Manca poco più di un mese alla
sfavillante notte degli Oscar, il clima di attesa si fa sempre più
ansiogeno e febbrile. Chi saranno gli incoronati di quest’anno? Le
premesse per una kermesse emozionante e ricca di sorprese ci sono
tutte. Grandi pellicole catapultate in una gara mozzafiato che
consacrerà i vincitori non senza lasciare uno stuolo di delusioni e
preannunciate ma mancate vittorie.
Ecco la rosa dei candidati alla
migliore sceneggiatura non originale:
Richard Linklater, Etwan
Hawke e Julie Delphy – Before Midnight
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RECENSIONE
Venti anni prima un treno diretto a
Vienna aveva segnato il loro incontro, un romantico idillio vissuto
nell’arco di un’incantevole notte, dal tramonto alle prime luci
dell’alba. Il romanzo che Jesse aveva tratto da quella notte li
farà rincontrare ormai cambiati, ma pur sempre anime erranti alla
ricerca della felicità, in una Parigi deserta e avvolgente, dove
una sceneggiatura delicata e ben costruita ci fa rivivere l’incanto
e la nostalgia di un amore intangibile. Dopo Vienna in Before
Sunrise e Parigi in Before Sunset, sarà la
Grecia, in Before Midnight, il teatro della loro
ritrovata e mai esaurita passione. Un amore trasognato, romantico,
utopico quello di Jesse e Celine, che sgorga dalle mani di
Richard Linklater (regista e sceneggiatore) che per il terzo
capitolo si avvale anche della penna dei due attori protagonisti
(Ethan Hawke e Julie Delpy), per mettere in piedi
l’ossatura di una storia che non si esaurisce sullo schermo, ma
tracima nelle loro vite anche a riflettori spenti. Scivolatagli
nelle viscere quand’erano giovani e sognanti, i due attori non
potevano – dopo venti anni di condivisione di idee e sensazioni –
limitarsi ad interpretarne il terzo atto senza scriverne le
battute. E infatti, i dialoghi sono proprio il punto di forza della
pellicola, l’elemento che fa di un amore sui generis, una
storia ordinaria e semplice, genuina e amabile, che riesce a far
sognare tutti senza sfociare nell’esasperato sentimentalismo da
soap opera. Celine e Jesse si confrontano con un amore a cui
l’orologio della vita ha concesso solo tre mezze giornate, ma che è
l’istantanea di un quotidiano palpabile anche all’apice della sua
fugacità. Linklater sceglie di far emergere la forza della
narrazione, mettendo la macchina da presa al servizio della storia
e del compimento della sua filosofia sulla vita e sulla coppia.
Dopo Bernie, la
commedia dark con Jack Black, il regista e sceneggiatore
texano ha mostrato in questa odissea sentimentale tutte le qualità
per potersi aggiudicare la famigerata statuetta. Ha l’anima e lo
spirito per trionfare.
Billy Ray – Captain
Phillips Attacco in mare aperto
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E’ la seconda pellicola in lizza
per la miglior sceneggiatura non originale, diretta da un
Paul Greengrass che ha messo in forma la storia del
dirottamento della nave mercantile statunitense Alabama, avvenuta
nel 2009 ad opera di pirati somali, tratta dal libro
auto-biografico del capitano Richard Philips, celebrato dal film
come l’impavido eroe che salvò il suo equipaggio dalla furia
vendicativa somala, ma bollato dall’opinione pubblica come
l’ennesimo codardo egoista che ha romanzato la sua posizione, a
caccia di fama. Al di là delle considerazioni circa la
corrispondenza tra il ritratto filmico diretto da Greengrass e
sceneggiato da Billy Ray e la realtà dei fatti,
Captain Phillips resta un film sicuramente da Oscar,
non tanto per la qualità e lo stile della narrazione quanto per
l’encomiabile interpretazione di Tom Hanks e l’impeccabile
regia che riesce – complice un ritmo assolutamente ben dosato – a
fare della pellicola un perfetto ed equilibrato esempio di
contaminazione tra spettacolarizzazione e realtà, altisonanza
tensiva e autenticità dei sentimenti. Se infatti la sceneggiatura
di Billy Ray lascia trasparire la dedizione del Capitano
Phillips e il suo coraggio nel consegnarsi ai somali, nonché il
pragmatismo militare, sono le immagini di Greengrass a rendere
vincente la pellicola.
Un ‘bravo’ quindi allo
sceneggiatore di Hunger Games, che traspone benissimo il
soggetto di Richard Phillips, ma che – rispetto ai suoi diretti
concorrenti – non ha quel quid in più per aggiudicarsi il
primato per la sceneggiatura.
Steve Coogan e Jeff Pope –
Philomena
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RECENSIONE
Meritevole della statuetta è
sicuramente la genuina Philomena che con semplicità e
humour da vendere, in pieno stile british, ha fatto irruzione a
Venezia, ingolosendo tutti i palati, anche quelli più sopraffini e
mostrando quanto l’autenticità narrativa possa pagare ed appagare
molto più di qualunque esperimento di impalpabile comprensibilità,
se fatta con garbo e intelligenza. Un’opera fresca e spigliata che
schiva la presunta retorica della storia con l’abilità registica
che contraddistingue Stephen Frears, ma soprattutto con la
delicatezza e sensibilità narrativa con cui sono trattati temi che
potrebbero sfociare tranquillamente nel più melenso e classico dei
melodrammi, e invece riescono a farci commuovere e sorridere,
catapultandoci in una dimensione emotiva calda e immersiva. Che
dire poi dell’arguzia ed elegante ironia dei dialoghi? Possiamo
solo congratularci con il padre Steve Coogan che risplende
nella duplice veste di sceneggiatore e co-protagonista.
La pellicola mette in scena la
storia vera di una madre alla ricerca di un figlio perduto che
Martin Sixsmith aveva raccontato nel suo libro “The lost Child of
Philomena Lee”.
Restata incinta da adolescente e
relegata nel convento degli orrori, Philomena (interpretata dalla
formidabile Lady Dench) partorirà un bimbo che le verrà sottratto
poco dopo. A distanza di 50 anni e con l’aiuto di un giornalista
interessato alla sua storia (Steve Coogan), Philomena si
rimetterà sulle sue tracce, rivivendo il dolore del passato
senza mai perdere la fede, nonostante avesse tutti i motivi per
farlo.
Gli sceneggiatori Steve
Coogan e Jeff Pope hanno il merito di aver maneggiato
con estrema cura un materiale così caldo e spinoso, tanto da
riuscire a farne una commedia squisitamente britannica il cui asso
nella manica è proprio il perfetto connubio tra ironia e
drammaticità, determinato anche della geniale scelta di
contrapporre due personalità (Philomena e Martin) diverse, dal cui
scontro nasce uno spassoso tete à tete.
Chissà se Steve Coogan,
coadiuvato da Jeff Pope, riuscirà a metter le mani sulla
statuetta e a guadagnarsi un pezzettino di celebrità anche come
sceneggiatore, dopo una carriera da comico e attore? Confidiamo in
lui.
John Ridley – 12 anni
schiavo
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A dargli filo da torcere ci sarà
però l’altro grande protagonista dell’attesissima kermesse
che, dopo aver conquistato il Golden Globe come miglior film
drammatico, si prepara con ben 9 candidature (tra le quali quella
come miglior sceneggiatura non originale) a far man bassa di
statuette. Stiamo parlando di 12 anni schiavo, biopic
in cui Steve McQueen mette in scena la reale e drammatica
odissea vissuta dal talentuoso violinista nero Solomon – tratta
dall’omonimo libro di Solomon Northup – , che nel 1841 fu
spogliato dei suoi documenti, strappato alla famiglia e portato in
una piantagione di cotone della Louisiana, dove fu ridotto in
schiavitù per dodici lunghi anni (11 anni, 8 mesi e 26 giorni).
Il film sfoggia un cast eccezionale
con un violento e borderline Michael Fassbender, attore
feticcio di McQueen, e un buon Benedict Cumberbatch.
Lo sceneggiatore John Ridley
adatta per il grande schermo una storia che ha dell’incredibile:
una lotta personale quella condotta da Solomon, sceneggiata con
oculatezza e profondo rispetto, sottolineando come, al di là della
sopravvivenza, l’obiettivo primario in uno scenario di crudeltà e
dimesso servilismo sia preservare la propria dignità. Ridley
analizza la condizione degli schiavi afro-americani con coraggio e
decisione, senza risparmiare nulla dell’indecorosa piaga che
sconvolse i neri d’America, ma rispolverando un punto di vista
inusuale, quello di uno schiavo, cosa molto rara al cinema. Solomon
e il suo disperato viaggio nei meandri della crudeltà umana,
plasmato dalle svariate personalità in cui si imbatterà, colui che
ha assaggiato il sapore della libertà e lo strazio della schiavitù,
ma che farà della sua profonda fede lo strumento per evitare di
soccombere alla malvagità dell’uomo.
John Ridley, da sempre
sensibile alle tematiche di discriminazione razziale e reduce dalla
sceneggiatura di Red Tails, film di Anthony
Hemingway, che racconta la duplice guerra combattuta dai piloti
di colore del gruppo di addestramento sperimentale Tuskegee,
ha buone probabilità di accaparrarsi la statuetta. Intanto
aspettiamo con ansia l’uscita nelle sale il 20 febbraio!
Terence Winter
–The Wolf of Wall street
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RECENSIONE
Dulcis in fundo, la
pellicola più attesa dell’anno, tra le favorite alla scorpacciata
di Oscar, The Wolf Of Wall Street del premio Oscar
Scorsese, con Leonardo DiCaprio a dominare la scena,
Matthew McConaughey a fargli da mentore e Terence
Winter, già vincitore di 4 Emmy Awards per I Soprano, in
lizza per il riconoscimento come miglior sceneggiatura non
originale.
Traendo spunto dal libro
autobiografico di Jordan Belfort, uno degli uomini più
potenti di Wall Street, Terence Winter adatta per il cinema
una vicenda che per magniloquenza e sovraeccitata spudoratezza si
presta molto alla sua penna, alla regia di Scorsese e quindi al
grande schermo. E’ la storia della scalata al successo del
fondatore di una delle più importanti società di brokeraggio e del
suo clamoroso tracollo per frode e riciclaggi.
A Wall Street, cuore tachicardico
della finanza, nulla è impossibile se sei giovane e puzzi di
successo. Belfort, geniale e spericolato, impara l’ambigua arte di
traghettare soldi e felicità, annaspando in una marea di vizi,
dalla droga al sesso, dove neanche una sfilza di Ferrari ed
elicotteri privati riesce a consumare i soldi che si moltiplicano a
vista d’occhio. La sua società è una tana del lupo, un concentrato
di ossessivo maschilismo, un luogo di smisurata depravazione che lo
fa sentire ‘il re del mondo’.
Ne risulta una storia frizzante,
vulcanica, funambolica, un’accozzaglia di situazioni, personaggi,
stravaganze umane e sociali, assemblate in modo caotico al fine di
rappresentare la frastagliata interiorità umana, vittima di una
tragica decomposizione. Una storia vera che racconta l’altra faccia
del sogno americano, in cui si palesa una critica allo yuppismo
rampante di una generazione superficiale e avida. E’ inutile
cercare un equilibrio narrativo, perché The Wolf of Wall
Street mira proprio a far esplodere ogni sobrietà al fine
di restituire il vuoto cosmico che regna nell’anima di un uomo la
cui vita si alimenta solo del suo smodato desiderio di onnipotenza.
Mentre tutto il resto è noia.
Una pellicola dirompente e
travolgente. Con Paul Schrader a bordo sarebbe stato il top.
Ma se non dovesse trionfare in questa categoria, di sicuro non
resterà a mani vuote! Che vinca il migliore e il più
coraggioso!