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L’Evocazione – The Conjuring causa problemi legali alla Warner Bros

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Nonostante abbia garantito alla Warner Bros un nuovo franchise di successo che si sta già replicando con un sequel attualmente in fase di riprese, L’Evocazione – The Conjuring, horror del 2013 firmato da James Wan, è stato anche la causa di qualche grattacapo per lo studio al momento alle prese con una denuncia.

Si tratta dei proprietari della casa in cui è stato in parte girato il film (Harrisville, Rhode Island), Gerald Helfrich e Norma Sutcliffe, che hanno citato in giudizio la WB per dei problemi con fan un po’ troppo accaniti che hanno addirittura assediato la proprietà privata circostante all’abitazione, quasi si trattasse di una meta di villeggiatura.

I proprietari hanno addirittura parlato di minacce di violenza fisica e violazione di proprietà privata da parte di queste persone evidentemente non troppo tranquille.

A dare la notizia ufficiale è EW che però non riporta alcuna replica ufficiale da parte della Warner Bros.

Fonte: Entertainment Weekly

L’Evocazione The Conjuring Trailer inedito!

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L’Evocazione The Conjuring Trailer inedito!

L'evocazione-the-conjuring-trailerArriva da CS.net il nuovo Trailer dell’atteso L’Evocazione – The Conjuring del regista James Wan (Saw e Insidious). Protagonisti del film  e Patrick Wilson, in quello che potrebbe essere il Thriller/Horror dell’estate prossima. 

L’Evocazione The Conjuring sbanca il Box Office USA

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L’Evocazione The Conjuring sbanca il Box Office USA

L’Evocazione The ConjuringSorprendente successo al Box Office USA per l’atteso nuovo film del regista di SawJames WanL’Evocazione  The Conjuring. La pellicola scalza dalla prima posizione l’invincibile Cattivissimo Me 2 e segna un’apertura importante di ben 41,5 milioni di dollari con cui si assicura il primo posto di questo week end. Ma non è tutto, il film riesce a battere anche la nuova uscita Turbo, altro film d’animazione che in genere hanno la meglio sul box office negli USA.

Protagonisti del film L’Evocazione The Conjuring ci sono  Patrick Wilson

La pellicola doveva uscire a Gennaio, ma la Warner Bros ha deciso di spostarlo in estate negli USA, il 19 Luglio 2013 mentre da noi come già detto arriverà il 21 Agosto.

Trama: ispirato a eventi realmente accaduti, L’Evocazione The Conjuring racconta la storia degli investigatori Ed e Lorraine Warren, chiamati ad aiutare una famiglia per liberare la loro casa da una presenza maligna. Il demone contro cui si troveranno a combattere terrorizza gli stessi Warren, che dovranno affrontare il caso più inquietante della loro vita.

Tutte le foto del film:

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L’Eterno Incompreso: qualunquismo e sfortuna critica nel Luciano Salce impegnato di Colpo di stato

qualunquismo s. m. [der. di (Uomo) qualunque (v. oltre)]. – 

1. Movimento politico, promosso dal commediografo e pubblicista Guglielmo Giannini (1891-1959) con il giornale L’Uomo qualunque fondato nel 1944 e con il libro La folla del 1946: caratterizzato da una polemica sfiducia nelle istituzioni statali e nei partiti politici, e da una tendenza sostanzialmente conservatrice, è durato in vita fino al 1948. 

2. L’atteggiamento, morale e politico, polemico nei confronti dei partiti politici tradizionali in nome di una gestione tecnocratica e non ideologica del potere, assunto dai promotori e sostenitori del movimento qualunquista. Per estens., con valore spreg., atteggiamento di generica svalutazione di qualsiasi impegno ideologico e politico.[1]

 

In base alla definizione fornita dal vocabolario Treccani, un qualunquista è sicuramente un individuo critico nei confronti delle istituzioni politiche canoniche, verso le quali nutre un profondo e amareggiato rapporto di sfiducia che spesso trascende fino a trasformarsi in reazionario disprezzo dai tratti conservatori, indirizzato verso quelle ideologie che un tempo sosteneva.

Dal punto di vista della stampa critica – di settore o generalista – c’è sempre stata un’innata tendenza a marchiare a fuoco con la “Q” scarlatta del qualunquista della prima ora personalità appartenenti al mondo dell’industria culturale: personaggi distanti tra loro per interessi, sensibilità, gusti e scelte in ambito artistico e personale, ma sicuramente accomunati da una caratteristica, ovvero la scelta di non scegliere (almeno, a livello politico) di schierarsi con nessuno dei due macro- blocchi che si contendevano le aree d’interesse del mondo intero, calato in un sistema manicheo e bipolare all’insegna della guerra fredda.

Luciano Salce fu tra i registi che più subirono la condanna unanime – e senza redenzione o pentimento – da parte della critica nostrana, troppo presa dall’eterno dialogo “a due” tra partiti diversi come Dc (Democrazia Cristiana) e Pci (Partito Comunista Italiano); in un contesto del genere, dove ogni “artigiano del cinema” doveva, in qualche modo, allinearsi con una delle due parti per poter continuare a realizzare prodotti culturali, senza ricevere piogge d’accuse acide da entrambi gli schieramenti, Salce fece la scelta più folle: decise di ridere di tutto e di tutti, senza allinearsi, risultando indigesto agli occhi della critica centrista come di quella spostata a sinistra.

A parte alcune pellicole, che riabilitarono il suo nome agli occhi della critica e del pubblico (come, ad esempio, Le ore dell’amore, Ti ho sposato per allegria oppure Fantozzi seguito da Il secondo tragico Fantozzi) per tutto il resto della sua produzione vale, ancora oggi, una sorta di crudele damnatio memoriae che ha relegato il suo nome alla schiera dei registi minori, incapaci di elevarsi dalla semplice produzione di prodotti in serie, film destinati ad intrattenere il variegato pubblico delle sale di terza visione.

Ricostruire una genealogia critica che spieghi per quale ragione, ma soprattutto quando, per la prima volta il termine “qualunquismo” è stato associato alla vita e alle opere di Salce non è così semplice, perché non comporta la possibilità di seguire un iter lineare già tracciato: le sue alterne fortune hanno spinto la sua carriera – e il suo interesse verso il cinema – a viaggiare parallelamente con la grande crisi collettiva che si abbatté prima sulla società italiana, delusa dal repentino boom economico attraversato durante i favolosi sixties, e in seguito anche sull’industria del cinema, riflesso del malessere collettivo dilagante.

Che si tratti di pochade teatrali, adattamenti modulati da celebri pièce, opere di satira sociale o fanta- politica, la critica ha sempre condannato il disimpegno mostrato dal regista, il suo humour molto anglosassone, così tagliante e cinico, condannando irrimediabilmente questa sua volontà e riducendola ad una superficiale forma d’analisi degli usi, dei costumi, dei vizi e delle virtù (poche) degli italiani.

Se i suoi primi film, realizzati una volta approdato in Italia dopo il periodo brasiliano durante il quale ebbe modo di approcciarsi per la prima volta alla materia audiovisiva, sono già all’insegna di questa condanna da parte di alcuni filoni critici, è con l’avvento del 1969 che realizza una pellicola, destinata ad avere sul pubblico e sulla critica lo stesso impatto fisico ed emotivo che provoca una molotov lanciata in Chiesa la Domenica: dirige Colpo di stato, il suo film più politico, per la prima volta impegnato (nonostante il disimpegno di fondo, ma la materia trattata era di natura politica), il film subisce condanne unanime da parte di entrambi gli schieramenti politici e perfino il pubblico, perfino quello zoccolo duro costituito da accaniti cinefili frequentatori delle sale d’essai, rifiuta il prodotto finale.

La sua colpa? La scelta di prendersi piacevolmente – e cinicamente – gioco delle elezioni politiche, degli italiani al voto, dell’eterna lotta impari tra Dc e Pci, delle alleanze servili tra Italia e Stati Uniti, dell’inquietante minaccia rossa che marciava, sottile e bieca, dalla Russia; la sua punizione? L’oblio. La pellicola viene cancellata dalle memorie collettive, nessuna copia su pellicola viene tutt’ora fatta circolare: fino al 2002 solo la Cineteca Nazionale del Centro Sperimentale di Cinematografia ne possedeva un’unica copia sopravvissuta, rigorosamente in VHS; ricontrollando oggi, l’archivio della cineteca non riporta più il titolo nel suo catalogo, così non rimane altro da fare che visionare online l’unica copia (una ripresa televisiva trasmessa il 17 Giugno 1989 su Canale 5, nella fascia notturna) dal pessimo stato, ma almeno unica testimonianza di un film cancellato dalle memorie collettive per circa 30- 35 anni.

Il mio intento, attraverso questo saggio, è quello di calare Colpo di stato nel contesto storico – politico che segnava il brusco passaggio tra gli anni ’60 e i ’70, per poi analizzare i motivi che hanno spinto la critica ad accusare definitivamente – ed irrevocabilmente – Salce di “qualunquismo” anche oltre la sua morte (avvenuta nel 1989), attraverso la raccolta di alcune voci critiche “catturate” sia dalle riviste ufficiali e di settore (Il Morandini, La Rivista del Cinematografo) che dalle riviste generaliste, interessate piuttosto ai fenomeni di costume (La Stampa, Epoca).

  1. Luciano Salce, l’eterno incompreso

Gli avrebbero dovuto assegnare l’Oscar dell’incomprensione. Perché, sebbene si sia talora piegato a compromessi e su tanti film ne abbia diretti anche di mediocri […] è pur vero che è stato uno degli uomini di spettacolo più acuti e intelligenti degli anni ‘60, e almeno una mezza dozzina dei suoi film sono da annoverare fra i risultati più significativi della commedia all’italiana[2].

Questa dichiarazione di Enrico Giacovelli tratteggia con sintetica precisione la personalità del regista Luciano Salce, e soprattutto il controsenso critico del quale sembra preda fin dai suoi esordi registici italiani.

Classe 1922, nato a Roma, dopo i mancati studi universitari (giurisprudenza) e il diploma in regia teatrale all’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’Amico, decide di abbandonare l’Italia alla volta del Brasile (siamo nel 1950- 1951) dove realizza i suoi due primi lungometraggi grazie al contributo della casa di produzione Società Vera Cruz. Quando torna in Italia, nonostante gli impegni teatrali, la prima grande occasione gli viene fornita nel 1960 con Le pillole d’ercole, una tradizionale pochade scritta da Hennequin e Billhaud che doveva segnare il debutto di Nino Manfredi come protagonista (affiancato da Vittorio De Sica e Andreina Pagnani): la pellicola non è il successo sperato dai produttori, nonostante l’ottimo cast e la bontà del lavoro realizzato, per cui un velo di diffidenza sembra avvolgere l’operato di Salce anche quando prova, nuovamente, a distanza di un anno a mettersi dietro la macchina da presa.

Stavolta, l’idea per una nuova commedia, con protagonisti un fascista e un intellettuale anti- fascista durante gli ultimi giorni prima della caduta del regime, nasce da Salce stesso insieme ai solidali collaboratori Castellano e Pipolo, con lui in altre pellicole successive a quel 1961; come protagonista della pellicola sceglie Ugo Tognazzi – col quale aveva già collaborato – fino a quel momento destinato a restare comicamente ingabbiato nella coppia costituita con Raimondo Vianello sul piccolo schermo, che qui invece mostra le capacità d’attore di cui era dotato, e che lo porteranno col tempo ad incarnare i vizi e le debolezze dell’italiano medio. Anzi, fu proprio l’attore a proporre il nome del giovane Salce ai produttori Broggi e Libassi.[3]

Col Il federale (1961) Salce comincia ad attirare su di sé le invettive della critica specializzata e generalista, pronto a destare scandalo da entrambi gli schieramenti con la sua satira sul fascismo e – più in generale – gli effetti che i fascismi suscitano sulla gente: nel raccontare il viaggio avventuroso e on the road (già una scelta azzardata, considerando che anche questo genere è sempre stato ad appannaggio del circuito culturale statunitense) del piccolo gerarca fascista Arcovazzi e dell’intellettuale sinistroide Bonafè (interpretato dal francese Georges Wilson) mette in luce, senza ricadere nelle classiche macchiette abbozzate, le contraddizioni psicologiche di due personalità così diverse, sia per ideologia politica, che per umori ed istinti umani: Arcovazzi è ciecamente convinto della bontà dell’ideologia fascista della quale abbraccia qualunque aspetto, ma è dotato di slanci umani che mostrano il suo grande cuore; d’altra parte il professor Bonafè è una mente illuminata, un pensatore, che non arriva però a comprendere – o a condividere – i gesti più semplici del suo nuovo compagno di viaggio, che alla fine riesce a salvare da un linciaggio di massa: normale che il pubblico dell’epoca e la stampa fossero rimasti scioccati, scandalizzati e spiazzati da questa pellicola, e che per la prima volta alcune fonti autorevoli abbiano alzato, dalle pagine dei quotidiani o delle riviste specializzate, i toni delle loro voci accusando il regista romano di assumere un atteggiamento… “qualunquista”[4], perché sceglie – volontariamente – di non raffigurare, in un’ottica manichea, il fascismo (e i fascisti) come il male assoluto e gli intellettuali che si schierarono contro il regime come eroi; le fazioni politiche, la Democrazia Cristiana e i Comunisti, che in quel momento si contendevano le aree d’influenza culturale in Italia gridarono allo scandalo, schierandosi in modo unanime per condannare la pellicola.

Questa sfortuna critica non abbandonerà nemmeno i film successivi, girati nel 1962: La voglia matta e La cuccagna; il primo sarà addirittura bollato da alcuni critici come un film destinato a corrompere i costumi della gioventù italiana, uno spettacolo qualunquista per via della messinscena che restituisce e proprio per questo… pericoloso.[5] La Cuccagna desterà meno scandalo, ma sarà sempre criticato il caotico incedere diegetico (frutto della mancanza dei sodali Castellano e Pipolo alla sceneggiatura) che restituisce un racconto improbabile che somiglia piuttosto ad una carrellata di incontri con personaggi sul filo del grottesco, e proprio per questo terribilmente reali. Attraverso queste due commedie, il regista tenta di immortalare uno spirito del tempo, un malcontento che comincia a serpeggiare sinistro e che di lì a breve porterà alla fine della fiducia, da parte degli italiani, verso il benessere economico che li aveva investiti durante gli anni ’50 e i primi ’60. Nella prima pellicola c’è la ribellione giovanile, la rappresentazione (falsata e a tratti “patinata”, sicuramente non troppo aderente alla realtà) di una “gioventù bruciata” stanca ed annoiata, che ha difficoltà relazionali incolmabili con le generazioni precedenti, incarnate dalla figura dell’industriale Berlinghieri (interpretato, di nuovo, da Tognazzi): un quarantenne affetto da crisi di mezz’età, dalla paura dell’arrivo inesorabile della fine di tutto – argomento che, finora, non aveva mai contemplato – uomo stanco del suo trito ménage che si innamora della sedicenne Francesca (una scandalosa Catherine Spaak, prototipo femminile ben lontano dagli standard italiani dell’epoca e anticipatore dell’icona della ragazza yè- yè proveniente dalla Swinging London della fine degli anni ’60); nell’altra, c’è il racconto di formazione e (dis)educazione di una ragazza che parte dalla provincia alla conquista della città e dell’emancipazione, ma che dovrà scontrarsi con le difficoltà di un mondo popolato da squali e marpioni pronti ad usarla, trascinandola in situazioni al limite del grottesco; suo compagno di viaggio, un giovane testardo ed arrabbiato (perfettamente incarnato dagli occhi scuri ed inquieti di Luigi Tenco), precursore dei tanti giovani arrabbiati e contestatori che popoleranno le università – e la militanza politica – nel post ’68.

Tralasciando proprio l’ultimo film citato, che diventa in fondo una riflessione generale sull’illusorietà del boom economico – la famosa cuccagna del titolo appunto – che invece rivela la sua faccia grottesca ed ambigua, le altre due pellicole precedentemente citate, unite a Le ore dell’amore, presentano dei leitmotiv ricorrenti: oltre alla presenza, come sceneggiatori, di Castellano e Pipolo, soprattutto la figura di Ugo Tognazzi come protagonista. Tognazzi incarnava alla perfezione le caratteristiche morali più deboli e meschine non solo dell’italiano medio, ma di una classe sociale definita, come quella borghesia che si andava delineando sulla scena politica – culturale del belpaese uscito dalle spire di una sanguinosa guerra.

Le tre pellicole costituiscono una sorta di trilogia ideale ribattezzata “Trilogia dell’uomo comune”, dove Tognazzi porta in scena – attraverso le indicazioni di Salce – sempre lo stesso prototipo di uomo, cercando di delineare attraverso pennellate decise e venate di cinico umorismo, il ritratto di un paese, dei suoi abitanti, o più in generale dell’italianità, inteso proprio come carattere dell’unità nazionale. La finalità dell’autore- regista è di mettere alla berlina, tramite l’affilata arma della satira, i nuovi costumi della borghesia italiana, conseguenze dirette degli effetti del boom repentino che ha investito gli italiani in una, tutto sommato breve, fase di euforica marcia verso la postmodernizzazione[6] prima di avviarsi, con il pesante bagaglio delle contraddizioni, in una mera parabola discendente che comunemente viene fatta coincidere con la metà degli anni ’60 (il 1964 in particolare, come annus horribilis)[7] un periodo di evidente crisi collettiva che investe anche l’industria del cinema e, personalmente, Salce stesso.

  1. 1969: annus rivoluzionariamente horribilis

È l’anno 1969 quello della – tremenda, niente di positivo- svolta critica di Salce. Tremenda, perché lo porta alla definitiva ed irrevocabile condanna ad indossare a vita la famosa “Q” scarlatta del qualunquista, che la critica di ambo i fronti gli cuce addosso con vivo zelo.

Nel mondo il 1969 si apriva come l’anno della svolta: non in effetti il “mitologico” ’68, che ha creato intorno a sé l’indotto di un vero fenomeno culturale di massa: è nel corso di questo anno al bivio, che precede l’avvento dei ’70, che il mondo assiste ad una serie di repentini cambiamenti che segneranno il corso degli eventi storici – politici – sociali nel corso dell’intero decennio successivo.

Nel 1969 i Beatles suonarono live sul tetto della Apple. Fu la loro ultima esibizione dal vivo: si sciolsero nel 1970.

Nel 1969 veniva trovato morto il chitarrista dei Rolling Stones Brian Jones. Non si sa ancora se si sia trattato di omicidio o suicidio, e il suo caso rimane tutt’ora aperto.

Il 20 Luglio 1969 i due astronauti della missione americana Apollo 11, Neil Armstrong e Buzz Aldrin, furono i primi uomini a sbarcare sulla luna, aprendo la mente umana alle infinite possibilità pioneristiche della conquista della frontiera spaziale, soprattutto sbaragliando la concorrenza sovietica.

La guerra del Vietnam procedeva ormai dal lontano 1963 (a livello ufficiale e su vasta scala, senza contare gli anni sotto la presidenza Kennedy) ma è nell’anno 1969 che la contestazione giovanile prende sempre più corpo e voce nelle università americane e non solo: l’apoteosi è il concerto organizzato a Woodstock (Bethel, NY) e durato dal 15 al 17 Agosto, durante il quale si sono avvicendati sul palco alcuni dei musicisti più iconografici del XX secolo. Alla fine dei tre giorni, i tre organizzatori si ritrovarono con 70 cause legali che li vedevano coinvolti in prima persona e oltre un milione di dollari di debiti da pagare.

Nello stesso anno l’Egitto e la Siria, col sostegno dell’URSS e di Mosca, venivano riarmati e attaccavano lo stato d’Israele nel sanguinoso conflitto del Sinai (1967- 1970) cominciando a delineare quella sottile linea rosso – sangue – che attraversa tutt’ora il medioriente.

In Cecoslovacchia, dopo che Chruscev nei primi anni ’60 aveva aperto gli archivi rivelando gli orrori dello stalinismo, fu avviato (già a partire dal 1968) quel processo per realizzare un “socialismo dal volto umano” dando vita ad un movimento di trasformazione meglio noto come “primavera di Praga”.

Chruscev finì defenestrato dal partito nel 1964 e al suo posto fu eletto Breznev, più incline a vivere i privilegi della casta burocratica al potere in Russia.

La “primavera di Praga” terminò in modo sanguinoso nello stesso anno.

Il leader dei socialdemocratici tedeschi Willy Brandt aveva promosso, già da tempo, un’apertura verso Est che passerà alla storia come Ostpolitik e rappresentava uno dei primi tentativi di distensione: questo perché il mondo, nel 1969, poteva essere semplicemente ridotto a due macro- aree d’influenza dominate dal capitalismo di stampo americano e dal comunismo sovietico, due blocchi pronti a confrontarsi – scontrarsi in ogni ambito possibile, dalla cultura allo spazio. In quest’ottica bisogna leggere l’incremento del benessere, il boom che investe le popolazioni, come un modo per rivendicare la “patria potestà” e le alleanze storiche sancite già da tempo. Se negli anni ’50 la guerra fredda si era combattuta tra le macerie di un’Europa devastata dallo spettro della guerra, adesso il polo d’attenzione erano le nuove frontiere, lo spazio e il terzo mondo, i nuovi “giocattoli” atomici e il Vietnam, come il medioriente. Ognuno aveva i suoi interessi in gioco, ed essere schierati da una delle due parti voleva dire fedeltà assoluta e appoggio totale, pena l’oscurantismo e la damnatio memoriae.[8]

Insomma, culturalmente, proprio ciò che avvenne a Salce nel piccolo caso limitato dell’Italia.

Nel belpaese al potere c’era la Democrazia Cristiana fin dal 2 Giugno 1946: la Dc era, ovviamente, interessata a difendere gli interessi del suo alleato statunitense pena la perdita degli aiuti economici concessi dal piano Marshall formulato nel 1947; i comunisti erano fuoriusciti dal governo italiano precisamente il 18 Aprile 1948 dopo le elezioni che videro la vittoria del partito maggioritario col 48,5% dei suffragi, raggiungendo la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera. Il partito dello scudo crociato diventava, quindi, l’unico in grado di “arginare” l’avanzata comunista in Italia (ruolo che mantenne fino al crollo del comunismo negli anni ’80).

In questo contesto, la longa manus del bipolarismo investiva anche – e soprattutto – gli aspetti culturali italiani. Le riviste di settore e generaliste, quelle che si occupavano di critica cinematografica (restiamo nel nostro ambito di competenza) erano schierate o a “sinistra” o al “centro”; gli intellettuali che popolavano il sottobosco creativo avevano delle posizioni politiche (di solito sinistroidi, ma non sempre) che palesavano attraverso i loro prodotti culturali; un discorso a parte vale per i produttori, spesso interessati solo ad investire i capitali e ad ottenere il maggiore profitto da un’opera.

Così la critica si schiera prendendo delle posizioni determinate e considerando il cinema non solo come un semplice oggetto culturale, analizzabile solo da un punto di vista estetico – artistico, bensì guardandolo sempre nell’ottica della spendibilità o meno all’interno di un contesto politico: se il prodotto filmico era impegnato, schierato, impregnato di un’ideologia, allora era approvato secondo quella “dittatura del contenuto” di cui venivano accusati; ogni prodotto audiovisivo veniva interpretato e criticato nell’ottica della sua spendibilità o meno a livello politico/ culturale/ sociale, all’insegna di una lettura fortemente contenutistica.

Per tale motivo la commedia di solito veniva denigrata perché considerata come un genere dal contenuto più frivolo e meno spendibile nell’ottica precedentemente citata; a maggior ragione un autore come Luciano Salce, che sfuggiva a qualunque tentativo di classificarlo politicamente, veniva accusato con regolarità, dalle pagine dei giornali, di qualunquismo. A maggior ragione quando, nell’anno 1969, il regista decise di realizzare il suo film più impegnato, allontanandosi dai territori della commedia e inoltrandosi in quelli della fanta- politica: stiamo parlando di Colpo di stato.

  1. Colpo di stato e l’avversione della critica

Le riprese di Colpo di stato vengono iniziate il 25 Marzo 1968 e già da subito il film manifesta le sue infinite difficoltà, nonostante la gran voglia da parte di Salce e dello sceneggiatore Ennio De Concini di raccontare una storia che li impegni in prima persona e che rappresenti, per entrambi, un esperimento.

Salce ricorda i primi ostacoli produttivi incontrati con Franco Cristaldi (avvezzo, tra l’altro, ad alcuni flop clamorosi al botteghino come Le notti bianche).

Con De Concini abbiamo lavorato un anno, un tempo interminabile, su Colpo di stato. Anche perché Cristaldi è un produttore faticoso nel metter su le cose, sempre cagadubbi e con tanti progetti. Simpatico, cordiale, ospitale, ma prima di arrivare a fare un film ce ne vuole. Forse aveva ragione perché poi il film non è stato un trionfo, ma resta il fatto che è stato il film a cui mi sono più dedicato. L’idea era di De Concini, e non si chiamava così, anche se non ricordo più come [la schiavitù è finita, nda]. Un soggetto prodigioso per le sue capacità divinatorie perché dopo successero quasi le stesse cose! Ho conservato le critiche di “Times Magazine” e “France Observateur” perché dicevano che si trattava di un film esemplare per capire qualcosa dell’Italia. C’erano intuizioni notevoli, in un film originale come struttura, che parte come un’inchiesta televisiva e piano piano diventa spettacolo. La seconda cosa interessante è l’uso dei cori dell’opera lirica, come coro da tragedia. Gente con costumi diversi, con cori molto spiritosi, su parole mie e un pastiche musicale di tipo melodramma di Marchetti. Il coro era l’italiano che commenta le situazioni. La cosa che mi dispiacque di più fu l’indifferenza con cui fu accolto. Il film urtò un po’ tutti, anche i comunisti perché si permetteva di dire che era loro sistema stare alla finestra. C’era dentro il Papa, Saragat. Gli avvocati di Cristaldi ci dissero che c’erano quattordici punti per cui noi potevamo essere arrestati: offesa a capo di stato estero, al Papa, a tutti quanti. E invece cascò tutto nell’indifferenza. Eppure era un film pieno di cose divertenti, mi pare. Qualche anno dopo Monicelli fece Vogliamo i colonnelli, che fu una specie di rifacimento di Colpo di stato, ma tutto grottesco, esagerato. Noi andavamo sul credibile, sul possibile, sul reale.[9]

La dichiarazione di Salce è quanto mai puntuale e delinea alcuni dei passaggi fondamentali che hanno portato il suo film ad un’aggressione critica sfociata poi in totale indifferenza e silenzio. Come ricorda anche De Concini[10], comunista convinto che di solito non era avvezzo a realizzare film impegnati – quindi estraneo al cinema civile – nonostante l’alto grado di coinvolgimento personale da parte di entrambi (addirittura Salce dichiarò che Colpo di stato era il film più personale della sua carriera) la stampa italiana non fu clemente nei loro riguardi, mentre al contrario all’estero ricevettero buoni feedback e le attenzioni di importanti testate.

La pellicola non era scevra da debolezze tecniche palesi (dovute anche allo scarso budget di partenza messo a disposizione da Cristaldi) che il regista romano seppe usare a suo vantaggio, impostando il racconto filmico come un reportage giornalistico, un’inchiesta sui costumi degli italiani alle elezioni incastonato in un gustoso gioco metacinematografico; quest’ultimo costituisce la prima parte del film, incentrata su alcuni strani fatti che avvengono apparentemente senza nessun filo logico ad unirli: una mano guantata ruba un segretissimo dossier governativo, un aereo con sopra quaranta attori di una compagnia viene dirottato, delle foto spariscono da casa Salce (con ghignante cameo del regista stesso, camera look incluso).

Il ghigno mefistofelico di Salce, incuriosito dal fatto che qualcuno sia ancora interessato alla sua persona e infine una spia viene arrestata all’aeroporto. Sulle immagini delle misteriose bobine ritrovate in valigia, ascoltiamo questo discorso che fa da sottofondo.

Il gioco era ormai chiaro: una grande potenza, infida e lontana, aveva girato un film, realizzato, bisogna ammetterlo, con eccezionale talento, che avrebbe diffuso nel mondo intero un’immagine falsa, tendenziosa e qualunquistica delle nostre elezioni del 1972. Lo scopo? Ma era evidente. Descrivere il caos e la crisi del mondo occidentale di fronte ad un ipotetico, quanto assurdo… colpo di stato!

Subito dopo partono i titoli di testa.

Con questa premessa, all’inizio effettivo del film nel film, Salce e De Concini mettono subito in chiaro l’argomento della pellicola: parlare delle fantomatiche elezioni del 1972 vinte – contro ogni pronostico – dal nemico comunista. A quel punto, cosa accadrebbe in un paese preda della pura anarchia?

L’incipit definito spesso dalla critica come “fanta” politico, è in realtà più vero… del vero. Dì lì a pochi anni i comunisti cominceranno ad insediarsi realmente al governo, attraverso una serie di alleanze e accordi presi con la Dc. L’idea di base non è, quindi, irreale e utopica, quanto minacciosa e sottile; elementi che destarono scalpore e timore nel pubblico – e nella critica – di entrambi i partiti. Gli scarsi mezzi, come già accennato, hanno spinto Salce ad impostare la seconda tranche del film come un mockumentary, un finto documentario di inchiesta dove il regista, in giro per Roma, raccoglie sia le testimonianze dirette, che le immagini legate ai comportamenti degli italiani al voto. A fare da supporto alle immagini, un coro: ispirandosi alla tradizione tipicamente italica dell’opera lirica (fino a trascendere nella maestosità della tragedia greca), il coro costituito dagli stessi interpreti del film ricopre la funzione di “coscienza morale”, di inner voice del cittadino medio, chiamato al voto. Lo stile documentaristico presenta movimenti di macchina, raccordi e tagli bruschi di montaggi che richiamano da vicino la sensibilità europea della nouvelle vague.

Successivamente, una volta terminata la grottesca disamina delle abitudini degli italiani in cabina elettorale (con scene dal forte impatto anch’esse riprese dalla realtà e mai così vicine alla verità: in una, un gruppo di suore carica dei malati su un pulmino con lo slogan “Votare sì, ma votare bene”, nell’altra sempre una suora porta un uomo morto da tre giorni a votare per la Dc), decolla il cuore centrale del discorso filmico: l’inaspettata vittoria comunista, determinata da un sofisticato computerone americano. Nei dialoghi e nelle situazioni Salce sembra ispirarsi al Kubrick de Il Dottor Stranamore[11], con improbabili e surreali dialoghi tra membri del partito comunista incentrati sul tempo di Mosca o sui figli. Solo che all’uscita nelle sale americane, nessuno accusò l’opera di Kubrick di qualunquismo: la pellicola raccontava, attraverso un umorismo cinico e nero, le paure di un’epoca dominata dal bipolarismo incalzante e dalla minaccia nucleare. In Salce, agli occhi dei critici almeno, il circo mediatico montato nel film è solo un pretesto per deridere tutti, prime fra tutte le icone del decennio 1960 – 1970: c’è un sosia del Papa, uno di Saragat e uno del presidente americano, che ad un certo punto parla al telefono col suo ambasciatore completamente nudo ed avvolto in una bandiera a stelle e strisce (Fig. 3).

Fig. 3: The naked President

Come nella premessa, sottofondo ai titoli di testa, è il regista stesso che per la prima volta sembra beffarsi delle accuse di “qualunquismo” che gli rivolge la critica. Ma non si sarebbe mai aspettato una condanna unanime da tutti i fronti, un pubblico distante (che riconquisterà solo dopo Fantozzi… cioè nel 1975) e feroci attacchi che portarono alla scomparsa della pellicola per oltre trent’anni, almeno fino al recupero – nella 61esima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia – della copia in 35 mm con conseguente proiezione nel corso della rassegna “Storia Segreta del cinema italiano” organizzata da Marco Giusti e Luca Rea[12]. Nemmeno il finale amaro della pellicola, che contiene un tipico esempio di malinconico umorismo salciano, servirà al regista per eliminare dalla sua “fedina penale” quell’accusa di qualunquismo che si andrà a costruire, lentamente, nel periodo compreso tra il 1968 e il 1972; a nulla serve l’entusiasmo del giornalista comunista Giordano, l’unico a non sapere niente della decisione finale presa dal partito (quella di rinunciare al potere restando all’opposizione, come comandano da Mosca): sulle sue frasi cariche di entusiasmo, scorre una teoria di donne impellicciate, ricche sciure pronte a riprendere la propria routine dopo la tempesta elettorale; un modo per ristabilire uno status quo di partenza che in fondo va bene a tutti. Tranne che alla ferocia della critica ferita nell’orgoglio (proprio come Mimì Metallurgico).

  1. La stampa specializzata

Com’era già accaduto con Miccichè dopo la prima visione de Il Federale, la stampa specializzata e tutti coloro che vi ruotavano intorno sono stati i primi ad urlare allo scandalo dopo la prima proiezione di Colpo di stato, avvenuta il 15 Marzo 1969 al Cinema Barberini di Roma. Morando Morandini, autore del celebre Dizionario del Cinema che porta il suo nome (fin dal 1998) insieme a quello della moglie Laura e della figlia Luisa, regala, proprio dalle pagine dell’edizione 1999 di quest’ultimo, una critica al vetriolo indirizzata al film: «[…] buffoneria rivistaiola e piuttosto qualunquista»[13], ponendo sempre l’accento sulla natura qualunquista dell’operazione compiuta da Salce, evidentemente turbato dalla rappresentazione della sinistra che orchestrava il regista romano nella pellicola. Al contrario, dalle pagine della Rivista del Cinematografo, palesemente orientata al centro e con forti influenze degli scudo- crociati un tempo, e della Chiesa oggi, Enzo Natta pubblica il 3 e il 4 Aprile 1969 una critica a caldo in risposta alla visione del film:

[…] L’idea di raccontare una storia di fantapolitica è nuova per il cinema italiano, ma appunto trattandosi di cinema italiano, non poteva finire che in chiave ironica e satirica, o meglio ancora in chiave di barzelletta sceneggiata. Trascurando completamente i risvolto etico, i campanelli d’allarme, i pericoli prospettati dai film fantapolitici americani (pensiamo al Dottor Stranamore) […] Colpo di Stato di Luciano Salce si è mantenuto al livello del raccontino goliardico, dove la satira e l’ironia si limitano a personaggi e situazioni contingenti, guardando più all’effetto immediato e alla battuta che al discorso di fondo e alla valutazione in prospettiva. […] La mancanza di buon gusto nel trattare la «cosa pubblica» eguaglia poi il solito qualunquismo di Salce nell’affrontare argomenti del genere: in Colpo di Stato mancano, pur concedendogli il pregio e l’utilità dell’ironia in questi casi, la serietà e la profondità con cui tali aspetti della vita politica vanno trattati anche quando rimangono sul piano della satira. E infatti sono proprio il pressappochismo e il genericismo che inficiano un discorso che invece, se fosse stato visto, rivisto e opportunamente limato, avrebbe potuto dar vita ad un motivo grazioso e garbato, fine e intelligente pur nella sua dimensione di satira politica.[14]

Anche qui, nel mare di feroci commenti al margine, l’attenzione va posta sempre sulla stessa parola: “qualunquismo”, definito addirittura “solito” (ergo: presente in chissà quanti altri film realizzati prima di quel fatidico 1969) sottolineando una tendenza a ricondurre tutto il discorso nei limiti del genere che si sta affrontando, ovvero della satira politica/ commedia anarchica: dotato di potenzialità narrative limitate (agli occhi di Natta, almeno) il regista avrebbe potuto confezionare un buon prodotto, se solo fosse riuscito a contenere il suo ridondante pressappochismo (rubando le parole e i contenuti alla recensione del giornalista stesso). È la raffigurazione spietata e irrefrenabile che Salce fa di entrambi gli schieramenti che infastidisce gli occhi degli esperti, come del resto la naturalezza attraverso la quale racconta la realtà delle elezioni in Italia, attraverso quelli che sembrano grotteschi luoghi comuni e che invece, oggi, sono cronache d’attualità che popolano i nostri quotidiani.

  1. La stampa generalista

Anche i quotidiani – ognuno schierato sul suo lato della barricata – accolgono il film di Salce nel peggiore dei modi, considerandolo realmente un prodotto “pericoloso”.

Dalle pagine de La Stampa, quotidiano da sempre basato su posizioni moderate, Leo Pestelli a caldo, proprio il 16 Marzo 1969 (giorno dopo l’anteprima) fa tuonare la sua voce nei confronti di questa ostentazione di “qualunquismo” da parte del regista:

[…] frastagliato come un’inchiesta non solo elettorale ma di tutto il nostro costume messo in fuoco dall’occasione, Colpo di Stato è fin troppo scoppiettante e divertente […] cosicché sfiora il goliardico e ha insomma il difetto di essere una satira politica italiana fatta all’italiana. […] Del suo «qualunquismo» […] si deve invece dire che avendo indovinato l’occasione e il tono, è di qualità superiore, ossia che si dissolve in una autentica quanto rara disposizione alla satira umanistica dall’alto, quella che canzona tutti e non offende nessuno.[15]

Più che tuoni, in realtà, sembrano i minacciosi boati di un temporale estivo, man mano che si allontana: per la prima volta il termine “qualunquismo” non viene usato in un’accezione totalmente negativa/ dispregiativa, riconducendo il tipico atteggiamento sprezzante nei confronti delle ideologie sotto l’egida rassicurante della satira annacquata che – citando Pestelli – “non offende nessuno” (ma condanna il suo autore e la pellicola che ha realizzato, scomparsa per trent’anni).

Dalle pagine della rivista di costume Epoca (nata sulla scia delle americane Life e Time) Filippo Sacchi delinea invece, in data 27 Aprile 1969, una condanna definitiva e riduttiva dell’intento satirico di cui è permeato il film: «[…] rozzo qualunquismo […]. Siamo ancora a Guglielmo Giannini. Come apertura mentale abbiamo fatto dei bei progressi.»[16] avvicinando, per una libera associazione d’idee, il lavoro compiuto dalla coppia Salce – De Concini alla produzione di Giannini, colui che, nel lontano 1944, fondò il quotidiano L’Uomo Qualunque dando vita ad un vero e proprio movimento su scala nazionale.

  1. Conclusioni: Non tutti i mali qualunquistici vengono per nuocere

Scrive Giacomo Manzoli:

[…] Non ci interessa affatto “rivalutare” questi film o stabilire che i loro registi erano degli autori capaci di manifestare un talento comparabile a quello di coloro che hanno segnato il canone dell’arte cinematografica. Questo testo non ha l’ambizione di occuparsi di Arte né di Cultura, bensì – al massimo – di quelle che Bordieu avrebbe chiamato “arti medie”, produzione artigianale alla portata (più o meno) di tutti, elaborata da registi “medi” o “normali” […] opere fatte per un pubblico medio o normale, qualunque, desideroso di compiere un investimento simbolico in forme di consumo culturale quotidiano, capaci di ottemperare a un compito di “intrattenimento efficiente”, vale a dire alla doppia funzione di impiegare piacevolmente il tempo libero e di svolgere negoziazioni identitarie che aiutino a restare al passo con il mutare dei tempi.[17]

Anche Manzoli usa la parola “qualunque” – vero e proprio ossessivo leitmotiv di questo saggio – collocandola però in un contesto totalmente differente: “qualunque” qui si riferisce ad ognuno di noi, ad ogni fruitore di un prodotto culturale, in questo caso legato all’industria cinematografica. E se “qualunquismo” si trasformasse da una feroce critica dispregiativa in un complimento? Se “qualunquismo” indicasse il fatto che Luciano Salce è riuscito, attraverso i suoi film, a raccontare uno spaccato dell’Italia smarrita, travolta dal boom, attraverso la mise en scene dei suoi nuovi tic, le manie, le debolezze e i vizi? Se fosse riuscito, con le sue storie, ad anticipare mutamenti e cambiamenti di un paese ancora lontano dalle rivoluzione degli anni 1968- 1969?

Magari queste premesse potrebbero fornire nuovi spunti per la critica odierna nel rivalutare, col senno di poi, la portata profetica dei fatti narrati dal regista romano in Colpo di stato.

[1] Definizione tratta dal vocabolario online Treccani: http://www.treccani.it/vocabolario/qualunquismo/

[2] E. Giacovelli, La commedia all’italiana, Gremese, Roma, 1990, cit., p, 71

[3] G. Fofi, F. Faldini, L’avventurosa storia del cinema italiano, cit., p. 70 in Andrea Pergolari, Verso la commedia – momenti del cinema di Steno, Salce, Festa Campanile, Firenze Libri, Firenze, 2002, cit., pp. 110- 111

[4] A tal proposito, è interessante seguire la polemica montata da Lino Miccichè e contenuta nel suo libro Cinema italiano: gli anni ’60 e oltre, Marsilio, Venezia 1996, cit., p. 47

[5] « […] Tranquillamente immorali ma basati su uno slogan capace di racchiudere nell’ordine dello scherzo e della piacevolezza quanto di immorale contengono, sono proprio questi i film più pericolosi, in quanto più aperti verso ogni tipo di equivoco, da quello artistico a quello morale.» scrive Leandro Castellani sulle pagine della Rivista del cinematografo, il 4 e il 5 Maggio 1962, in A. Pergolari – E. Salce, Luciano Salce – Una vita spettacolare, Edilazio, Roma 2009, cit., p. 175

[6] Il periodo a cui mi riferisco qui viene considerato il Secondo e in particolare pongo l’attenzione sulla fase A (1958- 1976) a sua volta suddivisibile in un altro periodo A1 (1958- 66, definito euforico). Per la periodizzazione completa rimando a G. Manzoli, Da Ercole a Fantozzi – cinema popolare e società italiana dal boom economico alla neotelevisione (1958- 1976), Carocci, Roma 2013, cit., p. 24

[7] A. Pezzotta, Il western italiano, il Castoro, Milano 2012, cit., pp. 7- 9

[8] Informazioni tratte dal quarto capitolo (“Disordine Bipolare, 1964 – 1971”) di F. Romero, Storia della guerra fredda, Einaudi, Torino 2009

[9] G. Fofi – F. Faldini, L’avventurosa storia del cinema italiano, cit., p. 386 in A. Pergolari, Verso la commedia, cit., pp. 146- 147

[10] Ivi, pp. 386- 387 e 148

[11] Il Dottor Stranamore – Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba (Dr. Strangelove or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb, Stanley Kubrick, 1963) http://www.imdb.com/title/tt0057012/

[12] Per informazioni più dettagliate, rimando all’analisi pubblicata da Pierpaolo De Sanctis su www.cinemaavvenire.it il 28 Agosto 2004 in A. Pergolari – E. Salce, Luciano Salce, cit., pp. 218- 220

[13] A. Pergolari, Verso la commedia, cit., p. 151

[14] A. Pergolari – E. Salce, Luciano Salce – una vita spettacolare, cit., p. 218

[15] Ivi, cit., p. 217

[16] A. Pergolari, Verso la commedia, cit., p. 151

[17] G. Manzoli, Da Ercole a Fantozzi, cit., p. 12

L’Estate Più Calda, il trailer del film dal 6 luglio su Prime Video

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Prime Video ha svelato oggi il poster e il trailer ufficiali del nuovo film Original italiano L’Estate Più Calda, diretto da Matteo Pilati (Maschile Singolare) e vede nel cast Gianmarco Saurino, Nicole Damiani, Alice Angelica con la partecipazione di Stefania Sandrelli, Nino Frassica, Michela Giraud e Giuseppe Giofrè.

In un paese della Sicilia meridionale, amore e passione si intrecciano nel corso di un’estate più calda che mai: l’ultima di Lucia (Nicole Damiani) prima di partire per l’università e separarsi da Valentina (Alice Angelica), la sua migliore amica; l’ultima di Nicola (Gianmarco Saurino) prima di diventare prete. L’arrivo di Nicola nella piccola parrocchia di Don Carlo (Nino Frassica), sotto il sole accecante di luglio, porterà euforia e scompiglio in paese. Nel cast anche Stefania Sandrelli (nel ruolo di Carmen, una parrocchiana molto devota e amante del gossip), Mehdi Meskar, Michela Giraud, Giuseppe Giofrè. L’Estate Più Calda è prodotto da Notorious Pictures e Amazon Studios, in collaborazione con Rufus Film.

Inoltre, il nuovo singolo di Francesca Michielin “Fulmini addosso” (Columbia Records/Sony Music Italy), fuori dal 9 giugno in radio e su tutte le piattaforme digitali, è il brano originale di L’Estate Più Calda. La cantate, cantautrice e polistrumentista italiana, si presta ancora una volta colonne sonore cinematografiche.

L’Estate Più Calda  si unirà a migliaia di film e serie già presenti nel catalogo di Prime Video, tra cui le produzioni italiane Original The Bad Guy, Prisma, Bang Bang Baby, Gianluca Vacchi: Mucho Más, Laura Pausini – Piacere di conoscerti, The Ferragnez – La serie S1 e S2, All or Nothing: Juventus, Anni da cane, Dinner Club S1 e S2, Vita da Carlo, FERRO, Celebrity Hunted – Caccia all’uomo S1, S2 e S3, e LOL: Chi ride è fuori S1, S2 e S3; le serie pluripremiate The Marvelous Mrs. Maisel e Lizzo’s Watch Out for the Big Girls, la serie satirica sui supereroi The Boys e grandi successi come Il Signore degli Anelli: Gli Anelli del Potere, Citadel, Jack Ryan di Tom Clancy, Un matrimonio esplosivo, Samaritan, Tredici Vite, The Tender Bar, A proposito dei Ricardo, La guerra di domani, Reacher e Il principe cerca figlio, oltre a contenuti in licenza disponibili in più di 240 paesi e territori nel mondo, e le dirette in esclusiva in Italia delle migliori partite del mercoledì sera della UEFA Champions League, oltre che della Supercoppa UEFA, fino alla stagione 2026/27. Altre serie Original già annunciate sono Costiera, Love Club, LOL Talent Show: Chi ride è dentro, la quarta stagione di Celebrity Hunted – Caccia all’uomo, Everybody Loves Diamonds, e Citadel: Diana, il capitolo italiano dell’universo Citadel.

L’estate nei tuoi occhi: le prime immagini della terza stagione

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L’estate nei tuoi occhi: le prime immagini della terza stagione

Prime Video ha alzato le temperature rivelando le prime immagini della terza e ultima stagione di L’estate nei tuoi occhi. La serie Original tornerà a Cousins Beach il prossimo luglio con una stagione di 11 episodi e sarà disponibile in esclusiva su Prime Video in oltre 240 Paesi e territori nel mondo.

Al timone della terza stagione de L’estate nei tuoi occhi troviamo le showrunner Jenny Han e Sarah Kucserka. Han, Kucserka e Karen Rosenfelt sono executive producer della serie, insieme a Paul Lee, Hope Hartman e Mads Hansen per wiip. La serie è una coproduzione di Amazon MGM Studios e wiip.

Basato sulla trilogia di libri best-seller firmata da Jenny Han, la serie drama targata Prime Video è diventata un fenomeno culturale e ha catturato i cuori dei fan di tutto il mondo. La prima stagione ha debuttato nell’estate del 2022 ed è diventata la serie numero uno di Prime Video nel primo fine settimana. La seconda stagione ha debuttato nell’estate del 2023 e, a soli tre giorni dal lancio, ha più che raddoppiato il numero di spettatori della prima stagione.

L’estate nei tuoi occhi è un dramma multigenerazionale che si basa sul triangolo amoroso tra una ragazza e due fratelli, sul rapporto in continua evoluzione tra le madri e i loro figli e sul potere duraturo delle forti amicizie femminili. È una storia di formazione che parla del primo amore, dei primi cuori infranti e della magia di un’estate perfetta.

Jenny Han è l’autrice Tutte le volte che ho scritto ti amo e L’estate nei tuoi occhi, serie di libri best-seller che hanno scalato le classifiche del New York Times. I suoi libri sono stati pubblicati in più di 30 lingue. Per la televisione ha creato due nuove serie basate sui suoi libri: L’estate nei tuoi occhi di Prime Video, di cui è executive producer e co-showrunner, e la serie di Netflix XO, Kitty, uno spinoff dell’universo di Tua per sempre, di cui è executive producer. Per quanto riguarda il cinema, è executive producer di tutti e tre i film della trilogia di successo globale di Netflix Tua per sempre. Han vive a Brooklyn, New York.

L’estate nei tuoi occhi, il trailer della seconda stagione Prime Video

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Prime Video svela il trailer ufficiale della seconda stagione de L’estate nei tuoi occhi. Sulle note di ‘Back to December (Taylor’s Version)’ dall’album di prossima uscita ‘Speak Now (Taylor’s Version)’ e di ‘august’ da ‘folklore’ di Taylor Swift, Album Of The Year ai Grammy 2021.

Un tempo Belly era solita contare i giorni che la separavano dal ritorno a Cousins ​​Beach, ma con Conrad e Jeremiah che continuano a litigare per il suo amore e il ritorno del cancro di Susannah, non è sicura che l’estate sarà più la stessa. Quando un visitatore inaspettato minaccia il futuro dell’amata casa di Susannah, Belly dovrà riunire la banda e decidere una volta per tutte dove andrà il suo cuore.

Al timone della seconda stagione di L’estateneituoiocchi troviamo le showrunner Han e Sarah Kucserka. Han, Kucserka, Karen Rosenfelt e Gabrielle Stanton sono anche executive producers, insieme a Hope Hartman, Mads Hansen e Paul Lee per wiip. La serie è una co-produzione Amazon Studios e wiip.

Jenny Han è l’autrice delle serie di libri Tutte le volte che ho scritto ti amo e L’estate nei tuoi occhi che hanno scalato la classifica dei Best-Seller del New York Times. Le sue opere sono state pubblicate in più di 30 lingue. Per il piccolo schermo ha co-creato due nuove serie basate su questi libri – la serie Prime Video L’estate nei tuoi occhi, di cui è executive producer e co-showrunner – e la serie Netflix XO, Kitty, uno spin-off dell’universo di To All the Boys, di cui è executive producer e co-showrunner. È stata inoltre executive producer dei 3 film Netflix della trilogia To All the Boys. Vive a Brooklyn, New York.

L’estate nei tuoi occhi 2: recensione della serie Prime Video

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L’estate nei tuoi occhi 2: recensione della serie Prime Video

Siamo già a metà luglio e finalmente su Prime Video torna con una nuova e attesissima seconda stagione L’estate nei tuoi occhi. Se già con i primi setti episodi vi siete fatti trasportare dagli amori estivi di Isabel “Belly” Conklin eternamente divisa tra i fratelli Conrad e Jeremiah, figli di Susannah Fisher nonché la migliore amica di sua madre, è ora di tornare a Cousins Beach. Perché anche L’estate nei tuoi occhi 2, trasposizione di “Non è estate senza te” e secondo romanzo della The Summer Trilogy della scrittrice Jenny Han conferma, ancora una volta, che è la serie giusta da vedere in questo periodo preciso dell’anno in cui si respira l’aria di vacanza e per chi ha già fortuna direttamente sulla spiaggia al mare o a bordo di una piscina come Belly e i suoi amici.

Cosa succede in L’estate nei tuoi occhi 2

Nel finale della prima stagione di L’estate nei tuoi occhi vediamo Belly e Conrad che capiscono i loro sentimenti e iniziano a frequentarsi come una vera coppia. In questi nuovi otto episodi invece tutto si travolge e viene a mancare un personaggio importante, senza fare spoiler su chi è esattamente posso solo dire che era già ammalato da tempo e la sua morte per malattia era già annunciata. Tutta la trama di L’estate nei tuoi occhi 2 e’ incentrata su questa perdita e su come tutti i vari protagonisti affrontano questo lutto.

L’estate imminente sarà la prima per Belly, con suo fratello Steven, senza la villeggiatura nella meravigliosa villa sull’oceano di Cousins Beach o almeno così credono loro e la madre Laurel Park che ha scritto un nuovo libro. La giovane protagonista intenta a festeggiare la fine di un altro anno scolastico alle superiori, in compagnia della sua migliore amica Taylor, riceverà una telefonata da Jeremiah che le chiederà aiuto perché suo fratello maggiore ha fatto perdere le sue tracce e non si fa vedere neanche più alla Brown, il College che frequenta. I due dopo aver discusso della loro complessa amicizia si metteranno alla ricerca di Conrad e lo ritroveranno, dopo un lungo viaggio in auto, proprio nella loro casa dove hanno passato fin da bambini insieme tutte le loro meravigliose e felici estati.

L’estate nei tuoi occhiNon più una semplice serie estiva

Troviamo varie novità in questa seconda narrazione seriale come quella della durata degli episodi non più da 40 ma che oscillano verso i 55 minuti. Vengono mostrati ancora molti flashback ma stavolta ambientati nei mesi precedenti, in autunno ad Halloween e alla festa del Ringraziamento, in inverno durante le vacanze natalizie e durante la primavera, in momenti specifici che spiegano il perché della fine della relazione d’amicizia tra Belly e i fratelli Fisher.

Finalmente vediamo Belly indossare maglioni e felpe e la sua casa dove vive con suo fratello diplomato e sua madre ancora single. Appaiono due nuovi personaggi dalla parte di Susannah, che sono la zia di Conrad e Jeremiah cioè Julia e sua figlia Skye, questi sono interpretati da Kyra Sedgwick e Elsie Fisher. Per ultimo, ma non meno importante, Belly non è più la sola narratrice ma per l’intero quinto episodio a dare voce ai propri pensieri sarà Jeremiah. Scopriamo i suoi veri sentimenti nei confronti della protagonista e la gelosia che lo lacera perché la ragazza ama da sempre suo fratello Con.

Team Conrad o Team Jeremiah

Questa stagione è decisamente più complessa e che punta a mostrare come Belly, Conrad e Jeremiah sono più maturi, più adulti e lo si vede bene già subito nei primi tre episodi. Quelli dopo e girati interamente nella località di mare, come il quarto al luna park, il quinto al country club e il sesto durante un disco party, puntano alle vibrazioni della stagione precedente, sono più leggeri e fatti di spensieratezza. Gli ultimi due sono la resa dei conti, anzi dei sentimenti di tutti i protagonisti e svela finalmente le sorti della casa di Cousins Beach. Ovviamente non manca il romanticismo del triangolo amoroso che è da sempre la colonna portante di L’estate nei tuoi occhi. Quella che più si rivela cresciuta è Belly, anche perché sarà lei alla fine a fare la scelta finale su chi scegliere d’amare che ovviamente non posso svelare.

L’estate nei tuoi occhi 2 si conferma un ottimo prodotto da vedere a luglio, che trasmette grazie ad una colonna sonora con pezzi di musica pop, alla fotografia da cartolina con colori pastelli tutto quello che gli spettatori vogliono vedere in una serie così, che mostra un’estate magica sulla via dei ricordi e della nostra adolescenza passata per quel pubblico più grande e cresciuto con i teen dramma di una volta come l’indimenticabile Dawson’s Creek.

L’Estate di Giacomo: recensione del film

In L’Estate di Giacomo Giacomo ha 18 anni e due occhioni azzurri. E’ sordo, ma è un gran chiacchierone. Giacomo ha un’amica: Stefania. Stefania ha 16 anni ed è molto silenziosa. E’ estate e Giacomo e Stefania camminano in un bosco del Friuli inciampano, si pungono sui rovi e poi la trovano: una meravigliosa distesa d’acqua cristallina. Solo il rumore dell’acqua, del vento, le loro voci, i loro corpi che si scontrano con l’acqua. Di sera vanno ad una festa, ballano insieme. Nulla in particolare succede tra queste due anime, ma, come spesso accade, quando diciamo “nulla in particolare”, vogliamo dire “tutto”.

A seguirli c’è una telecamera – solo una – tutt’altro che discreta. La telecamera è, per sua natura, una dittatrice: vediamo solo ciò che lei ha deciso di farci vedere … il resto lascia che siamo noi ad immaginarlo. Spesso vediamo solo Giacomo, spesso vediamo solo Stefania, ma riusciamo ad immaginarci le espressioni dei loro volti o comunque sentiamo le loro voci, da un fuori campo così evidente, eppur così trasparente. I due amici si esplorano e la telecamera aspetta, perché sembra di essere sempre sul punto della svolta, sta per succedere qualcosa, ce lo sentiamo, adesso succede.

L’Estate di Giacomo, il film

Ma niente, non succede nulla, sospesi nell’attimo prima del bacio, Giacomo e Stefania hanno dalla loro la spontaneità dell’illusoria libertà delle estati appena cominciate, in cui si ha l’impressione di avere tutto il tempo del mondo. Così in questo “nulla di particolare” si muovono le esistenze dei due amici che, forse, vorrebbero essere un po’ di più senza il coraggio di confessarselo o, forse, non ne hanno bisogno. Poi, d’improvviso, il tempo li tradisce. Giacomo è ancora lì e c’è ancora una ragazza, ma non è Stefania. Un ricordo o un sogno? Così capiamo: è il destino dell’estate… una collezione di frammenti di vita, tanto brevi quanto intensi.

Opera prima di Alessandro Comodin, L’Estate di Giacomo è un film-documentario difficile da leggere, nonostante la semplicità del mondo che si vuole raccontare. Al limite tra l’ingenuo e il sagace, tra la fanciullezza e la scoperta di un’imminente maturità, tra l’amicizia e l’amore, Comodin ci porta nel mondo reale, quello fatto di persone vere che non si curano della telecamera e quasi le sfuggono, perché in netto contrasto col paradiso della loro estate: lontano e puro.

Scritto e diretto da Alessandro Comodin, girato tra Italia, Belgio e Francia, L’Estate di Giacomo sarà nelle sale a partire dal 20 luglio.

L’estate di Cleo: recensione di un film sull’infanzia diverso

L’estate di Cleo: recensione di un film sull’infanzia diverso

A dieci anni dal Party Girl che vinse la Camera d’Or a Cannes (e dopo un episodio della serie Demain si j’y suis), torna nelle nostre sale la regista francese Marie Amachoukeli. Grazie alla distribuzione di Arthouse, in collaborazione con I Wonder Pictures e Unipol Biografilm Collection, dal 21 marzo il suo nuovo L’estate di Cléo è in molti cinema italiani, dopo aver aperto l’ultima Semaine de la Critique al Festival di Cannes 2023 e aver raccolto diversi riconoscimenti internazionali. Un racconto intimo, ma anche un film sull’infanzia diverso da altri, che vive del forte rapporto tra la Gloria di Ilça Moreno e la piccola co-protagonista, la Cleo interpretata da Louise Mauroy-Panzani, nella quale rivive l’esperienza della stessa regista e sceneggiatrice.

L’estate di Cléo, la trama

Dopo la perdita della madre, la piccola Cléo di sei anni vive con suo padre e la tata Gloria, originaria della Repubblica di Capo Verde, alla quale la lega un rapporto di affetto sincero e potente. Come una seconda madre, o la madre che Cléo non ha avuto, le due vivono una quotidianità fatta di tanti piccoli momenti preziosi che alimentano l’affetto reciproco tra le due. Così, quando Gloria deve tornare a Capo Verde per prendersi cura della sua famiglia, Cléo le chiede di mantenere una promessa: rivedersi il prima possibile. Con il permesso del padre, Gloria invita la bambina a raggiungerla nel suo paese natale, per trascorrere insieme a a lei e ai suoi figli un’ultima estate da ricordare per sempre. Nel bene e nel male.

L’estate di Cléo, da un titolo all’altro

È interessante lo slittamento semantico operato dalla distribuzione italiana nel trasformare il titolo originale (Àma Gloria, dedicato alla adulta e affettuosa governante) focalizzando l’attenzione sull’esperienza della piccola Cléo. Anche correttamente, in effetti, visto che l’origine della storia sta proprio nell’esperienza vissuta dalla stessa regista quando aveva l’età della sua protagonista. E che al netto dell’omaggio della Amachoukeli alla tata di allora – la Laurinda, immigrata portoghese, alla quale il film è dedicato – riporta l’attenzione sul momento vissuto dalla bambina, sulle sue emozioni e soprattutto sulle sue risposte alla scoperta di una vita completamente diversa e altra da quella che aveva imparato a conoscere.

Lontana da casa, dalla protezione paterna e soprattutto dalle dinamiche e dai ruoli ai quali era abituata, la piccola è spiazzata, ancora non completamente in grado di comprendere i confini tra dovere e sentimento, tra il rispetto degli obblighi deontologici della sua tata, l’attenzione nei suoi confronti e l’amore sincero che le lega. Ma che lega la donna anche ai suoi veri figli, che mal sopportano l’arrivo di questa ‘sorellastra intoccabile’, un corpo estraneo alla loro famiglia, che inevitabilmente affrontano anche con gelosia e un pizzico di classismo.

L’estate di Cléo film 2024L’estate di Cléo, un film di scoperta

Un groviglio confuso, complicato da gestire, figuriamoci da capire, e per una bambina di 6 anni. Ma è una parentesi – lunga un’estate, appunto – che vale una vita, e che costringe la piccola a uscire dalla propria bolla. Anche quella nella quale l’aveva sempre tenuta la sua Gloria. La scelta del punto di vista di Cléo rende il film qualcosa di diverso e di più di un romanzo di formazione, e del film “sull’infanzia e sull’universalità dell’amore” annunciato, visto che sono ‘adulte’ le emozioni (sottolineate dai tanti primi piani, che rendono ancora più privato e personale l’intenso racconto) e i conflitti di fronte ai quali viene messa, e i rischi di certe scelte.

C’è il concetto di famiglia, troppo spesso ipocritamente e strumentalmente sbandierato nella sua forma solo tradizionale a discapito della miriade di forme che questo assume nella vita reale, come scopre la stessa protagonista, ma ci sono anche la morte, l’errore, il rancore che viene dal non conoscere l’altro e la capacità di superare i pregiudizi insieme ai confini. Ma soprattutto il coraggio di tuffarsi dall’alto di una rupe in un mare pericoloso e aperto (che ritorna negli splendidi intermezzi animati che impreziosiscono il film e arricchiscono la caratterizzazione del suo mondo interiore), come vediamo in una delle scene più belle ed emblematiche del film, in un gesto estremo di affermazione e rivincita. Dal quale ripartire, un po’ più preparata ad affrontare il futuro e il mondo.

L’Estate dei Segreti Perduti: il teaser trailer della serie Prime Video

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Prime Video ha svelato il teaser trailer del mystery thriller basato sul romanzo bestseller di E. Lockhart, L’Estate dei Segreti Perduti. Tutti gli otto episodi saranno disponibili dal 18 giugno 2025 in esclusiva su Prime Video in oltre 240 Paesi e territori nel mondo.

L’Estate dei Segreti Perduti segue le vicende di Cadence Sinclair Eastman e della sua ristretta cerchia di amici, soprannominati “I Bugiardi”, durante le loro avventure estive sull’isola privata del nonno, nel New England. I Sinclair sono l’equivalente dell’aristocrazia americana, noti per il loro bell’aspetto, la ricchezza tramandata da generazioni e il legame invidiabile che li unisce, ma, dopo un misterioso incidente che cambia per sempre la vita di Cadence, tutti, compresi i suoi amati “Bugiardi”, sembrano avere qualcosa da nascondere.

Ad interpretare “I Bugiardi” saranno: Emily Alyn Lind nel ruolo di Cadence Sinclair Eastman, Shubham Maheshwari nei panni di Gat Patil, Esther McGregor come Mirren Sinclair Sheffield, Joseph Zada nel ruolo di Johnny Sinclair Dennis; insieme a Caitlin FitzGerald nei panni di Penny Sinclair, Mamie Gummer come Carrie Sinclair, Candice King come Bess Sinclair, Rahul Kohli nel ruolo di Ed Patil e David Morse, che interpreta Harris Sinclair.

La serie è scritta dai co-showrunner Julie Plec (The Vampire Diaries, Legacies) e Carina Adly MacKenzie (Roswell, New Mexico, The Originals), che sono anche executive producer insieme a Emily Cummins (The Endgame – La regina delle rapine, Vampire Academy) per My So-Called Company, Brett Matthews (Legacies), Pascal Verschooris (The Vampire Diaries), e all’autrice del romanzo, E. Lockhart. Dietro il progetto ci sono anche Universal Television, una divisione di Universal Studio Group, e Amazon MGM Studios. Il romanzo è pubblicato negli Stati Uniti da Delacorte Press, una divisione editoriale di Random House Children’s Books.

L’essenziale è invisibile agli occhi. Gli sparuti e incostanti sprazzi della Festa del Cinema di Roma

Pare che siamo arrivati alla fine. Oggi ultimo giorno di Festa (ehi, ho imparato a chiamarla così. Sicuramente l’anno prossimo cambieranno di nuovo diciture), c’è il sole, Vì è tornata e –sia lode a Chtulhu – non c’è una premiazione finale. Il film più bello lo decideranno i ventiquattro spettatori che sono accorsi qui a questa manifestazione, e dunque problemi loro, significa che noi addetti se ci va di culo siamo perfino liberi di andarcene a cena in un orario decente e pregustare ‘sto mezzo week-end di riposo che in finale ci siamo meritati prima di partire per le prossime avventure (per me Lucca Comics, per altri Torino).

Oggi devo seguire Il Piccolo Principe. Il film l’ho già visto a Cannes, il che mi avvantaggia di due ore di tempo libero. Purtroppo ieri nella fretta ho guardato il programma a cazzo, e ho confuso gli orari di proiezione e conferenza, quindi arrivo comunque in orario per la proiezione, cioè con un paio d’ore d’anticipo. Che potevo usare per dormire, passeggiare, fare altro. Niente, è il destino del festivaliero. Fino all’ultimo, la kermesse ti risucchia con intricati giri d’eventi e tu non puoi sottrarti nemmeno se vuoi. E quindi andiamo di bilancio, che è un po’ quel che dicono tutti.

Che sarà vero che sta Festa sembra più una fiera di paese che un evento internazionale, che gli ospiti sono stati in generale di poca caratura, ma i film in media erano belli, insomma almeno due tre da consigliare io me li porto. Probabilmente è vero che “l’essenziale è invisibile agli occhi”.piccolo principe Ah, tra parentesi, il film di oggi col Piccolo Principe c’entra abbastanza sega, è una cosa spielberghiana, alla Hook, volendo, ma le parti del romanzo che tutti abbiamo amato da bambini si vede solo in alcune scene d’intermezzo realizzate con gli origami – tra l’altro ben riuscite – per il resto è tutta animazione moderna simil-Pixar, dove Antoine de Saint-Exupéry compare nel ruolo di sé stesso e in guisa di vecchio rincoglionito.

Nel pomeriggio un documentario su La grande bellezza pure bellino e con il merito di durare solo 60’, che per la stanchezza un po’ de cecagna me piglia – articolo, e poi se Nicolas Cage vuole è finita. Come sempre a mancarci saranno soprattutto gli incontri più o meno fugaci con la bella gente del festival, come quello che abbiamo fatto ieri al Tiepolo, un noto locale della capitale dove ti danno la patata, e infatti è sempre pienissimo.

S’è scoperto che parte della tavolata già lo frequentava abitualmente e che aveva un gruppo Whatsapp nominato ‘Quelli del Tiepolo’. Noi ci siamo ribattezzati ‘Figli del Tiepolo Minore’, in onore di tanti personaggi ‘minori’ che circolano da ‘ste parti e che per un motivo o per l’altro ci vogliono corteggiare con insistenza o picchiare. Di solito Vì ottiene il primo trattamento, io il secondo, ma non è detto.

Ma ora basta chiacchiere, il momento che aspettavate è arrivato, perché per il gran finale, Vì è di nuovo tra noi!

  1. Premio Realizzazione Tecnica Demmerda alle macchinette per la traduzione in sala conferenze. Il segnale sfancula in continuazione e non c’è modo di sentirle se non alzando a palla, con sommo disappunto di chi non le usa.

(Ang)

E infatti sono tornata, in realtà non so nemmeno da dove perché in realtà non mi sono mai fermata. Praticamente ormai sono un essere mitologico mezza donna e mezza rotaie. In ogni caso ieri sera ero qui di nuovo in diretta da questa festa splendida a fare un bagno di folla, a sgomitare per trovare posto, a fare file immense per riuscire a vedere qualcosa, praticamente ce stavamo solo noi, lo sapete. Noi e i parenti di Cupellini.

Ieri, e non so perché devo essere completamente rincoglionita, ho deciso di andare a vedere Sport, un docufilm in cui quattro registi, israeliani e palestinesi, hanno girato dei minicorti sul tema appunto dello sport.

Che uno che un minimo mi conosce sa benissimo che a me fottepropriosega di qualunque roba sportiva. Non che non lo sia, attenzione. Tutt’altro. È che trovo mostruosamente noioso guardare gare e robe simili. È come se vi costringessi a guardarmi mentre corro sul tapis roulant, per dire, o pretendessi l’applauso dopo che ad aerobox corco di legnate il mio avversario, o che vi propinassi due ore di visione di me che faccio squat in pantaloncini. Per non parlare del calcio, che per me il derby è al massimo un succo di frutta, capiamoci. Insomma, detto questo, posseduta da chissà quale demone (un po’ come la mia macchina, ma questa è un’altra storia), mi avvio in questa sala e iniziamo malissimo. Il primo corto è proprio sul calcio e per di più una filippica mediorientale stile documentario. Inizio a boccheggiare, soprattutto perché ero scesa dal frecciargento due ore prima, capite bene che ero un po’ stremata. Ma poi, sorprendentemente, con gli altri episodi sono stata totalmente rapita da questo lavoro, tant’è che sono uscita felicissima, spingendolo a tutti, ma che bello lo sport!

Restano irrisolti alcuni punti cruciali. Perché c’era un corto su due in prigione che fanno yoga?

Ah, anche quello non è un succo di frutta? Dite?

Po’ esse’, bravi, vi meritate un like.

Come se lo meritano il mio fido socio e tutti quelli che mi hanno aspettata, i lettori che si sono lamentati con me perché ho trascurato Ang, è vero, mi farò perdonare. Intanto ieri sera ‘i figli di un Tiepolo minore’ hanno deciso che oggi faranno un reportage di vita reale, proprio lì dove vige il sordido, svelandovi volti e nomi sui veri retroscena del festival. Oggi puntiamo a un selfie con la Stefania, santa donna del kebabbaro-universal  (si qui è brandizzato, come il mio meccanico ‘Tonino’ che se chiama Daniele, ‘Tonino’ è il brand) che mi nutre e mi avvolge di tante cure. Durante la cena delle patate ieri abbiamo ricordato molto le sue gesta. Questo Festival è nato sotto il segno del calendario cinese delle patate. Se fate i bravi un giorno vi spiegheremo perché.

grande bellezzaAdesso scappo, vado a prendere Ang, andiamo a vedere l’ennesima versione de La Grande Bellezza, dall’originale titolo Cercando la grande bellezza. Un film in cui ‘un regista minore’ (scusate, è una citazione meta-testuale sulla serata di ieri, non è dispregiativo, noi amiamo i registi minori, almeno quelli che non vogliono mena’ Ang) in cinque capitoli che cerca di ricostruire il modo di pensare e di fare il cinema di Paolo Sorrentino. Quindi ci ubriacano tutti prima di entrare in sala.

Detto questo, lo sapete che scherzo, come dico più volte Sorrentino per me può girare pure il menu di Cesare al Casaletto, anche se epica la frase (di gelo) di mia madre oggi: ‘ancora a vedere roba su ‘la Grande Bellezza?’ ‘Cosa ti dovranno mai dire che non sono riusciti a far passare in 5 ore di pellicola?’ ‘Ma cos’è in realtà un sequestro?’

Mamma ti amo, ti volevo salutare che qua ci teniamo a ringraziare i cari. Scappo, addio, o forse arrivederci Roma. Non lo so, ci pensiamo domani.

(Vì)

L’esperienza sensoriale di Dario Argento

L’esperienza sensoriale di Dario Argento

Discorrere di Dario Argento è difficile se non si applica un parallelismo diretto con la sua vita e le sue influenze giovanili. Figlio d’arte, Dario nasce a Roma nel 1940 da Salvatore Argento, famoso produttore cinematografico, e Elda Luxardo, fotografa brasiliana. La propensione artistica cinematografica gli fu involontariamente imposta da due genitori che di pellicole e shot ne masticavano e se ne intendevano.

Questa base artistica fu implementata da una dedizione passionale verso l’arte fantastica e surrealista i cui rappresentanti principali sono da individuare in Alfred Hitchcock, Walt Disney, F.W. Murnau, Fritz Lang, le opere letterarie di Edgar Alla Poe, e gli scritti alienanti di Thomas De Quincy. Successivamente, nelle sue opere cominciarono ad apparire le chiare impronte dello stile del padre e del fratello Claudio, che produsse alcune delle sue opere. Il successo per Dario Argento non si fece attendere e subito la critica riconobbe in lui un talento particolare, tale da definire le sue opere un cult. Fama e successo lo avvolsero, ma anche critiche spietate e taglienti. Il suo tocco si caratterizza per una forte enfasi dedicata alla visualità, in cui stili diversi si mescolano, alterando gli schemi tradizionali imposti dal gusto del cinema. Egli utilizza la macchina da presa in maniera diversa ed elaborata, associandola ad effetti di luce e musicali che rappresentano la vera quintessenza del suo lavoro e il background perfetto per le scene di violenza sessuale.

Non è un caso se lo si considera il maestro europeo del concetto di macabro, in cui le immagini di violenza raggiungono il limite estremo della loro capacità espressiva. La sua carriera cinematografica inizia come osservatore e critico cinematografico per la testata romana Paese Sera e fu solo dopo, intorno agli anni ‘60, che si dedicò alla scrittura di sceneggiature di film western: Une Corde un colt (1969) e Commandos (1968), ma contribuì anche alla sceneggiatura di Sergio Leone di C’era una volta il West (1968) che gli permise di conoscere Goffredo Lombardo e produrre, quindi, il suo primo film L’Uccello dalle Piume di Cristallo (1970).

Nonostante l’etichetta horror che solitamente si attribuisce a quest’opera, essa nasce come un giallo in cui Argento narra le vicissitudini di un uomo, che inaspettatamente assiste ad una violenza e gli viene attribuita la colpa. Dalmas, il personaggio principale, per dimostrare la sua innocenza deve andare contro le leggi, e trovare da sé la strada verso la verità. Una verità inaspettata in cui la vittima si tramuta in carnefice. Lo stile adoperato dal regista sorprende gli spettatori, i quali applicando il metodo tradizionale di ricostruzione dei fatti, si trovano spiazzati nel ricondurre tutti gli indizi (solitamente associati ad una perversità e instabilità mentale maschile) nella figura di una donna. La confusione logica di ricostruzione degli eventi dei crimini sessuali generata negli spettatori sarà una caratteristica pregnante di molte sue opere, in cui la fine e la risoluzione di un dramma sconvolgerà la tradizionale analisi effettiva delle situazioni.

Il suo secondo film è Il Gatto a Nove Code (1971), considerato anche la sua seconda opera della trilogia degli “animali”, a causa della presenza nel titolo o nello svolgersi dei fatti di un animale. A differenza della prima opera, le due successive Il Gatto a Nove Code e Quattro Mosche di Velluto Grigio ricevettero critiche negative riguardo lo stile detective di cui fa uso il regista. Secondo la critica, Argento mise da parte il metodo razionale e deduttivo per dedicarsi interamente ad una visione eccessivamente libera e fantasiosa dei fatti.

Lo stile di Dario Argento risente a pieno dell’influenza dell’industria italiana, in cui l’enfasi costante sul genere si mescola ad un’attitudine più cerebrale, dominata da una visione critica e intellettuale dell’opera. La combinazione di elementi intellettuali con slanci istintivi è una caratteristica tipica dello stile italiano del dopoguerra, in cui si cerca di soddisfare le richieste di un audience sofisticato e le pretese di una popolazione più semplice e pragmatica e quindi ottenere, anche, un buon ritorno economico. Le tecniche che permisero di ampliare il suo range di pubblico, riuscendo a soddisfare le richieste più disparate, sono da ricondurre alla presenza di una descrizione politica o psicoanalitica unite a scoppi irrazionali di risa, suspence, eccitazione e violenza.

Se Profondo Rosso (1975) si caratterizza per la presenza di elementi sovrannaturali, questi aspetti troveranno la loro massima espressione con Suspiria (1977). Film di grande successo, Suspiria esprime in pieno l’evoluzione di Argento, passando dal filone del Giallo a quello di Horror, pur trattenendo nella sua essenza alcune caratteristiche di base. Un chiaro esempio ci viene fornito dalla contrapposizione tra uomini e donne, i primi con caratteri deboli e inutili le seconde aggressive e dominanti. Ciò che fa di questo film la pietra miliare dello stile di Argento è la tecnica impiegata per la narrazione delle scene. E’ proprio qui che il regista esprime in pieno il suo stile surreale con riprese che, disorientando lo spettatore, spostano l’osservazione su giochi di luce e di suoni che saranno in seguito il suo tratto caratteristico, nonché il valore aggiunto all’opera. Emblematica è la scena degli omicidi iniziali in cui il progredire drammatico dei fatti è in maniera crescente accompagnato da un carico di colori e da una colonna sonora incalzante e nevrotica.

Le sue opere successive non smentiranno la sua propensione verso l’esaltazione assoluta dei sensi, tramite l’utilizzo di luci- colori- suoni anche se conserveranno sempre quei tratti caratteristici della sua fase iniziale del periodo “giallo”.

L’esorcista: perché è (e probabilmente rimarrà) il film più terrificante mai realizzato

Per tentare di comprendere la paura bisogna partire dal concetto di negazione. Quando l’ordine costituito viene messo in discussione da un evento o un personaggio che arriva a sottrarre certezze, valori o addirittura il senso stesso della realtà su cui quell’ordine stesso si poggia, ecco che subentrano l’incertezza e l’inquietudine, pronte a trasformarsi in terrore dell’ignoto col reiterarsi degli agenti destabilizzanti. Quello che l’essere umano non può comprendere con il bagaglio culturale, psicologico, emotivo che ha accumulato nei secoli genera spavento. Ciò che nega il fondamento stesso di questi valori provoca terrore.

Nessun altro film come L’esorcista di William Friedkin ha saputo sviluppare con tale portata e coraggio l’idea di negazione applicata al cinema horror, portandola alle estreme conseguenze.

L’esorcista, il terrore ineguagliato al cinema

Come tassello di partenza di questo processo c’è la sceneggiatura di William Peter Blatty, trasposizione cinematografica del suo stesso romanzo: lo sviluppo narrativo del suo script diventa scena dopo scena un devastante atto di negazione dell’innocenza, in quanto la possessione di Regan MacNeil da parte di Pazuzu non ha alcun motivo, nessun appiglio logico che la spieghi. Nel trasformarsi nell’essere blasfemo con cui si dovranno confrontare Padre Merrin e Padre Karras, il personaggio viene progressivamente spogliato di quell’umanità specifica appartenente ai bambini. La spensieratezza, la gioia, la dimensione eterea di quell’età vengono scena dopo scena negati da una metamorfosi inspiegabile quanto radicale. Non c’è ragione, soltanto l’orrore. Tra l’altro la grandezza della sceneggiatura sta anche nel “negare” il testo di partenza, spostando il fulcro emotivo da un personaggio all’altro: se infatti nel romanzo il dramma principale è quello di Chris MacNeil, madre che deve impotente alla tortura che sua figlia deve subire, nel film invece il centro del discorso si sposta su Padre Karras, uomo di fede che, proprio nel momendo in cui la sta perdendo, deve ritrovarla al fine di combattere il Male incarnato.

L’impatto de L’esorcista

E adesso la parte più difficile da spiegare e a conti fatti probabilmente anche quella maggiormente opinabile, poiché motivata da una visione profondamente soggettiva de L’esorcista. Il capolavoro di William Friedkin ha avuto un impatto radicale e indelebile su chi scrive perché, creando un paradosso concettuale quanto ontologico, tenta di negare l’orrore stesso in nome di quel realismo che lo stesso autore era riuscito a inserire nel cinema americano mainstream con il precedente Il braccio violento della legge. Prima di tutto Friedkin sembra voler adoperare la progressione narrativa di Blatty per impedire all’orrore di entrare nel film: nella prima parte i segnali suscettibili di interpretazione, poi lo scatenarsi cadenzato di eventi inquietanti, infine la lunga sequenza delle analisi cliniche svolte per cercare di capire lo stato di Reagan rappresentano una dilazione quasi disperata dell’inevitabile: prima di arrivare all’accettazione della possessione demoniaca Chris e con lei il film stesso tentano ogni strada percorribile per rimanere nella sfera di ciò che è tangibile, logico, umano.

Una volta negata ogni altra opzione percorribile, Friedkin tratta la parte soprannaturale del suo film realismo estremo, e per questo ancora più terrificante: ne L’esorcista non ci sono ad esempio i cosiddetti “Cheap thrills”, neppure la celeberrima scena della zuppa di piselli vomitata dal demone in faccia padre Karras può essere considerata tale, in quanto si tratta un’azione volta a negare (ancora una volta) la logica con cui l’uomo di fede tenta di imprigionare il non-senso di cui l’entità è portatrice. A livello puramente estetico poi Friedkin adopera il set designing dell’abitazione e in particolar modo la straordinaria fotografia di Owen Roizman – artista a cui non verrà mai concesso abbastanza credito per la riuscita del film – affinché l’atmosfera creata rimanga sempre tangibile.

In un film che progressivamente precipita nell’ombra e nell’oscurità visiva ed emotiva, i punti luce sono quasi sempre interni all’inquadratura, volti ad aumentare appunto il realismo dell’oppressione e della claustrofobia. In questo impianto visivo che non permette mai allo spettatore di “abbandonare” veramente la tangibilità di quello che sta vedendo/vivendo, ecco che poi l’autore inserisce piccoli scarti di senso, piccole variazioni capaci di smentire/negare la realtà stessa delle immagini. Il sogno di Padre Karras con l’immagine subliminale di Pazuzu ne è il preambolo, mentre l’allucinazione di cui lo stesso personaggio è vittima verso la fine del film ne è l’epitome. Quando Karras vede sul letto la madre costretta nella camicia di forza con cui era deceduta, quello a nostro avviso è il momento che “spiega” al meglio L’esorcista: un’immagine improntata sul realismo con un piccolissimo scarto che non viene quasi mai notato a livello logico ma lavora a livello inconscio per spiazzare, inquietare: il lenzuolo che copre il materasso è tirato. La donna non ha alcun peso.

Prima di vedere o rivedere L’esorcista, nel caso decidiate di farlo, provate a fermarvi un attimo a pensare quali sono i vostri valori: etici, religiosi, culturali, decidete voi. E alla fine del film provate a capire quanti di questi sono stati negati da William Friedkin e dalla sua opera. Ecco, in questo sta lo scarto tra l’orrore che passa e quello che resta. Che non se ne vuole andare.

L’esorcista: Il credente, le nuove immagini ci riportano indietro nell’orrore

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Con l’uscita di L’esorcista: Il credente proprio dietro l’angolo, il classico franchise horror tornerà a spaventare una nuova generazione di pubblico. Ora, un’esclusiva di Total Film ha rivelato delle anticipazioni al film, confermando che si tratterà di un ritorno alle origini.

La nuova immagine dal film ci presenta Olivia Marcum, che nel film interpreta Katherine, una delle due ragazze possedute nel film. Inutile dire che la possessione demoniaca è un concetto terrificante e il film non si tira indietro nel mostrare quanto possa essere brutale. Uno dei tratti distintivi del franchise de L’Esorcista è infatti la natura grottesca delle vittime possedute, e il film non fa eccezione, con l’immagine che riecheggia efficacemente l’aspetto di Regan del film originale. Resta da vedere se il film può essere anche da solo, senza l’eco dell’originale, un film horror avvincente.

A corredo dell’immagine, la rivista ha pubblicato anche un’intervista a Ashley Rae Trisler, coordinatrice degli stuntman per L’esorcista: Il credente: “[Ci sono] alcune scene di grande impatto, sorprendenti, che potrebbero potenzialmente superare ciò che la gente ricorda di 50 anni fa,” ha detto Trisler. Il mondo è cambiato in modo significativo dalla produzione del primo film, cosa che, secondo Trisler, ha aggiunto importanza a garantire la sicurezza dei giovani attori.

L’esorcista – Il credente, tutto quello che sappiamo sul film

L’esorcista: Il credente si concentrerà sul padre di una bambina posseduta, che in cerca di aiuto entrerà in contatto con Chris MacNiel (Ellen Burstyn). La Burstyn riprenderà il suo ruolo de L’esorcista, dove era la madre di Regan (interpretata da Linda Blair), per aiutare a combattere il possesso della bambina e di una sua amica. Oltre alla Burstyn, il cast di L’esorcista – Il credente include Leslie Odom Jr. (Hamilton), Ann Dowd (The Handmaid’s Tale), Raphael Sbarge (C’era una volta) e la cantante Jennifer Nettles.

Con un cast di talento riconoscibile che dà vita al film, L’esorcista: Il credente sta prendendo forma come un degno seguito di L’esorcista. La decisione di avere tutti i film nel canone di indica inoltre che ci saranno riferimenti anche agli altri quattro titoli della serie. Il nuovo film, però, segna anche l’inizio di una nuova trilogia di sequel, similmente a quanto fatto anche con i sequel di Halloween, di  cui appunto Green è stato regista.

Resta però da vedere come questo nuovo film si affermerà presso il grande pubblico. Mentre Green si è dimostrato un talentuoso regista slasher con Halloween, i suoi sequel Halloween Kills e Halloween Ends non sono stati particolarmente apprezzati né dal pubblico né dalla critica. Tuttavia, con L’esorcista – Il credente, che crea una nuova storia all’interno dell’universo di L’esorcista, il film potrebbe svelare nuovi entusiasmanti aspetti degni di essere raccontati.

L’esorcista: Il credente, in che modo il film “preserva l’integrità drammatica” del film originale

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Il regista di L’esorcista: Il credente, David Gordon Green, ha parlato del modo in cui il film si propone di preservare il tono del classico originale. Il film, che sarà presentato in anteprima nelle sale il 13 ottobre, è il sesto capitolo della serie cinematografica iniziata con L’Esorcista del 1973, basato sull’omonimo romanzo di William Peter Blatty e diretto da William Friedkin. Il film seguirà due ragazze che mostrano segni di possessione dopo essere scomparse per diversi giorni, portando uno dei loro padri (Leslie Odom Jr.) ad avvicinarsi Chris MacNeil (Ellen Burstyn), personaggio del film originale, chiedendo aiuto.

In una recente intervista con Empire (che mostrata anche una nuova immagine ufficiale), Green ha paragonato il nuovo Esorcista alla sua recente trilogia di sequel di Halloween. Sebbene abbia affermato che il genere slasher era un “luogo in cui giocare“, L’esorcista: Il credente è “più ricercato e un po’ accademico“. Ha cercato di “preservare l’integrità drammatica” del film originale senza imitare il sottogenere della possessione direttamente conseguente dal film di Friedkin.

“I film di Halloween appartengono al genere slasher. Sono un posto dove giocare e magari divertirsi un po’. Ma questo era più ricercato e un po’ accademico. La narrazione che stavamo cecrcando e le relazioni che raccontiamo erano più drammatiche. È un approccio molto diverso.

Stiamo parlando del genere horror, ma la mia ambizione principale era preservare l’integrità drammatica e non appoggiarmi a quello che è seguito per il genere come conseguenza del successo del film originale. Ma questo è impossibile: bisogna riconoscere che ci sono stati così tanti film che sono imitazioni derivate de L’Esorcista. Il concetto si è evoluto, quindi realizzare un film a combustione lenta, drammatico, provocatorio e spaventoso è diverso per il pubblico di oggi rispetto a 50 anni fa.”

L’esorcista – Il credente, tutto quello che sappiamo sul film

L’esorcista: Il credente si concentrerà sul padre di una bambina posseduta, che in cerca di aiuto entrerà in contatto con Chris MacNiel (Ellen Burstyn). La Burstyn riprenderà il suo ruolo de L’esorcista, dove era la madre di Regan (interpretata da Linda Blair), per aiutare a combattere il possesso della bambina e di una sua amica. Oltre alla Burstyn, il cast di L’esorcista – Il credente include Leslie Odom Jr. (Hamilton), Ann Dowd (The Handmaid’s Tale), Raphael Sbarge (C’era una volta) e la cantante Jennifer Nettles.

Con un cast di talento riconoscibile che dà vita al film, L’esorcista: Il credente sta prendendo forma come un degno seguito di L’esorcista. La decisione di avere tutti i film nel canone di indica inoltre che ci saranno riferimenti anche agli altri quattro titoli della serie. Il nuovo film, però, segna anche l’inizio di una nuova trilogia di sequel, similmente a quanto fatto anche con i sequel di Halloween, di  cui appunto Green è stato regista.

Resta però da vedere come questo nuovo film si affermerà presso il grande pubblico. Mentre Green si è dimostrato un talentuoso regista slasher con Halloween, i suoi sequel Halloween Kills e Halloween Ends non sono stati particolarmente apprezzati né dal pubblico né dalla critica. Tuttavia, con L’esorcista – Il credente, che crea una nuova storia all’interno dell’universo di L’esorcista, il film potrebbe svelare nuovi entusiasmanti aspetti degni di essere raccontati.

L’esorcista: Il credente, il secondo trailer dell’horror

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L’esorcista: Il credente, il secondo trailer dell’horror

La Universal Pictures ha diffuso in rete il secondo trailer di The Exorcist: Believer, in Italia distribuito come L’esorcista: Il credente. Si tratta di un nuovo sequel del lungometraggio del 1973, diretto dal regista della nuova trilogia di Halloween David Gordon Green. Sebbene il film horror fungerà da sequel diretto de L’esorcista, è stato comunicato che gli altri film esistenti nel franchise rimarranno canonici. Il trailer, della durata di ben 3 minuti, introduce gli spettatori all’atmosfera, alle vicende e ai personaggi del film, promettendo tanto richiami all’opera originale quanto nuovi sconvolgenti orrori.

L’esorcista – Il credente, tutto quello che sappiamo sul film

L’esorcista: Il credente si concentrerà sul padre di una bambina posseduta, che in cerca di aiuto entrerà in contatto con Chris MacNiel (Ellen Burstyn). La Burstyn riprenderà il suo ruolo de L’esorcista, dove era la madre di Regan (interpretata da Linda Blair), per aiutare a combattere il possesso della bambina e di una sua amica. Oltre alla Burstyn, il cast di L’esorcista – Il credente include Leslie Odom Jr. (Hamilton), Ann Dowd (The Handmaid’s Tale), Raphael Sbarge (C’era una volta) e la cantante Jennifer Nettles.

Con un cast di talento riconoscibile che dà vita al film, L’esorcista: Il credente sta prendendo forma come un degno seguito di L’esorcista. La decisione di avere tutti i film nel canone di indica inoltre che ci saranno riferimenti anche agli altri quattro titoli della serie. Il nuovo film, però, segna anche l’inizio di una nuova trilogia di sequel, similmente a quanto fatto anche con i sequel di Halloween, di  cui appunto Green è stato regista.

Resta però da vedere come questo nuovo film si affermerà presso il grande pubblico. Mentre Green si è dimostrato un talentuoso regista slasher con Halloween, i suoi sequel Halloween Kills e Halloween Ends non sono stati particolarmente apprezzati né dal pubblico né dalla critica. Tuttavia, con L’esorcista – Il credente, che crea una nuova storia all’interno dell’universo di L’esorcista, il film potrebbe svelare nuovi entusiasmanti aspetti degni di essere raccontati.

L’Esorcista, Ace Ventura e altri titoli: in arrivo i remake?

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L’Esorcista, Ace Ventura e altri titoli: in arrivo i remake?

La Morgan Creek Productions ha deciso di mettere in vendita i diritti di sfruttamento dei film che ha in catalogo nella sua libreria. Si tratta di 78 pellicole delle quali però la casa di produzione mantiene i dirittiper eventuali remake.

Questo vuol dire che le società che acquisteranno il catalogo avranno diritto solo a percentuali sugli incassi.

Si tratta di film molto celebri, come L’Esorcista, Ace Ventura, Major League, Young Guns e Flying Tigers.

Il passo della messa in vendita sarebbe stato fatto in vista di alcuni remake da produrre che necessiterebbero una certa liquidità. Trai film che potrebbero essere quindi oggetto di remake ci sono anche dei capisaldi come il già citato Esorcista, ma anche capolavori come L’Ultimo dei Mohicani e Robin Hood – Il Principe dei Ladri.

L’Esorcista oggi in versione restaurata a Venezia Classici

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L’Esorcista oggi in versione restaurata a Venezia Classici

L’Esorcista, che ha sconvolto il mondo terrorizzando generazioni di spettatori ed è tuttora considerato un capolavoro della storia del cinema, viene presentato oggi all’80. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia nella sua versione restaurata Director’s Cut 4K nell’ambito della sezione Venezia Classici.

In occasione del 50° anniversario di quest’opera epocale tratta dal romanzo omonimo di William Peter Blatty, il film sarà proiettato nei cinema italiani nei giorni25, 26 e 27 settembre nella sua spettacolare versione Director’s Cut, completamente restaurata in 4K da Warner Bros. Discovery. Questo evento senza precedenti porterà nuovamente l’orrore e il brivido nelle sale cinematografiche, illuminando il buio con immagini straordinarie che terranno gli spettatori incollati allo schermo, proprio come ha fatto con le generazioni passate.

Credo che The Exorcist sia tanto intenso oggi, a distanza di cinquant’anni, quanto lo fu al momento della sua prima uscita. È questa la genialità della storia di William P. Blatty’ – dichiarava il compianto regista William Friedkin, scomparso nelle scorse settimane, in occasione dell’annuncio della presenza della versione restaurata del film alla Mostra del Cinema.

L’Esorcista è molto più di un semplice film horror; è un’icona del cinema, una pietra miliare nella storia del grande schermo. Da quando è stato presentato per la prima volta nel lontano 1973, ha spaventato, affascinato e incantato il pubblico di tutto il mondo. Le sue scene indimenticabili, i personaggi iconici e l’atmosfera da brivido lo rendono un’opera d’arte cinematografica senza tempo. Anche dopo cinque decenni, continua a esercitare un impatto culturale straordinario, influenzando il genere horror e l’arte del cinema in generale. È una testimonianza del potere duraturo del cinema nel catturare l’immaginazione e spingere gli spettatori al limite del terrore e della suspense.

In occasione di questo anniversario epocale, Warner Bros. Discovery ha dedicato un impegno straordinario per restaurare L’Esorcista in una magnifica versione Director’s Cut, con una qualità visiva ineguagliabile grazie alla tecnologia 4K. Ogni dettaglio è stato curato con precisione, dal suono inquietante ai dettagli visivi mozzafiato, creando un’esperienza cinematografica completamente immersiva.

Per celebrare questa ricorrenza straordinaria, “L’Esorcista Director’s Cut – 4K Restaurata” farà il suo ritorno spettacolare nei cinema di tutta Italia. L’evento si terrà nei giorni 25-26-27 settembre e offrirà agli spettatori una rara opportunità di rivivere l’angosciante storia di possessione e fede su uno schermo grande come la vita stessa. Questa tre giorni di evento esclusivo promette di essere un’esperienza imperdibile per gli amanti del cinema, sia per coloro che conoscono già l’opera, sia per chi vuole sperimentarla per la prima volta. Questo evento epico è un omaggio a un capolavoro senza tempo, che ha spaventato, incantato e influenzato innumerevoli spettatori attraverso le generazioni.

L’Esorcista del Papa, recensione del film con Russell Crowe

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L’Esorcista del Papa, recensione del film con Russell Crowe

In un momento storico in cui gli unici film che incassavano, i cinecomic, stanno perdendo il loro ruolo di riferimento per il mercato internazionale, un nuovo tipo di eroe sorge per puntare a diventare il nuovo faro del box office: Padre Gabriele Amorth di Russell Crowe è il protagonista de L’Esorcista del Papa, il nuovo film di Julius Avery che, nonostante il suo protagonista e la figura storica a cui si ispira (molto liberamente), ha bisogno più che di presentazioni, di una dovuta premessa.

Una premessa doverosa

Il tema dell’esorcismo ha fortissime radici nell’immaginario collettivo, immaginario arricchito e per molti versi determinato anche dal cinema, con il capolavoro di William Friedkin. Sembra naturale dunque approcciarsi a L’Esorcista del Papa con una buona dose di timore e suggestione, dato che è inevitabile far correre la mente agli illustri predecessori che raccontano le stesse figure. Ebbene, nulla di più sbagliato, perché il film di Avery non si prende minimamente sul serio, e più che raccontare la vita di una delle figure più controverse e in qualche modo influenti della moderna Chiesa Cattolica, ne fa una sorta di supereroe scettico e riluttante che prende estremamente sul serio il Male e le sue, rarissime, manifestazioni. Perché se il suo intervento è richiestissimo, Padre Amorth dice senza troppi giri di parole che il 98% dei casi che gli vengono sottoposti si risolvono con psicoterapia e medici, senza andare a scomodare le potenze fondate dell’universo. Siamo davanti a un personaggio molto razionale, malgrado la sua professione, un uomo che non è solo un prete, ma è un giornalista, un avvocato, un attento osservatore dell’animo umano, una persona che riesce a capire chi ha di fronte e quando il suo potere da esorcista è davvero richiesto.

L’Esorcista del Papa, la trama

Ed è proprio quello che succede quando viene convocato per intervenire in un misterioso caso di possessione in Spagna, in un’abbazia sconsacrata in cui, una madre con due figli si sta confrontando con delle manifestazioni demoniache che sembrano molto potenti. Il più giovane dei figli è infatti posseduto e il demone al suo interno chiede l’intervento “del prete”. Quando Amorth arriva è carico di bagaglio con gli strumenti del mestiere ma anche di una buona dose di scetticismo, data la sua esperienza, eppure immediatamente capisce che quella battaglia sarà davvero importante per la sua vita e per la vita della Chiesa, addirittura.

Lontanissimo dalla raffinatezza regista e tonale de L’Esorcista, il film di Avery ne prende spunto, principalmente nelle manifestazioni più splatter, per virare sul fantasy spinto, con toni e ambientazioni che ricordano molto un’estetica anni ’90 in cui la verosimiglianza e il prendersi sul serio non erano affatto contemplate. Alla luce di queste considerazioni, L’Esorcista del Papa si rivela un film molto divertente, assolutamente privo di pretese e forse proprio per questo il prodotto adatto a ciò che il pubblico, lontano dalle sale, desidera vedere sul grande schermo.

Le potenzialità sono infinite, tanto che la storia, strutturata come una Origin story di un supereroe, potrebbe aprirsi addirittura a una vera e propria saga che ha per protagonista Amorth insieme a Padre Esquibel, aiutante del protagonista con cui si instaura una dinamica da Buddy movie, addirittura, un braccio destro fondamentale per la vittoria finale.

L’Esorcista del Papa russell crowe
Father Esquibel (Daniel Zovatto) and Father Gabriele Amorth (Russell Crowe) in Screen Gems’ THE POPE’S EXORCIST.

Un nuovo supereroe è in città: Russell Crowe

La sceneggiatura debolissima si perde anche nei territori del thriller investigativo e in quelli dello splatter, nella parte finale, ma mai riesce a creare un’atmosfera minimamente spaventosa. Nonostante la regia si sforzi di inseguire una simmetria nelle sue inquadrature che però risultano sempre anonime e mai davvero ispirate. Chi invece di ispirazione ne ha profusa moltissima in questo progetto è il suo protagonista: Russell Crowe, con la sua ingombrante e carismatica figura, porta sulle spalle tutto il film, senza mai timore di recitare sopra le righe e anzi mettendo in scena una versione romanzata del personaggio realmente esistito che è divertente e potente, proprio come un supereroe che si confronta con una grande minaccia per la Terra.

L’Esorcista del Papa potrebbe riservare molte sorprese a chi non lo prendesse sul serie e a tutti gli spettatori che si approcceranno in maniera leggera e divertita alla genesi di questo nuovo, insolito e ironico supereroe che gira il mondo con la sua Lambretta.

L’esorcista – Il credente, recensione del film di David Gordon Green

Se c’è una qualità che la Blumhouse ha messo in evidenza e rafforzato nel corso di questi anni e dei successi che ha ottenuto, è quella di conoscere i propri punti di forza così come i propri limiti. Jason Blum e l’ormai fidato regista David Gordon Green sapevano fin dall’inizio di non potersi veramente confrontare con un horror della statura de L’esorcista: troppo grande la sua portata, troppo elevato il suo status rispetto agli altri titoli che sono stati riportati alla ribalta dalla casa di produzione. Capito questo, il loro nuovo L’esorcista – Il credente in realtà gira intorno al capolavoro diretto cinquant’anni orsono da William Friedkin, lo chiama in causa per ovvie ragioni di fama e marketing ma non vi si poggia poi più di tanto, evitando paragoni e accostamenti che a conti fatti sarebbero stati fuorvianti se non addirittura deleteri.

L’esorcista – Il credente si ispira a… Halloween

Il film a cui invece questo nuovo horror si avvicina esplicitamente è l’Halloween diretto sempre da David Gordon Green nel 2018, perché come Blum sa benissimo, formula che vince non si cambia. Ecco allora che l’ambientazione principale  de L’esorcista – Il credente è una piccola cittadina della Georgia che rimanda in tutto e per tutto a quella del reboot-sequel delle gesta assassine di Michael Myers. L’orrore che si scatena tra le strade mansuete dell’America di provincia evidentemente riesce ancora oggi a far presa sul pubblico e possiede il vantaggio produttivo di contenere i costi di un lungometraggio dentro il budget adeguato per una produzione targata Blumhouse.

Una volta stabilito quale sarà il teatro macabro della vicenda, la sceneggiatura del film comincia a costruire la storia di possessione delle due bambine con efficacia e attenzione ai dettami narrativi di questo tipo di film. Dal canto suo David Gordon Green riesce ad ammantare la messa in scena di un senso di disperazione e predestinazione che, soprattutto nella prima parte del film, funzionano in maniera davvero efficace.

L’esorcista – Il credente si dipana così come un film autunnale, intriso di una malinconia che lo rende capace di camminare sulle proprie gambe con discreta autorevolezza. Certo, le coordinate sono necessariamente quelle di un film dell’orrore contemporaneo, con scene ad effetto che devono necessariamente spaventare il pubblico come di fa oggi, ma tutto sommato tali mezzi vengono dosati con discreta cura, senza scadere eccessivamente nella banalità.

L’esorcista - Il credente film
(from lower left, clockwise) Angela Fielding (Lidya Jewett, back to camera), Katherine (Olivia O’Neill), Pastor Don Revans (Raphael Sbarge), Doctor Beehibe (Okwui Okpokwasili), Ann (Ann Dowd), Tony (Norbert Leo Butz), Miranda (Jennifer Nettles) and Stuart (Danny McCarthy) in The Exorcist: Believer, directed by David Gordon Green.

Il ritorno di Chris MacNeil

Anche l’arrivo in scena della leggendaria Chris MacNeil ancora una volta interpretata da Ellen Burstyn non distoglie troppo l’attenzione dal dramma principale. Anche perché, seppur fa molto piacere rivedere il personaggio e fa ancora incredibilmente paura tornare con la memoria alla possessione di sua figlia Regan, si tratta di una connessione tutto sommato piuttosto labile, che non aggiunge né comunque toglie – molto al risultato di questo nuovo capitolo.

Il problema vero de L’esorcista – Il credente sta nel fatto che, e bisogna comunque tributargli coraggio anche nell’errore del risultato, nella seconda parte tenta un approccio “animista” al confronto tra Bene e Male che conduce a un finale fin troppo pantagruelico. Gli ultimi venti minuti del film, pur dotati di un loro fascino teorico, risultano francamente confusi e diluiti in una serie di colpi ad effetto che fanno scivolare il tutto dentro i canoni dell’horror commerciale. A mancare poi è anche la profondità drammatica del personaggio di Victor Fielding, padre della giovane Angela caduta vittima dei demoni che ne hanno preso il corpo. L’arco narrativo dell’uomo rimane sempre troppo in secondo piano, e Leslie Odom Jr. riesce a malapena a dargli profondità emotiva.

Poteva andare molto ma molto peggio: questa è la sensazione che si ha alla fine della visione de L’esorcista – Il credente. David Gordon Green ha infatti realizzato un horror che funziona piuttosto bene nello sfruttare il lato drammatico della vicenda, che sa spaventare adoperando gli spazi oscuri degli interni – sotto questo punto di vista a nostro avviso James Wan e il suo The Conjuring hanno dettato le regole dell’horror contemporaneo in maniera ancora insuperata – che richiama in causa il capolavoro originale senza abusarne, che sa condurre lo spettatore dentro il labirinto terrificante che ha efficacemente costruito. Viene addirittura quasi da chiedersi se c’era davvero bisogno di richiamare in causa L’esorcista del 1973, ma tant’è. Il link porterà probabilmente il pubblico al cinema, e questo di certo non guasta…

L’Era Glaciale: il corto Cosmic Scrat-tastrophe

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L’Era Glaciale: il corto Cosmic Scrat-tastrophe

Pubblicato il video del nuovo corto Cosmic Scrat-tastrophe de L’Era Glaciale, che vede protagonista il simpatico scoiattolo in viaggio nello spazio.

https://www.youtube.com/watch?v=zgSNlmkJCpg

Sarà possibile vedere il corto Cosmic Scrat-tastrophe al cinema, proiettato prima del film Blue Sky, Snoopy&Friends.

Vi ricordiamo inoltre che il quinto episodio della saga glaciale della 20th Century Fox e Blue Sky Studios ha il titolo Ice Age: Collision Course.

L’Era Glaciale 5 arriverà nelle sale il 22 luglio 2016.

L’Era Glaciale in Rotta di Collisione: una clip dal film

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L’Era Glaciale in Rotta di Collisione: una clip dal film

La 20th Century Fox ha pubblicato una nuova clip originale tratta da L’Era Glaciale in Rotta di Collisione, nuovo episodio della saga d’animazione che ha sbancato i botteghini del mondo, facendo divertire grandi e piccoli.

Di seguito il video:

https://www.youtube.com/watch?v=WLiMtRGGW7Y

Guarda i character poster de L’Era Glaciale in Rotta di Collisione

SINOSSI: Sempre all’inseguimento della mitica ghianda, Scrat verrà catapultato nello spazio dove, accidentalmente, darà origine ad una serie di eventi cosmici che trasformeranno e minacceranno il mondo dell’Era Glaciale. L’Era Glaciale in Rotta di CollisionePer salvarsi Sid, Manny, Diego e il resto del gruppo dovranno abbandonare la loro casa e intraprendere un’avventura ricca di comicità, viaggiando attraverso nuove terre esotiche e incontrando nuovi e coloratissimi personaggi.

L’Era Glaciale In Rotta di Collisione sarà al cinema dal 25 agosto 2016. Nella versione originale ritornano nel cast le voci di Ray Romano, Denis Leary, John Leguizamo, Queen Latifah, Seann William Scott, Josh Peck, Simon Pegg, Keke Palmer, Wanda Sykes e Jennifer Lopez.  Si uniscono al gruppo Stephanie Beatriz, Adam DeVine, Jesse Tyler Ferguson, Max Greenfield, Jessie J, Nick Offerman, Melissa Rauch, Michael Strahan e Neil deGrasse Tyson.

Il franchise ha esordito nel 2002 con L’Era Glaciale, diventando poi un vero e proprio successo di pubblico e arrivando, con In Rotta di Collisione, al suo quinto capitolo.

L’Era Glaciale in Rotta di Collisione: trailer finale italiano

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L’Era Glaciale in Rotta di Collisione: trailer finale italiano

La 20th Century Fox ha pubblicato in rete il nuovo trailer finale di L’Era Glaciale in Rotta di Collisione, nuovo episodio della saga d’animazione che ha sbancato i botteghini del mondo, facendo divertire grandi e piccoli.

Ecco il trailer in italiano:

Guarda i character poster de L’Era Glaciale in Rotta di Collisione

SINOSSI: Sempre all’inseguimento della mitica ghianda, Scrat verrà catapultato nello spazio dove, accidentalmente, darà origine ad una serie di eventi cosmici che trasformeranno e minacceranno il mondo dell’Era Glaciale. L’Era Glaciale in Rotta di CollisionePer salvarsi Sid, Manny, Diego e il resto del gruppo dovranno abbandonare la loro casa e intraprendere un’avventura ricca di comicità, viaggiando attraverso nuove terre esotiche e incontrando nuovi e coloratissimi personaggi.

L’Era Glaciale In Rotta di Collisione sarà al cinema dal 25 agosto 2016. Nella versione originale ritornano nel cast le voci di Ray Romano, Denis Leary, John Leguizamo, Queen Latifah, Seann William Scott, Josh Peck, Simon Pegg, Keke Palmer, Wanda Sykes e Jennifer Lopez.  Si uniscono al gruppo Stephanie Beatriz, Adam DeVine, Jesse Tyler Ferguson, Max Greenfield, Jessie J, Nick Offerman, Melissa Rauch, Michael Strahan e Neil deGrasse Tyson.

Il franchise ha esordito nel 2002 con L’Era Glaciale, diventando poi un vero e proprio successo di pubblico e arrivando, con In Rotta di Collisione, al suo quinto capitolo.

L’Era Glaciale in Rotta di Collisione: quattro character poster con i protagonisti

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Ecco quattro nuovi character poster de L’Era Glaciale In Rotta di Collisione, il nuovo capitolo della popolare saga cinematografica d’animazione, che ha come protagonisti Scrat – scoiattolo simpatico e maldestro sempre a caccia della sua ormai mitologica ghianda – e tutta l’allegre brigata di animali preistorici.

Ecco i poster:

Guarda il trailer di L’Era Glaciale in Rotta di Collisione

SINOSSI: Sempre all’inseguimento della mitica ghianda, Scrat verrà catapultato nello spazio dove, accidentalmente, darà origine ad una serie di eventi cosmici che trasformeranno e minacceranno il mondo dell’Era Glaciale. era glaciale rotta di collisionePer salvarsi Sid, Manny, Diego e il resto del gruppo dovranno abbandonare la loro casa e intraprendere un’avventura ricca di comicità, viaggiando attraverso nuove terre esotiche e incontrando nuovi e coloratissimi personaggi.

L’Era Glaciale In Rotta di Collisione sarà al cinema dal 25 agosto 2016. Nella versione originale ritornano nel cast le voci di Ray Romano, Denis Leary, John Leguizamo, Queen Latifah, Seann William Scott, Josh Peck, Simon Pegg, Keke Palmer, Wanda Sykes e Jennifer Lopez.  Si uniscono al gruppo Stephanie Beatriz, Adam DeVine, Jesse Tyler Ferguson, Max Greenfield, Jessie J, Nick Offerman, Melissa Rauch, Michael Strahan e Neil deGrasse Tyson.

Il franchise ha esordito nel 2002 con L’Era Glaciale, diventando poi un vero e proprio successo di pubblico e arrivando, con In Rotta di Collisione, al suo quinto capitolo.

L’Era Glaciale 5 – In Rotta di Collisione: trailer finale

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L’Era Glaciale 5 – In Rotta di Collisione: trailer finale

È stato pubblicato online il trailer finale di L’Era Glaciale 5 – In Rotta di Collisione, definito dal regista stesso come “più grande e più fantasmagorico” rispetto alle precedenti avventure di Manny, Sid, Diego e soci alle prese con il loro ferino mondo perduto.

https://www.youtube.com/watch?v=Ueykbe69Uws

Giocando con i cliché del genere sci- fi (e strizzando un occhio all’estetica cult di pellicole come Alien, Gravity e 2001- Odissea nello Spazio) questa nuova avventura trova la sua forza proprio nel precario equilibrio tra lo schema tradizionale che ha reso questa saga un franchise di successo – la comicità slapstick dei suoi personaggi, le meraviglie evocate tramite l’animazione in CGI e i buoni sentimenti che trionfano sempre – e alcune innovazioni, apportate soprattutto in ambito visivo: partendo proprio dall’intento di creare un capitolo ancora più grande e più ricco dei precedenti, il regista Mike Thurmeier –nonostante il budget ridotto e il poco tempo a disposizione per la gestazione del progetto – è riuscito a regalare allo spettatore un’esperienza visiva unica, dominata da nuove gamme cromatiche (esemplare è l’incursione del viola nel mondo preistorico mostrato) e personaggi aggiunti che si presentano come degne controparti degli storici protagonisti, in una giostra cromatica e caleidoscopica che ha il sapore di una fantasia new age, di unamandala o di un folle giro in una giostra che divertirà i cultori della saga e i neofiti, grandi o piccoli che siano.

Fonte: CB

L’Era Glaciale – Le Avventure di Buck, recensione del film

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L’Era Glaciale – Le Avventure di Buck, recensione del film

A sei anni dall’ultima avventura al tramonto dell’Era Glaciale, torna il franchise nato in seno alla 20th Century Fox e ora di proprietà della Walt Disney Company con una storia completamente dedicata al furetto pirata dal titolo L’Era Glaciale – Le Avventure di Buck. 

L’Era Glaciale – Le Avventure di Buck – la trama

La trama parte dagli opossum Eddie e Crash. Dopo l’ennesima lite con Ellie, la loro sorella mammut, i due scappano in cerca di un posto dove possano vivere in pace, da soli, come degli adulti, peccato che non sono affatto pronti per questo passo e si ritrovano presto nei guai, finendo nel mondo sotterraneo in cui vivono i dinosauri. Si tratta proprio di quel mondo nascosto che abbiamo conosciuto nel terzo film della saga, ed è proprio qui che ritroviamo Buck, il furetto un po’ picchiatello che cerca di far vivere in armonia le tremende bestie che popolano quella terra. Proprio in compagnia di Buck, i due vivranno l’avventura della vita, mentre Ellie, con Manny, Sia e Diego si lanciano alla loro disperata ricerca, consci, molto più degli opossum, che i due non sono capaci di badare a se stessi…

Far riemergere dai ghiacci il franchise dell’Era Glaciale non è stato certo semplice. Già gli ultimi capitoli erano risultati stanchi, ma L’Era Glaciale – Le Avventure di Buck ridimensiona completamente la scala e l’ambizione, rivelandosi un prodotto che in altri tempi sarebbe finito Direct to video e che invece grazie alla piattaforma di Disney+, arriva direttamente nelle case degli abbonati e sicuramente in questa sede troverà il pubblico giusto: le famiglie.

Una storia per tutta la famiglia

Il comune denominatore dei film del franchise è infatti la famiglia, che sia di provenienza o adottiva, un nucleo di persone che si scelgono, si sostengono, si aiutano e ci cambiano. E così Eddie e Crash sono cresciuti e hanno bisogno del loro spazio, scappano come degli adolescenti che non vogliono più sottostare alle regole di mamma e papà e si trovano con Buck, un solitario che tanti anni prima ha preferito al solitudine rispetto alla vita di branco. Le metafore non sono molto raffinate ma arrivano dritte e pregnanti per una storia che non mancherà di stregare i più piccoli e di permettere ai genitori di condividere con loro del tempo.

Nel cast vocale originale del film torna Simon Pegg, che dà voce a Buck, e con lui ci sono anche Vincent Tong, Aaron Harris, Utkarsh Ambudkar e l’irresistibile Justina Machado, che dà voce a Zee, un personaggio nuovo che diventerà presto il preferito di grandi e piccini.

L’Era Glaciale – Le Avventure di Buck. arriva su Disney+ dal 25 marzo.

L’Era Glaciale – Le Avventure di Buck, i protagonisti raccontano il film

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Arriva il 25 marzo su Disney+ L’Era Glaciale – Le Avventure di Buck, il nuovo film del famoso franchise campione d’incassi. Tornano tutti i personaggi animati del franchise, che non sarebbero nulla senza le loro voci, ecco cosa hanno raccontato dell’esperienza di doppiare Buck, Eddie, Crash e tutti i protagonisti di questa nuova avventura animata. 

Justina Machado in particolare interpreta Zee, un personaggio nuovo, che esordisce nel franchise con questo film: “Per me è stato eccitante doppiare un personaggio così carismatico, una “social Warrior” e una persona così razionale che riesce a gestire tutto così bene, è stato divertente.”

Al suo fianco, veterano del franchise, c’è Simon Pegg, che per la prima volta si trova a doppiare Buck in un film in cui lui è il protagonista. “Ho aspettato per 12 anni questo film. La cosa bella del franchise è che ci sono tanti personaggi meravigliosi, proprio come un universo condiviso, non credo ci siano altri franchise animati così adatti all’espansione. In un film non puoi stare tanto tempo con tutti i personaggi, quindi questa è una buona occasione per passare del tempo con Buck, Eddie e Crush, ma anche con Zee e con gli altri nuovi personaggi.”

Da veterano del franchise, Pegg si rende conto di quanto sia amato e importante per il pubblico un nuovo film de L’Era Glaciale, ma anche Justina Machado ne era consapevole, quando le hanno offerto il ruolo: “Ero eccitata dall’idea di far parte di questo frnachise, avrei fatto qualsiasi cosa. È stato divertente come è divertente la mia Zee. Poi è circondata da tanti personaggi divertenti. Per me è stata un’esperienza di puro divertimento.”

L’Era Glaciale – Le Avventure di Buck, leggi la recensione del film

Ma da dove è nata la storia e l’idea di tornare a questo franchise dopo sei anni dall’ultimo film? Ne parla la produttrice esecutiva Lori Forte: “Vivo nell’era glaciale da 20 anni, ormai, e questo è un franchise perfetto per espandersi. Abbiamo cominciato con lo sviluppo di Buck, è così eccentrico e avventuroso e Simon lo ha portato in vita per noi, credo che fosse un po’ di tempo che ormai volevamo portarlo di nuovo sullo schermo. E nel voler raccontare un’altra satira nel mondo de L’Era Glaciale, ci è sembrato naturale tornare a Buck e esplorare il suo personaggio di più.”

John Donkin, regista del film, aggiunge: “Penso che questo ci permetta di cominciare a sviluppare i livelli del personaggio di Buck ma anche di introdurre altri personaggi, come Zee, che ci aiutano a conoscere meglio Buck. Abbiamo potuto scavare più a fondo nei personaggi per spiegarli meglio. E Zee è stata una grande aggiunta alla storia di Buck.”

Secondo la produttrice Forte, Il Mondo Perduto era il posto in cui i filemaker volevano tornare a tutti i costi, visto che la risposta del pubblico a quel mondo era stata così positiva. “Poi i nostri consulenti ci hanno consigliato di raccontare qualcosa in più dei dinosauri e di metterli insieme con i Mammut. Abbiamo pensato che il mondo nascosto, in cui alcuni dinosauri sono sopravvissuti, potesse essere affascinante. Poi è un posto così misterioso e bizzarro che sarebbe stato interessante da esplorare ulteriormente.”

“Il concept del film parla di famiglia per scelta  aggiunge John DonkinÈ il nucleo di ogni film dell’Era Glaciale. È nel DNA del franchise. E qui ci chiediamo cosa succede quando la famiglia sente il bisogno di crescere e ognuno vuole andare per la sua strada. Abbiamo esplorato questo aspetto per Eddie e Crash, con la loro sorella adottiva, e abbiamo esplorato anche un po’ la famiglia di Buck. Sì, la famiglia è il nucleo tematico del film e sembrava interessante esplorarlo in questo modo.”

Dopo diversi anni, Simon Pegg si è ritrovato a dover interpretare Buck, soprattutto a farlo in maniera più approfondita, dal momento che in questo caso è il protagonista. Ma sembra che non sia stato troppo difficile per lui: “Buck appartiene ormai alla mia memoria muscolare, perché l’ho interpretato un po’ di volte, ormai – ha raccontato – Ho solo cercato di dormire tanto prima delle sessioni, perché sono tutte estremamente energiche e Buck è sempre pieno di energia. È estenuante, e alla fine sei sempre esausto, e Justine lo può confermare, perché per il live action hai i gesti, il corpo, il volto, mentre qui devi mettere tutto dentro la voce. È incredibilmente divertente, amo Buck, anche solo perché è nato nello stesso anno in cui è nata mia figlia e lei è cresciuta con questi film, e per una strana coincidenza, mia sorella ha partorito questa settimana! Quindi porta la storia avanti. È una gioia per me interpretare Buck, perché per me e per la mia famiglia ha questa ulteriore risonanza.”

Spalla di Buck nel film, ma mai in ombra o in secondo piano rispetto a lui, è Zee, doppiata proprio da Justina Machado: “Abbiamo sviluppato il personaggio insieme. Non è stato troppo difficile interpretare qualcuno così in controllo e così fico, sono i personaggi che preferisco e sono contenta che me l’abbiano lasciato fare. Ma dovevamo capire anche chi era, che voce aveva, come parlava e questo è stato interessante, perché io sono molto “animata” mi muovo molto, ma avevamo bisogno della voce, e davvero questo processo è stato puro divertimento. Ho ottenuto questo lavoro nel bel mezzo della pandemia, ed è stata una fuga bellissima incontrare questo personaggio e questo film che parla di questi argomenti così belli, come il coraggio, l’amore e la famiglia che ti scegli. E non vedevo l’ora di partecipare a ogni sessione, e il personaggio è venuto fuori in maniera molto organica.”

E, come accadeva nel cuore della pandemia, quando i contatti interpersonali erano ridotti all’osso, anche i doppiatori non si sono mai incontrati, in sala di registrazione. Pegg ha detto: “E non ci siamo mai incontrati, per via della pandemia. E questo è uno degli elementi che più sono incredibili dell’animazione, ovvero quello di mettere tutti i pezzi insieme e di creare alchimia e tempi perfetti. Non ho mai incontrato Justine, ed è una cosa molto strana.”

L’Era Glaciale – Le Avventure di Buck è disponibile su Disney+ dal 25 marzo.

L’Effetto Dorothy, recensione del pilot su Raiplay

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L’Effetto Dorothy, recensione del pilot su Raiplay

Si intitola L’Effetto Dorothy il pilot che dal 15 marzo è disponibile su Raiplay. Progetto bizzarro, che annuncia, anzi promette una storia esilarante e originale, è realizzato in co-produzione da Rai Fiction, Movimenti Production e Premio Solinas. Protagonista della puntata, realizzata in forma di mockumentary, è Ninni Bruschetta, nei panni del Professor Gaspare Maria Dorotei, un docente dell’università di Pisa, che opera nel distaccamento di Volterra e che con un gruppo di ricercatori sta portando avanti una ricerca che viene documentata in video.

La location è quella del dipartimento di Psicologia Cognitiva, un caos organizzato in cui il gruppo di ricercatori cerca, senza successo, dei volontari per il loro esperimento, mentre una dottoranda cerca di mettersi in contatto con Dorotei per entrare a far parte del team. Il professore però è completamente assorbito da questa troupe, misteriosamente finanziata dal Belgio, che lo segue in ogni anfratto del dipartimento e che intende realizzare un documentario sulle loro metodologie. Così la ricerca vera e propria ricade nelle mani dei suoi collaboratori. L’obiettivo? Dimostrare che gli esseri umani sono sempre pronti a cogliere segnali primordiali, anche quando impegnati in attività logiche.

L’Effetto DorothyL’Effetto Dorothy, un pilot da ridere

L’idea, semplice e brillante, si fonde alla perfezione con l’esecuzione, in particolare modo degli interpreti guidati da Bruschetta, che incarna perfettamente l’essenza dell’eccentrico psicologo evoluzionista, regalando al pubblico momenti di comicità pura con i suoi improvvisi picchi di entusiasmo demenziale. Trascinato da lui, il cast nel suo complesso si distingue per la capacità di mettere in scena in maniera credibile le varie sfumature delle diverse personalità “da ricercatori”. Il risultato è un microcosmo eccentrico e irresistibile.

Alla regia, Valerio Attanasio dimostra di possedere e padroneggiare il linguaggio del mockumentary, forma cinematografica portata all’attenzione del grande pubblico da progetti illustri, come il Borat di Sacha Baron Cohen, e che si presta perfettamente alla comicità che il pilot propone.

L’Effetto Dorothy è un’esperienza televisiva di grande intrattenimento, capace di mescolare i piani del reale e dell’assurdo con grande armonia e questa componente, unita alla bontà del cast e al colpo di scena finale, fanno montare la curiosità di scoprire cosa succederà dopo.

L’effetto acquatico recensione del film di Sólveig Anspach

L’effetto acquatico recensione del film di Sólveig Anspach

L’effetto acquaticoSamir (Samir Guesmi) si innamora a prima vista di Agathe (Florence Loiret Caille) dopo aver incontrato la donna in un bar.

Avendo casualmente scoperto che lei è istruttrice alla piscina comunale di Montreuil, Samir decide di prendere lezioni di nuoto per poterla conoscere. Succede però che Agathe è invitata a partecipare ad un convegno in Islanda e Samir non trova altra soluzione che seguirla, sotto copertura e a sua insaputa.

L’ultimo regalo, postumo, della regista franco islandese Solveig Anspach, è L’effetto acquatico, una deliziosa commedia vincitrice del premio SACD, presentata alla Quinzaine des réalisateurs, che prende il nome dalle parole di una tenera nonnina islandese la quale, nel corso della vicenda, comunica alla protagonista di trovarsi in una specie di “stato acquatico”.

Infatti, nonostante la storia ruoti tutta attorno alla vicenda amorosa che si sviluppa fra il timido Samir e l’ostinata Agathe, è proprio l’acqua la vera protagonista e il collante della bizzarra storia d’amore; i personaggi stessi sembrano uniti dall’acqua che si dimostra essere un ponte tra culture e persone ma anche una metafora di “rinascita”, così come ci viene detto dal medico islandese che si impegna a curare l’amnesia fulminante di Samir.

L’effetto acquatico posterCon un intreccio che si srotola in situazioni fortemente bizzarre ma che la Anspach riesce a far risultare quasi credibili, insieme al co-sceneggiatore Jean-Luc Gaget la regista islandese mette in scena una storia d’amore assoluta e paradossale tramite personaggi determinati ma al contempo fragili che riescono a rendere accettabile qualsiasi loro eccesso, bugie ed equivoci compresi.

Perfino il repentino cambio d’ambiente – dalla piccola cittadina di Montreuil ci si ritrova catapultati improvvisamente nelle vaste lande ghiacciate islandesi, terra natia della regista – influirà sensibilmente sulla presa di posizione dei personaggi, senza che ritmo e narrazione ne risultino eccessivamente sfilacciati.

La Anspach decide infatti di portare tutte le situazioni al limite, mostrandoci così, metaforicamente,  la natura stessa dei sentimenti tramite il susseguirsi di eventi irrazionali e istintivi: perfino il viaggio di Samir sta a veicolare che, in fondo, se qualcuno è davvero innamorato farà di tutto per dimostrarlo.

Che si tratti dunque di una semplice commedia o di un modo per trasmettere un messaggio molto più importante rimane a libera interpretazione dello spettatore.

L’unica certezza concreta è che L’effetto acquatico è stata l’ultima occasione della Anspach per donarci piccole situazioni divertenti e assurde dell’esistenza e un consiglio pratico per affrontare la vita con più leggerezza.

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