Ebbene sì, a quasi 75 anni, il
signor Ken Loach ancora s’indigna. E lo
dimostra col suo ultimo film L’altra verità – Route
Irish, da mercoledì scorso nelle sale italiane, in
concorso a Cannes
2010, in cui affronta uno dei temi più controversi
della nostra attualità: la guerra in Iraq.
E lo fa adottando un punto di vista
vicino a chi la guerra l’ha subìta, senza esserne minimamente
responsabile, ossia le vittime civili irachene. Il regista ha
infatti affermato che questa guerra viene vista troppo spesso come
una tragedia americana, mentre non è affatto così: “volevamo
avvicinare la gente alle sensazioni del popolo iracheno: milioni di
morti, quella è la tragedia”.
Ken Loach, filmografia
Ma ciò che intende fare con questo
film, oltre a far luce sul fenomeno dei “contractors”, che ha
portato alla “privatizzazione di fatto” della guerra, è anche
suscitare la reazione del pubblico di fronte all’atteggiamento
delle potenze occidentali in merito a ciò che è accaduto in Iraq –
al fatto, ad esempio, che si sia praticata la tortura. Un
atteggiamento di accettazione, di chi invita ad andare avanti,
magari dimenticando. Lo ha detto senza mezzi termini il regista di
Nuneaton, presentando il film a Cannes:
“lo hanno fatto nel nostro nome, e coloro che reputano
accettabile tutto ciò, i vari Blair, Bush e gli altri, sono ancora
lì. Inoltre Blair, con grandissima ironia, è stato nominato
Ambasciatore di pace in Medio Oriente (…) Quindi, se non possiamo
farli giudicare da una corte di giustizia, dobbiamo almeno farli
giudicare dall’opinione pubblica”. Perciò, obiettivo del film
è “mantenere vivo il senso d’ingiustizia” rispetto ai
crimini commessi in questa guerra.
Potremmo citare altre sue
dichiarazioni – dalle prese di posizione nei confronti d’Israele,
alla provocatoria definizione della Gran Bretagna come una
“colonia culturale degli Stati Uniti” – ma ce n’è già
abbastanza per farsi un’idea di chi sia Ken Loach e del suo cinema.
Un cinema che pone domande, che scuote, che non lascia mai
indifferenti e spinge a reagire di fronte alle ingiustizie e ai
soprusi. Un cinema coraggioso e politico nel senso più ampio del
termine, che gli è valso prestigiosi riconoscimenti
internazionali.
Dal 1963 ad oggi, il regista, nato
nel Warwickshire il 17 giugno del ’36, ha portato la sua denuncia
sociale prima in tv, lavorando per la BBC assieme al produttore
Tony Garnett, e innovando fortemente nei primi anni ’60 gli schemi
televisivi, con i suoi docu-dramas, poi sul grande schermo.
Qui, dal 1967, si è dedicato al
racconto del mondo operaio, che fa parte delle sue origini, ma ha
saputo fotografare bene anche la borghesia inglese con pellicole
come Family life (1971). La sua fama resta però
indubbiamente legata alla produzione degli anni ’90, con pellicole
come Terra e libertà, sulla guerra civile
spagnola, e altre, dove torna a parlare del proletariato
britannico, realtà da lui ben conosciuta. Così fa in Riff
Raff, dove si scaglia con forza contro le politiche
tatcheriane, o con la storia dell’ex alcolista Joe, o coi
ferrovieri di Paul, Mick e gli altri, fino al più
recente Il mio amico Eric. E in questa realtà
marginalizzata include anche i nuovi poveri, gli ultimi arrivati
nella scala sociale britannica, come in quella delle altre società
occidentali: gli immigrati, costretti ai lavori più umili e spesso
senza alcun diritto (Bread and roses, In
questo mondo libero). Loach racconta la Storia, attraverso
storie di persone ordinarie, cercando di capire e far capire i
meccanismi secondo cui essa si muove, suggerendo strade di
possibile cambiamento.
Sin dagli esordi cinematografici,
con Poor Cow (1967) e Kes (1969),
il regista mostra le sue doti, inaugurando l’indagine sulle
condizioni esistenziali del proletariato britannico, che saprà
dipingere sempre con efficace realismo: è attento e scrupoloso,
ironico e tagliente, drammatico, ma non retorico. In questi suoi
primi lavori, sceglie un approccio quasi documentaristico, per
raccontare rispettivamente di una giovane donna e di un ragazzino
ai margini della società, alle prese con continue sfortune,
incontri sbagliati e vessazioni.
Nel ’71 esplorerà invece
l’asfittico e tarpante universo borghese della sua Inghilterra,
trattando in modo vivido e toccante il tema della malattia mentale,
con Family life. Al centro, la vicenda umana della
giovane Janice Baildon/Sandy Ratcliff, che non riesce a prendere in
mano la propria vita ed è costretta dai genitori ad abbandonare
amore, sogni e aspirazioni. Da tutto ciò fugge, scivolando
lentamente ma inesorabilmente nella malattia mentale, che la
condurrà in ospedale psichiatrico. A nulla valgono le insistenze
della sorella Barbara, che, staccatasi dalla famiglia con cui è in
aperto contrasto, inviterà più volte Janice a fare altrettanto.
Loach pone domande e invita a riflettere sull’apparente normalità
di una famiglia borghese, dietro cui si celano incomunicabilità e
alienazione, ma anche su un apparato statale carente
nell’affrontare il disagio sociale ed esistenziale. In seguito, il
regista di Nuneaton torna a lavorare per la tv, dedicandosi solo di
rado al cinema.
A inizio anni ’90, invece, il
grande schermo è di nuovo una delle sue principali occupazioni. In
questo decennio, e in quello successivo, la sua fama si
consoliderà, facendolo entrare a pieno titolo tra i più grandi
registi europei. Il decennio si apre con una pellicola d’impegno,
componente irrinunciabile nel lavoro di Loach. Si tratta del
thriller L’agenda nascosta, in cui il regista ci
presenta l’annosa questione dell’IRA in Irlanda, da un punto di
vista del tutto diverso da quello solitamente adottato. Ci parla,
come farà spesso nel confrontarsi coi grandi temi storici, di
verità nascoste, lati oscuri, responsabilità che non ricadono mai
da una sola parte, come troppo spesso siamo portati a credere. Qui
si tratta infatti di violazioni commesse dalle forze di polizia
inglesi nei confronti di militanti irlandesi dell’IRA e
dell’inchiesta che ne scaturisce; della morte di un avvocato
americano, e della volontà di sua moglie di scoprirne il reale
motivo. Abbiamo quindi – e le ritroveremo in molti film di Loach –
delle storie personali dal forte valore emotivo, con un elevato
potenziale di coinvolgimento, che sono l’occasione per mettere in
moto una riflessione. La pellicola ottiene il Premio speciale della
Giuria al Festival di
Cannes.
Loach continua poi la sua indagine
sulle problematiche della società britannica, e in particolar modo
delle sue classi meno agiate, e lo fa con Riff,
raff, in cui, attraverso le vicende di Steve/Robert
Carlyle, ex galeotto che trova lavoro come operaio edile, punta il
dito contro le politiche tatcheriane disinvoltamente liberiste, che
lasciano le classi lavoratrici senza i più elementari diritti
(emblematico il fatto che i protagonisti lavorino per trasformare
un ex ospedale in un condominio di lusso). La vita di cantiere è
dipinta con la consueta precisione e realismo. Accanto a Carlyle,
che Loach sceglierà anche per La canzone di Carla,
troviamo Peter Mullan, futuro protagonista del fortunato My
name is Joe.
Per non farsi mancare nulla e
tratteggiare un quadro completo della marginalità sociale inglese,
Loach firma nel ’94 il commovente Ladybird,
Ladybird, ritratto di Maggie/Crissy Rock, madre cui viene
tolta la custodia di quattro figli, perché inadatta a crescerli, e
poi ancora di altri due, avuti con un compagno assieme al quale
cercava di rifarsi una vita. Il film è tratto da una storia vera, e
non vuole certamente difendere ad ogni costo Maggie, che viene
mostrata senza ipocrisie, in un ritratto fatto di luci e ombre.
Piuttosto, ancora una volta, vuole restituire una visione complessa
della realtà, mostrandoci un punto di vista che ci spinga a
interrogarci sul tema dell’affidamento. Orso d’oro a Berlino per la
Rock come Miglior Attrice.
Torna poi alle grandi vicende della
Storia, raccontate però sempre dal basso, a partire dalla gente
comune, con Terra e libertà (1995). In questo caso
si parla della guerra civile spagnola del ’36, e di un giovane di
Liverpool, David/Ian Hart, che parte per andare a combattere contro
le truppe di Franco, a fianco del Partido Obrero de Unidad
Marxista. Passerà attraverso l’ardore idealista degli inizi,
sperimenterà difficoltà, vivrà anche una storia d’amore con
Blanca/Rosana Pastor, militante del Poum, insieme si scontreranno
con la disillusione di un triste epilogo. La disgregazione e le
lotte interne al fronte d’opposizione contro Franco porteranno
infatti allo scioglimento del Poum e lasceranno la strada aperta
alla dittatura. Quando gli verrà intimato di deporre le armi e
alcuni suoi compagni si rifiuteranno, a farne le spese sarà proprio
Blanca, che morirà tra le braccia di David. Anche qui, c’è passione
politica, c’è dramma, ma la crudezza e l’autenticità salvano dalla
retorica. Il film ottiene il Premio della Giuria ecumenica al
Festival di
Cannes.
Loach non rinuncia poi a parlarci
della guerriglia controrivoluzionaria dei Contras nel Nicaragua
sandinista, scegliendo come protagonista di nuovo Robert Carlyle.
Il film è La canzone di Carla. Siamo nel 1987 e
questo racconto in due parti esplora da un lato, la realtà
britannica – la prima parte del film è infatti ambientata a Glasgow
– dall’altro, quella nicaraguense, poco conosciuta in Europa.
Occasione per fare ciò, è una vicenda umana delle più semplici, e
si direbbe banali: la storia d’amore tra l’operaio di Glasgow
George Lennox/Robert Carlyle e la nicaraguense Carla, giunta in
Scozia da rifugiata. Il film inaugura la lunga e fruttuosa
collaborazione tra Loach e lo sceneggiatore Paul Laverty.
Nel ‘98 i due collaboreranno
ancora, stavolta per tornare ad occuparsi esclusivamente di Regno
Unito, con My name is Joe, storia di un ex
alcolista che cerca di rifarsi una vita, ottimamente interpretato
da Peter Mullan, che è premiato con la Palma d’Oro a
Cannes.
Ancora vite ai margini in cerca di riscatto e di giustizia, come
sarà anche nel successivo Bread and roses (2000),
che affronta il tema delle rivendicazioni di diritti civili da
parte degli immigrati. Stavolta, però, Loach va in trasferta negli
Usa, dove l’immigrazione è quella messicana. La protagonista, Maya,
lotterà per i suoi diritti di lavoratrice, vedendoli riconosciuti.
E di rivendicazione di diritti, stavolta da parte di un gruppo di
ferrovieri inglesi in cassa integrazione, si parla in Paul,
Mick e gli altri (2001), a sottolineare che, anche dopo
l’era Tatcher – il film è ambientato negli anni Novanta, durante il
governo di Major – le prospettive per la classe lavoratrice inglese
non sono certo rosee. Loach sarà molto critico anche nei confronti
del nuovo corso laburista, inaugurato da Blair, e sosterrà il
movimento Respect, a sinistra del nuovo Partito Laburista.
Nel 2002, sarà tra i registi che
realizzeranno corti sul tema dell’11 settembre 2001, e anche in
questo caso lo farà in maniera del tutto peculiare, volgendo ancora
una volta lo sguardo dove lo spettatore non si aspetta. Partendo
infatti dalla data dell’attentato alle Torri Gemelle di New York,
il regista britannico ricorderà un altro 11 settembre, quello del
1973, che vide in Cile il golpe di Pinochet e la morte del
Presidente Allende, il sovvertimento dell’ordine democratico e
l’instaurarsi di una dittatura che avrebbe portato a migliaia di
morti innocenti e di persone torturate, sotto gli occhi di tutto il
mondo occidentale, Usa compresi, che non fecero nulla per fermare
Pinochet, e anzi lo considerarono interlocutore degno delle loro
diplomazie. Anche qui, dunque, la prospettiva adottata fa sorgere
vari quesiti: esistono vittime di serie A e vittime di serie B?
Attentati alla democrazia di fronte ai quali è giusto indignarsi e
altri verso i quali è opportuno restare indifferenti? Loach solleva
la questione, allo spettatore il compito di farsi un’opinione in
merito.
Il 2006 sarà invece l’anno che
porterà al regista inglese la Palma d’Oro al Festival di
Cannes, che ancora una volta dimostrerà grande
apprezzamento nei confronti di questo arguto cineasta. Lo farà
premiando Il vento che accarezza l’erba, in cui si
riapre una delle pagine più dure della storia britannica: la guerra
civile che dilaniò l’Irlanda negli anni ’20. Da una parte
l’esercito inglese che vuole reprimere ogni residua volontà
indipendentista in Irlanda, dall’altra il popolo irlandese, che si
dividerà a sua volta tra chi accetterà un trattato che pone fine
alle ostilità con gli inglesi e chi vi si opporrà, considerandolo
un mero opportunismo. Ancora una volta, una guerra fratricida,
inutile, anzi, dalle conseguenze disastrose. Loach ce la fa vivere
attraverso le vicende di una famiglia irlandese, che si troverà su
fronti opposti delle barricate. Sceneggiatura curata dall’ormai
immancabile Paul Laverty, e massimo riconoscimento a
Cannes
per il film.
L’anno successivo, Loach e Laverty
torneranno invece alla stretta contemporaneità e al mondo del
lavoro, occupandosi della sua precarizzazione, di liberalizzazione
e competizione selvagge. In questo contesto, Angie, la protagonista
di In questo mondo libero, licenziata, si fa
imprenditrice di una ditta di collocamento per immigrati e finirà
per trattare le persone che le si rivolgono come fossero una merce.
Loach torna dunque all’attualità, evidenziando i guasti prodotti
nelle società occidentali dal liberismo selvaggio. C’è chi ha
definito cinico il suo approccio in questa pellicola, ma a tale
osservazione il regista di Nuneaton ha risposto rivendicando una
necessità di realismo, che faccia comprendere il reale
funzionamento dei meccanismi delle nostre società, come presupposto
di un possibile cambiamento. Laverty si è guadagnato con questo
lavoro l’Osella d’Oro per la sceneggiatura al Festival
del Cinema di Venezia 2007.
Ancora una storia ai margini della
working class britannica è quella di Il mio amico
Eric (2009), sempre in collaborazione con Laverty. Eric è
un uomo la cui esistenza è allo sbando, ma mentre sta andando alla
deriva, sarà soccorso dal suo idolo, qui una sorta di angelo
custode: Eric Cantona, calciatore del Manchester. Il film unisce
toni leggeri e drammatici, e sperimenta elementi surreali,
riuscendo ancora una volta a catturare il pubblico, anche trattando
temi non facili. Premiato a Cannes
dalla Giuria Ecumenica.
Siamo così ad oggi. Nel 2010
infatti, la premiata ditta Loach-Laverty torna ad occuparsi di
questioni internazionali e di Storia, affrontando, da inglese, il
tema della guerra in Iraq. E lo fa, come detto in apertura, con
L’altra verità – Route Irish, affidando il ruolo
del protagonista a Mark Womack, noto attore televisivo inglese al
suo debutto cinematografico. Womack interpreta un ex contractor il
cui miglior amico, contractor anch’egli, muore in circostanze poco
chiare sulla tristemente nota strada di Baghdad. Qui, si mettono a
nudo aspetti spesso taciuti di questo recente conflitto, ma
indispensabili per comprenderlo, proprio perché, come ha affermato
lo stesso Loach, il cinema ci aiuta a fare ciò che tutti dovremmo
fare, essendo nel mondo: cercare di capirlo. E può talora
suggerirci strade da percorrere, se ne vogliamo ottenere il
mutamento. Se vi state chiedendo dove sia, allora, la differenza
tra cinema e politica, beh, la risposta, con la consueta ironia, la
dà lo stesso Ken, ricordando un vecchio slogan della sinistra
americana: “scuotere (agitate), istruire
(educate), organizzare (organize). I film possono
scuotere un po’, non possono realmente istruire e neppure
organizzare. Quindi, fateci fare ciò che possiamo, cioè scuotere,
ma una volta che siete usciti dal cinema, per l’amor di Dio,
organizzatevi!”