
Guarda il trailer del film Star Trek di JJ Abrams, primo capitolo del nuovo franchise con protagonisti Chris Pine, Zachary Quinto e Eric Bana.
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La pellicola è un film di fantascienza del 2009 diretto da JJ Abrams. È l’undicesima pellicola della serie cinematografica di Star Trek e il secondo per incassi al botteghino dopo il suo sequel Into Darkness – Star Trek.
Il film è un reboot della serie classica di Star Trek (1966-1969) e ha per tema le prime avventure dei personaggi della serie. Il riavvio della saga viene giustificato all’interno della storia con l’introduzione di una linea temporale alternativa: un universo parallelo che non modifica il continuum delle precedenti serie. Un anziano Spock (Leonard Nimoy) torna accidentalmente indietro nel tempo dopo essere stato risucchiato da un buco nero (singolarità quantistica creata dalla “Materia Rossa” usata dallo stesso nel tentativo di salvare il pianeta Romulus da un supernova), interferendo così con gli eventi.
Il film è stato distribuito in Italia dalla Universal Pictures l’8 maggio 2009. Si è aggiudicato il premio Oscar per la categoria “miglior trucco” e ha ricevuto altre tre candidature.
La pellicola è stata dedicata alla memoria di Gene Roddenberry, ideatore della serie di Star Trek, e di sua moglie Majel Barrett Roddenberry, scomparsa durante la lavorazione del film.

Distribuito da 01 e Rai Cinema in 250 copie, il 22 gennaio esce al cinema NINE (leggi la recensione), di Rob Marshall. In occasione della proiezione anticipata, cine-filos e la stampa italiana hanno incontrato il regista e il cast del film, nella bellissima cornice dell’Hotel St. Regis di Piazza della Repubblica a Roma.
Prima di ogni altra cosa, Marshall ha esordito manifestando la sua gioia per essere a Roma a presentare il suo film, esprimendo la sua grande ammirazione per la bravura e l’umiltà dell’ottimo cast italiano che ha partecipato al film. “Non è un remake di 8 1/2- sottolinea Marshal – è una versione cinematografica del musical, ha più sostanza concettuale del mio precedente musical (Chicago), è per un verso più complesso, parla di come nasce, di come si fa un film”.

Si presenta nella piccola sala del Palazzo delle Esposizioni avvolto in una giacca scura e una sgargiante camicia verde che spunta dal colletto: è Michael Mann, noto e molto apprezzato regista di molti capolavori del cinema contemporaneo, da Heath – La Sfida, a Collateral. In occasione dell’attesissimo Nemico Pubblico, in Italia il 6 novembre, Mann ha incontrato la stampa e ha spiegato le ragioni del suo eroe: “Abbiamo considerato in primo luogo la leggenda di Dillinger, il suo mito. Poi ho scelto di metterne a fuoco la vita reale, le passioni che muovevano l’uomo, al di là dei generi cinematografici e degli stereotipi del personaggio. Si è tentato di mostrare un uomo che aveva raggiunto l’eccellenza in un arte particolare: quella delle rapine alle banche. Ho provato a mostrare la sua rinascita dopo un lungo periodo di reclusione. Che decide di fare? Che strada intende seguire? Vuole recuperare il tempo perso.” Mann ha esposto l’hic et nunc della vita del gangster, la sua mancanza di prospettiva futura, ma allo stesso tempo il profondo carisma del personaggio, e al suo fianco “una gang nichilista, feroce che corre senza la voglia di raggiungere un traguardo.”
Le domande sono state incentrate soprattutto sul suo annunciato Thor, trasposizione al cinema del fumetto che vede protagonista l’eroe delle mitologia nordica, ma anche il suo lavoro d’attore tra cinema e teatro. Per quanto riguardo il suo prossimo cine-fumetto Kenneth Branagh è stato molto chiaro: Scelgo la storia perché la ritengo interessante e non faccio caso alla fonte, poco importa se si tratti di Shakespeare o di un fumetto. Thor mi piace perché parla di una divinità del Tuono, il che è affascinante.
Rispondendo alla nostra domande su come riesce a parlare al cinema con le parole del teatro in maniera efficace Branagh ha parlato della complessità di alcune scelte che si trova a fare: “in Molto Rumore per Nulla, la figura dell’uomo vigoroso e macho non può essere descritta a voce dalle donne come avviene a teatro, così ho pensato che la cosa migliore fosse inquadrare direttamente Denzel Washington su un cavallo bianco. Chi meglio di lui rappresenta il fascino mascolino nella sua totalità(ride)“.
Concedendosi a molte foto e a pochi autografi Kenneth Branagh ha lasciato la sala sorridente e ha affidato il pubblico alla proiezione della serie Wallander, tratta da una serie di racconti svedesi, nella quale interpreta il tormentato protagonista.
Dopo i fasti di Broadway arriva sugli schermi italiani Nine, il musical diretto dal candidato al premio Oscar per Chicago (miglior film), Rob Marshall. Dopo Cathrine Zeta-Jones e Renee Zelwegger, Bob si trova a dirigere un cast di stelle ad impersonare tutte le donne della vita del protagonista, il regista Guido Contini, bene interpretato da Daniel Day Lewis. Le sue donne, la madre Sofia Loren, la moglie Marion Cotillard, la musa Nicole Kidman, l’amante Penelope Cruz, la costumista e amica Judy Dench, la prostituta Fergie e la giornalista di moda Kate Hudson, incorniciano i suoi pensieri, le sue angosce, la sua crisi artistica, con numeri davvero eccezionali diretti con grande senso del gusto e del ritmo.
A chi non può fare a me no di pensare a 8 ½ di Fellini, film d’ispirazione del musical americano, è lo stesso Marshall a rispondere all’inizio della conferenza stampa romana: “Non è un remake del film di Fellini, ma una trasposizione cinematografica del musical”. E con questa dichiarazione si chiude il confronto artistico tra le due pellicole. Anche se c’è da dire che lo stile onirico della narrazione ricorda e ricalca non solo lo stile di Fellini in generale, e non solo 8 ½, ma proprio la sua impostazione mentale di cosa erano per lui la vita i sogni e il cinema. Come già detto un cast d’eccezione a ricostruire questa vicenda, e tra tutte le magnifiche attrici due menzioni speciali: a Marion Cotillard che interpreta la moglie, Luisa, di una delicatezza e di una decisione insieme davvero impressionanti, una giovane attrice che si affaccia ad una carriere che ci auguriamo sia lunga e solida, ma già decorata di un Oscar e di molti titoli e collaboratori di tutto rispetto. Altra protagonista da segnalare è senza dubbio Kate Hudson, forse la ‘sorella minore’ in un cast così altisonante, ma davvero una sorpresa per energia, vocalità e senso della scena.
Ma da meno non sono le altre splendide donne: l’amante Penelope Cruz (alias Carla) che mette al servizio di Marshall il suo talento ma anche la sua prorompente bellezza latina e la sua sensualità, inedita la Dench con caschetto, convince e diverte; e ancora la Loren, in un piccolo cameo, sicuramente provata dagli anni, ma con una presenza scenica immutata, aggiunge fascino ad una pellicola ispirata a Fellini e che a suo tempo fu interpretata dal suo amico Marcello. E quando si parla di musical e c’è lei, l’algida Nicole, non si può non dire che come canta lei nessuna, anche se il personaggio è appannato dagli altri, e pur risultando importante per Guido/Daniel, resta un po’ meno impresso delle altre.
Ma il ritmo, la sensualità più diretta viene affidata, ancor prima che al corpo, alla voce e alle movenze di Fergie: un po’ ingrassata, la cantante interpreta Saraghina, la prostituta che ‘insegna’ l’amore ai giovanissimi curiosi, trai quali anche Guido. Be italian, da lei interpretato è senza dubbio la sequenza più coinvolgente dell’intero film, rivista e reinterpretata in maniera magnifica.
E fondamentalmente è questo il Nine di Marshall, un film estetico, che pur presentando tematiche e relazioni complesse, si ferma alla superficie, alla bellezza dei costumi, delle inquadrature, ad una struttura narrativa semplice ma che non chiede nient’altro che di essere guardata e apprezzata. Un inno a quell’Italia resa famosa da Fellini, a quell’eleganza che sembrava universale negli anni ’60, a quella vita ‘dolce’ che resterà sempre uno stereotipo di bellezza nel passato del Paese.
NINE è un musical che racconta la vita del famoso regista Guido Contini (il 2 volte Premio Oscar Daniel Day Lewis) alle prese con uno dei momenti più drammatici della sua ispirazione creativa. A complicare ulteriormente la situazione le numerose e bellissime donne che gli gravitano attorno: la moglie, il premio Oscar Marion Cotillard, l’amante, il premio Oscar Penelope Cruz, la sua musa creativa, il premio Oscar Nicole Kidman, la confidente e collaboratrice, il Premio Oscar Judi Dench, un’avvenente giornalista di moda, Kate Hudson, e la madre, il premio Oscar Sophia Loren.
Nel cast del film Nine protagonisti sono Daniel Day-Lewis, Penélope Cruz, Sandro Dori, Marion Cotillard, Sophia Loren, Kate Hudson, Nicole Kidman, Stacy Ferguson, Judi Dench, Martina Stella, Elio Germano, Ricky Tognazzi, Giuseppe Cederna, Enzo Squillino Jr., Giuseppe Spitaleri, Roberto Nobile, Valerio Mastandrea, Remo Remotti, Monica Scattini, Roberto Citran
Quando tre ore di cinema sembrano poche, significa che ci troviamo davanti a un’esperienza unica. È quello che accade con Avatar, il film-evento del 2009 diretto da James Cameron che ha ridefinito l’idea stessa di spettacolo cinematografico. Immergendosi nel mondo di Pandora, lo spettatore perde la cognizione del tempo, rapito da un universo visivo e narrativo costruito nei minimi dettagli e reso rivoluzionario dalla tecnologia 3D.
Un successo planetario da oltre due miliardi di dollari al botteghino, Avatar ha imposto Cameron come il re del cinema spettacolare, capace di fondere azione, emozione e riflessione ecologista in un racconto universale che continua a segnare l’immaginario collettivo.
Il protagonista è Jake Sully (Sam Worthington), ex marine paraplegico che viene inviato su Pandora per infiltrarsi nella comunità dei Na’vi grazie al progetto Avatar, che permette di controllare corpi artificiali. Durante la missione, Jake incontra Neytiri (Zoe Saldana), principessa della tribù, e si trova diviso tra la fedeltà al suo mondo e l’attrazione per una nuova civiltà che lo accoglie.
Il conflitto tra colonialismo umano e resistenza dei Na’vi diventa così metafora universale di oppressione, sfruttamento e difesa della natura, con una parabola che culmina in una guerra epica tra due visioni opposte di futuro.

La sceneggiatura di Avatar è volutamente lineare, basata su archetipi classici: lo straniero accolto da una civiltà diversa, la storia d’amore che rompe le barriere, la ribellione contro l’oppressore. Cameron costruisce un intreccio che non punta sulla complessità, ma sulla chiarezza: principi semplici, ma universali e facilmente riconoscibili.
Questa scelta permette di dare forza al messaggio ambientalista e pacifista, accessibile a ogni pubblico e rafforzato dalla spettacolarità delle immagini. È un equilibrio che rende il film insieme leggibile e potente, capace di unire intrattenimento e riflessione.

Il vero cuore di Avatar è Pandora, un mondo talmente ricco e dettagliato da sembrare reale. Flora e fauna, creature, paesaggi, riti e linguaggi dei Na’vi compongono un universo coerente e affascinante che spinge lo spettatore a desiderare di farne parte.
La rivoluzione tecnica del 3D non è mai fine a se stessa: Cameron utilizza gli effetti digitali come strumento per esprimere emozioni e amplificare la narrazione. Ogni sequenza di volo, ogni battaglia e ogni momento intimo sfrutta la tecnologia non solo per stupire, ma per coinvolgere lo spettatore a un livello sensoriale e narrativo.
Se sul piano visivo Avatar ha ridefinito gli standard del cinema moderno, sul fronte sonoro il risultato non è altrettanto memorabile. La colonna sonora di James Horner accompagna correttamente le immagini ma raramente riesce a emergere con un tema riconoscibile e all’altezza dell’epicità messa in scena.
Il cast, invece, funziona: Sam Worthington regge il ruolo del protagonista con credibilità, Zoe Saldana dona forza e grazia a Neytiri, mentre Sigourney Weaver aggiunge spessore con la sua presenza magnetica. Meno riuscito il personaggio di Giovanni Ribisi, penalizzato da una scrittura debole.
In conclusione, Avatar è molto più di un film spettacolare: è un’esperienza sensoriale, un manifesto ecologista e un viaggio che ha ridefinito l’uso del 3D al cinema. Nonostante i suoi limiti narrativi, resta un’opera fondamentale che ha segnato un’epoca e che continua a influenzare registi e spettatori di tutto il mondo.
Quando si parla di romanzi al cinema si tende a storcere sempre un po’ il naso, qualche volta il fedele lettore resta deluso, altre volte lo schermo non rende davvero giustizia ai personaggi di carta e inchiostro. Peggio ancora quando si tratta di classici di grande seguito e tradizione rivoluzionati per aspetto e caratteristiche. Tuttavia non è il caso dello Sherlock Holmes di Guy Ritchie, un bel film, nient’altro da dire, in perfetto stile del regista.
Il nostro Sherlock egregiamente impersonato da Robert Downey jr. nella sua seconda giovinezza offre un ritratto convincente avvincente e irriverente dell’investigatore privato più famoso di sempre, nato dalla penna di Sir Artur Conan Doyle, affiancato dal fedele e mai come ora intrigante Dottor Watson, un Jude Law in gran forma. Ottimo duetto dunque che si completa e si equilibria con una ironia leggere e mai fuori luogo. Sono proprio loro la forza del film, la loro alchimia, il loro essere vicendevolmente d’aiuto all’altro, il loro rispecchiare un rapporto d’amicizia che a scanso di accuse varie di omosessualità latente non ha paura di mostrarsi nella sua genuina sincerità. Tutto questo a scapito però dei personaggi secondari, le donne in particolare, che ci sono ma risultano un decor quasi trascurabile.
Ritchie sottopone al pubblico,com’era già stato annunciato, un Sherlock Holmes intatto nelle sue facoltà deduttive ma decisamente più sporco, prestante ed eccentrico di quello che eravamo abituati a pensare. E lo stesso trattamento è stato riservato a Watson, non più composto medico sottomesso seppur apprezzato,ma compagno, spalla e qualche volta artefice. Ma Guy Ritchie fa di più, non solo fa uscire il mito fuori di sé con la già citata operazione di “svecchiamento”,ma lo riconduce alle sue origini. Niente è davvero profondamente diverso dal romanzo: lo Holmes di Conan Doyle alterna periodi di eccessiva attività mentale a periodi letargici, è abile nei travestimenti, è irriverente verso le istituzioni ma sempre a loro fa riferimento, mantenendosi sul filo di ciò che è lecito. E tutto questo Ritchie ce lo mostra senza i filtri che la penna di Doyle ha avuto considerando i tempi. Il regista offre uno spettacolo a suon di pugni allo spettatore contemporaneo, ma allo stesso tempo strizza l’occhio al fedele lettore (ad esempio inquadrando l’insegna di Baker Street, o il numero 221b della stessa strada) dando equilibrio ad un film che si lascia vedere nonostante il sostanzioso numero di minuti.
E’ un po’ quello che è successo James Bond, quando invece di un attore bello ed elegante, è stato interpretato dal forzuto e un po’ trucido Daniel Craig, un cambio di rotta decisamente azzardato ma riuscito.
Assolutamente ben fatte le scene d’azione, il montaggio riesce a tenere alta la suspense anche se alcuni tratti del film risultano prolissi. Per quanto riguarda la trama, l’esoterismo massonico di sottofondo ricorda vagamente le trama di From Hell che viene rievocato anche nell’ambientazione ma che non lasciano spazio a nessuna credenza extra sensoriale. Tutto è spiegato con la scienza e con qualche trucco da prestigiatore, il resto lo fa l’uomo, con le sue paure.
Scritto bene e recitato ancora meglio, lo Sherlock Holmes di Ritchie è sicuramente un film da vedere che lascia spazio a possibili sequel che forse inaugurerà un nuovo filone alternativo a quello dei cinefumetti.
Dorian Gray è un film che vuole sottolineare la sua autonomia rispetto all’opera da cui è tratto a partire dal titolo: il film di Oliver Parker è infatti ispirato al capolavoro dell’eccentrico Oscar Wilde, Il Ritratto di Dorian Gray, ma ne prende le distanze poiché volto a sottolineare gli aspetti più vari del personaggio di Dorian.
Se il romanzo muoveva dal ritratto e lasciava immaginare al lettore i vizi del protagonista, senza mai esplicitarli (ad eccezione di un delitto molto rilevante da lui commesso), il film è incentrato totalmente sulla figura di Dorian. Apprendiamo diversi aspetti del suo passato e tangibile è la sua evoluzione: ingenuo ventenne egli diventa poi un uomo corrotto dedito al piacere che maturerà infine la distinzione tra piacere e felicità.
Sedotto dalle parole di Lord Henry Wotton, Dorian Gray deciderà di vendere l’anima pur di conservare in eterno bellezza e giovinezza: a invecchiare è il suo ritratto, che riporterà tutti i marchi della sua progressiva depravazione. Il ritratto è una presenza oscura il cui orrore è intuibile per gran parte del film, per poi essere esplicitato in scene molto efficaci. Molte inquadrature adottano il suo punto di vista quando è l’anima di Dorian a scrutare dopo essere indagata. Originale e di forte impatto la scelta di rendere il ritratto una creatura viva e orripilante, che marcisce ed emette spaventosi suoni: di grande suggestione l’uso degli effetti speciali, soprattutto nel finale che lascia un po’ stupito lo spettatore (e l’appassionato del romanzo).
Il film è dark come previsto, con una nota horror accentuata. Le scenografie, gli ambienti vittoriani e la fotografia fredda e cupa contribuiscono a rendere più tenebrosa la vicenda narrata. Il tono dark è evidenziato anche dalla suggestiva colonna sonora composta da Charlie Mole, mentre l’accurata ambientazione è consolidata dagli ottimi costumi d’epoca di Ruth Meyers. Dorian Gray non è però un’opera esente da difetti: la prima parte è certamente superiore alla seconda, nella quale la sceneggiatura prende maggiormente le distanze dall’opera di Wilde; a partire dal personaggio inventato di Emily Wotton sino al finale, di certo spettacolare ma anche un po’ distante dal romanzo. Degna di nota è anche un’anticipazione narrativa: il delitto commesso da Dorian avviene molto prima del previsto e non nell’ultima parte della vicenda, come nel romanzo.
Ma Dorian Gray non può essere apprezzato se paragonato al capolavoro di Wilde: bisogna guardarlo come un’opera a sé. È però opportuno sottolineare che lo spirito del romanzo è conservato nel film e che trovano spazio anche gli aforismi più amati. Il protagonista non sarà biondo e dagli occhi azzurri come nell’opera originale, ma ha gli occhi e il volto di Ben Barnes, che di fascino non manca: e l’obiettivo di Parker è proprio quello di insistere sull’idea che gli ideali della bellezza mutano con il tempo, ed è per questo che Dorian Gray è un giovane dagli occhi e capelli scuri. Tuttavia, come il film insegna, non bisogna soffermarsi sull’aspetto: per questo è necessario riconoscere che la prova di Ben Barnes supera certamente le aspettative. Il giovane attore è espressivo e incarna perfettamente il Dorian ingenuo e corrotto poi.
Notevole anche l’interpretazione di Colin Firth: Henry Wotton è di certo un personaggio che si discosta dai ruoli interpretati da lui in passato, ma l’attore si dimostra assolutamente all’altezza del mordace e filantropo tentatore che influenza Dorian. Buone anche le prove di Ben Chaplin, ovvero il pittore Basil Hallward, e Rebecca Hall (Emily Wotton). Al di là del tema dell’immortalità, sempre attuale e riprodotto nel film come nel libro (“Sono un dio”, dice Dorian), Dorian Gray è quindi un film che sarà apprezzato da chi non indugerà nel paragone con il romanzo. Certamente non è un film che lascia indifferenti, ma che susciterà impressioni positive o negative a seconda dello spettatore. E come ci ricorda Oscar Wilde: “Vi è solo una cosa al mondo peggiore del far parlare di sé, ed è il non far parlare di sé”.
A dispetto dello scorso anno, nel 2009 Roma apre bene. Triage di Tanovic (premio oscar per ‘No man’s land’) racconta la storia di un fotoreporter Mark, interpretato da un Colin Farrell davvero in vena alle prese con un misterioso trauma subito in Kurdistan, mentre cercava di immortalare il reportage della vita.
Per la prima parte Triage scorre lento, senza grandi cambiamenti nel ritmo narrativo, costringendosi all’interno di schemi convenzionali, addirittura banali, nonostante la profonda esperienza che il regista ha della guerra (Tanovic è bosniaco). Le scene sono crude pur non mancando di una certa bellezza estetica, soprattutto nelle inquadrature di paesaggio, gli interpreti buoni, trai quali spicca il medico ‘di frontiera’, interpretato da Branko Djuric, già compagno di viaggio di Tanovic per No Man’s Land e ora responsabile di una performance davvero notevole, fredda e coinvolgente insieme.
Nella seconda macro sequenza, che possiamo individuare nel ritorno a Dublino di Mark e nella progressiva presa di coscienza dei protagonisti che ‘qualcosa è cambiato’, il ritmo di Triage rallenta ancora e se all’inizio abbiamo visto l’attaccamento del protagonista al suo lavoro, adesso possiamo entrare nelle dinamiche di coppia, scoprendo un’altrettanto importante figura femminile, Helena (Paz Vega) moglie di Mark e motore dell’azione in questo frangente. Anche la Vega, come Farrell e Djuric, offre una buona interpretazione, avvalorata anche dall’uso di una lingua, l’inglese, che non è la propria.
La svolta sia tematica che stilistica avviene con l’entrata in scena di Christopher Lee, nei panni dello psichiatra franchista Joaquin Morales, nonno di Helena e intenzionato, su richiesta della nipote, a portare la guarigione nella mente tormentata del fotoreporter.
Un ritmo un po’ discontinuo che si salva verso il finale e regala un’impronta fluida al racconto pur non rendendolo eccelso. Ma se nel ritmo il film ha qualche pecca, nella sceneggiatura e nell’interpretazione ha i due punti forti. Una scrittura di dialoghi salda e precisa, funzionale ma anche lievemente sarcastica, che riecheggia nella profonda e possente voce di un Lee che si conferma una leggenda, un uomo che ha fatto la storia del cinema, ma anche la storia dell’occidente così come lo conosciamo, avendo vissuto sulla sua pelle le grandi guerre moderne, soprattutto i 5 anni del secondo conflitto mondiale.
Attori superlativi che forse vanno al di là di quello che è il valore registico, che pure regala qualche bel momento e soprattutto un finale straziante, in grado di commuovere ma anche di smuovere gli animi, un finale che ti accompagna per un po’ fuori dalla sala.
Triage – Uno sguardo sulla guerra da parte di chi la guerra la vive ma non la fa.
Planet 51 – In un pianeta esterno alla nostra galassia, la vita prosegue placida ed ordinaria senza grandi scossoni, fino a che atterra dalla spazio profondo una navicella aliena. Da essa uscirà un temibile…..astronauta della Nasa! Questo è Planet 51: una piccola storia che potrebbe definirsi un E.T. alla rovescia. Il Captano Charles T. Baker, fascinoso astronauta americano, arriva su un pianeta sconosciuto convinto di dover piantare solo una bandierina. In realtà avrà una sorpresa, si troverà davanti ad una civiltà del tutto uguale alla nostra, solo costituita da omini verdi e simpatici: degli alieni! Solo che la sua prospettiva sarà capovolta, è lui infatti l’alieno, il diverso proveniente da un altro mondo.
Come il piccolo E.T. si deve nascondere dalla forze armate grazie all’aiuto di Elliot, così Charles sarà costretto a scappare dalle autorità locali che vogliono rinchiuderlo nella base 9 (tipo la ‘nostra’ area 51?).
Ancora una volta il cinema, questa volta quello d’animazione, ci sottopone ad un grave problema sociale, quello della xenofobia, raccontandoci una storia dai toni leggeri e non molto pretenziosa, infarcita di citazioni e che spesso tocca la retorica più bassa in diversi dialoghi. Il film affronta l’argomento che dovrebbe essere quello centrale con un distacco che a volte sfugge e senza la dovuta profondità concettuale che altri prodotti dello stesso genere sono riusciti a dare. La retorica dei contenuti però non impedisce un buon tratteggiamento dei personaggi, qelli secondari e ‘non umani’ soprattutto, mi riferisco a Rover, la sonda spaziale spaventosamente simile al famosissimo Wall-E, e ovviamente al cucciolo di cane alieno, un piccolo Alien in miniatura che conserva sia le caratteristiche fisiche del mostro di Cameron (forma della testa, corrosività dei liquidi corporei) sia quelle caratteriali (vedi la sorte del povero postino).
Un film senza pretese che offre ugualmente degli spunti di ilarità e di interesse, se non altro (per i cinefili) quello di rintracciare le varie citazione di cui il film è pieno, da quella banale dell’atterraggio con la colonna sonora (auto-cantata dall’astronauta) di 2001: Odissea nello Spazio, a quella palese di E.T. (la fuga in bicicletta), a quella un po’ più ricercata di Non aprite quella porta nel finale.
Nonostante la modestia del progetto e del risultato finale Planet 51 è da considerarsi un prodotto coraggioso almeno per quello che riguarda l’aspetto produttivo (coproduzione Spagna/Uk/USA), infatti nessuna delle grandi Major imperanti nel settore dell’animazione, vedi Pixar o DreamWorks, ha collaborato al progetto.
Nemico pubblico – Il digitale è nato come la strumento della diretta, sfrutta l’immediatezza dell’immagine. Poi arriva Michael Mann, e tutto quello che si studia sul digitale come mezzo economico per realizzare un film di bassa qualità va in fumo. Perché Mann con il digitale ci ha realizzato Collateral, Miami Vice ed ora arriva Nemico Pubblico, il suo film forse più personale più aperto alla sperimentazione, ma allo stesso tempo un film che rivoluziona il modo di guardare al cinema e al genere in particolare.
La storia è quella famosissima oltreoceano di John Dillinger, un criminale specializzato nelle rapine in banca che nei primi anni ’30 ha fatto tremare le istituzioni americane. Ma questo Dillinger che Mann ci dipinge con la sua spettacolare fotografia sgranata è un po’ più articolato, complesso rispetto alle sue precedenti rappresentazioni. Mann è partito dalla fine, da quando il bandito John deve ricominciare la sua vita dopo un lungo periodo di reclusione. E lui scegli di raccontarlo alla vecchia maniera, come fosse un western. Un uomo prima di tutto, un duro che si atteggia a divo, ma che nella realtà ha ispirato in prima persona la costruzione della figura divistica negli anni dello star system.
Mann ha riportato sulla schermo la figura mitica e umana attraverso un incredibile Johnny Deep che nelle corde oscure del bandito ha trovato le sue, offrendo in questo modo un’interpretazione davvero convincente che affascina e si confà alla figura carismatica che ci viene presentata. Una persona carismatica dunque ma anarchica, che si scontra sia con la criminalità organizzata che ovviamente con la legge, impersonata da un bravissimo Christian Bale nei panni di Melvin Purvis, l’agente speciale che ha dato la caccia a Dillinger. Una recitazione sommessa fatta più di silenzi e sguardi che di parole che si aggiunge alle già numerose rilevanti interpretazioni di Bale. Ma chi brilla davvero in un universo di uomini è Marion Cotillard, semplicemente eccezionale nei panni della donna del bandito Billie Frechette: se qualcuno avesse avuto dubbi sul fatto che il suo Oscar fosse stato assegnato agli strati di trucco in La Vie en Rose, adesso deve ricredersi. Marion riesce ad essere potente e fragile, bella e crudele mantenendo le sue sembianze delicate.
Quello che però lascia un po’ l’amaro in bocca è una scrittura non troppo perfetta. A tratti apparentemente poco attenta a quelli che sono i nodi del racconto, sicuramente una sceneggiatura meno rarefatta avrebbe dato i giusti accenti ad una storia intrigante e ad un personaggio di tutto rispetto e di grande spessore. Peccato anche per l’aspetto musicale del film, che se nel finale regala insieme ad un sapiente montaggio attimi di reale suspense, nel corpo del film è estremamente rarefatta e quando compare, lo fa con prepotenza violentando il corso delle immagini.
Nonostante questo, Nemico Pubblico è un’esperienza visiva totale; la ripresa in digitale da l’impressione non di un film d’epoca, ma di essere esattamente lì, nel 1934, con Dillinger e la sua gang rabbiosa e anarchica ad accumulare denaro senza mai curarsi del futuro, ed è esattamente ciò che Mann voleva accadesse. Proiettare lo spettatore nella storia, fargli vivere tutto ciò che è davvero successo, negli stessi luoghi che nel tempo sono diventati quasi leggendari, fargli assaggiare quasi l’odore della polvere da sparo che copiosamente viene utilizzata lungo tutto il film.
Una pellicola forse leggermente al di sotto delle aspettative, ma che surclassa i generi e le definizioni aprendo ancora una volta una sperimentazione visiva e concettuale del cinema laddove si credeva fosse stato già detto tutto. E questo tipo di rivoluzioni spettano soltanto a chi, come Mann, conosce profondamente il cinema e per questo è in grado di modificarne i codici.
Brotherhood – Tutti ne parlano, nessuno ne racconta. L’omosessualità è senza dubbio un tema inflazionato e talvolta banalizzato. Ecco che dalla Danimarca arriva un piccolo gioiello e ogni racconto visto o ascoltato in precedenza sullo stesso tema diventa banale. Brotherhood di Nicolo Donato racconta la storia di due ragazzi, Jimmy e Lars, che si uniscono ad un gruppo di neo-nazi, salvo poi scoprire tra loro una passione ardente e autentica che collide violentemente con l’ideologia che i due dovrebbero abbracciare. La scelta sarà presto inevitabile: seguire i propri sentimenti o scegliere il gruppo?
Brotherhood, con una gestazione di quattro anni, arriva al Festival di Roma sorprendendo ed emozionando, ma soprattutto facendo riflettere sul tema dell’ identità sessuale, ma anche su quello più profondo della scelta, del cambiamento della vendetta e della punizione. Brotherhood è un film fatto bene, costruito con attenzione e diligenza, con una fotografia notevole e degli interpreti eccezionali. Vince il Gran Premio della Giuria e Marc’Aurelio d’oro.
La trama di Brotherhood segue linee guida apparentemente convenzionali ponendo nella parte finale l’accento sulle conseguenze delle proprie scelte e delle proprie azioni presenti e passate. Con un misto di delicatezza narrativa e durezza delle immagini e dei temi trattati il film di Donato arriva al cuore e al cervello spingendo oltre la naturale organizzazione narrativa riguardo ai film sull’omosessualità che si vedono in giro. E’ prima di tutto una storia di crescita, una storia d’amore, una storia dura che svolta nel finale in maniera tanto interessante quanto inaspettata anche se annunciata.
Le conseguenze delle proprie azioni si pagano nel bene e nel male, si esce cambiati dai traumi della vita, ma tante volte la sofferenza non riesce a scalfire quelle che sono convinzioni assurde e tante volte simulate, il rimorso non attecchisce lì dove non c’è terreno fertile e tante volte l’amore si trova nei momenti, nei posti e con le persone mai immaginate.
Tutto questo è Brotherhood, un ritratto bellissimo di una storia d’amore.
Julie & Julia – Con l’età si cambia, e nel mondo del cinema spesso si ci adatta a quello che viene offerto, soprattutto se sei un attore e in particolar modo se si tratta di una donna. Questa regola non vale per Meryl Streep che ha saputo fare degli ultimi anni a degli ultimi film veri e propri successi di pubblico e critica, pur non trattandosi di film ‘impegnati’.
La Streep si è infatti data con risultati eccellenti alla commedia, ed ecco, dopo Il Diavolo Veste Prada e Mamma Mia!, nei panni della cuoca più famosa d’America, Julia Child, nell’ultimo film scritto e diretta da Nora Ephron, presentato in anteprima al Festival di Roma per celebrare il Marco Aurelio d’Oro alla carriera che Meryl ha ricevuto per l’edizione 2009. Julie & Julia racconta le storie parallele di Julia (la Child) quando comincia ad appassionarsi alla cucina e scrive il suo libro di cucina francese per la casalinghe americane, e di Julie segretaria che 50 anni dopo gli inizi della Child, decide seguendo la sua ispirazione di realizzare in un anno tutte le ricette del libro di Julia.
Bravissimi attori (con la Streep si ricordano un elegante Stanley Tucci ed una sempre più brava Amy Adams) e storia interessante basata sulle scelte che possono cambiare la vita, sulle dinamiche matrimoniali e sull’amore che si prova per ciò che si fa, non riescono a fare dell’idea un grande film soprattutto per la durata eccessiva, due ore, che a tratti sembra non sussistere affatto lo svolgimento degli eventi, qualche volta addirittura stentati. La regia della Ephron è discreta, anche troppo e non valorizza la materia prima che ha avuto a disposizione.
I due episodi si differenziano per ritmi e esiti espressivi: tanto è spumeggiante e godibile quello della Streep, tanto è abbastanza prevedibile e scontato quello che vede protagonista la pur brava Adams. Tuttavia Meryl non sbaglia un colpo, ancora una volta offre una prestazione eccellente, confermandosi l’attrice migliore del momento (uomini compresi), sopra le righe e vagamente eccentrica la sua Julia è vivace e vagamente isterica, appoggiata con classe e discrezione da quell’ottimo attore che si conferma essere Stanley Tucci, nel ruolo di Paul Child, marito di Julia.
Tratto da una storia vera e da due libri: Julie & Julia di Julie Powell (il personaggio di Amy Adams e da My life in France della stessa Julia Chirl, Julie & Julia è un film godibile, per due ore di buon cinema e sorrisi, senza esagerare però…
Curiosità: un bel cammeo di Dan Aykroyd.
Prima la notizia dell’inizio di un nuovo film, poi qualche foto, poi la notizia shock (l’attore protagonista muore durante una pausa dalle riprese), poi ancora le voci: “il film si finirà!”, le prime immagini, il trailer, l’anteprima mondiale a Cannes e poi il grande annuncio per gli aficionados del Festival di Roma: Parnassus – L’uomo che voleva ingannare il diavolo proiettato in anteprima italiana nell’ambito dell’omaggio a Heath Ledger.
Il grande giorno infine è arrivato e il pubblico è accorso numeroso ad osannare non solo la memoria di Heath, ma ad accogliere calorosamente la delegazione, Terry Gilliam e (l’altissima) Lily Cole. Saluti di benvenuto, applausi e luci spente: la lunga attesa è finita.
Il dottor Parnassus (Christopher Plummer) è un uomo vecchissimo, capo di una bizzarra compagnia di ambulanti che gira per le strade di Londra con il suo Carrozzone: l’Inmaginarium. Ma ci accorgiamo subito che qualcosa non va, qualcosa di strano si nasconde dietro un specchio magico al centro del palco di Parnassus, una porta verso altri mondi, dove le sembianze umane cambiano a seconda dell’animo della persona che viene trasportata all’interno.
Alla compagnia si aggiunge presto un nuovo elemento, Tony, un giovane che è stato ripescato dal London Bridge, dove penzolava da una forca. Che sia buono o cattivo, Tony si unisce a Parnassus e qui comincia il suo viaggio. La grande curiosità del pubblico è stata infine soddisfatta. Parnassus – L’uomo che voleva ingannare il diavolo di Terry Gilliam, pur non godendo della luce di un prodotto eccelso, riesce a catturare ed affascinare, le scene di una Londra umida e triste, nella povertà del carrozzone di Parnassus assumono un fascino particolare e la storia misteriosa riesce a far scorrere via le due ore del film con facilità.
Pur risultando confuso nella trama soprattutto nella parte finale, Parnassus – L’uomo che voleva ingannare il diavolo è un bel film, tripudio di effetti speciali che hanno colmato delle difficoltà di produzione che sono insorte durante la lavorazione a causa dell’accidentale morte di Ledger. Ma a dimostrazione che l’industria cinematografica ha ancora un anima, sono accorsi tre amici di Heath, Depp, Law e Farrell, a sostituire l’amico e a dargli il volto nei diversi mondi che il suo personaggio attraversa.
Gilliam è stato chiaro durante la conferenza stampa: le modifiche alla sceneggiatura sono state minime dopo la traumatica interruzione, ma il dubbio resta, qualcosa di poco organico permane alla fine del film che lascia un po’ l’amaro in bocca, forse determinato dalle altissime aspettative. Il tripudio di colori e le grandi interpretazioni tuttavia restano, facendo di Parnassus – L’uomo che voleva ingannare il diavolo un film che si ricorderà, per la sorte assurda toccata al protagonista, per la storia, in profondità crudele e involontariamente profetica, per la dimostrazione che nonostante il cinema sia sempre più un’industria e non una fabbrica di sogni, esiste ancora un’anima in un lavoro ritmato dai numeri del guadagno.
La scritta finale, quasi come un epitaffio recita: un film di Heath Ledger e dei suoi amici, omaggio che Gilliam ha sottolineato definendosi soltanto il realizzatore di un prodotto che era stato pensato esattamente in quel modo dall’attore australiano.
Presentato in concorso al Festival Internazionale del Film di Roma, The Warrior and The Wolf (Lang Zai Ji) è un’opera che unisce epica storica e suggestioni mistiche, radicate nella tradizione orientale. Diretto dal maestro cinese Tian Zhuangzhuang, il film prometteva un affresco solenne e affascinante, capace di raccontare la Cina imperiale attraverso la lotta dei guerrieri e la simbologia dei lupi.
Le premesse erano quelle di un racconto antico, sospeso tra guerra, onore e mito. Tuttavia, il risultato non riesce a mantenere intatta la forza di queste intenzioni: la visione è affascinante e visivamente potente, ma la trama frammentata e la scarsa definizione dei personaggi lasciano lo spettatore disorientato.
La vicenda si svolge in un’epoca remota, nelle regioni sperdute della Cina imperiale. Un esercito, impegnato a reprimere rivolte popolari, si rifugia in un villaggio fantasma durante l’inverno. Qui emergono credenze e leggende legate ai lupi, simbolo di fedeltà e nobiltà, che diventano parte integrante della narrazione.
Il film intreccia il dovere del guerriero, l’onore delle armi e le tradizioni ancestrali con una dimensione mistica che trasforma la natura in forza ostile e, al tempo stesso, spirituale. In questo contesto si sviluppano relazioni complesse, tra dedizione e riluttanza verso il potere, e una tormentata storia d’amore che rimane tuttavia poco approfondita.
Dal punto di vista visivo, The Warrior and The Wolf regala momenti di grande impatto. Le scene di battaglia sono curate con attenzione, i paesaggi sconfinati restituiscono un senso di maestosità e isolamento, e perfino i lupi digitali appaiono credibili e suggestivi. L’animale diventa un simbolo universale: spesso temuto e condannato nelle fiabe occidentali, qui viene elevato a creatura nobile, custode di un’etica che richiama la monogamia e la lealtà.
Tian Zhuangzhuang dimostra la sua capacità di costruire atmosfere rarefatte e potenti, in cui la bellezza naturale e la dimensione mitologica si fondono. È un cinema che affascina l’occhio, ma che fatica a coinvolgere pienamente il cuore.
Se l’impatto estetico è notevole, sul piano narrativo emergono i maggiori difetti. La trama risulta poco lineare e la gestione dei rapporti tra i personaggi è incerta. Non è chiara, ad esempio, l’evoluzione del legame tra il protagonista e il generale Zang, oscillante tra riluttanza e dedizione, né trova giustificazione piena la relazione ambigua e conflittuale con la misteriosa donna interpretata da Maggie Q.
Questa mancanza di coerenza nelle dinamiche interne rende il racconto fragile, impedendo di valorizzare appieno le tematiche di onore, amore e sacrificio che avrebbero potuto elevare il film. La confusione narrativa rischia di vanificare il lavoro estetico e simbolico, lasciando il pubblico con la sensazione di un’opera incompiuta.
The Warrior and The Wolf resta un’esperienza visiva di rilievo, capace di evocare il fascino antico della leggenda e della natura selvaggia. Tuttavia, non riesce a trasformarsi in un racconto davvero coinvolgente: troppo vaga la costruzione dei personaggi, troppo frammentaria la trama.
È un film che vive di atmosfere e suggestioni, più che di narrazione. Affascina lo sguardo, incuriosisce sul piano simbolico, ma delude chi cerca una storia solida e appassionante. Una promessa non pienamente mantenuta, che lascia intravedere grandi potenzialità senza sfruttarle fino in fondo.
C’era una volta la commedia all’italiana, con il suo sguardo ironico e amaro sulla società e i suoi difetti. Con Oggi Sposi, Luca Lucini tenta l’impresa di riportarne in vita lo spirito, costruendo una pellicola corale divisa in episodi che affrontano il tema del matrimonio attraverso situazioni grottesche, satira sociale e caricature. L’obiettivo è ambizioso: recuperare quell’“amarezza del sorriso” che caratterizzava il nostro cinema del passato, offrendo al pubblico un’alternativa più raffinata ai cine-panettoni natalizi.
Il risultato, tuttavia, non è del tutto convincente. Pur offrendo qualche momento riuscito e un cast solido, Oggi Sposi si rivela una commedia solo a tratti brillante, incapace di mantenere un ritmo costante e troppo spesso affidata a gag superficiali che finiscono per disperdere il potenziale del progetto.
Il film intreccia quattro storie, ognuna incentrata su un matrimonio “impossibile” che porta in scena contrasti sociali, culturali e caratteriali. Tra le diverse vicende spicca quella con protagonisti Michele Placido e Luca Argentero, episodio che risulta il più riuscito per ritmo e comicità.
Accanto a loro, altri personaggi incarnano stereotipi ben riconoscibili: la soubrette frivola e svampita, i genitori tradizionalisti, i giovani alle prese con l’amore ostacolato dalle convenzioni. L’intreccio segue la formula della commedia corale, alternando episodi che si collegano più nel tono che in una reale coesione narrativa.
Uno degli elementi più interessanti di Oggi Sposi è il lavoro degli attori, che si calano con energia nei ruoli affidati, pur rimanendo spesso imprigionati negli stereotipi. Gabriella Pession, nei panni di una showgirl superficiale, condensa volutamente tutto il peggio del divismo televisivo italiano, caricandolo fino all’eccesso.
Michele Placido e Luca Argentero regalano i momenti più divertenti, dimostrando una verve comica efficace. Tuttavia, l’insieme risente della scrittura poco incisiva: i personaggi non evolvono davvero, restano figure funzionali a una satira che si limita a sfiorare i temi senza approfondirli.
Se da un lato Oggi Sposi offre un’alternativa più sobria e costruita rispetto al cine-panettone, dall’altro non riesce a recuperare davvero l’eredità della commedia all’italiana. Lucini alterna momenti riusciti a passaggi caotici, con un ritmo che fatica a rimanere costante.
Il film si affida troppo alla risata facile e alla caricatura, senza quella lucidità critica che rese immortali i grandi titoli del passato. Il risultato è un’opera che intrattiene ma lascia poco dietro di sé, confermandosi come un tentativo non pienamente riuscito.
In definitiva, Oggi Sposi si rivela una commedia mediocre, che non riesce a mantenere le promesse iniziali. Pur con un cast valido e qualche episodio divertente, il film si perde in una struttura disomogenea e in un umorismo che non riesce a superare la superficie. È un passo diverso rispetto alla comicità volgare dei prodotti natalizi, ma non abbastanza incisivo per riportare in vita la grande tradizione della commedia all’italiana.
Dopo Train de vie, il regista franco-rumeno Radu Mihaileanu torna con un’opera che unisce commedia, dramma e poesia, confermando la sua capacità di raccontare storie universali con sensibilità e leggerezza. Presentato nella Selezione Ufficiale fuori concorso al Festival di Roma 2009, Il concerto ha riscosso un grande consenso di pubblico, colpendo per la sua capacità di divertire ed emozionare in egual misura.
Il film nasce da un’idea semplice ma potentissima: raccontare la possibilità di un riscatto, individuale e collettivo, attraverso la forza salvifica della musica. La vicenda si intreccia con il tema della memoria storica, delle discriminazioni e della capacità dell’arte di abbattere muri culturali e sociali. Mihaileanu mette in scena un racconto che attraversa generi diversi, mescolando ironia farsesca e momenti di profonda commozione, fino a costruire un’opera dal respiro internazionale.
Il protagonista è un ex direttore d’orchestra del Bolshoi, allontanato ingiustamente durante l’Unione Sovietica per aver difeso i suoi musicisti ebrei. Costretto a lasciare la bacchetta, viene relegato a svolgere mansioni umili, ridotto a fare le pulizie nello stesso teatro che un tempo lo celebrava come artista. La sua vita sembra segnata dall’amarezza e dalla rassegnazione, finché un imprevisto gli offre una seconda possibilità: rimettere insieme la sua vecchia orchestra e tornare a dirigere, sul palco, un grande concerto.
Quello che sulla carta è solo un inganno per ritrovare un attimo di gloria, si trasforma in un’avventura rocambolesca che riunisce un caleidoscopio di personaggi: ebrei pragmatici e commercianti, russi allegri e amanti della vodka, zingari confusionari ma geniali nella musica, comunisti nostalgici e idealisti. La musica diventa il terreno comune in cui queste anime disparate trovano un senso, riscoprendo dignità e speranza.
Uno degli aspetti più interessanti di Il concerto è la sua capacità di costruire un affresco sociale attraverso la commedia. Mihaileanu tratteggia i suoi personaggi con pochi ma efficaci dettagli, spesso legati a stereotipi culturali, ma riesce a trasformarli in elementi funzionali a una parodia intelligente.
In questo mosaico umano, le differenze non separano, ma generano comicità e, alla fine, armonia. Il tono leggero e spesso caricaturale convive con la profondità del tema centrale: il bisogno di riscatto e di riconciliazione. Il culmine arriva nell’esecuzione del Concerto per violino di Čajkovskij, simbolo di una rinascita collettiva che trascende i limiti personali dei protagonisti.
Il regista lavora con un cast corale, in cui ogni attore contribuisce con la propria sfumatura. Gli interpreti regalano caratterizzazioni che oscillano tra il farsesco e l’intimo, restituendo credibilità a figure altrimenti ridotte a macchiette. Le paure, i difetti e i sogni dei personaggi emergono con naturalezza, trasformandosi in un coro umano che trova la propria voce nella musica.
L’aggiunta di un tocco di mistero – che si svela solo nel finale – rende il racconto ancora più coinvolgente, ribadendo la capacità di Mihaileanu di intrecciare risate e lacrime. Il legame umano che si costruisce tra i protagonisti culmina in un epilogo intenso, improbabile forse sul piano realistico, ma coerente sul piano emotivo.
Dal punto di vista stilistico, Mihaileanu conferma la sua abilità di narratore per immagini. La regia è sobria e partecipe, attenta ai volti e ai dettagli, capace di fondere registri diversi senza mai perdere il controllo. Le musiche, elemento centrale del film, non sono mai mero accompagnamento ma parte integrante della narrazione: il concerto finale diventa catarsi, liberazione e sintesi del percorso dei personaggi.
Il rischio di scivolare nella retorica era alto, ma Il concerto evita questo pericolo scegliendo un ottimismo sincero, che non nega la sofferenza ma la trasforma in energia vitale. La poesia del racconto nasce proprio da questo equilibrio fragile ma riuscito: la capacità di unire leggerezza e intensità, comicità e dolore, in un’unica sinfonia cinematografica.
Come pochi titoli recenti, Il concerto riesce a far ridere e piangere nello stesso tempo. Offre due ore di cinema che sono al tempo stesso divertenti, commoventi e impegnate, ma soprattutto poetiche nella loro semplicità. È un equilibrio difficile da raggiungere, che Mihaileanu gestisce con sorprendente naturalezza.
Presentato al Festival di Roma, il film si è imposto come una delle opere più apprezzate dell’edizione 2009, dimostrando come il cinema europeo possa ancora regalare emozioni forti e universali. Un film che parla a tutti, senza barriere culturali, e che ricorda come la musica e l’arte possano restituire senso e dignità anche nelle vite più segnate.
Dopo il successo di Thank You for Smoking e Juno, Jason Reitman torna alla regia con Tra le nuvole (Up in the Air), presentato al Festival di Roma con un’accoglienza calorosa. La pellicola conferma il talento del regista nel raccontare storie contemporanee capaci di intrecciare ironia e malinconia, restituendo un affresco lucido e pungente della società americana.
Con George Clooney come protagonista assoluto e una brillante Vera Farmiga al suo fianco, Tra le nuvole affronta con leggerezza e intelligenza temi universali come il lavoro, la solitudine e la paura dei legami. Il risultato è una commedia elegante e disincantata, capace di divertire ma anche di lasciare un retrogusto agrodolce.
Ryan Bingham (George Clooney) ha un lavoro particolare: viene ingaggiato dalle aziende per licenziare i dipendenti al posto dei dirigenti. La sua vita è scandita da continui viaggi in aereo, hotel e aeroporti: le nuvole sono la sua vera casa, molto più del piccolo e impersonale appartamento di Omaha.
Ryan si muove con apparente leggerezza, senza legami affettivi né rimorsi, tutto racchiuso in una valigia ordinata e compatta. La sua esistenza sembra perfetta, finché due eventi minano il suo equilibrio: la minaccia di un progetto che sostituirebbe i licenziamenti tradizionali con procedure via internet e l’incontro con Alex (Vera Farmiga), affascinante viaggiatrice che lo spinge a mettere in discussione il suo stile di vita da scapolo impenitente.
Il film trova la sua forza nella performance di George Clooney, che interpreta Ryan con eleganza e disinvoltura. L’attore restituisce un personaggio affascinante e contraddittorio: un uomo brillante e sicuro di sé che dietro la patina di ironia nasconde una profonda solitudine.
Al suo fianco, Vera Farmiga offre un ritratto incisivo e magnetico, riuscendo a trasformare Alex in una figura femminile complessa, al tempo stesso indipendente e vulnerabile. Il rapporto tra i due attori genera una chimica autentica che rende credibile la trasformazione del protagonista, offrendo alcuni dei momenti più intensi del film.
Jason Reitman conferma la sua cifra stilistica: scrittura brillante, dialoghi taglienti e uno sguardo che unisce leggerezza e profondità. Come già accaduto in Juno e Thank You for Smoking, la presentazione iniziale del personaggio attraverso le sue parole è il punto di partenza per un racconto che alterna comicità e riflessione.
Tra le nuvole evita i cliché della commedia romantica per abbracciare un tono più adulto e realistico. Il finale, inaspettato e agrodolce, sottolinea la natura cinica ma anche ottimista della pellicola, suggerendo che il cambiamento, per quanto doloroso, può diventare occasione di redenzione.
L’equilibrio tra ironia e malinconia rende Tra le nuvole una commedia sofisticata, che diverte senza mai scadere nella superficialità. Reitman dimostra ancora una volta di saper raccontare storie capaci di riflettere la contemporaneità, offrendo al pubblico un film che diverte, emoziona e invita a interrogarsi sul senso dei legami e delle scelte personali.
Tratto dal celebre romanzo di David Almond, Skellig si colloca tra quelle opere che cercano di superare il confine del semplice intrattenimento per ragazzi, avventurandosi su terreni più complessi, in cui fantasia e introspezione si intrecciano. Diretto da Annabel Jankel, il film propone un racconto sospeso tra il realismo del quotidiano e l’inquietudine del mistero, affidandosi a interpreti capaci di restituire intensità a una storia che si muove tra dolore, speranza e scoperta.
La pellicola apre spunti narrativi che non si limitano alla dimensione infantile, ma invitano a riflettere sul senso della cura, della fragilità e dell’accettazione. È un fantasy che poggia le sue basi sulla dimensione intima dei personaggi, un viaggio in cui il giovane protagonista trova nel fantastico la forza di affrontare le difficoltà più grandi.
Michael si trasferisce con la sua famiglia in una vecchia casa decadente alla periferia di Londra. Il motivo è la gravidanza della madre, che presto darà alla luce una sorellina. Ma la bambina nasce con una grave malformazione al cuore, lasciando la famiglia nell’angoscia.
Nel pieno delle sue paure, Michael scopre in giardino un uomo misterioso nascosto in un magazzino abbandonato. Sporco, debole, coperto di polvere e con un aspetto inquietante, questo essere – che si presenta come Skellig – sembra a metà tra un clochard e una creatura fantastica. Accudito con pazienza e dedizione, l’uomo recupera lentamente le forze, rivelando a Michael la sua vera natura e conducendolo verso un percorso di crescita personale e scoperta interiore.
Il cuore pulsante del film è rappresentato dalle interpretazioni. Tim Roth, trasformato da un trucco accurato che ne accentua l’aura inquietante, regala una performance intensa e stratificata, incarnando Skellig come un essere al tempo stesso spaventoso e fragile, enigmatico e salvifico.
Accanto a lui, il giovane Bill Milner dimostra notevole maturità, riuscendo a reggere il confronto con l’attore britannico e a farsi spazio con una recitazione sensibile e autentica. In alcune sequenze, il suo Michael riesce persino a rubare la scena al carisma di Roth, contribuendo a costruire un rapporto credibile e coinvolgente tra i due personaggi.
Se sul piano interpretativo il film funziona, la regia di Annabel Jankel mostra qualche limite. L’intreccio tra realismo e fantastico non sempre trova un equilibrio stabile: gli enigmi legati alla figura di Skellig si trascinano a lungo, generando un’attesa che in alcuni momenti si rivela eccessiva. La durata complessiva, un po’ dilatata, rischia di appesantire un racconto che avrebbe beneficiato di maggiore sintesi.
Nonostante ciò, Skellig mantiene un fascino particolare. La Londra sullo sfondo appare quasi neutrale, priva di tratti distintivi, scelta che accentua la centralità dei personaggi e della loro vicenda. Alcuni riferimenti simbolici legati alla figura di Skellig suggeriscono interpretazioni più profonde, lasciando spazio a letture metaforiche sul significato del personaggio e sul suo ruolo di “angelo caduto” o di guida spirituale.
In definitiva, Skellig è un film che si rivolge a un pubblico ampio, disposto a lasciarsi coinvolgere da una storia sospesa tra realismo e mistero. Pur con i suoi difetti, soprattutto sul piano della regia e del ritmo, riesce a lasciare un segno grazie all’intensità dei protagonisti e al modo in cui affronta temi universali come la malattia, la paura e il bisogno di credere nel fantastico.
Negli ultimi anni il cinema storico ha regalato grandi opere capaci di unire intrattenimento e rievocazione, offrendo epica e spettacolo insieme. Con Barbarossa, Renzo Martinelli tenta la stessa strada, affrontando un personaggio imponente della Storia europea e un evento simbolico per l’Italia medievale. Le ambizioni erano alte, i mezzi economici ingenti, e persino la tecnologia era dalla sua parte, con l’uso della crowd replication per ricreare grandi masse di combattenti. Tuttavia, il risultato non è all’altezza delle aspettative: un film pretenzioso e confuso, che finisce per deludere profondamente lo spettatore.
Invece di costruire un racconto coeso e avvincente, Martinelli propone una narrazione spezzata, affidata a un montaggio discontinuo che alterna momenti statici a scene risolutive trattate in modo frettoloso. La durata di 139 minuti diventa così un ostacolo, più che un’opportunità, trasformando l’epica promessa in un’esperienza lenta e poco coinvolgente.
La debolezza principale di Barbarossa risiede nella scrittura. L’intreccio appare sfilacciato, privo di consequenzialità interna, incapace di restituire il respiro epico che una storia simile avrebbe meritato. Martinelli, reduce dall’esperienza di regista di videoclip, sembra replicarne i limiti: scene che funzionano singolarmente ma che non dialogano tra loro, incapaci di costruire un ritmo narrativo coerente.
Anche le scelte visive tradiscono l’inesperienza del regista nell’uso degli strumenti digitali. L’uso del ralenti, reiterato senza giustificazione narrativa, appesantisce ulteriormente il racconto. Persino le sequenze di battaglia, cuore pulsante di ogni film storico, appaiono poco credibili: il sangue digitale della battaglia di Legnano si rivela artificioso e innaturale, un effetto che allontana invece di coinvolgere lo spettatore.
Sul piano recitativo, Barbarossa mostra un forte squilibrio. Gli attori internazionali Rutger Hauer e F. Murray Abraham conferiscono autorevolezza ai loro ruoli, dimostrando solidità e professionalità. Al contrario, il cast italiano fatica a reggere il confronto. Kasia Smutniak, impegnata in un ruolo complesso, appare ripetitiva e monocorde, mentre Raz Degan sembra caratterizzare il proprio personaggio quasi esclusivamente attraverso il progressivo disordine dei capelli, unico segnale del passare del tempo.
Questa disomogeneità mina ulteriormente la credibilità del racconto, impedendo allo spettatore di immergersi pienamente nella vicenda. Il contrasto tra interpretazioni convincenti e prove poco incisive diventa evidente e penalizza il coinvolgimento emotivo.
Nemmeno il comparto tecnico riesce a risollevare l’opera. Le musiche di accompagnamento risultano anonime e prive di quella potenza evocativa necessaria a sottolineare il pathos della lotta per la libertà dei Comuni lombardi. L’uso della tecnologia digitale, pur innovativo per il cinema italiano, non viene sfruttato appieno: la crowd replication non restituisce l’impatto spettacolare che ci si sarebbe potuti aspettare, mentre le scelte estetiche finiscono per impoverire le scene più importanti.
Martinelli mostra coraggio nel tentare strade nuove, affrontando temi storici raramente trattati dal cinema italiano, lontani dai drammi intimisti o dalle commedie leggere. Tuttavia, il valore dell’idea non si accompagna a una realizzazione all’altezza. Barbarossa finisce così per essere un’occasione mancata, un passo falso che si aggiunge al non brillante Carnera.
“Noi Torrenuova vogliamo abbracciare il mondo intero, ma abbiamo le braccia troppo corte”. Questa la sintesi finale, che con voce stanca e fiacca proclama Peppino Torrenuova. E per qualcuno questa frase si adatterebbe anche alle ambizioni cinematografiche del regista del film. Una cosa è certa, solo un felice matrimonio tra un maestro del cinema come Giuseppe Tornatore e la Musa della Settima Arte poteva dar vita ad un film così. Mezzo secolo di storia sapientemente raccontati da una regia che si trasforma in occhi e da occhi che si fanno cuore pulsante di un fiume di vite, raccontate magnificamente.
Tornatore rivendica una libertà registica che in Italia è difficile trovare, regalandoci una speranza (per il futuro) e un’importante conferma. Sapiente nelle scelte registiche, formidabile nella direzione degli attori, soprattutto i più piccoli.
Convince la modella siciliana Margareth Madè, che in Baarìa vede il suo esordio, più di quanto faccia il bello e dannato Raoul Bova interpretando un giornalista romano. Efficaci e divertenti le interpretazioni di Lo Cascio, Ficarra (un gradino sopra gli altri), Picone, Aldo Baglio, Michele Placido e della strepitosa Lina Sastri in particolare. Qualche legittimo dubbio sulla frequente ed eccessiva presenza del personaggio/macchietta interpretato da Beppe Fiorello (Accatto i dollari! Scangiu Dollari!) eccessivamente cabarettistico.
Il regista dice in molte interviste che si tratta del suo film più personale, quello che avrebbe voluto fare dopo i sessant’anni. Ed effettivamente il film ha un po’ il sapore di un “testamento”, come se Tornatore avesse scritto le sue memorie, riassuntive tra l’altro del suo modo di fare cinema, del suo amore per l’immagine, curata e compiacente sino all’esagerazione. Le storie si intrecciano, si annodano e si snodano mentre gli anni passano in questo ottimo film corale, di ampio respiro.
Alcune note di demerito. Innanzitutto il montaggio e la regia di alcune sequenze del film. Disattenzioni e stacchi bruschi disorientano lo spettatore che fatica a trovare il suo posto nella sovrabbondanza di travelling (dolly e carrellate) che filmano la Bagheria ricostruita splendidamente da Mauro Sabatini (in Tunisia). La regia di Tornatore sottolinea l’importanza della scenografia ma a volte calca un po’ troppo la mano. Anche le musiche del maestro Ennio Morricone danno da pensare. Una ridondanza inaspettata, commentano le scene in modo eccessivo, protagoniste anche quando dovrebbero lasciar il posto alle immagini.
Grande attenzione ai particolari, Tornatore sembra dirigere ogni scena, anche la più piccola, con cura e amore paterno, rasentando in più occasioni la perfezione. Una pellicola in stile barocco che trasuda a volte poco sentimento, vero e originale. Come a dire che Baarìa è senza dubbio bellissimo, ma Nuovo Cinema Paradiso è più vero, più sincero. Certamente un ottimo film, da vedere e rivedere, con spunti e invenzioni formidabili, che entra di diritto nella cinquina dei film che rappresenteranno l’Italia nella notte degli Oscar. Troppo lungo per i gusti d’oltreoceano?! Speriamo di no.
Qualcuno ha avuto da ridire sul fatto che un film così apertamente schierato (Peppino il Comunista vede rosso, c’è poco da fare) sia stato prodotto dalla Medusa dell’amatissimo Silvio Berlusconi. A questa gente bisognerebbe far capire che il cinema è anche (o soprattutto?) industria e che vive di bravi imprenditori. In Italia spesso mancano, e i film nostrani troppe volte si portano dietro quell’odore di vecchio e putrido che tanto impedisce loro di varcare i nostri confini.
In definitiva, un bellissimo film, assolutamente da vedere. Bagheria filtra i sapori e i dissapori di un’Italia intera, con trovate divertenti e personaggi che fanno la smorfia a certi stereotipi sui siciliani. Senza contare i numerosi omaggi al cinema del passato. Per la sequenza che vede protagonisti Lattuada e Sordi sul set a Villa Palagonia (Bagheria), Tornatore scova il fotografo di scena che lavorò realmente su quel set, così da presentare alla perfezione questo fantastico tuffo nel passato. La regia è amorevole e quasi perfetta, la nostalgia si fa sentire. “Per quello che saremmo potuti essere e non siamo riusciti a diventare”. Il finale è commovente, di quelli del miglior cinema italiano.
Un’altra nota positiva è che la mafia in Baarìa di Tornatore viene accennata ma non le si dà mai troppo spazio, troppa importanza. Come a dire, c’è ma non si vede. Un po’ come in tutta Italia al giorno d’oggi. Rimane un solo dubbio, come sarebbe stato Baarìa se Tornatore lo avesse realizzato fra qualche anno, magari dopo i sessant’anni, come effettivamente desiderava fare? (Forse ancor più bello….)
Voto: / Un kolossal d’autore come Baarìa non si vedeva da anni (o forse non si è mai visto). Bellissimo.
Di Ottavio Mussari