L’orgoglio americano non poteva non
partorire un film sull’uccisione del suo nemico numero uno degli
ultimi vent’anni: Osama Bin Laden. Il 19 dicembre 2012 e in Italia
il 10 gennaio 2013 arriverà nelle sale italiane Zero
Dark Thirty, che racconta proprio le gesta della Navy
SEAL che il 2 maggio 2011, alle 00:05 ora locale, ha rintracciato e
ucciso il numero uno di Al Qaeda.
Kathryn Bigelow ci racconta la sua Zero Dark Thirty
La star cinese Wang Xuequi in Iron Man 3!
La star
cinese Wang Xuequi si è unito al cast del
prossimo Iron
Man 3 nel ruolo del Dottor Lu. La notizia è stata
annunciata da Deadline, secondo il quale
il film diretto da Shane Black è nella sua
fase finale di riprese a Pechino. Xuequi è noto per aver
interpretato Warriors of Heaven and
Earth e Bodyguards and
Assassins. Nel casti ritorna il protagonista Robert
Downey Jr. nei panni di Tony Stark. Fanno parte del cast
anche Ben Kingsley, Don
Cheadle, Guy
Pearce, Gwyneth
Paltrow, Jon
Favreau, Paul
Bettany, Rebecca
Hall e Scarlett Johansson. Iron Man 3 uscirà in Nord America 3D e 2D il 3
maggio 2013. Per tutte le notizie sul film vi segnaliamo il nostro
speciale: Iron Man 3.
Tutte le foto del film nella nostra foto gallery:
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Ruby Sparks: recensione del film di Jonathan Dayton e Valerie Faris
Arriva al cinema distribuito da 20th Century Fox, Ruby Sparks, il film diretto da Jonathan Dayton, Valerie Faris e con protagonisti Paul Dano e Zoe Kazan. E se quello che scriviamo prendesse vita davanti ai nostri occhi? Se, per un fortuito caso, persona di cui scriviamo, un completo prodotto della nostra fantasia, prendesse corpo davanti a noi, vivendo e mangiando e parlando con noi, come se fosse una persona reale? E’ questa la straordinaria e magica realtà con cui deve fare i conti Calvin, uno scrittore con il “blocco”.
In Ruby Sparks Calvin Weir-Fields è un trentenne che a 19 anni ha pubblicato un grande romanzo amatissimo da lettori e editori, ma da allora, nonostante fama e successo non riesce più a scrivere nulla, fino a che non sogna Ruby, una ragazza che lo ispirerà in tal misura da spingerlo a scrivere di lei. Calvin si getta a capofitto in questa nuova avventura, raccontando della sua ragazza da sogno: ne descrive le abitudini, il carattere, i gusti, l’aspetto. Tutto di Ruby gli pace, perché è lui ad inventarla riga dopo riga, e luila rende così perfetta ai suoi occhi che finisce per innamorarsene. Nonostante la completa assenza di amici, a parte il fratello, e di rapporti umani, la vita di Calvin comincia a migliorare, proprio grazie a questa magnifica invenzione di inchiostro. Fino a che Ruby non apparirà per magia nella sua casa: una ragazza in carne e ossa, occhi chiari e grandi, capelli rossi e guance paffute, invaderà la casa e la vita di Calvin, che asseconderà di buon grado questa misteriosa magia.
A sei anni dal delizioso e geniale Little Miss Sunshine, Jonathan Dayton e Valerie Faris ci raccontano Ruby Sparks, un’altra storia che ha nell’intuizione iniziale una buona percentuale del suo successo, e nel racconto svolto con grande delicatezza e criterio l’arma vincente. La storia diventa il principale elemento di veicolazione delle emozioni, in un film che racconta della necessità di avere qualcuno accanto, ma anche della solitudine, dell’ambizione e della capacità di conciliare se stessi con i propri sogni.
Grandi protagonisti del
film sono
Paul Dano e Zoe Kazan anche
autrice della sceneggiatura e nipote del grande Elia. Proprio la
sceneggiatura riesce a coinvolgere in maniera sorprendente perché,
una volta che il prodigio avviene e Ruby diventa reale, è naturale
chiedersi come la storia potrà procedere senza annoiare,
sviluppandosi lungo una retta temporale definita.
Ruby Sparks riesce benissimo a tenere il ritmo della sua storia, con dialoghi brillanti, svolte interessanti, messa in gioco di sentimenti e comportamenti tanto umani ma allo stesso tempo che appaiono assurdi in una persona “finta”. E infatti Ruby si rivelerà essere tutt’altro che una persona finta, al contrario di Calvin, che preferisce il buio, la solitudine, la realtà uguale a se stessa, senza possibilità di evoluzione o cambiamento. Fanno parte del cast in due piccoli ma divertenti ruoli Annette Bening e Antonio Banderas. Ruby Sparks è una commedia dolce e romantica, sotto alcuni aspetti anche inquietante, ma anche intelligente e con un finale che allarga il cuore.
Nuovo Poster del film Hansel & Gretel con Jeremy Renner!
Arriva un nuovo poster dal Brasile per il film Hansel & Gretel – Cacciatori di streghe con protagonisti Jeremy Renner e Gemma Arterton.
Hansel & Gretel – Cacciatori di streghe è diretto da Tommy Wirkola e il cast include Jeremy Renner, Gemma Arterton, Famke Janssen, Derek Mears e Peter Stormare. È la storia di Hansel e Gretel, cacciatori di taglie, che hanno dedicato la loro vita a sterminare le streghe, ed è un adattamento della favola. Il film uscirà nelle sale USA l’11 Gennaio 2013. Tutte le altre info nella nostra Scheda Film: Hansel & Gretel – Cacciatori di streghe
Video dal set di Thor: Il mondo delle Tenebre!
Le riprese di Thor: Il mondo delle Tenebre (Thor: The Dark World) stanno volgendo al
termine, e forse arriva uno degli ultimi contributi sul set di
Londra. Infatti, la troupe ha girato alcune scene di massa a St.
Paul.
Samuel L. Jackson vuole partecipare ai nuovi Star Wars!
La nuova trilogia annunciata di
Star Wars ha innalzato gli animi di addetti ai
lavori e fan, come in questo caso. Infatti, Samuel L. Jackson sembra davvero entusiasta per la
notizia di un’altra trilogia,
Trailer originale di Oblivion con Tom Cruise!
Guarda il Trailer originale del film Oblivion di Joseph Kosinski con protagonisti Tom Cruise, Morgan Freeman, Nikolaj Coster-Waldau, Olga Kurylenko, Zoe Bell, Melissa Leo, Andrea Riseborough. La pellicola è considerata uno degli eventi cinematografici più attesi del 2013 e dovrebbe debuttare l’11 Aprile 2013 nei nostri cinema. Per saperne di più consulta la nostra Scheda Film:Oblivion.
L’Atlante delle Nuvole secondo la Nave Spaziale Wachowski: arriva Cloud Atlas
È da tanto tempo che i
fratelli Wachowski (Andy e
Lana, che adesso si fanno chiamare la Nave
Spaziale Wachowsi) non mettono mano alla macchina da presa
per raccontarci una storia. Finalmente, le geniali menti dietro
alla trilogia di Matrix, hanno
abbandonato il loro ritiro artistico, che durava dai tempi del poco
felice Speed Racer del 2008.
Apocalypse Now: un viaggio attraverso gli orrori del Vietnam secondo Francis Ford Coppola
Apocalypse Now è il film culto del 1970 diretto da Francis Ford Coppola e con protagonisti nel cast Martin Sheen, Marlon Brando, Robert Duvall e Dennis Hopper.
Anno: 1979
Regia: Francis Ford Coppola
Cast: Martin Sheen, Marlon Brando, Robert Duvall, Dennis Hopper
Trama: Saigon 1969. Il capitano Benjamin L. Willard (Martin Sheen), uno stanco ed alienato ufficiale dei marines, viene convocato in tutta fretta per una missione speciale e segreta.
Alla presenza di alcuni ufficiali della sezione informazioni militari e forse di alcuni membri dei servizi segreti gli viene commissionato il delicato incarico di risalire il fiume Nung sino ad addentrarsi nella lontana e pericolosa giungla cambogiana. Qui, secondo intercettazioni radio, si trova il colonnello Walter E. Kurtz (Marlon Brando) pluridecorato ufficiale dei berretti verdi; il compito tassativo è quello di eliminare il colonnello, senza esitazione alcuna. Il motivo? Sembra che l’ufficiale disertore si sia messo a capo di un piccolo esercito di soldati-sudditi e si sia reso protagonista di una serie di atrocità, prova della sua ragione ormai compromessa.
Imbarcatosi su una piccola chiatta e scortato da un ristretto quanto improbabile equipaggio ignaro della meta e dello scopo della missione, il capitano Willard inizia così un lungo viaggio attraverso il paese in guerra che lo dovrà condurre al cospetto del misterioso colonnello scomparso.
Nel 1979, Francis Ford Coppola riesce finalmente a completare quello che sarà destinato a diventare uno dei film culto per più generazioni e pietra miliare del cinema di guerra. Una delle testimonianze più crude e allucinanti di un conflitto, quello del Viet-nam, che ha indelebilmente segnato la coscienza di un paese e forse di tutto il mondo occidentale.
Apocalypse Now è un film liberamente ispirato al celebre romanzo di Joseph Konrad, Cuore di tenebra, di cui però Coppola cambia ambientazione spazio-temporale. Coppola vuole rappresentare un viaggio, un lungo viaggio attraverso la guerra e che della guerra deve mostrare tutti gli orrori, l’inutilità e la forza alienante, l’assuefazione alla violenza quotidiana che si è costretti a praticare.
Così il fiume Nung, presenza costante per quasi tutto il film, diventa una sorta di simbolo, una linea concettuale che collega tutte le varie fasi della narrazione, un filo conduttore a cui si ritorna dopo ogni avventura affrontata dal protagonista.
Ed una volta tornati sulla barca, unico rifugio dove potersi sentire al sicuro, il capitano Willard sfoglierà pagina dopo pagina il lungo dossier sull’uomo da scovare ed uccidere. Il percorso di avvicinamento non solo fisico ma sopratutto intellettuale tra il carnefice e la sua vittima è indubbiamente l’aspetto più interessante del film. Willard conosce gradualmente i profili psicologici di quell’eroe di guerra che prima dei trent’anni era arrivato ad un passo dall’essere generale e che sicuramente sarebbe diventato capo di stato maggiore. Allora capire il motivo della sua pazzia, della sua degenerazione mentale improvvisa e inspiegabile diventa per Willard un’ossessione, Kurtz e il fascino e il magnetismo che trasmette la sua vita diventano un’ossessione.
Il lungo e dantesco viaggio attraverso la giungla porterà Willard e la sua truppa ad incontrare personaggi e situazioni quasi farsesche, al limite del grottesco; su tutte la conoscenza dell’eccentrico tenente William “Bill” Kilgore, interpretato da un superlativo Robert Duvall, comandante di un reggimento elicotteristico, la 1st Cavalry Division. Kilgore è un signore della guerra che “ama i suoi ragazzi e che non si farà mai un graffio” e che si getta all’attacco di villaggi vietcong sulle note inquietanti della Cavalcata delle Valchirie di Wagner e che ama l’odore di napalm al mattino perchè “è l’odore della vittoria”.
Quindi l’incontro con le playmate giunte per sollevare il morale dei soldati, l’escursione tra trincee senza comando dove si spara senza sapere a chi e per quale motivo oltre ai vari attacchi dei guerriglieri nascosti sulle sponde del fiume.
Ma il vero protagonista attorno al quale ruota tutto il film, resta e rimane questo misterioso ed enigmatico colonnello Kurtz, figura ombra che pur non comparendo per tre quarti del film ne è in realtà il cuore pulsante. Kurtz appare e si materializza solo negli ultimi quaranta incredibili minuti in cui la scena viene dominata in modo incontrastato dal grande Marlon Brando.
Forte di una presenza scenica unica e forse ineguagliabile, Brando interpreta uno dei suoi personaggi forse più complessi e tormentati e che per questo gli si addice maggiormente. Sempre ritratto nell’ombra, e confuso nelle tenebre del suo sinistro tempio “dall’odore di morte stagnante”, Kurtz è il signore di un esercito di uomini-spettri che sembrano vittima di uno strano incantesimo e che da lui subiscono supinamente le più pazzesche atrocità. Cadaveri disseminati sugli alberi, sulle scalinate insanguinate di un antico palazzo, forse una pagoda buddista, un’atmosfera di morte e follia di fronte alla quale Willard rimane sconvolto.
Al cospetto di Kurtz, il capitano è vittima di quel fascino e di quella capacità affabulatoria di un uomo che esalta la metodicità e la disciplina dell’esercito vietnamita prevedendone la futura quanto inevitabile vittoria. Kurtz è filosofo di morte e di violenza che disegna sofismi sul terrore, sull’orrore al quale il soldato americano non sarà mai avvezzo. Ma nei monologhi del colonnello leggiamo una denuncia, una critica alle contraddizioni e all’illogicità dei comandi americani i quali costringono i loro ragazzi a diventare spietati assassini per richiamarli poi a rispettare stupidi dettami morali.
Come un altro ufficiale che lo precedette in quell’incarico, anche Willard è sul punto di cedere alla filosofia e alla forza persuasiva del colonnello ma la sua razionalità e il rifiuto di quella degenerazione lo salverà dalla follia e lo porterà al compimento della sua missione.
Apocalypse Now è un film che come pochi altri induce a riflettere sull’atrocità della guerra e sui limiti a cui può portare la follia umana. Un film tormentato e psicologico, allucinato e allucinante nelle sue atmosfere e nelle sue musiche che hanno in The end dei Doors l’apertura e la chiusura più degna e indovinata che Coppola potesse scegliere.
Riprese durate un anno e mezzo nella giungla delle Filippine tra tornadi e tifoni che distrussero più volte il set; Sheen che si ferì ad una mano ed ebbe un infarto che rese necessaria una controfigura in talune sequenze. Brando che fece impazzire Coppola tanto da rifiutarsi di girare le riprese con il grande attore affidandole al suo vice; un montaggio durato più di due anni.
Un’odissea che portò il regista a perdere una ventina di chili e che mise a rischio il suo matrimonio per una crisi depressiva che lo colse per la paura di non portare a compimento il suo sogno. Ma i grandi capolavori hanno spesso gestazioni lunghe e difficili, complesse e tormentate, forse necessarie a rendere il risultato tanto eccellente. Noi non smetteremo mai di ringraziare Coppola di non aver ceduto, di non aver desistito dall’idea e dall’utopia di terminare questo film. Un film che consigliamo di vedere nella sua versione Redux in quanto la consideriamo migliore e più esaustiva, comprendente sequenze chiave e fondamentali per capire al meglio una narrazione non facile.
Gli Anni Ruggenti: il fascismo visto attraverso lo ironico di Luigi Zampa
Gli Anni Ruggenti è un film del 1962 diretto da Luigi Zampa e con protagonista nel cast Nino Manfredi, Gino Cervi, Michèle Mercier, Gastone Moschin.
La trama de Gli Anni Ruggenti
1937, XV anno fascista. Salvatore Acquamano (Gino Cervi) è il podestà di un piccolo paese a pochi chilometri da Alberobello; un cugino impiegato nel ministero lo avverte dell’arrivo imminente di un gerarca in incognito incaricato di effettuare un’ispezione sul territorio.
Convocato tutto il consiglio comunale, composto tra gli altri anche dal burbero segretario politico Carmine Passante (Gastone Moschin), il panico si diffonde immediato viste le innumerevoli magagne che rischiano di essere smascherate.
Il tanto temuto ispettore è individuato nella figura di un giovane forestiero appena giunto da Roma, un certo Omero Battifiori (Nino Manfredi) che si spaccia per un assicuratore in cerca di nuovi clienti. Peccato che il giovane e spigliato presunto gerarca sia in realtà quello che dice di essere ma il gioco degli equivoci è ormai iniziato e sarà quasi impossibile fermarlo.
Gli Anni Ruggenti, il film
E’ il 1962 quando Luigi Zampa dirige questo brillantissimo esempio di tragicommedia all’italiana; un affresco quanto mai ironico e divertente su un periodo storico molto particolare e di cui ancora, in quegli anni, si percepivano gli echi e i freschi ricordi.
Una sceneggiatura scritta a sei mani ed in cui Zampa si avvale della preziosissima collaborazione di Ruggero Maccari e sopratutto di Ettore Scola. E crediamo che proprio Scola abbia contribuito particolarmente, in sede di scrittura del film, a bilanciarne la forte carica ironico-satirica con una certa eleganza e gravità di base, tipica del suo fare cinema.
Gli anni ruggenti infatti non è solo una semplice commedia in cui si ride, e molto, grazie al susseguirsi di situazioni farsesche e divertenti rese ancor più esilaranti da attori eccezionali e dalla grande carica comica; ma è anche e innanzitutto un film che al contempo vuole riproporre e affrontare temi e problematiche legate al “ventennio” da poco concluso.
Divertire e far riflettere, sorridere sì ma di un sorriso spesso amaro che alla lunga si smorza in una sorta di ghigno, in una smorfia, come da tradizione della grande tragicommedia nostrana.
Mostrare la tipica società fascista di provincia, di una provincia lontana da Roma, da piazza Venezia e dalle grandi adunate; una provincia così lontana dal centro di potere da sentirsi al sicuro da occhi e orecchie indiscrete e poter così dar libero sfogo alla sua irresistibile smania di corruzione. Il quadro che Zampa ci propone è impietoso: funzionari di partito, dirigenti sanitari, scolastici e loschi mestieranti in camicia nera che utilizzano quella particolare congiuntura storico-politica per arricchirsi, ampliare il proprio volume di affari, assecondare i propri interessi e il tutto a scapito della povera gente.
Non c’è ideale, non c’è convinzione sincera in qualcuno o qualcosa ma solo sete di danaro, sete di ricchezza. Straordinari nel fornirci i classici esempi di questa provincia corrotta e basata sul malaffare sono Gino Cervi, podestà che utilizza la sua posizione per sfruttare più e peggio di prima gli stessi braccianti che lavorano le sue terre e Gastone Moschin, segretario politico dalla mascella protesa e il petto sempre gonfio ma in realtà pavido come un agnellino.
Nino Manfredi invece interpreta con la solita maestria il protagonista della storia, il vero perno su cui ruota tutta la narrazione. Giovane impiegato onesto e innocentemente fedele al partito, avrà suo malgrado modo di conoscere tutto il marcio che può nascondersi sotto il velo di legalità, fermezza morale e borghese di uomini fieri e orgogliosi fascisti. Avrà modo di constatare come le loro ruberie si riversino sulla povera gente che, in un piccolo borgo pugliese, può ancora vivere accampata nelle caverne nascoste tra le montagne. La composta ed educata amicizia che nasce con il dott. De Vincenzi, intellettuale anti-fascista, interpretato da un sempre meraviglioso Salvo Randone, aiuta il giovane protagonista ad aprire gli occhi su quello che si cela dietro ad un apparente benessere.
Il dott. De Vincenzi sarà per Omero una sorta di Virgilio che lo guiderà in questo viaggio dantesco verso la verità.
Attori impeccabili, straordinari nel rivestire ognuno il ruolo loro assegnato, una sceneggiatura elegante quanto divertente ed amara, una ricostruzione storica e sociale fedele ed impietosa. Gli anni ruggenti è un film che consigliamo fortemente in quanto diverte, fa conoscere e riflettere anche se alla fine, forse, è la nostalgia il sentimento che rimane…nostalgia di un cinema che fu.
Serenity: recensione del film di Joss Whedon
Serenity è il film del 2005 diretto da Joss Whedon prima di dirigere The Avengers e con protagonisti Nathan Fillion, Morena Baccarin e Alan Tudyk.
Trama: In un futuro remoto, il capitano Malcom “Mal” Reynolds – un disilluso veterano che ha combattuto, dalla parte dei perdenti, una guerra civile tra pianeti – sbarca fortunosamente il lunario compiendo piccoli crimini e trasportando passeggeri e merci (senza fare troppe domande) sulla sua astronave classe Firefly “Serenity”. È a capo di un equipaggio esiguo ed eclettico – che è per lui la cosa più vicina ad una famiglia – litigioso, insubordinato, ma fedele fino alla morte.
Quando Mal
aveva accettato di trasportare a bordo Simon Tam, un giovane
dottore, con la sua instabile e telepatica sorella River, aveva
imbarcato molto più di quello che si aspettava. I due sono fuggiti
dall’Alleanza – la coalizione che domina il sistema planetario dopo
la guerra – che non si fermerà davanti a nulla pur di riavere la
ragazza. L’equipaggio, abituato a navigare non visto ai margini del
sistema, si trova improvvisamente intrappolato tra questa forza
militare inarrestabile e i Reavers: barbari selvaggi e antropofagi
che vagano ai limiti dello spazio.
Ricercato, l’equipaggio comincia presto a scoprire che il pericolo più grande alla loro incolumità potrebbe essere proprio a bordo della “Serenity”. River, la giovane ricercata, malgrado le cure del fratello dà segni di essere imprevedibile e pericolosa.
Serenity, tra Star Wars e Blade Runner
Serenity è un film di fantascienza del 2005, diretto da Joss Whedon, che ha una lunga esperienza da sceneggiatore e fumettista, al suo primo film da regista. Il lungometraggio è basato sulla serie televisiva fantawestern Firefly, di cui è la conclusione.
Il suo punto di forza è
il suo essere user friendly: sceneggiatura semplice e
nessun virtuosismo registico fine a sé stesso. La trama presenta
tutti gli elementi di una storia comune a tante: un gruppo ben
assortito di buoni, un cattivo che li insegue, una missione da
compiere e un mistero finale svelato.
L’unico difetto tangibile di Serenity è la quasi totale mancanza di scene madri e di battaglie ad alto tasso di spettacolarità, difetto legato allo scarso budget. Paradossalmente però, proprio la mancanza di questo tipo di scene, sulle quali poggia oramai il 100% della produzione spettacolare americana, ha permesso una maggiore cura dei personaggi, della storia e degli elementi di contorno.
Nel cast, tra gli attori protagonisti, troviamo Nathan Fillion nei panni di Malcom “Mal” Reynolds, Morena Baccarin in quelli di Inara Serra e Alan Tudyk che interpreta Hoban “Wash” Washburne.
Nonostante la sua semplicità e la fruibilità della trama, questa pellicola fu accolta superficialmente al botteghino: circa 39 milioni di dollari in totale, all’incirca pari ai costi di produzione, guadagnando solo con la vendita del DVD, specie online grazie ad Amazon.
Nel marzo 2007 un sondaggio online del sito della rivista britannica SFX ha inaspettatamente collocato Serenity come migliore film di fantascienza della storia, davanti a titoli decisamente più blasonati quali Guerre stellari, Blade Runner o 2001: Odissea nello spazio.
Sunshine: recensione del film di Danny Boyle
Sunshine è un film del 2007 diretto da Danny Boyle e con protagonisti Cillian Murphy, Chris Evans, Rose Byrne, Michelle Yeoh, Cliff Curtis e Mark Strong.
La trama del film Sunshine
Nel 2057 il Sole
si sta spegnendo e la Terra rischia l’estinzione. Per tentare di
salvarla, è stato mandato in missione un esperto equipaggio
composto da due astronauti e un gruppo di scienziati, a bordo
dell’enorme astronave Icarus II, con l’incarico di gettare e
detonare nella stella una gigantesca bomba nucleare al fine di
riattivare le reazioni nucleari all’interno del Sole ed evitarne lo
spegnimento.
A compiere la stessa missione sette anni prima, era stata mandata l’astronave Icarus I, quasi identica, di cui però si erano perse le tracce prima che raggiungesse il Sole.
Fanno parte dell’equipaggio il capitano (Kaneda), un fisico (Robert Capa), una biologa (Corazon, detta Cory), il primo ufficiale addetto alle comunicazioni (Harvey), un esperto matematico (Trey), la co-pilota (Cassie), un ingegnere (Mace) ed uno psicologo (Searle). Durante il viaggio verso il sole, il gruppo ha una serie di vicissitudini, dettate soprattutto dal nervosismo che la difficile e delicata missione scatena in loro.
Sunshine, la fantascienza secondo Danny Boyle
Sunshine è un film di fantascienza del 2007 diretto da Danny Boyle, regista, tra gli altri, di Trainspotting. La matrice del film è puramente apocalittica, essendo la storia basata su un evento tanto caro a Hollywood: la fine del Mondo causata da eventi spaziali catastrofici. Se Armageddon, uscito nove anni prima, delegò a un grosso meteorite il compito di mettere fine alle nostre vite, Sunshine si affida al graduale spegnimento del sole. Rispetto però a tanti film sul genere, lo fa da una prospettiva anticonvenzionale: puntando soprattutto sulla psiche dei protagonisti. In coloro che sono chiamati a salvarci si innesca infatti una tensione scatenata dall’istinto per la sopravvivenza.
D’altronde si sa, in
situazioni di pericolo emergono tanti difetti tipici dell’uomo, e
le diatribe tra i personaggi quasi fanno dimenticare che il
pericolo principale sia lo spegnimento del sole. Del resto lo
sceneggiatore Alex Garland – ispiratosi alla teoria della morte
termica dell’universo – ha così spiegato la sua idea: “Ciò che
mi interessava era l’idea che si potesse arrivare ad un punto in
cui la sopravvivenza dell’intero pianeta ricadesse sulle spalle di
un solo uomo, e come questo potesse dargli alla testa”.
L’egoismo dei protagonisti finisce per diventare più pericoloso del
sole stesso.
La scelta del cast da parte del regista Danny Boyle si basò su scelte decisamente etniche. Decise di scegliere un cast artistico misto e complesso, in modo da incoraggiare un processo più democratico, similmente a come era avvenuto per il film Alien di Ridley Scott. L’equipaggio venne composto con attori di nazionalità americana e asiatica, supponendo che nel futuro i programmi spaziali della NASA e il Programma spaziale cinese fossero comunque quelli più avanzati, ignorando però quelli cinesi e brasiliani pure molto avanzati, onde evitare un cast esageratamente disparato. Il produttore, Andrew Mcdonald, richiese inoltre che venisse selezionato un cast che potesse ostentare un accento americano di alto livello.
La produzione del film
La produzione del film fu funestata da iniziali problemi di finanziamento. Nel marzo 2005, dopo aver ultimato Millions (2004) il regista Danny Boyle venne preso in considerazione per dirigere 3000 Degrees, un progetto della Warner Bros. Allo stesso tempo però Boyle ricevette una sceneggiatura scritta da Alex Garland, che aveva già affiancato il regista nel 2000, con The Beach e nel 2002 con 28 giorni dopo. Assieme al produttore Andrew Mcdonald presentarono la sceneggiatura alla 20th Century Fox, che però si dimostrò riluttante a finanziare un film simile al recente remake di Solaris visti bassi incassi ottenuti dalla pellicola.
Il film venne quindi finanziato indirettamente, affidandosi alla Fox Searchlight Pictures. Il budget iniziale stimato però si aggirava sui 40 milioni di dollari, troppi anche per la Fox Seachlight, e quindi Mcdonald cercò altri finanziatori nel Regno Unito, ottenendo aiuti dall’Ingenious Film Partners.
Curiosità sul film Sunshine
Lo sceneggiatore Alex Garland per scrivere Sunshine si ispirò direttamente alla teoria della morte termica dell’universo, in particolare da un articolo che «proiettava il futuro dell’umanità in una prospettiva completamente scientifica ed atea». L’articolo era stato pubblicato da un periodico scientifico statunitense, e Garland si chiese cosa sarebbe successo se il sole fosse morto. Garland sottopose quindi la sceneggiatura al regista Danny Boyle che la accolse di buon grado, rimuginando da tempo l’idea di girare un film fantascientifico ambientato nello spazio. Boyle e Garland lavorarono sulla sceneggiatura per un anno, ideando oltre 35 progetti durante i loro esperimenti.
La storia venne inoltre scritta in parte per riflettere la brillante e «necessaria arroganza» della scienza della vita reale, nel momento in cui agli scienziati del mondo viene presentata la crisi che minaccia la Terra.
L’ambientazione temporale della trama, 50 anni nel futuro, venne scelta per non sembrare troppo distante dalla realtà odierna, ma al tempo stesso per permettere un viaggio verso il sole con tecnologia avanzata e futuristica. Vari consulenti scientifici, teorici del futuro e produttori di strumentazioni tecnologiche vennero consultati per meglio delineare una strumentazione realistica.
Boyle considerò inoltre la storia di Sunshine come un approccio controintuitivo al problema contemporaneo del surriscaldamento globale, con la morte del sole che diventa una minaccia. Originariamente, Sunshine venne pensato con un’introduzione di una voce fuori campo che racconta dei genitori che insegnano ai figli di non guardare il sole, e di come i bambini sarebbero invece stati spinti a farlo proprio dal divieto.
Boyle descrive il sole come una personalità quasi divina all’interno del film, creando una dimensione psicologica per gli astronauti a causa delle sue enormi dimensioni e della sua potenza.
Per ricreare l’ambientazione, Boyle e Garland, si affidarono anche a impiegati della NASA e a vari astrofisici. Un fisico in particolare, Brian Cox dell’università di Manchester, venne consultato per istruire gli attori, dopo che il regista aveva notato il lavoro svolto da Cox con il cast del programma televisivo Horizon. Il fisico tenne regolari lezioni ai membri del cast sulla fisica del sole.
Cox consigliò inoltre a Boyle e Garland di ridurre le dimensioni della bomba nucleare trasportata dall’astronave Icarus II, per parificarla alle dimensioni dell’isola di Manhattan, anziché delle dimensioni della Luna come inizialmente pensato.
Nel retroscena del film, la causa della morte del Sole è una Q-ball, ma secondo Cox il Sole nella realtà non sarebbe denso abbastanza per fermare una Q-Ball. Boyle ha quindi deciso di usare arbitrariamente una licenza poetica per descrivere tale scena, impossibile nella realtà.
Paranoid Park e la rassegnazione grunge dell’anima
Il regista Gus Van Sant gira il film Paranoid Park nel 2007. Un ragazzino di nome Alex, che frequenta la scuola superiore e ha la patente di guida, ama correre in skateboard, per le strade di Portland. Il suo più caro amico, Jared, un giorno gli propone di visitare con lui un posto molto speciale: il Paranoid Park. Là, esiste la più importante ed impegnativa pista artificiale per gli skaters della città. Una sera Alex si reca al Paranoid Park da solo.
E’ uno dei ragazzi più giovani, per cui subito gli altri skaters s’accorgono della sua presenza. Pare che Alex non abbia l’intenzione di gareggiare, forse perché intelligentemente sa che il suo livello di preparazione è basso. Un ragazzo più “maturo” gli va incontro, con un gruppo di amici. Alex gli presta il suo skateboard. In seguito, lui si farà convincere che con loro sarebbe bello montare su un treno in corsa. La ferrovia passa nei pressi del Paranoid Park. Alla fine, Alex effettivamente salirà su un treno in corsa, accompagnato dal solo ragazzo cui aveva prestato lo skateboard. Una guardia però si accorge della loro presenza, ed arriva a batterli con la mazza. Alex istintivamente alza il suo skateboard. Con questo, lui colpisce la testa del sorvegliante, il quale, intontito, è costretto ad indietreggiare. Per una pura fatalità, nello stesso momento, un altro treno corre sul binario attiguo. Il corpo del sorvegliante si spezza a metà, mentre Alex capisce d’aver commesso un omicidio, guardando il volto morente.
Paranoid Park è costruito essenzialmente tramite l’inquadratura fissa sui volti dei ragazzi. Bisogna che ne possiamo leggere il pensiero. Nel caso di Alex, subentreranno i sensi di colpa, per aver commesso un omicidio, benché accidentalmente. Van Sant inquadra il volto, lasciando che questo si giri, in maniera lenta. E’ l’avvisaglia che la persona cercherà di evitare il contatto con gli altri. Spesso, il volto all’inizio si vede in primo piano, ponendosi innanzi a noi. Ma subito esso si girerà, da un lato. La visione di profilo si percepirà facendo finta di se stessa. Se Alex è il personaggio avente i sensi di colpa, a smascherarli ci proverebbe davvero solo la sua amica Macy. Anche lei gioca a guardare frontalmente, salvo poi girare il volto da un lato.
Nella scena dell’interrogatorio a scuola, Alex potrebbe svelare al poliziotto se non la verità quantomeno i suoi problemi. Il ragazzino maneggia la fotografia del guardiano ucciso. Egli dapprima ha gli occhi chini sul tavolo, e poi li alza, fronteggiando il poliziotto inquisitore. Valutiamo che Alex alla fine non si tradisce. La sua espressione resta fredda ed impassibile, impedendo così al poliziotto d’insospettirsi. Sin dall’inizio del film, noi capiamo che Alex è un bravo ragazzo. Pare che neppure la separazione dei genitori, o la spensieratezza del fratellino, ne mini la tranquillità di carattere. Alex ha la maturità di schivare i più sbruffoni skaters del Paranoid Park, e persino ci dichiarerà (con la sua voce narrante) che toglierebbe la verginità alla fidanzata Jennifer solo riconoscendo d’amarla. Forse, l’impassibilità di Alex innanzi al poliziotto inquisitore nasce dalla convinzione che lui, in fondo, stia già morendo dentro.
Van Sant non prende una posizione netta, in chiave moralistica, inquadrando i sensi di colpa del ragazzino. Pare che Alex, sapendo d’essere un buono da sempre (di natura), pensi che la sua condanna a ricordare l’omicidio (per tutta la vita) già basti, pure senza l’incarcerazione. Simbolicamente, si giustifica così l’insistenza di Van Sant a cercare il volto, che abbandoni il rivelarsi frontale, in favore d’un nascondimento laterale. Sembra che Alex tiri un sospiro di non-sollievo. Il volto che abbandona il rivelarsi frontale in favore del nascondimento centrale varrà sia facendo finta di se stesso, sia nella prima accettazione della pena, per cui comunque l’anima avrà una ferita insanabile. Probabilmente, a noi viene naturale di provare compassione per Alex, influenzati dalla sua bontà caratteriale. Il volto certo colpevole del ragazzino avrebbe una freddezza non tanto calcolata (tacendo, per evitare la prigione), bensì malinconicamente abbandonata a se stessa, nella convinzione che una tragica fatalità vi si fosse abbattuta. All’inizio, Alex pensa all’idea di consegnarsi spontaneamente alla polizia, invocando persino la legittima difesa (per le mazzate ricevute dal guardiano).
In
seguito, più concretamente, egli telefona al padre per cercare di
raccontargli tutto. Il caso, però, torna a dirigere la vitalità del
ragazzino. Né il padre né lo zio di Alex risponderanno alla sua
chiamata. Percepiamo bene la strana fatalità del momento. La
telefonata a casa dello zio si compie alle cinque del mattino, in
piena notte, quando è verosimile pensare che lui risponderà per
forza, svegliato dal letto in cui dorme. Van Sant lascia che il
destino salvi Alex dalla condanna sociale (col carcere), ma non da
quella interiore (per i rimorsi).
Qualcosa di simile accade nel film Match Point, di Woody Allen (2005). Sono frequenti le inquadrature in cui Alex ha il volto di profilo, ma chino su se stesso. Così, percepiamo bene l’interiorità della colpa. Alex si porterà gli occhi virtualmente nel cuore. Quando Alex cammina nei corridoi della sua scuola, esteticamente emerge il dettaglio della mano sinistra. Essa può distendersi verso il cuore, oppure impugnarsi (valendo solo per se stessa). In Alex percepiamo una dialettica etica, fra il buon animo (che passivamente indurrebbe ad ammettere la colpa) ed il pragmatismo della freddezza (che resisterebbe alle accuse del poliziotto o dell’amica Macy, tacendo il più possibile la verità a loro).
Il cuore assieme al pugno, dunque. Alex è pure il nome assegnato da Kubrick al capobanda dei drughi, nel celebre film Arancia meccanica (1971). Il ragazzino disegnato da Van Sant vive a Portland, in Oregon, e risente (tanto per gli abiti quanto per i capelli lunghi) della cultura grunge, dalla vicina Seattle. La contestazione alla società di Alex-Paranoid Park non è prevaricatrice come quella di Alex-Arancia meccanica, esibendoci essenzialmente un nichilismo rassegnato. Noi stimiamo Kurt Cobain il padre sia della musica grunge sia della cosiddetta generazione X (in cui le persone avrebbero perso gli ideali alti, verso la comunità, privilegiando quelli bassi, verso gli affetti privati). In Paranoid Park, Alex assolutamente non vorrebbe fare del male a nessuno, né dirige una banda di scalmanati. Solo, l’immaturità d’un raptus, congiunta ad una buona dose di fatalità avversa, lo trasforma malinconicamente in un assassino. Nello stesso Paranoid Park, i grandi skaters forse si limitano a spacciare le droghe leggere, contestando la società con la rassegnazione della gara fra di loro (di nuovo: negli affetti privati, rinunciando a complicarli pubblicamente, tramite la politica).
Il ragazzino Alex
all’inizio sembra interessarsi ai problemi del mondo (citando la
fame e la seconda guerra in Iraq). I suoi amici invece non
avrebbero una sensibilità politica, bensì unicamente bassa (negli
affetti privati). Commesso l’omicidio, ad Alex mancherà il tempo
utile per pensare ai problemi del mondo. E’ il momento in cui lui
s’assimila agli skaters del Paranoid
Park, attanagliato dalla rassegnazione per i sensi di
colpa.
Il nichilismo di Alex ci pare freddo, come il duro cemento della pista. Gli skaters del Paranoid Park vivono unicamente girando a vuoto, fra un primo ed un secondo salto in curva. Lo stesso accade per la macchina da presa. Anche la mente di Alex segue gli skaters, girando a vuoto, da un salto a sinistra ad uno verso destra, o viceversa. Simbolicamente, è l’arrovellarsi (come nel più classico mal di testa) per i sensi di colpa. Gus Van Sant sceglie d’inquadrare gli skaters con una fotografia sgranata, ricorrendo pure a videoregistrazioni amatoriali (da scene realmente accadute). Immaginiamo che la mente di Alex ormai sia stata sporcata (dall’omicidio), e poi insabbiata (tacendo l’ammissione della colpa). Il film non ci racconta come si conclude l’inchiesta del poliziotto. In fondo, riconducendo lo skateboard rinvenuto nel fiume (col DNA del guardiano ucciso) al suo legittimo proprietario, tutte le bugie di Alex cadrebbero, e lui sarebbe immediatamente accusato. Se ascoltassimo le parole del destino, sembra che il ragazzino possa davvero farla franca.
Nel film, una delle canzoni è questa: “If you have a problem, I don’t care what it is, if you need a hand, I can assure you this… It’s a fact that people get lonely, ain’t nothing new” (Billy Swan, 1974).
Galadriel: alla scoperta dei personaggi de Lo Hobbit
In un periodo in cui l’attenzione alla condizione della donna è sempre più al centro delle tempeste mediatiche che ogni giorno ci assalgono, anche Peter Jackson ha pensato bene di inserire una “quota rosa” nel suo adattamento de Lo Hobbit. Il romanzo infatti è totalmente al maschile, senza neanche un personaggio minore, nemmeno sullo sfondo come invece accadeva ne Il Signore degli Anelli in cui spiccavano almeno tre personaggi femminili di rilievo e di spessore (Arwen, Galadriel e Eowyn).
Dall’alto della sua conoscenza tolkieniana, Jackson ha inserito nella trama del film il personaggio di Galadriel, particolarmente amata dal pubblico per la bellezza del ruolo, ma sicuramente in gran parte per la grandiosità dell’attrice che l’ha già interpretata nella trilogia precedente: Cate Blanchett.
Ma chi è
Galadriel? Da dove viene e perché è così amata,
ammirata e anche temuta? Ebbene la bellezza e la potenza di
Galadriel arrivano da lontano, poiché elle è uno degli elfi più
antichi che abbiamo mai toccato le sponde della Terra di Mezzo. Lei
discende direttamente da Finarfin suo nonno, e dal nobile Finwe.
Aveva sempre richiamato l’ammirazione di Feanor per la lucentezza
dei suoi capelli dorati, ricambiando però le attenzioni dello zio
con estremo sdegno a causa del comportamento spavaldo di
quest’ultimo. Feanor infatti credeva che nei suoi capelli fossero
rimasti intrappolati i raggi luminosi d Laurelin e Telperion, e si
dice inoltre che dalla luce dei suoi capelli l’ingegnoso elfo
trasse ispirazione per forgiare i Silmaril.
Conobbe Celeborn ad Alqualondë, dove dimorava con sua madre Earwen, al quale rimase legato per il resto della sua lunghissima vita. Ella aveva infatti molti nomi, ma scelse quello di Galadriel perché le era stato dato da colui che amava. Scelse, insieme a Celeborn, l’esilio da Aman dopo essersi ribellata ai Valar durante l’Ottenebramento di Valinor ad opera di Morgoth e Ungoliant, rifugiandosi nella Terra di Mezzo senza mai partecipare alla guerra contro Angband, fortezza di Melkor.
Galadriel è conosciuta anche come l’elfo uomo, a causa della sua statura e delle sua forza incredibile, sia fisica che spirituale, avveniva così spesso che i suoi disaccordi con Celeborn fossero molto più accesi perché nessuna delle due parti cedeva all’altra. Accadde così che dopo qualche tempo trascorso nell’Eregion, regno fondato a nord di quella che divenne poi La Contea, i due coniugi si separassero a causa dell’inimicizia di Celeborn con i Nani, con i quali invece Galadriel andava d’accordo. Strascico di questa simpatia tra Galadriel e i Nani può essere considerato il particolare rapporto che si crea tra Gimli e Galadriel durante la permanenza della Compagnia a Lorien.
La Dama donerà al Nano tre dei suoi capelli d’oro e tramite la sua intercessione Gimli fu l’unico nano a poter vedere Valinor, che raggiunse insieme a Legolas dopo molti anni dalla fine della Guerra dell’Anello. La Dama si rifugiò quindi a Lorien, che divenne la sua casa, mentre Celebron rimase a ovest delle Montagne Nebbiose.
In questo stesso periodo accadde che Sauron riuscisse ad ingannare i fabbri dell’Eregion, primo tra tutti Celebrimbor, fabbricatore di Anelli, fino a che lui stesso si accorse delle menzogne di Sauron e si ribellò. Affidò a Galadriel Nenya, uno dei tre Anelli degli Elfi. Dopo 1800 anni di separazione, Galadriel andò alla ricerca di Celeborn, e lo trovò a Imladris, o Gran Burrone, insieme a Elrond Mezzelfo. Lì dimorarono per molti anni fino a quando si trasferirono a sud, presso Belfalas. Qui Galadriel incontrò per la prima volta Gandalf, che le consegnò l’Elessar, la preziosa gemma elfica che sarebbe poi passata ad Aragorn anni dopo.
Dopo la morte del primogenito Amroth, nel 1981 della Terza Era, Galadriel e Celebron si spostarono definitivamente a Lorien. Nella Terza Era Galadriel entra a far parte del Bianco Consiglio al capo del quale avrebbe preferito Gandalf, e non Saruman come invece fu. Il ruolo di Galadriel è fondamentale durante il viaggio a Sud della Compagnia dell’Anello, in quanto Lothlorien è una tappa importantissima del viaggio dell’Anello verso Mordor. Fondamentale per capire il suo personaggio e la sua psicologia è il momento in cui Frodo chiede alla Dama di prendere l’Unico, rifiutandone il peso e la responsabilità.
Galadriel fortemente tentata da quell’offerta riesce tuttavia a resistere alla tentazione rappresentata dall’Anello e “lasciò ricadere il braccio, e la luce scomparve, e improvvisamente rise, e si rimpicciolì: tornò ad essere un’esile donna elfica, vestita di semplice bianco, dalla voce morbida e triste. <<Ho superato la prova >>, disse. <<Perderò i miei poteri, e me ne andrò all’Ovest, e rimarrò Galadriel>>.” (Il Signore degli Anelli – La Compagnia dell’Anello).
Galadriel fa molti doni preziosi ai viandanti, e tra questi regala la gemma elfica ad Aragorn, che lei sa destinato a sposare sua nipote Arwen, un seme di Mallorn a Sam e la fiala con la luce di Earendil a Frodo. Inoltre, ospita Gandalf dopo il suo combattimento mortale con il Balrog di Morgoth. Durante la Guerra dell’Anello Galadriel e Celeborn vengono attaccati diverse volte a Lorien, fino a che non si ricongiungono a nord con re Thranduil del Bosco Atro e purificano quei luoghi dall’influenza negativa del passaggio di Sauron. Con la distruzione dell’Unico Anello, Galadriel, con tutti gli alti elfi della Terra di Mezzo, decide di ritornare nel Reame Beato di Valinor, dopo aver assistito al matrimonio di Arwen e al funerale di Re Theoden. Parte con Bilbo, Frodo e Gandalf dai Porti Grigi il 29 settembre 3021, ricongiungendosi alla figlia Celebrian e alla casa del padre Finarfin.
Sua figlia aveva infatti sposato Elrond Mezzelfo e dal suo matrimonio erano nati Elladan, Elroir e la bella Arwen Undomiel, sposa di Aragorn figlio di Aratorn ed erede al trono di Gondor. Tuttavia Celebrian venne ferita quando Arwen era ancora una bambina e decise di partire per l’Ovest, lasciando la sua famiglia nella Terra di Mezzo. Celeborn raggiunse poi Galadriel all’Ovest qualche anno dopo.
Come già anticipato, il ruolo di Galadriel nella trilogia de Il Signore degli Anelli è stato affidato a Cate Blanchett, dopo che Kyle Minogue (prima scelta) fu scartata perché troppo bassa. Peter Jackson ha reinserito il personaggio di Galadriel nella sua sceneggiatura de Lo Hobbit, ma non sappiamo ancora bene in che misura la Bianca Dama di Lorien farà parte della storia, a parte la scena che la vuole coinvolta, insieme a Hugo Weaving, Ian McKellen e Christopher Lee per il Bianco Consiglio.
Satantango come Patantango (Tango di Pantano)
Il film Satantango, del regista ungherese Bela Tarr, fu girato nel 1994. Vi si narra il collasso d’una fattoria collettiva, ai tempi del comunismo. I pochi abitanti si lasciano andare alla vita, persa ogni speranza per un futuro migliore. A loro, resta soltanto la bottiglia d’alcol. La noia nichilistica di tutti è però improvvisamente scossa, quando si sparge la notizia che il pseudo-santone Irimias, ufficialmente dato per disperso, tornerà in paese (assieme al suo guardaspalle Petrina). Gli abitanti cominceranno a temere che dovranno andarsene. Lo spettatore può sapere che il comando di polizia zonale ha affidato ad Irimias una missione segreta. Egli chiederà ai vecchi compaesani tutti i loro risparmi, promettendo che li baratteranno con un vero lavoro (senza più l’abitudine alla puzza del bestiame, o dei campi arati). Ma sarà solo un inganno, virtualmente per lasciare che il comando di polizia distrugga la fattoria.
Satantango ha il bianconero fotografico, permettendoci di percepire la vitalità smorta dei compaesani. La sua durata al cinema è di ben 435 minuti. Una lunghezza che segue la dilatazione dello spleen esistenziale. Sembra che la gente voglia solo ubriacarsi. Ciò alla fine comporta un profondo e lungo addormentarsi. La volontà d’abbandonarsi alla frenesia della vita inevitabilmente si contraddirà. Bela Tarr usa piani-sequenza che durano 10 o persino 15 minuti. Allora, l’azione dei personaggi finisce per addormentarsi. Noi vedremo quasi esclusivamente il loro ambiente circostante. Il film vale esteticamente per la fangosità nelle relazioni sociali (costruite sulle menzogne od i sospetti), e la piovosità del destino (il quale incombe se non ferendo quantomeno appesantendo la vita, con le sue complicazioni). La desolazione delle terra ungherese è solo in piccola parte dovuta al crollo dell’utopia collettivistica.
In Satantango, lo Stato mantiene il suo potere coercitivo, grazie alla stazione di polizia zonale. I discorsi del comandante (ricevuti Irimias e Petrina) paiono chiari: “Qui tutto dipende dal mio umore… Le gente non ama la libertà, ne ha paura…” . Lo Stato, con la polizia, imporrà ancora il suo ordine sociale. Esso agirebbe paradossalmente liberando tutto il popolo, mentre ne controlla l’individualismo. E’ l’utopia del collettivismo. Esteticamente, interessa che il comandante faccia derivare il potere dal mero umore. Il film Satantango è costantemente bagnato in via percettiva. Gli umori delle persone paiono sempre umidi. Ognuno è sospettoso nei confronti degli altri: per i tradimenti sentimentali (tramite la procace signora Schmidt), o per le furberie sugli affari (specialmente, dal signor Schmidt). Lo pesudo-santone Irimias porta a compimento il destino, quando esso letteralmente precipiterà sui personaggi.
Bela Tarr sceglie di non mostrarci la distruzione della fattoria. Solo, accade che gli abitanti taglino un armadietto, usando il badile. La lama precipita sul legno, come la pioggia autunnale. Nel film, muore solo l’innocente Estike. Lei è ancora una bambina, ciononostante ha già raggiunto la maturità sociale, capendo la desolazione della vita ubriacata, dentro la fattoria. Estike arriva a seviziare il suo amato gattino. E’ la percezione fangosa della vitalità. Il gattino sembra trito e ritrito nella mani di Estike, come nel campo da arare. La morte però accade in modo più rarefatto. Estike avvelena prima il gatto, e poi se stessa. La morte sopraggiunge dolcemente, senza alcuna precipitazione. Torna comunque la percezione dell’umore, in quanto il veleno va bevuto. Estike muore dolcemente, perché il destino va percepito nell’astrattezza di se stesso. L’universalità pare qualcosa che si distenda sopra i singoli enti. Il veleno si diffonderà su tutto il corpo. L’universalità del destino, nelle intenzioni del regista, andrà “bevuta” da Estike, siccome per lei “gli angeli vedono e capiscono… non c’è nulla da temere. La bambina avrebbe il dono della fede. Qualcosa che le permetta più astrattamente un bagno, sotto la pioggia battente, senza subirne il taglio (per le punte delle gocce). Nella scena iniziale, l’inquadratura rimane fissa. Un gruppo di vacche compare da lontano, uscendo dalla propria stalla. Lentamente, la macchina da presa inizia a seguirne il pascolo. La carrellata in orizzontale ambiguamente può mantenere la fissità dell’inquadratura, quando il nostro sguardo si fa parare, dai muri di più stalle.
Bela Tarr
cerca un’immagine frapposta. Come le vacche scorrazzeranno per
l’aia, così la nostra visione si dipanerà oltre le varie pareti.
Forse Satantango va percepito nella
frapposizione del destino sulla vita dell’uomo, col primo che
rallenterà la seconda. La pioggia in qualche modo taglia ed
appesantisce. Essa ci ostacola, e per Tarr anche a suo piacimento.
Nella scena in cui gli abitanti lasciano il loro paese, il
tergicristallo del loro camion gira in maniera solo disordinata
(senza alcun ritmo). Il regista inquadra la luce quasi
esplosivamente tramite un suo varco in profondità. Agli inizi del
film, ad esempio, la comparsa dell’uomo avviene dalle nostre
spalle. Sarà la prima testimonianza del continuo fronteretro
chiaroscurale in cui si rallenta ogni azione individuale. Spesso i
personaggi si nascondono e (paradossalmente) non si nascondono.
Basta inquadrarli dalla loro schiena. Bela Tarr
non nega la vitalità dei personaggi. Ma questa pare appesantita
(dalla noia nichilistica). Nell’oscurità di tutti i personaggi,
resta il varco d’una luce continuamente in attesa d’attrarli a
sé.
C’è una scena in cui la cinepresa abbandona il nostro punto di vista per avvicinarsi alla finestra, quasi entrandovi. Ma alla fine le tendine non s’apriranno più. E’ il contraltare percettivo, in chiave ambientale, della figura umana che si muri esibendo solo la propria schiena. Nel film Satantango, l’illuminazione resta costantemente sulla soglia di sé. Gli uomini possono darsi le spalle fra di loro, appoggiandosi ai muri delle stalle, come se giocassero a nascondino (mentre spiano). Però, solo la regia proverebbe a contare il momento buono per passare all’azione. La narrazione evita sempre ogni forma di suspense. I personaggi si nasconderanno e basta. Le loro discussioni paiono inconcludenti. La stessa missione del falso profeta Irimias, agli occhi dei suoi antagonisti, sarà più il frutto d’una suggestione (innanzi al sacrificio di Estike), che non d’una coercizione. Invece, i movimenti della macchina da presa potrebbero contarsi. All’inizio del film, c’è una carrellata in orizzontale. Noi vediamo in successione le figure del vaso, del muro, della vacca e del rubinetto. La regia avanza una sorta di countdown nichilistico. Un po’ alla volta, la scenografia si spoglia della presenza antropocentrica (data dai vasi e dai muri) per diventare più naturalistica. Allora, la regia troverà l’universalità della piatta inquadratura fissa. In realtà, alla fine resta il rubinetto, che permette alla vacca di bere. La naturalità dell’acqua simbolicamente sarà già in via d’annullamento. Paradossalmente, pare che il rubinetto strozzi la vitalità della vacca, incombendo su questa. L’acqua sarà appesantita non solo dal più naturale diluvio, ma pure nell’antropocentrismo della sua canalizzazione. Frequentemente, il film mostra che i personaggi si lavano entro una piccola bacinella. Non ci pare una scelta praticissima. Sembra difficile lavarsi bene in così poco spazio. La bacinella sarebbe il contraltare artificiale della più naturale pozzanghera. Mancando una vera e propria immersione nell’acqua (dalla vasca), il corpo nudo si comporterebbe come il fango, che subito appesantisce il bagnato.
Nel film
Satantango, la regia ci aiuta a percepire
i movimenti virtualmente piovosi della vitalità umana. Bela
Tarr cercherà un’inquadratura che scandisca il compiersi
del destino avverso ai compaesani. C’è una scena in cui noi vediamo
prima il braccio d’un uomo, e poi un bicchiere sul tavolo. La
cinepresa si sposta lentamente, in orizzontale. Il braccio si
distende, e la mano prenderà il bicchiere. E’ il momento in cui
l’uomo vuole bere. In seguito, il braccio si distende in direzione
opposta, rimettendo il bicchiere sul tavolo. La scena si ripeterà
ancora. L’inquadratura si percepirà in via pendolare. Ma è un
countdown che, per l’appunto, non porta a nulla, lasciando
che il personaggio del bevitore semplicemente s’addormenti. Il
braccio, incurvato per prendere il bicchiere, avrà la stessa
configurazione del rubinetto per le vacche. Ciò conferma la
percezione estetica che la vitalità si faccia strozzare. Il film
Satantango è interamente costruito
sull’inerzia narrativa. La stessa missione di Irimias accade solo
astrattamente. Il rubinetto strozza la vitalità della vacca, ed il
braccio che prende il bicchiere (col vino al posto dell’acqua)
quella dell’ubriacone.
Il film Satantango va percepito nella continua frapposizione degli elementi scenografici. La visione del rubinetto taglierà quella della vacca, la visione del braccio taglierà quella del bicchiere, magari nell’alternanza di se stesse (quando la macchina da presa si sposti da sinistra a destra, o viceversa). Non c’è alcuna flessibilità percettiva. Ove l’inquadratura si faccia binaria, il primo elemento parrà semplicemente spalmato sul secondo, nella solita pesantezza della loro fangosità. Anche per questo, uno dei personaggi si lamenta del suo spleen esistenziale dichiarando: “La flessibilità è ciò che ho perso”. Nella scena più famosa del film, Bela Tarr usa un piano-sequenza di 15 minuti. L’illusione che l’alcol rivitalizzi fermenta sul ballo dei compaesani, al bar. In realtà, malinconicamente noi percepiamo che loro si lascino andare al solo addormentarsi. Là, manca completamente ogni flessibilità coreografica. I compaesani si limitano ad allargare le braccia, così da spalmare la fermentazione dell’alcol.
Vorrei Vederti Ballare: recensione del film di Nicola Deorsola
Nicola Deorsola, già aiuto regista di Rubini e Veronesi, esordisce dopo una lunga attesa dovuta alle difficoltà nel reperimento di fondi, e lo fa scegliendo il genere romantico, che mette in scena in maniera classica: nel punto di vista e nello stile registico. Sembra sposare l’ottica adolescenziale dei suoi protagonisti: la psicologia e l’analisi si rivelano quasi del tutto inutili, mentre Ilaria “guarisce” semplicemente grazie all’amore. Il grande amore dei ragazzi, che è più forte della menzogna “a fin di bene”, e anche quello che emergerà dai cuori dei genitori. Vorrei Vederti Ballare si muove tra tono leggero e tono serio, ma l’elemento prevalente è il romanticismo.
La storia d’amore è il fulcro del film. Il resto – l’approccio da commedia e i temi anche forti (il conflitto coi genitori, l’anoressia, l’elaborazione del lutto) – ruota attorno. Lo dimostra anche lo stile registico: primissimi piani, inquadrature classiche del genere romantico, paesaggi suggestivi di Calabria, dove il film è ambientato, oltre a un montaggio evocativo (a sottolineare romantiche similitudini) e alla colonna sonora in francese curata da Giuseppe Fulcheri – mente del film di cui è anche soggettista, sceneggiatore e produttore.
In Vorrei Vederti Ballare, Martino (Giulio Forges Davanzati) e Ilaria (Chiara Chiti) sono due ragazzi in conflitto coi genitori: il primo col padre (Alessandro Haber) – uno psicologo rigido e autoritario che vuole organizzargli la vita – mentre la madre è morta da alcuni anni. È iscritto a psicologia, ma studia e frequenta poco; invece, segue le sue passioni: le tartarughe, il cinema e Ilaria, che osserva esercitarsi a danza dalla finestra di casa. Ilaria, dal canto suo, ha una madre (Giuliana De Sio) ex ballerina, con cui si scontra continuamente e che la opprime, scaricandole addosso le sue frustrazioni. Mentre suo padre è del tutto assente. Entrambi i ragazzi chiedono, in fondo, affetto e una reale attenzione. S’incontrano quando Ilaria inizia a soffrire di disturbi alimentari e va in terapia proprio dal padre di Martino. Quest’ultimo, allora, coglie l’occasione: fingendosi un giovane collega del padre, riesce ad avere in cura Ilaria. I due si aiuteranno a vicenda, iniziando un percorso di apertura verso l’altro, di crescita che sfocerà in una storia d’amore e ridisegnerà i loro rapporti coi genitori.
Il regista fa il suo compito, senza rischiare o stupire. Si sbizzarrisce un po’ solo col personaggio di Gastone, interpretato in maniera molto divertente da Gianmarco Tognazzi, che finalmente vediamo in veste comica e con un’espressività meno rigida di quella che ultimamente gli conosciamo. Per il resto, tutto è abbastanza prevedibile, a forte rischio di banalità, forse rassicurante ma non emozionante e non dissimile da altre prove del genere. Il tutto rende il film nel complesso più adatto al salotto di casa che non alla sala cinematografica.
Il cast di Vorrei Vederti Ballare punta sui giovani – Chiara Chiti, già diretta da Matteo Rovere, e Giulio Forges Davanzati, noto soprattutto per aver partecipato ad alcune fiction, offrono buone prove – ma si avvale anche di collaborazioni illustri: i già citati Giuliana De Sio, Alessandro Haber e Gianmarco Tognazzi e anche Paola Barale che in look da diva anni ’50 è una cassiera col sogno del cinema. Prodotto da Falco Produzioni in collaborazione con Rai Cinema, è nelle sale dal 6 dicembre.
Quattro video dal backstage de Les Misérables
Una nuova immagine di Henry Cavill come Superman
Ecco una nuova foto di Henry Cavill nella tuta di Superman, pubblicata in copertina dalla rivista francese Studio Ciné Live. L’attore, diretto da Zach Snyder, sarà impegnato nel suo primo ruolo davvero importante da protagonista nel prossimo L’Uomo d’Acciaio, ennesimo e speriamo vincente adattamento della storia del supereroe kryptoniano.
Con Cavill, partecipano al film Amy Adams nei panni della giornalista Lois Lane e Laurence Fishburne è il suo caporedattore Perry White. Inoltre del cast fanno aprte anche Diane Lane e Kevin Costner, che interpretano i coniugi Kent, e Ayelet Zurer e Russell Crowe che interpretano invece i genitori naturali di Clark/Superman, Lara Lor-Van e Jor-El. Il bravissimo Michael Shannon sarà il villain, Generale Zod, e Antje Traue sarà Faora.
L’Uomo d’Acciaio uscirà in 3D, 2D e IMAX il prossimo 14 giugno.
Ecco il poster di Pain & Gain con Mark Wahlberg e Dwayne Johnson
Ecco il primo poster ufficiale del prossimo film a “basso” budget di Michael Bay. Si intitola Pain&Gain e vede protagonista una indedita coppia tutta muscoli,
Un nuovo progetto per Nicolas Winding Refn
Comingsoon.net riporta che l’acclamato regista di Drive, Nicolas Winding Refn, è in tratative per dirigere, per la Columbia Pictures, l’adattamento di The Equalizercon Denzel Washington. Si tratta di una serie anni ’80 in cui il protagonista è un soldato detective che si fa assumere da chi non riesce a risolvere i propri problemi.
Intanto Refn è impegnato ad ultimare il suo ultimo film che ha visto doppiare la sua collaborazione con Ryan Gosling: Only God Forgives, per il quale non si ha ancora una data d’uscita.
The Equalizer dovrebbe uscire ad aprile 2014.
Il primo poster ufficiale di Oblivion con Tom Cruise
Il sito americano IGN ha pubblicato il primo poster ufficiale di Oblivion, l’atteso sci-fi tratto dall’omonima graphic novel che vede protagonista assoluto l’inossidabile Tom Cruise.
Accanto a Tom ci saranno altri volti più o meno noti del grande schermo: Morgan Freeman, l’ex Bond girl Olga Kurylenko, Andrea Riseborough, Nikolaj Coster-Waldau (noto ai più per il suo ruolo di Jaimie Lannister nella serie HBO Game of Thrones) e il premio Oscar Melissa Leo. A dirigire il film ci sarà Joseph Kosinski anche autore del fumetto.
Ecco la trama del film:
Jack è un ex soldato, l’ultimo sopravvissuto sulla Terra, devastata dalla guerra contro una razza aliena. Dopo aver ritrovato un’astronave distrutta, la storia dell’unica superstite al suo interno lo trascina in un’ avventura che cambierà per sempre il loro destino. Jack mette in discussione tutto ciò che credeva di sapere sul suo mondo, sulla sua missione e su se stesso. In un inseguimento per terra, aria e spazio. Jack è costretto a un confronto con i suoi superiori per conoscere la verità.
Oblivion uscirà esclusivamente in IMAX il 12 aprile e nel formato classico a partire dal 19 aprile. Ovviamente si tratta di date USA, mentre quelle italiane non sono ancora note.
Disney prepara il sequel di Alice nel paese delle meraviglie di Tim Burton!
La Walt Disney Pictures sembra intenzionata a ritornare nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll. Infatti, secondo Variety lo studios ha assunto Linda Woolverton per scrivere
Nel 2015 arriva il reboot dei Fantastici Quattro!
La 20th Century Fox ha annunciato che il reboot dei Fantastici Quattro uscirà il 6 Marzo 2015 per la regia di Josh Trank (Chronicle), su una sceneggiatura scritta da Michael Green e Jeremy Slater.
Alla scoperta dei personaggi de Lo Hobbit: Thorin Scudodiquercia
Raccontiamo ora di Thorin Scudodiquercia, Re Sotto la Montagna e principale fautore degli eventi raccontati ne Lo Hobbit. Thorin è il capo della compagnia dei 12 nani che parte, con Bilbo e Gandalf, per riconquistare il tesoro sotto la Montagna Solitaria e sconfiggere definitivamente Smaug.
Thorin Scudodiquercia
Al drago infatti si deve il suo esilio dal regno che comprendeva in origine le terre comprese tra Dale e la Montagna Solitaria, cuore del regno. All’inizio del viaggio dimostra una certa diffidenza verso Bilbo e verso l’utilità che il piccolo hobbit può avere nell’aiutarlo a riconquistare il suo tesoro. Lungi infatti dal credere di riuscire effettivamente a sconfiggere il drago, Thorin tende soprattutto a voler riconquistare l’oro e l’Archipietra, la mistica gemma di rara bellezza ed infinito pregio andata perduta quando la reggia della montagna è stata occupata da Smaug.
Thorin II, detto
Scudodiquercia, nasce nell’anno 2746 della Terza Era, è figlio di
Thrain e nipote di Thror, ha un carattere molto più austero
rispetto a quello dei suoi compagni di viaggio e le sue vicende,
precedenti a quelle raccontate ne Lo Hobbit, vengono raccontate da
Tolkien stesso nell’appendice A de Il Signore degli Anelli.
Quasi per caso, Thorin incontra Gandalf il Grigio a Brea, mentre lo stregone stava viaggiando per raggiungere la Contea. Dopo un primo incontro fra i due, Gandalf iniziò a mettere assieme molti tasselli di un mosaico di cui non sapeva il disegno. Anni prima infatti a Dol Guldur aveva trovato nelle segrete un nano che gli aveva consegnato una mappa appartenuta alla gente di Durin con una chiave, così capisce quindi che quel povero nano morente era Thráin II. Nel secondo incontro con Thorin, Gandalf espone il suo piano per l’impresa, sarà una azione furtiva che richiederà poche ma fidate persone. Nell’impresa dovrà poi esserci un hobbit, essendo questi coraggiosi all’accortezza, e soprattutto avendo un odore sconosciuto al drago che difende il tesoro come suo.
Nel film di Peter
Jackson,
Lo Hobbit: Un Viaggio
Inaspettato, Thorin
Scudodiquercia è interpretato da
Richard Armitage, fascinoso attore inglese
noto per i suoi ruoli televisivi e per essere apparso di recente in
Captain America: Il Primo
Vendicatore. Le reticenze
con cui è stato accolto il suo aspetto da nano, dovute soprattutto
alla giovinezza dell’attore rispetto all’idea e alle descrizioni
tolkieniane relative al personaggio, sembrano essere state fugate
dai primissimi trailer del film, in cui Armitage dimostra di essere
un Thorin all’altezza del suo rango.
L’uomo dei record: Tom Hanks
Tom Hank – 4 nomination ai BAFTA, 6 agli Screen Actors Guild Awards , 6 agli Oscar, 7 ai Golden Globe e 8 agli Emmy. Ma non finisce qui: due Oscar vinti come miglior attore protagonista, una nel 1994 con Philadelphia e uno nel 1995 con Forrest Gump, eguagliando il record di Spencer Tracy (nel 1937-1938), l’unico ad aver vinto per due anni consecutivi l’ambita statuetta.
Lui è Tom Hanks, classe 1956, enfant prodige degli anni ’80 il cui caché, a oggi, si aggira intorno ai 20 milioni di dollari a interpretazione. Interpretazioni che l’hanno portato a essere il vicepresidente dell’Academy.
Thomas Jeffrey Hanks nasce il 9 luglio 1956 sotto il sole della California, a Concord, da padre cuoco (Amos Mefford Hanks) e madre infermiera (Janet Marylyn Frager). Timido e introverso sin da piccolo, Tom studia teatro allo Chabot College, sempre in Calfifornia per poi trasferirsi alla California State University di Sacramento. Nel 1978 sposa l’attrice Samantha Lewes da cui avrà due figli, Colin ed Elizabeth.
Del 1979 è il primo grande cambiamento: partenza per New York City in cerca di successo che incontra, dopo una serie di film low budget, agli ABC studios accaparrandosi un ruolo principale nella comedy Bosom Buddies (conosciuta in italia con il titolo di Henry e Kip) in cui, in 37 episodi andati in onda dal 1980 al 1982, vengono raccontate le vicende di due single che lavorano nel campo della pubblicità e che, per pagare di meno l’affitto, si travestono da donne per vivere in un appartamento riservato al gentil sesso.
Tom Hanks, filmografia
Grazie al successo televisivo, Hanks viene notato da Ron Haward che nel 1982 gli riserva un ruolo come guest appearance in un paio di puntate del mitico Happy Days. La collaborazione tra i due continua quando Haward decide di assegnare al giovane californiano il ruolo principale in Splash – Una sirena a Manathann (1984), commedia romantica che si trasforma in un vero e proprio successo al box office incassando quasi 70 milioni di dollani.
Con il film di Garry Marshall del 1986 Niente in comune, Hanks pone le basi per un salto di qualità nella sua carriera da attore e comincia a farsi conoscere al grande pubblico anche e soprattutto per le sue capacità interpretative drammatiche. Il grande successo arriva due anni dopo con Big, film dalla strana (ma casuale) identità di soggetto con Da Grande di Francesco Amurri (con Renato Pozzetto) in cui Hanks interpreta Josh, un ragazzino di dodici anni che abita a New York, follemente innamorato di una sua compagna di scuola molto più grande di lui, motivo per cui si trova a esprime il desiderio di non essere più un bambino. Il giorno dopo, al suo risveglio, scoprirà di essere diventato un aitante trentenne.
Big viene osannato dalla critica e configura Hanks come il miglior giovane talento nascente di Hollywood: una nomination agli Oscar come Miglior attore protagonista, la prima vittoria del Golden Globe come miglior attore in un film commedia o musicale, il riconoscimento da parte del Los Angeles Film Critics Association Award come miglior attore protagonista e la menzone speciale al festival di Venezia di quell’anno.
Gli anni della consacrazione a star sono anche quelli che lo hanno visto sposato con l’attrice Rita Wilson, nel 1988, conosciuta sul set di Bosom Buddies ma di cui si innamorerà solo successivamente e dalla quale avrà due figli: Chester e Truman.
Subito dopo la consacrazione a star da parte della critica, seguirono per l’attore molti fallimenti al botteghino come L’erba del vicino (The ‘burbs), Joe contro il vulcano (che vede per la prima volta Hanks insieme a Meg Ryan) e il flop più grande, Il falò della vanità, diretto da Brian De Palma con Bruce Willis e Melanie Griffith, film che costò 47 milioni di dollari e riuscì a incassarne solo 15.
Sarà la commedia del 1992 di Penny Marshall con Madonna tra i protagonisti, Ragazze vincenti, a portare Tom Hanks nuovamente in vetta. In un’intervista di quel periodo a Vanity Fair l’attore dichiarò di essersi reso conto che il suo lavoro era diventato meno pretestuoso, finto e sopra le righe e percepiva nell’aria l’inizio di una nuova era cinematografica.
Era che si apre con il
succeso della commedia romantica del 1993 Insonnia
d’amore che lo vede nuovamente al fianco di
Meg Ryan e, successivamente, con l’indimenticabile
Philadelphia dalla drammatica porata
sociale. Nel film Hanks interpreta Andrew “Andy” Beckett, un
avvocato gay licenziato perché malato di AIDS, la malattia che
raggiunse il culmine della sua diffusione negli anni novanta. Per
interpretare il ruolo dell’avvocato (affiancato da un grande
Denzel Washington), Hanks perse più di 35 chili e
rasò a casaccio i suoi capelli al fine di apparire credibile in
quanto malato. Oltre alle pluripremiate interpretazioni dei due
attori, elemento di spicco del film fu la musica, affidata a
Howard Shore affiancato dagli autori Bruce
Springsteen e Neil Young, che accompagnò
i due attori in quasi tutti le scene principali. In una recensione
per People, la giornalista Leah Rozen scrisse:
«Al di là di tutto, il successo del film è da riscontrarsi in Tom Hanks che ha fatto un lavoro splendido nel calarsi totalmente nel ruolo di una persona, non un personaggio, un uomo qualunque e non un santo martire. È stato assolutamente pazzesco, estremamente profondo con un’attenzione incredibile a tutte le sfumature comportamentali di una persona in quelle condizioni. Si merita l’Oscar».
Oscar che non tardò ad arrivare, nel 1993, come miglior attore protagonista. Nel discorso di ringraziamento, Hanks fa riferiferimento a due persone che hanno dato molto alla sua carriera e a questo ruolo, il suo insegnate di teatro al liceo Rawley Farnshworth e il compagno di classe John Gilkerson, entrambi estremamente vicino all’attore ed entrambi gay.
L’errore degli anni
precedenti non venne ripetuto e subito dopo questa profonda
interpretazione all’attore venne immediatamente affidato un altro
ruolo destinato a diventare un cult: Forrest
Gump.
«Quando ho letto lo script di Gump ho intravisto un gran ruolo, un film pieno di speranza che potesse arrivare a un gran pubblico… l’ho sentito mio» dichiarerà Tom Hanks in un’intervista successiva all’uscita del film. Diretto da Robert Zemeckis il film, liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Winston Groom del 1986, narra l’intensa vita di Forrest Gump, un uomo dotato di uno sviluppo cognitivo inferiore alla norma, nato negli Stati Uniti d’America a metà degli anni quaranta e, grazie a una serie di coincidenze favorevoli, diretto testimone di importanti avvenimenti della storia americana. Forrest Gump venne accolto in modo estremamente positivo sia dalla critica sia dal pubblico, conferendo ad Hanks per il secondo anno consecutivo la statuetta come miglior attore protagonista eguagaliando il record di Spencer Tracy, sfiorando il record di nomination di Eva contro Eva e Titanic e classificandosi al 20° posto nella classficia dei 250 migliori film di sempre di IMDb. Il film ebbe anche un notevole impatto sulla cultura popolare. Frasi come «corri, Forrest, corri» sono diventate parte del linguaggio comune. Lo stesso Tom Hanks riadatterà una frase del suo personaggio nel suo discorso alla cerimonia degli Oscar.
Tra le varie, il film viene ricordato per aver pagato a Hanks l’ingaggio, allora stratosferico, di 8 milioni di dollari, incassandone in tutto il mondo circa 680.
La salita all’olimpo
dei super attori di Hollywood procede e con il suo ruolo successivo
segna la reunion tra l’attore e il regista che per primo credette
in lui: Ron Howard, con cui Tom è pronto a volare
nello spazio, con la pellicola del 1995 Apollo
13. La critica applaudì il film e la prova
di Hanks e compagni (Kevin Bacon, Bill Paxton, Gary Sinise,
Ed Harris e Kathleen Quinlan) conferendo
al titolo nove nomination agli Academy Awards e vincendone due,
nessuna delle quali per Tom.
Poco dopo Apollo 13 Hanks cominciò ad avvicinarsi al mondo dell’animazione e di quegli anni fu la sua prima collaborazione con la Disney/Pixar per il blockbuster d’animazione Toy Story, in cui prestò la voce allo sceriffo Woody.
L’amore per lo spazio non abbandonerà l’attore che, nel 1996, unirà questa passione con quella per le serie tv diventando produttore (insieme all’ormai amico Ron), co-scrittore e co-direttore del documentario per la HBO Dalla terra alla luna, miniserie che segue le vicende del programma Apollo dalla sua prima missione del 1961, fino alla sua ultima missione del 1972. La miniserie ricevette numerosi premi e nomination nel corso del 1998 e del 1999, vincendo tra gli altri tre Emmy, un Golden Globe e due Television Critics Association Awards. Oltre ai prestigiosi premi, la miniserie viene ricordata anche per essere stata la produzione più costosa per un documentario televisivo: 68 milioni di dollari. I progetti successivi non furono certo da meno in quanto a spese e con Salvate il soldato Ryan (1998) si apre la fortunata collaborazione con Steven Spielberg. Ambientato durante la seconda guerra mondiale, in particolare nei giorni del D-Day, il film fu acclamato dalla critica soprattutto per i primi 24 minuti che dipingevano, in maniera cruda e realistica, lo sbarco dei soldati a Omaha beach. Etichettato come uno dei migliori film di guerra mai girati, valse al regista la sua seconda statuetta alla regia e all’attore un’altra nomination come miglior attore protagonista. Dopo questa intensa interpretazione, Hanks aveva bisogno di qualcosa di leggero e dello stesso anno è C’è posta per te che vede Hanks nuovamente con Meg Ryan in una commedia romantica remake del classico di Ernst Lubitsch, Scrivimi fermo posta.
Alle soglie del nuovo
millennio Hanks torna come voce per il secondo capitolo del film
d’animazione Toy Story 2 per poi gettarsi
nell’adattamento del romanzo di Stephen King Il miglio
verde, diretto da Frank Darabont
(oggi noto ai più per essere il regista della terza stagione di
The Walking Dead), in cui interpreta il ruolo drammatico
di Paul Edgecombe, capo guardia dei prigionieri condannati a morte
la cui vita cambia quando in carcere arriva John Coffey
(Michael Clarke Duncan), un gigante di colore
accusato di aver massacrato due bambine. Il nuovo Hanks, quasi
totalmente votato a ruoli drammatici, continua la sua scalata al
successo nel 2000 con il film di Robert Zemeckis Cast
Away, in cui Hanks interpreta un importantissimo
ingegnere della FedEx che, a causa di un incidento aereo dopo un
ammaraggio di fortuna, si ritrova su uno scoglio gigante a nord
della Nuova Zelanda, da solo. Il film venne girato in due periodi
di tempo separati da diversi mesi. Nella prima sessione di riprese
vennero girate le scene nel mondo “moderno”, mentre nella seconda
sessione vennero girate le scene sull’isola. Il motivo della pausa
fu la necessità di Tom Hanks di avere a
disposizione tempo per perdere peso: durante la pausa Hanks dimagrì
di circa 20 kg per interpretare la parte (e Zemeckis girò
Le verità nascoste).
L’anno successivo Hanks
torna dietro la macchina da presa insieme a Steven
Spielberg per produrre Band of Brothers,
miniserie in 10 puntate per la HBO considerata come un vero e
proprio spin-off del precedente Salvate il soldato
Ryan. Visto l’enorme successo, nove anni dopo i due
torneranno a produrre insieme un’altra miniserie di dieci puntata
per lo stesso canale intitolata The Pacific e incentrata sugli
avvenimenti della guerra del Pacifico.
L’esplorazione delle proprie capacità drammatiche continua nel 2002 con Era mio padre, film in cui l’attore interpreta il ruolo di un killer professionista per conto di un mafioso che l’ha cresciuto come un figlio. Il felice connubio con il regista Spielberg prosegue sempre negli stessi anni con Prova a prendermi, al fianco di Leonardo DiCaprio. Questo è il primo film dal 1988 in cui Tom Hanks non riceve la paga più alta per un ruolo di protagonista che venne assegnata a DiCaprio. Nello stesso anno produrrà insieme alla moglie Rita Wilson la commedia di successo Il mio grosso grasso matrimonio greco.
Nel 2004 l’attore ormai regista e produttore appare in tre film diversi: la commedia dei fratelli Coen Ladykillers, un altro film di Spielberg The Terminal e il film d’animazione Polar Express di Zemeckis. Nel 2005 arriva un altro importante ricooscimento e Hanks viene votato come vice presidente dell’Academy Award.
Negli anni successivi
prenderà parte al kolossal tratto dal best seller di Dan Brown,
Il Codice Da Vinci, interpretando il
ruolo del del professor Robert Langdon che tornerà anche nel
2009 per un altro capitolo della saga,
Angeli e Demoni.
Il 2007 è anche l’anno che lo vede protagonista del film scritto da Aaron Sorkin La guerra di Charlie Wilson in cui interpreta il deputato democratico del Texas Charles Wilson che valse all’attore l’ennesima candidatura ai Golden Globe. L’ultimo ruolo a conferirgli una candidatura agli Oscar è stato l’adattamento del romanzo di Jonathan Safran Foer Molto forte, incredibilmente vicino, del 2011, in cui Hanks interpreta il padre di un ragazzino con una certa forma di autismo rimasto vittima degli attacchi terroristici dell’11 settembre.
Sebbene quest’ultima pellicola non sia stata eccessivamente apprezzata dalla critica, Hanks, che di insuccessi alle spalle ne ha conosciuti svariati, non ha certo intenzione di buttarsi giù ed ha svariati progetti per il futuro come Saving Mr. Banks al fianco di Emma Thompson e Colin Farrell in cui si aggiudicherà un altro record: essere il primo a interpretare Walt Disney al cinema. Il film è atteso nelle sale per il 2013.
Intanto tra poco, esattamente il 3 gennaio, Tom inaugurerà la sua collaborazione con i fratelli Wachowski, per i quali ha partecipato alo straordinario e colossale Cloud Atlas, tratto dal visionario e profetico romanzo di David Mitchel. Nel film, Hanks interpreta diversi ruoli, attraversando il tempo e lo spazio, seguendo il genio dello scrittore Mitchell e la follia degli ideatori di Matrix.
La star dei record ha scalato le vette più alte del box office di tutti I tempi con più di 3.639 miliardi di dollari lordi incassati, con una media di 107 milioni di dollari a film. Provaci ancora, Tom!
Johnny Depp sarà Don Chisciotte per la Disney?
Sembra che l’attore Johnny
Depp sia interessato all’adattamento del Don Chisciotte in
chiave moderna. Questo è quanto riferisce Deadline, aggiungendo che
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Trama: Le avventure di Bilbo Baggins e della compagnia di dodici nani di Thorin Scudodiquercia, formata da Balin, Dwalin, Kili, Fili, Dori, Nori, Ori, Oin, Gloin, Bifur, Bofur e Bombur. Il gruppo deve recuperare il tesoro posto nel cuore della Montagna Solitaria, sorvegliato dal drago Smaug.
Trailer inedito dal Giappone per Iron Man 3!
Arriva dal Giappone il nuovo trailer di Iron Man 3. Il film è diretto da Shane Black e vede ancora una volta protagonista Robert Downey Jr. nei panni di Tony Stark.
Sammy 2 – La grande fuga: recensione del film
In Sammy 2 – La grande fuga Amici da sempre, Sammy e Ray, due tartarughe marine, trascorrono giorni felici nella barriera corallina. Un giorno mentre guidano i primi passi verso il mare dei loro nipotini, Ricky ed Ella, si ritrovano prigionieri di una rete da pesca. Catturati dai bracconieri, Sammy e Ray vengono venduti e si ritrovano ben presto in un gigantesco acquario sottomarino di Dubai. Qui faranno la conoscenza di pesci provenienti da tutto il mondo, alcuni simpatici, altri un po’ matti, e tutti insieme tenteranno di scappare dal grande acquario, con l’aiuto di due alcuni amici molto speciali.
Il secondo lungometraggio animato della coppia Stassen e Kesteloot (il primo fu infatti Le Avventure di Sammy uscito nel 2010) riprende il filo da dove si era concluso il precedente. Sammy e Ray sono ormai cresciuti e sono addirittura diventati nonni. La nuova avventura coinvolge questa volta non solo loro ma anche i loro neonati nipotini. Dall’uscita di Alla ricerca di Nemo in poi, tutte le case produttrici di film d’animazione si sono cimentate con l’argomento delle avventure sottomarine, costruendo in alcuni casi personaggi e storie molto credibili, e in alcuni altri prodotti molto meno convincenti.
Sammy 2 – La grande fuga, il film
È purtroppo il caso di Sammy 2 – La grande fuga. La galleria di personaggi che i due incontrano durante la loro prigionia del grande acquario di Dubai è sicuramente poco convincente: un cattivo poco cattivo che non suscita quel naturale sentimento di rabbia e frustrazione, la parte dei “giullari” invece è affidata a fin troppi personaggi (addirittura tre) che si spartiscono quel tocco di pazzia e simpatia che li contraddistingue, risultando poco efficaci. Il mondo subacqueo creato dai registi olandesi a ben poco a che fare, poi con la prigione in cui le due anziane tartarughe si sentono rinchiuse: ampi spazi, cibo a volontà, e l’attenzione dei clienti del ristorante extralusso non sembrano poi così insopportabili da giustificare il frettoloso bisogno di fuga, se non fosse per i due neonati bisognosi di aiuto.
I lungometraggi di animazione ci avevano abituati, negli ultimi anni, a esempi di scrittura cinematografica e maestria tecnica ottimi (basti ricordare, tra gli altri, le prove della Pixar e della Disney), nel caso di Sammy 2 – La grande fuga, invece alla validità della proiezione 3D, che ci trasporta completamente sotto i mari, non segue un’eguale energia narrativa.