cui anche Tarantino si sarebbe
ispirato in “Pulp Fiction” (nella scena in cui una Uma
Thurman in overdose si risveglia grazie ad un’improvvisata
iniezione di adrenalina), viene riportata alla luce da Tommy
Pallotta, che ne riprende il viso in primo piano dopo tanti anni,
ma che tutto sommato non sembra poi così cambiato, esclusi i
capelli bianchi e un pò di rughe; al tempo nemmeno uno stravagante
come lui può sfuggire. Il nuovo documentario alterna alle
testimonianze di oggi alcune immagini di ieri dirette da un
Martin Scorsese ben vestito, dalla barba lunga e i
capelli gellati.
Il risultato è un viaggio nella
vita di Prince che a tratti sembra la copia spudorata di una
sceneggiatura, che ha nell’incredibile il suo forte e nella
“fottuta fortuna” del protagonista il surreale. Se non fosse
che non è una sceneggiatura e quella non è una vita inventata.
Seduto alla poltrona, bevendo un bicchiere di vino dopo l’altro il
protagonista affronta i meandri della mente rievocando il suo
passato sostenendo che la vita va presa al volo e che l’oggi è più
importante del domani. Il tutto con la stessa follia e la stessa
spensieratezza del Prince di Scorsese, come se in qualche modo il
trascorrere del tempo non lo abbia nemmeno sfiorato.
L’incredibile viaggio della
Tartaruga – Una piccola tartaruga marina segue la via dei
suoi antenati lungo uno dei più straordinari viaggi del mondo
naturale. Nata su una spiaggia della Florida, segue la Corrente del
Golfo fino ai ghiacci del nord e nuota attraverso l’Atlantico del
Nord, fino all’Africa, per poi fare ritorno alla spiaggia su cui è
nata a deporre le proprie uova. Lungo il tragitto, non mancano le
scoperte – l”oceano sta attraversando profondi cambiamenti
provocati dallo scioglimento dei ghiacci – e le difficoltà: solo
una tartaruga marina su mille riesce a sopravvivere a questo
incredibile viaggio.
E’ questa la storia che ha dell’incredibile
considerato il suo percorso pieno di insidie. Presentato al
Festival di Roma 2009 nella sezione Alice nelle
Città, L’incredibile viaggio della
Tartaruga, un documentario diretto da Nick
Stringer, e prodotto da Austria e Regno Unito, il film si
presenta sin dalle prime battute come un occhio esplorativo verso i
più incredibili dettagli che la macchina da presa può catturare
fino ad arrivare ai spettacolari fondali oceanici che illuminano di
blu e azzurro la sala di proiezione. Il tutto seguito sotto
l’algida guida di una piccola tartarughina che compie il viaggio di
tutta una vita fino a ritornare da dove è partita per deporre le
uova, così chiudendo il ciclo naturale degli eventi.
L’incredibile viaggio della
Tartaruga
Per le riprese di
L’incredibile viaggio della Tartaruga sono
occorsi 5 anni. La voce narrante italiana è affidata a Paola
Cortellesi, in originale è di Miranda Richardson. Un doc
meraviglioso diretto con pazienza ed senso del racconto, che andrò
dritto fino al cuore degli appassionati e dei più piccoli.
Vita morte e miracoli degli agenti
pubblicitari della Sterling Cooper, agenzia newyorkese ove nascono
e si sviluppano amori, tradimenti, conflitti, accordi e disaccordi:
dalla doppia vita di Don Draper alla scalata sociale di Peggy Olsen
e sullo sfondo l’America di Kennedy e Nixon.
L’analisi della prima
stagione di Mad Men
Dopo la collaborazione con I
Soprano, Matthew Weiner torna alle prese con le serie
televisive, ideando un prodotto che si discosta dalle produzioni
più attigue: partendo da una macrostruttura di base, la serie di
Weiner crea micro vicende e gestisce una serie di personaggi che in
soli 13 episodi acquistano un notevole spessore. Le storie dei
personaggi sono ricondotte all’interno dell’agenzia pubblicitaria
Cooper, che a sua volta è incastrata all’interno del sistema
socio-economico che regola i rapporti e le vicende stesse: ogni
movimento compiuto dai protagonisti è il riflesso del processo
evolutivo in atto nell’America negli anni ’60.
L’impianto corale è ricostruito in
primo piano con uno sfondo che richiama continuamente i movimenti
americani, come la campagna elettorale e la lotta per la presidenza
tra Nixon e Kennedy. La grande forza della serie sta nell’acuta
ricostruzione dell’ambiente e delle vicissitudini della società
americana in quegli anni, riprodotta in maniera minuziosa
attraverso lo sviluppo di personaggi che incarnano vizi e virtù
della società. Mad men si colloca nel passaggio tra l’entusiasmo
per il sogno americano e il completo fallimento dei personaggi che
lo inseguono; riflesso dunque della disillusione prodotta
dalla caduta dei miti su cui l società si fondava. L’ american way
of life e l’idea di una famiglia in stile spot pubblicitario, sono
completamente spazzate via dalle nevrosi e dalle reali insicurezze
che caratterizzano i protagonisti.
Un punto di la svolta decisiva per
la cultura americana
La serie tv si pone dunque in un
punto che è la svolta decisiva per la cultura americana: se da una
parte abbiamo la tendenza dei personaggi al perfezionismo maniacale
a alla cura delle apparenze, residuo di quella mentalità bigotta
destinata a subire un tremendo scacco, dall’altra abbiamo in
contrasto la liberalizzazione della sessualità e la nascita dei
costumi e della cultura hippie, in cui Draper si imbatte e si
scontra inevitabilmente. Da un lato Betty Draper, moglie di un
agente pubblicitario di successo, impeccabile nella sua immagine e
nel suo ruolo di madre e moglie, frutto di quella tendenza al
perbenismo forzato che causa ansie spasmodiche e conflitti
interiori; dall’altro l’amante dello stesso Don, personaggio
dedotto dai movimenti femministi e dalla deregulation dei costumi
sessuali, che verso la fine degli anni sessanta muovono i primi
passi.
Ma il vero personaggio che meglio
incarna le critiche ai ruoli cui la donna è costretta – nonché
personaggio complesso e magistralmente dipinto – è Peggy Olsen,
che, determinata e conscia della sua intelligenza, riesce ad
ottenere ruoli all’interni della compagnia, che fino ad allora
erano riservati soltanto agli uomini. Vero protagonista della
storia, personaggio in conflitto con se stesso e con la realtà
circostante, che incarna lo spaccato cui la società sta andando in
contro, è Don Draper, in bilico tra l’accettazione della morale
americana e il netto rifiuto di questa; egli che rinnegando il suo
passato ha rinnegato quel pezzo di storia che ha contribuito alla
nascita di questo stile di vita tanto ambito; egli che in continua
fuga dall’asfissiante vita famigliare ogni volta vi fa ritorno
frustrato dal tedio e da un’inesauribile insoddisfazione
personale.
Inevitabile il drammatico scacco
subito – e da Draper in primis e dai co-protagonisti in maniera non
meno grave – nel finale delle serie: scacco necessario che spazza
via in maniera drastica i falsi valori su cui si poggiano le
certezze della società, creando un punto di svolta che parte dal
tacito nonché ineluttabile e fatale fallimento corale.
Videocracy – Basta
apparire è il film del 2009 diretto da Erik Gandini: “Lo
spettacolo è il Capitale a un tal grado di accumulazione da
divenire immagine”
Videocracy – Basta
apparire, la trama: Il film documenta alcuni aspetti
della tv italiana, delle reti mediaset, i provini e i tentativi
compiuti da un ragazzo per diventare un’icona dello spettacolo
televisivo. Vengono raccontate le vicende del fotografo/ricattatore
Fabrizio Corona e dello scopritore di talenti Lele Mora.
Videocracy – Basta apparire,
l’analisi
Videocracy – Basta
apparire è un invisibile. Ha avuto un passaggio al
festival di Venezia, e ci si aspetterebbe ora di vederlo
regolarmente distribuito per le sale del nostro paese. Non è così.
I cinema che lo proiettano attualmente nella Capitale, nel giorno
in cui scrivo (3 ottobre 2009) sono appena due.
Perché, dunque, questo film è un
“invisibile”? Presto detto. Il film parla di qualcosa che scotta:
il potere delle immagini, e nello specifico delle immagini
televisive. Insomma, della videocrazia. Ragioni sufficienti per far
sì che tanto mamma RAI quanto Mediaset si siano rifiutate di
mandare in onda il trailer del film, e adesso sono poche le sale
che lo proiettano.
Del resto, è normale che dia
fastidio un film che si scaglia contro il mondo delle immagini in
particolare televisive e sul potere che esse esercitano nei
confronti di: a) un qualsiasi giovane della provincia italiana che
sogni una carriera al di là del tubo catodico; b) vip quando sono
fatti oggetto di gossip e dunque ricattabili; c) tutti, dal
produttore di programmi televisivi al fruitore degli stessi.
Di questo meccanismo perverso,
dello strapotere delle immagini, qualcuno ha saputo approfittare:
il fotografo Fabrizio Corona, la cui vicenda di
ricattatore dei vip tramite immagini compromettenti viene
raccontata nel film. Corona si autodefinisce come moderno Robin
Hood che ruba ai ricchi per dare a se stesso. E c’è poi
Lele Mora, lo scopritore di talenti amico di
Corona, nonché dell’attuale premier, che mostra orgoglioso il suo
telefonino con immagini di croci celtiche, fasci littori, e in
sottofondo l’mp3 di “Faccetta nera”. È un uomo di potere, di
crazia, anzi della videocrazia, del governo delle immagini: per
diventare/essere una persona di strepitoso successo in televisione
occorre conoscerlo.
Per essere invece una presentatrice
del meteo di Rete4, quello successivo al tg di Emilio Fede, occorre
passare per il “Billionaire”, la discoteca di Flavio Briatore. E ci
sono poi i provini per le veline della trasmissione “Striscia la
notizia”…
In Videocracy – Basta
apparire diretto dal bergamasco esule in Svezia Erik
Gandini c’è tutto questo e anche altro. Vi si mostra infatti con
chiarezza come le immagini, e in particolare le immagini della
televisione dei nostri tempi siano non solo uno strumento di
condizionamento per le masse e i singoli aspiranti divi televisivi,
ma anche per coloro che divi lo sono già. Lo spettacolo,
parafrasando Debord, è un insieme di relazioni che si costruiscono
a ogni livello della nostra società, e che dette relazioni sono
influenzate dalle immagini che la videocrazia propone impone
dispone.
Tutto insomma è determinato dalle
immagini. Invadenti. Sfacciate. Suadenti. Quando seducono
l’everyman con la promessa di paradisi concreti, immanenti,
ultraedonistici, del warholiano quarto d’ora di celebrità.
Le reti televisive esercitano
dunque un potere che manipola le coscienze instillandovi i propri
sogni di edonismo. Di questo potere gli ambasciatori sono in Italia
sia la RAI, ma specialmente Mediaset, il cui fondatore e azionista
di maggioranza è l’attuale capo del governo Silvio Berlusconi,
l’uomo politico che incarna al meglio il legame tra le immagini e
il potere, attraverso l’uso che ha fatto e continua a fare di
entrambe.
Le immagini del film sono non di
rado sgranate o altre volte comunque sporche, pastose, usurate,
come se ci trovassimo a riprendere con una telecamera ciò che passa
sullo schermo televisivo. Mi viene di accostare le immagini
sgranate ai “retini” in bella vista dei fumetti giganti di
Roy Lichtenstein, stadio primordiale della vita delle immagini, e
le immagini sporche e usurate a quelle di Warhol: immagini già
passate, fagocitate dallo/sullo schermo, digerite e instillate nel
cervello dell’everyman spettatoriale.
Videocracy – Basta
apparire di Gandini tocca dunque dei temi scottanti, coi
quali è necessario fare i conti, ma purtroppo alla sua operazione
(che comunque, ripeto, è lodevole nella scelta dei temi e per la
chiarezza con i quali essi sono esposti) manca una maggiore
quantità di mordente, o la volontà di addentrarsi in maniera più
profonda in quelli che sono i meccanismi profondi che reggono tutto
lo strapotere mediatico di cui si parla nel film, quali sono le sue
dinamiche al di là di quei casi narrati nel film e che al pubblico
italiano sono già tristemente noti (Corona, Mora, etc).
Il colore del melograno
(Sayat Nova) (Brotseulis kvaviloba-Sayat Nova) è il film
del 1968 diretto da Sergej Paradjanov
“Nel tempio del cinema vi sono immagini, luci, realtà.
Paradjanov
È stato il maestro di questo tempio.” Jean-Luc Godard
Il colore del melograno
(Sayat Nova)
(Brotseulis kvaviloba-Sayat Nova) Anno: 1968 Diretto da: Sergej Paradjanov Con: Sofiko Chiaureli, Melkon Aleksanyan, Vilen
Glastyan, Georgi Gegechkory.
Sinossi: Il film è
la biografia di Sayat Nova, poeta armeno del XVIII secolo, ma la
sua vita non è qui raccontata in maniera tradizionale, bensì
attraverso dei tableaux che ne rievocano in maniera metaforica e
surreale le varie fasi: infanzia e adolescenza, servizio del
principe e amore proibito per la di lui figlia, convento e morte
per mano dei soldati persiani di Agha Mohammed Khan.
Analisi: Ci sono
molti modi per raccontare una storia. E poi, chi dice che al cinema
si debbano solo raccontare delle storie o raccontarle in un certo
modo? Si pensa, per tradizione consolidata, a un film che sia
articolato come racconto, come prosa narrativa. Ma ci sono anche
film che ricordano più le enciclopedie (Greenaway), e c’era chi,
come Pasolini, tra il ’65 e il ’71 parlava di un cinema di
poesia.
Il colore del melograno
Questo film del georgiano di origini armene Sergej Paradjanov è
probabilmente un esempio di cinema di poesia.
Sayat Nova è considerato il
maggiore poeta armeno (ma si dovrebbe piuttosto parlare di “ashug”,
qualcosa di simile a un trovatore), e il film si ripropone di
visualizzarne (più che narrarne) la vita facendo ricorso al
simbolismo e alla metafora, utilizzando, cioè, dei procedimenti
tipici del linguaggio poetico.
In una delle prime sequenze vediamo
il poeta bambino che, affascinato dai libri, ne dispone a centinaia
sui tetti di un convento, per poi su questi stessi tetti
distendersi e spalancare le braccia come in una crocifissione: è
già una prefigurazione metaforica del suo futuro martirio. Ancora,
vedere la mano di Sayat Nova bambino “schiacciata” tra due libri
mentre un prete gli raccomanda di leggere per la gente, è il
correlativo oggettivo della poesia come missione e come
fardello.
Quando, nella prima parte del film,
ci viene mostrata l’infanzia di Sayat, essa è introdotta da una
didascalia con una citazione del poeta, che recita: “Dai colori e
dagli aromi di questo mondo, la mia fanciullezza trasse una lira da
poeta, e me la offrì”. I riti religiosi, il lavoro dei tintori e
quello dei monaci bibliotecari, il riposo nei bagni pubblici:
tutto ciò è mostrato come manifestazione del mondo coi suoi colori
agli occhi del poeta bambino.
Per tutto il film, Paradjanov ci
mostra direttamente “i colori e gli aromi” di quel mondo fisico che
dovette alimentare l’ispirazione poetica di Sayat Nova, e lo fa
senza utilizzare una logica discorsiva o narrativa in senso
classico, preferendo piuttosto fare poco ricorso alla parola e
tentando di dare corpi e immagini visive a quelle sensazioni che la
poesia può evocare.
Anche l’amore tra il poeta e la
figlia del principe è reso in chiave simbolica, attraverso sguardi
e gesti ripetuti lentamente come in un rituale, così come la morte
del poeta (che avvenne per mano di soldati persiani), è resa
attraverso una sequenza di gesti e l’immagine di Sayat disteso sul
pavimento attorniato da candele su cui scendono dei galli che
svolazzando si bruciano.
Ho scritto più sopra “rituale”. È questa l’impressione dominante
che si ha quando si guarda questo film: quella di trovarsi di
fronte a un rituale in cui ogni gesto sembra ispirato da un
processo profondo, ogni azione è in sé altamente simbolica di una
qualche altra realtà che la precede, e il gesto fisico è
spiritualizzato.
Ciò avvicina la modalità di
rappresentazione di questo film a quella del teatro No giapponese,
mentre le inquadrature, frontali e a macchina da presa fissa,
sembrano riportare alle illustrazioni medioevali piatte e senza
prospettiva, in cui corpi e oggetti sono collocati in una
dimensione altra, in uno spazio non percepibile, come sospeso e
onirico.
Non stupisce che un film del
genere, in cui domina una componente spirituale e un approccio
surreale alle tradizioni culturali del popolo armeno, sia
dispiaciuto, alla sua uscita, ai burocrati e ai potenti di quella
che allora (1968) si chiamava URSS. Il governo sovietico (che
obbligò tra l’altro il regista a modificare il titolo originario
“Sayat Nova” in Il colore del melograno) esercitò
infatti notevoli pressioni sull’artista Paradjanov, accusandolo di
aver deviato enormemente dai canoni del realismo socialista, per
poi condannare anche l’uomo a cinque anni in un campo di
riabilitazione con l’accusa di omosessualità e furto. Contro la
condanna si mossero alcuni artisti e colleghi registi, e Paradjanov
fu liberato, ma gli fu negato, per alcuni anni, di dirigere altri
film.
Attualmente, Il colore del
melograno amatissimo per la sua forza visionaria da molti
cineasti tra cui Fellini e
Tarkovskij, è difficilmente reperibile, fatte
salve le edizioni in DVD della Ruscico e della Kino.
Forse che agli artisti che in vita
hanno scontato l’oppressione della censura e le pressioni dei
burocrati, tocchi anche affrontare, dopo morti, la beffa di un
mercato che si dice libero e invece ha vincoli particolarmente
restrittivi?
Allora quest’opera, come altri
invisibili, sconta lo stesso destino del poeta bambino, consapevole
che la poesia è bellissima missione, ma anche fardello e martirio,
e conferma che i veri poeti, anche quelli dello schermo, sono
quelli scomodi anche dopo tanto tempo.