Sarà presentato in concorso a
Venezia 74Lean on pete, il
film inglese diretto da Andrew Haigh
e tratto dal romanzo Lean On Pete di Willy
Vlautin. Nel cast protagonisti Charlie Plummer, Steve
Buscemi e Chloë Sevigny che sarà presente al lido insieme
al regista.
Lean On
Petesegue le vicende di Charley Thompson,
quindicenne che sogna una casa, del cibo nel piatto e una scuola da
non dover cambiare in continuazione. Ma è difficile trovare un po’
di stabilità, se si è figli di un padre single che si arrangia con
lavori precari nei magazzini lungo il Pacifico nordoccidentale.
Con la speranza di iniziare una
nuova vita, i due si trasferiscono a Portland, in Oregon, dove
Charley trova un lavoro per l’estate presso un malconcio
addestratore di cavalli e diventa amico di un vecchio cavallo,
chiamato Lean on Pete.
Lean on pete Venezia 74
Il regista ha così
commentato: La ballata di Charley Thompson di Willy
Vlautin è un romanzo straordinariamente umano. Racconta la storia
di un ragazzo che si rifiuta di perdere la speranza e il coraggio,
nonostante la dura realtà del mondo in cui vive. L’ho trovato
immensamente toccante, tenero e mai sdolcinato. Volevo che il film
avesse lo stesso senso di purezza e guardasse la vita ai margini
della società con onestà e rispetto. All’inizio del romanzo di
Willy c’è una citazione di John Steinbeck che dice: “Èpur vero che
siamo fragili, brutti, meschini e litigiosi ma, se quel che siamo
fosse tutto qui, saremmo scomparsi dalla faccia della terra ormai
da millenni.” Durante le riprese del film, ho cercato di tenere
sempre presenti queste parole.
La Biennale di
Venezia e Jaeger-LeCoultre annunciano
che è stato attribuito al grande regista
inglese Stephen Frears (Philomena,
The Queen, Le relazioni pericolose) il
premio Jaeger-LeCoultre Glory to the
Filmmaker della 74.Mostra
Internazionale d’Arte Cinematograficadi
Venezia 2017, dedicato a una personalità che abbia
segnato in modo particolarmente originale il cinema
contemporaneo.
La 74. Mostra di
Venezia si tiene al Lido di Venezia dal 30 agosto al 9 settembre
2017, diretta da Alberto Barbera e organizzata dalla Biennale
presieduta da Paolo Baratta.
La consegna del premio
a Stephen Frears avrà luogo
domenica 3 settembre alle
ore 22.00 in Sala
Grande(Palazzo del Cinema), prima della proiezione Fuori
Concorso del suo nuovo film Victoria &
Abdul, in prima mondiale a Venezia. Il film è
ambientato alla fine dell’Ottocento, quando il giovane commesso
Abdul Karim si mette in viaggio dall’India per partecipare al
Giubileo d’oro dell’anziana Regina Vittoria. Arrivato a Londra,
Abdul si ritrova sorprendentemente nelle grazie della sovrana; i
due instaurano un’improbabile e devota amicizia, mostrando una
lealtà reciproca che la famiglia e la cerchia della sovrana cercano
di ostruire. Abdul diventa rapidamente insegnante, consigliere
spirituale e amico devoto della Regina, mentre il loro rapporto si
rafforza e Vittoria comincia a vedere il mondo con occhi diversi,
riscoprendo con gioia anche la propria umanità.
A proposito di
questo riconoscimento, il Direttore della
Mostra Alberto Barbera ha
dichiarato:
“Prolifico e
imprevedibile, eclettico e provocatorio, Stephen
Frears sembra sfidare la possibilità stessa di una
definizione monolitica del suo cinema. È tra le figure più vibranti
e rappresentative del cinema inglese contemporaneo (accanto a Ken
Loach e Mike Leigh), ma a differenza di molti non teme di apparire
contradditorio, passando con nonchalance dal
realismo sociale degli anni ’80 alle biografie, dalle commedie ai
drammi storici, alternando film inglesi e americani, produzioni a
basso costo e grandi budget, cinema e televisione, ogni volta a
proprio agio. È forse questo palese contrasto a costituire
l’aspetto più interessante del suo lavoro, insieme con le qualità
che tutti gli riconoscono: una sensibilità non comune nel dirigere
gli attori, l’abilità nel trarre il meglio dal rapporto con
scrittori affermati (Alan Bennet, Christopher Hampton, Hanif
Kureishi, Nick Hornby), l’apparente modestia che consiste nel
subordinare lo stile all’esigenze del materiale. Grande narratore
di storie, dalle quali emergono tematiche ricorrenti come
l’attenzione per personaggi di oppressi e marginali, Frears
possiede il dono non comune di offrire nei suoi film migliori un
ritratto della società Britannica aspro, pungente, non
convenzionale, capace di risultare allo stesso tempo disturbante e
divertente.”
Stephen Frears
Regista tra i
più versatili, capace di spaziare tra un’ampia varietà di stili,
tematiche e generi, Stephen
Frears (Leicester, Inghilterra, 1941) si costruisce
una solida reputazione lavorando per tutti gli anni settanta tra
episodi di serie tv e film televisivi. Esordisce al cinema nel 1984
con Vendetta, facendo scoprire al mondo il talento di
Tim Roth. Con il suo film successivo, il provocatorio My
Beautiful Laundrette (1985) con Daniel Day Lewis,
raggiunge il successo internazionale e ottiene una candidatura agli
Oscar per la sceneggiatura, mettendo per la prima volta in luce il
suo talento negli adattamenti letterari. Il film che lo consacra al
grande pubblico è Le relazioni pericolose (1988)
con John Malkovich, Glenn Close e Michelle Pfeiffer, che si
aggiudica tre Oscar tra cui quello per la miglior sceneggiatura non
originale, insieme a molti altri premi internazionali. Con il
successivo Rischiose abitudini (1990) riceve la
sua prima nomination agli Oscar come miglior regista, sancendo il
definitivo sodalizio con Hollywood, al quale continuerà sempre a
intervallare produzioni inglesi. Nel 1998 vince l’Orso d’argento
per la miglior regia a Berlino con The Hi-Lo Country,
mentre nel 2000 dirige Alta fedeltà ed è
presente per la prima volta in Concorso a Venezia
con Liam, per il quale l’attrice Megan Burns vince il
Premio Mastroianni. Due anni dopo torna in Concorso
con Piccoli affari sporchi e poi di nuovo nel
2006, quando riceve la sua seconda nomination agli Oscar per la
regia di The Queen, film sulla Regina Elisabetta II
per il quale Helen
Mirren vince la Coppa Volpi e l’Oscar come miglior
attrice protagonista. Con Philomena(2013)
vince il premio per la miglior sceneggiatura a Venezia e il film
viene candidato a quattro Oscar.
Il suo ultimo
film, Victoria & Abdul, sarà
presentato in anteprima mondiale Fuori Concorso a Venezia e segna
il ritorno di Frears all’ambientazione della corte britannica dopo
lo straordinario successo di The Queen e il
ritorno del Premio Oscar Judi Dench nei panni della regina
Vittoria. La sceneggiatura è firmata dal candidato agli Oscar Lee
Hall (Billy Elliot) ed è basata sul libro del giornalista
Shrabani Basu intitolato Victoria & Abdul: The True Story
of the Queen’s Closest Confidant. Victoria &
Abdul è un film presentato da Focus Features in
associazione con Perfect World Pictures e BBC Films ed è una
produzione Working Title in associazione con Cross Street
Films.
Jane Fonda e Robert Redford
riceveranno il 1 settembre alla 74. Mostra Internazionale d’Arte
Cinematografica, il Leone d’Oro alla carriera, la decisione è
stata presa dal Cda della Biennale di
Venezia presieduto da Paolo Baratta, su proposta del
Direttore della Mostra del Cinema Alberto Barbera.
La consegna dei premi avrà
luogo nella Sala Grande del Palazzo del Cinema (Lido
di Venezia), prima della proiezione Fuori Concorso del film di
NetflixOur Souls at Night, diretto
da Ritesh Batra e interpretato da Jane
Fonda e Robert Redford. Our Souls
at Night è prodotto da Redford e dalla sua società
Wildwood Enterprises, Inc. e da Finola Dwyer di Wildgaze
Films. Basato sul romanzo di Kent Haruf, adattato per lo schermo da
Scott Neustadter e Michael H. Weber (Colpa delle stelle),
il film Netflix Our Souls at Night comincia
quando la vedova Addie Moore (Jane Fonda) si presenta a sorpresa
dal suo vicino di casa, il vedovo Louis Waters (Robert Redford). In
quella cittadina in Colorado sono stati vicini per decenni, ma fino
a quel momento con pochi contatti. Il film verrà distribuito in
tutto il mondo da Netflix nel 2017.
Manifestazioni di odio e
intolleranza sono ormai all’ordine del giorno e spesso capita che
alcuni sconvolgenti fatti di cronaca entrino prepotentemente nelle
nostre case a rovinarci la giornata; che siano semplici episodi
circoscritti al nostro territorio nazionale o terribili attentati
poco al di là dei confini italiani, la guerra e il terrore riescono
sempre a sconvolgere le nostre vite. Ebbene, il nuovo film di
Ziad Doueiri è questo è molto di più. The
Insult racconta una storia apparentemente semplice, un
litigio tra due persone che, per la cocciutaggine di entrambe,
diventa un vero e proprio caso politico internazionale.
La trama di The Insult
In The Insult un
rifugiato palestinese di nome Yasser, capocantiere
di un’impresa edile, sta eseguendo dei lavori di ristrutturazione
in un quartiere popolare di Beirut quando si
imbatte in Toni, un meccanico libanese di
religione cristiana che, rifiutando l’aiuto degli operai, li
scaccia in malo modo. A causa quindi di un banale tubo difettoso
della grondaia di Toni, i due finiscono col discutere, iniziano a
volare parole grosse e la storia finisce nelle mani della polizia e
dei tribunali. Un comune litigio, che sarebbe potuto finire con
delle semplici scuse, a causa dell’orgoglio dei due uomini,
continua ad espandersi ed a coinvolgere sempre più persone, fino a
diventare una guerra tra fazioni religiose.
Di origini libanesi, il regista
Doueiri – autore già di alcuni lungometraggi di successo come
West Beirut, sua opera prima che vinse il Prix
François Chalais nel 1998 al Festival
di Cannes – può vantare tra le sue esperienze lavorative
anche alcuni anni passati al fianco di Quentin
Tarantino in qualità di suo assistente alla regia
per film celebri come Jackie Brown, Pulp Fiction, Dal Tramonto all’Alba e Le
Iene. Potrebbe sembrare l’ennesimo film sulla cosiddetta
questione palestinese ma The Insult, con la sua
immediata semplicità, riesce a scavare molto più in profondità,
regalandoci il ritratto di un’umanità che sembra non aver ancora
imparato dai propri errori.
Ad un occhio poco attento, Toni
(Adel Karam) e Yasser (Kamel El
Basha) possono sembrare persone molto diverse eppure c’è
qualcosa che in fondo li accomuna, qualcosa che è molto più
ingombrante del loro orgoglio smisurato: il dolore. Abituati sin da
piccoli a convivere con la guerra e con un futuro oscuro ed
incerto, hanno presto imparato a temere chi è diverso da loro e a
guardarlo con sospetto. Negli anni battaglie si sono succedute e
dittatori folli dell’una e dell’altra fazione hanno fatto strage di
poveri innocenti, nascondendosi dietro buoni propositi e finalità
religiose. Il dolore si è trasformato in rabbia e questa a sua
volta in odio; ma come sappiamo l’odio genere altro odio e questo,
come un fiume in piena, travolge tutto ciò che incontra sul suo
cammino. E così una semplice grondaia ha scatenato una serie di
reazioni a catena che hanno portato i nostri protagonisti al centro
di una guerra mediatica.
Nonostante le sue origini
mediorientali, Ziad Doueiri ci regala un film
dallo stile spiccatamente americano, tipico dei legal
drama. In breve tempo la disputa tra due uomini si trasforma
in una lotta tra mogli e mariti, padri e figlie, schieramenti
religiosi, avvocati senza scrupoli e partiti politici. Dopo un
inizio un po’ in sordina, The Insult acquista un
ritmo sostenuto che, grazie anche ai numerosi colpi di scena
durante il processo, riesce a mantenere vivo l’interesse dello
spettatore. I temi trattati sono veramente tanti; si parla di odio
e intolleranza tra popoli che condividono la stessa terra e
dell’inquietante relazione tra politica e religione. Durante il
processo i protagonisti, completamente in balia degli avvocati e
del relativo circo mediatico, sono costretti a condividere momenti
privati e dolorosi del proprio passato con degli estranei ai quali
interessa solo potersi servire della loro causa per creare
disordini e tirare l’acqua al proprio mulino.
Non si tratta più infatti di
decidere chi ha ragione e chi torto ma di chiarire una volta per
tutte cos’è o non è accettabile fare in nome delle proprie
convinzioni. E’ giusto offendere un’altra persona solo perché
diversa o sferrare un pugno per un’offesa ricevuta? Quando si cade
e ci si sbuccia un ginocchio a volte basta un cerotto per tornare a
camminare mentre un orgoglio ferito è molto più difficile da
sanare.
A volte però basta un gesto
semplice come riattaccare il cavo della batteria di una macchina in
panne di un estraneo per realizzare che in fondo non è importante
quello che ci divide ma quello che ci accomuna. Tutti abbiamo
cicatrici nascoste e ricordi dolorosi stipati negli angoli più
remoti della nostra memoria ma basta riuscire a ricordare che
“nessuno ha l’esclusiva della sofferenza” e che,
nonostante il passato non si possa cambiare, soltanto insieme è
possibile andare avanti e voltare pagina.
La seconda serata di
Venezia 74 vede protagonisti tantissimi volti del
firmamento di Hollywood, dal premio Oscar Octavia
Spencer, alla giovane e talentuosa Amanda
Seyfried, fino alla giurata Rebecca Hall
e alla protagonista del film di Guillermo Del Toro, Sally
Hawkins. [nggallery id=3158]
Qual è la forma dell’acqua
(The Shape of Water)? In genere è quella del suo
contenitore, per definizione, trattandosi di un liquido, ma
Guillermo Del Toro, nel suo film, presentato in
Concorso a Venezia 74, ne dà un’altra definizione:
la forma dell’acqua è quella dell’amore.
The Shape fo Water trama
Elisa è una giovane donna muta e
solitaria, che per circostanze fortuite entra in contatto con una
creatura marina, catturata dal governo degli Stati Uniti e
utilizzata come cavia da laboratorio. Le due diversità,
l’incapacità di parlare di lei e la “mostruosità” di lui, ben
presto si incontrano ed entrano in un intimo contatto che diventerà
presto un amore coraggioso, puro e appassionato, che sfiderà tutto
e tutti per poter sopravvivere.
Con il linguaggio sospeso e tenero
della fiaba, Guillermo Del Toro racconta una
storia d’amore che ricalca la storia della Bella innamorata (e
ricambiata) della Bestia, con un linguaggio cinematografico esperto
e raffinato. Attraverso l’utilizzo sapiente di colori e luci, Del
Toro si conferma non solo fine narratore di “fatti”, ma anche
efficace fruitore di tutti gli strumenti che il cinema gli mette a
disposizione. In questo modo la luce e i colori, nel film, non sono
solo parte integrante della realtà raccontata, ma diventano a loro
volta un espediente narrativo che veicola senso con leggerezza e
passione.
Il magnifico cast di The
Shape of Water
Interprete perfetta del ruolo di
Elisa è Sally Hawkins: con sguardi, pochi gesti,
tanta azione, la donna costruisce per sé la sua felicità, fatta di
coraggio e rischio, ma anche di una tenerissima intesa con la
creatura. Al fianco della Hawkins ci sono Octavia Spencer, nel ruolo della collega e
amica, e Richard Jenkins in quello del vicino,
confidente, unico affetto della protagonista. Entrambi i ruoli,
complementari alla protagonista, compongono un quadro in cui quelli
che sembrano vinti e poveri riescono a compiere grandi gesti,
prevalentemente attraverso l’amore reciproco. Il messaggio sembra
quindi scontato e melenso, ma nelle mani di Del Toro diventa
naturale e abbatte il cinismo con cui ci siamo abituati a vedere il
mondo nel nostro quotidiano.
In contrasto con i personaggi
positivi di The Shape of Water, c’è invece il
villain di Michael Shannon. Un uomo di armi e di
violenza, che nelle ragioni della paura e dell’avversione nei
confronti della diversità trova la sua ottusa ragione. L’interprete
conferma la raffinatezza delle sue doti, tratteggiando rabbia e
prepotenza con vivido realismo.
Tra il bene e il male,
rappresentato dagli esseri umani, c’è la creatura, un mostro che
nel suo aspetto e nelle sue intenzioni manifesta l’ossimoro della
sua esistenza. Questo misterioso essere rappresenta la diversità
per eccellenza, diversità fondamentale per abbracciare a pieno il
messaggio di Del Toro: la paura genera l’odio e la risposta è
l’amore. Di fronte alla banalissima realtà di questo messaggio lo
spettatore si trova però disarmato da quanto autentico questo
appaia nel corso degli eventi, senza mai cedere il passo alla
retorica dei buoni contro i cattivi.
La sensualità
dell’acqua
Mantenendo fede ai toni fiabeschi,
con The Shape of Water il regista non esita a
raccontare una storia d’amore a tutto tondo, che comprende anche la
sensualità del rapporto. L’abbraccio acquatico trai due
protagonisti si carica quindi di una sensualità autentica e
viscerale ma mai torbida, una passione gioiosa, nonostante la
condizione di pericolo che la storia suggerisce.
Maestro del racconto
cinematografico, Del Toro ricrea sullo schermo le suggestioni di
una fiaba per adulti, con un finale delicato, che sa di
predestinazione e magia e che ci ricorda che alla paura è sempre
meglio preferire l’amore, che sia per un’altra persona, per la
vita, o anche, come nel suo caso, per il grande cinema.
Si chiama Mozimánia la rivista
ungherese che ha dedicato una nuova cover a Star
Wars Gli Ultimi Jedi in cui compare Luke Skywalker
(Mark Hamill) in una inedita veste “oscura”. Ecco
di seguito la cover:
La sinossi: “In Star
Wars Gli Ultimi Jedi della Lucasfilm, la saga Skywalker continua
quando gli eroi de Il Risveglio della Forza si uniscono alle
leggende della galassia in un’epica avventura che svelerà i misteri
della Forza e le scioccanti rivelazioni del passato risalenti
all’Era antica. Star Wars Gli Ultimi Jedi arriverà nei cinema
USA il 15 dicembre 2017.”
FIRST LOOK –
Carrie Fisher in Star Wars Gli Ultimi Jedi
Il film sarà
diretto da Rian Johnson e arriverà al
cinema il 15 dicembre 2017. Il film racconterà le vicende
immediatamente successive a Il Risveglio della
Forza.
Dopo la presentazione a Venezia 74
in anteprima mondiale, ecco il teaser trailer di Downsizing,
nuovo film di Alexander Payne con Matt
Damon, diffuso da Paramount.
Venezia 74: Downsizing recensione del film
con Matt Damon
Downsizing
segue le avventure di Paul Safranek (Matt Damon), un uomo ordinario
di Omaha che, insieme alla moglie Audrey (Kristen Wiig), sogna una
vita migliore. Per rispondere alla crisi mondiale causata dalla
sovrappopolazione, gli scienziati hanno sviluppato una soluzione
radicale che permette di rimpicciolire gli essere umani a pochi
centimetri d’altezza. Le persone presto scoprono che i loro
risparmi valgono di più in un mondo più piccolo e, con la promessa
di uno stile di vita lussuoso oltre ogni loro aspettativa, Paul e
Audrey decidono di correre il rischio di sottoporsi a questa
pratica controversa, imbarcandosi in un’avventura che cambierà le
loro vite per sempre.
“È importante costruire delle
narrazioni che siano alternative a quelle che sono più diffuse, e
raccontarle attraverso l’invenzione narrativa di un personaggio che
si trova a vivere il conflitto tra quello che gli chiede il dovere
istituzionale e le riflessioni suscitate dal confronto a tu per tu
con degli esseri umani di cui non capisce il dramma.”Alba Bonetti, vice presidente nazionale di
Amnesty International Italia, ha così parlato in
relazione a L’ordine delle cose, il film di
Andrea Segre che racconta il dramma dei migranti
dal punto di vista di un Funzionario del Ministero degli Esteri che
si occupa di stipulare accordi internazionali a tutela della grande
crisi che sta vivendo il Mediterraneo e tutta l’Europa.
“Questo, per noi di Amnesty
International è importante dal punto di vista culturale e della
diffusione di una maggiore comprensione di quello che sta
succedendo – ha continuato la Bonetti – cioè ragionare non
su numeri e statistiche ma su delle vite, perché stiamo parlando di
diritti umani e di vite. Non si tratta di un’invasione perché l’86%
degli immigrati censiti sta fuori dall’Europa. Non è l’Europa
invasa dai migranti, è l’Europa che sta collassando sotto il peso
di politiche irresponsabili e incapaci di dimostrare quella
solidarietà che 70 anni fa ha permesso all’Europa stessa di venire
fuori dalla gigantesca crisi degli immigrati della Seconda Guerra
Mondiale.”
L’ordine delle cose è stato presentato al Festival di Venezia 2017 nell’ambito
degli Eventi Speciali della Mostra.
Ragazzi, sono veramente esausto. È
stata un’edizione intensa e interessante ma in fondo sono contento
che sia arrivata finalmente l’ora di tornare a casa e riposare il
mio stanco membro. Ma sento una vocina. Forse è il Demonio di padre
Amorth e Friedkin, che occasionalmente ha deciso di possedere un
poro cristo di giornalista invece che la solita architetta
ciociara. ‘Ang, per mille forconi! Ma che cazzo dici? Stai solo
al secondo giorno’. ‘Ma porco di quel… (inserire bestemmie a
scelta, possibilmente in ciociaro. Perché sì, la ‘lingua
sconosciuta’ che parlava la tizia, ve lo assicuro, era ciociaro
stretto. Non aramaico, non antico accadico. Ciociaro). E
probabilmente sempre dal Demonio di cui sopra dipende
l’incontrovertibile tendenza del mio pass a girarsi sempre dal lato
sbagliato, quello bianco, provocando la diffidenza degli addetti
alla sicurezza per cui ‘pass fasullo + barba lunga + borsa carica
di Toradol equivale a ‘pericoloso terrorista’, se me portano ar
gabbio portatemi le arance, o almeno una bottiglia di Fiuggi, che
devo bere). Ieri sera – crepi l’avarizia – festicciola. Ho tenuto a
bada Fankulius (il demone sumero dell’asocialità festivaliera) per
ben 30 minuti. Un record, ma capitemi, andavo a mohito
analcolico.
Torno mentre Vì e i capi supremi di
CinefilosChiara Guida e
Francesco Madeo arrivano, tutti belli ed eleganti
tranne me, come cantava Vendittius, il demone iraniano della
vecchiaia. Li aspetto sulla panchina e li saluto al volo evitando
di cedere alle lusinghe di Tornaindietroevieniallafestaconnoius, il
demone armeno della dissennatezza. Così almeno oggi sono in grado
di presentarmi alla proiezione di The Shape of
Water di Del Toro in discreta Shape pure io, che ci
tengo. Il film è bellissimo,
pochi cazzi, ed è una di quelle storie che se la davi in mano a uno
che vuole spiegare le cazzate insite nel cinema di sogno e
fantasia, tipo Christopher Nolan, veniva fuori un disastro. In mano
a Del Toro pure la storia di una povera disgraziata, cessa e muta,
che si innamora del Mostro della Laguna Nera scorre liscia e prende
un riflesso meraviglioso. Questo è veramente in grado di dare la
forma all’acqua, ma pure all’aria e pure ai rutti se ci prova, ne
sono convinto, e visto il tema dire che in questa Laguna è Del Toro
il mostro – ovviamente di bravura – non è solo l’abituale cazzata
giornaliera dovuta all’abbacinamento da Festival. Risate grasse
almeno quanto lui.
Per il resto c’è per me il ritorno
di un mostro assai più spaventoso – altro che demoni mediorientali
e uomini pesce dal cuore d’oro – ovvero la tumulazione alla
Settimana Orizzontale degli Autori, triste
reminiscenza dello scorso anno. Che significa tipo diciotto
interviste one-to-one di fila a gente diversamente famosa, che poi
per carità, è anche caruccia e intellettualmente stimolante, ma mi
chiedono costantemente autografi e selfie e quindi mi stressa. Come
del resto mi stressa pure stare un’ora sotto il sole per farmi un
selfie con Del Toro, ma anche se ora puzzo peggio di una capra l’ho
fatto, e ne vado orgoglioso. Mica solo per lui, per quanto lo
stimi, ma anche e soprattutto per poter sparare la cazzata
‘Guillermo e Guillermino’ (per i non avvezzi: Guglielmino è il mio
cognome, per gli amici Ang) che in effetti sta furoreggiando su
facebook. Lui ci sta alla grande e si presta a grandi pacche sulle
spalle e capisce: ‘El pequeno Guillermo’.
Ang
Certo che sto film di Del Toro è una
bella paraculata verso il genere femminile. Donne: chi di voi nella
sua vita non si è mai innamorata del genere mostro che magna
proteine, non parla e quando se fa la doccia schizza tutto? Certo,
non vi nascondo che vederlo nella versione Barbie, cioè privo degli attributi, mi ha fatto un po’
vacillare. Ma vuoi mettere, quando scopri che ha l’optional ‘pigia
il tasto, apri la botola e srotola?’ Dovremmo rinunciare a fa
quelle elegantissime battute da signorine perbene ‘hai un coniglio
nella tasca o sei solo contento di vedermi?’, ma i vantaggi
estetici sono tanti. Comunque il film – anche per me – è
bellissimo, e mi ha fatto dimenticare un po’ di brutture di ieri
sera, tipo che anche ai Leoni lo Spritz non è accompagnato dalle
solite chips, ma te fanno ubriaca’ a stomaco vuoto e strisciare
dopo in sala. In più non sono riuscita a vedere il film che
sicuramente vincerà (First Reformed) perché,
nonostante la nostra super puntualità, la sala era piena.
E non lo dico per i commenti post
sala di illustri colleghi, che come al solito sono sempre cauti e
morigerati (Capolavoro! Leone subito! Premi supplementari! Borghi!
Marinelli! – così, a cazzo – Sai com’è siamo al secondo giorno di
festival e di La La Land ce ne è uno solo, forse
anche ma menomale), ma perché non l’hanno visto nemmeno Ang e
Chiara, e se c’è una cosa che i festival ci insegnano, a parte che
se sei con la Carducci, trovi sempre un pasto caldo, è che loro
storicamente non vedono mai la pellicola premiata. Ad ogni modo
prima di andare al fantastico party, abbiamo ripiegato su un altro
film della sezione Orizzonti, pur di non saltare una proiezione. Il
film in questione è Espèces menacées, in una sala
casinò fredda come le vetrine de sushi dei supermercati. Per onestà
mi duole dire che abbiamo googlato il titolo, un po’ perché il
francese lo parlo e sto titolo me suonava malissimo (tipo trappola
esorcistica dello scorso anno) un po’ perché non volevamo roba da
presa a male. Primo risultato: un panda. Annamo bene. Con tutto il
rispetto per questo delizioso animaletto, l’idea di passare due ore
in una cella frigorifera a guardare un documentario su come i panda
falliscono nel riprodursi era veramente troppo da sopportare. Poi
abbiamo deciso di aggiungere ‘film’+‘venezia’, e abbiamo scoperto
invece una pellicola interessante, se non fosse per quei fastidiosi
personaggi che dopo un po’ te facevano venì voglia di pigliare a
capocciate lo schermo. D’altronde come rimanere inerme davanti a un
padre che vede la figlia gonfiata come na zampogna dal marito
stronzo e strafottente e non fa una mazza di concreto se non nel
finale, e pure sul finale riesce a farsi odiare? Ma questo è un
blog cazzone, e le tematiche serie le lasciamo agli altri sennò ci
arrabbiamo, qua invece (sempre se la mia vicina di casa ce lo
permette, vedi post precedente) ce piace ride. In chiusura vi
segnalo che ieri mentre facevo pipì nei cessi dell’Excelsior, che
mi ha insegnato Ang, essere terra franca dai germi dove ancora vige
questa regola civilissima del classismo e riesco a non prendermi
tipo la malaria, ho incrociato Zucchero. Il perché
ce lo chiediamo tutti, sarebbe interessante se Nolan ci sviluppasse
attorno un soggetto. Forse è un gran cinefilo, anche se fonti certe
l’hanno sentito mentre rilasciava la seguente dichiarazione
‘soccia quanta figa’. Premi supplementari e
collaterali anche per lui. Noi invece ci vediamo domani.
Durante la conferenza stampa di
presentazione, al Festival di Venezia, di The Shape
of Water, Guillermo Del Toro ha avuto
modo di commentare anche lo stato di produzione del suo film in
stop-motion su Pinocchio.
Ecco cosa ha raccontato alla
gremita sala conferenze del palazzo del Casinò: “Ho i
pupazzi e i concept pronti ma mancano i soldi. È anche vero che
tendo a complicarmi la vita da solo, perché quando volevo fare
Hellboy a nessuno piaceva l’idea di un film di supereroi, per
Pacific Rim nessuno voleva vedere robot giganti combattere contro
mostri e per il Labirinto del Fauna, nessuno voleva produrre un
film su quel periodo della storia di Spagna. Ammetto che volendo
raccontare la storia di un Pinocchio anti-fascista durante l’ascesa
di Mussolini, anche io non mi rendo la vita facile. Mi servono 35
milioni di dollari. Se li aveste voi fareste di me un messicano
contento.”
New entry e volto noti compongono
la foto di gruppo di
Kingsman: il Cerchio d’Oro che è stata scattata da
People Magazine e che potete vedere di seguito.
Da sinistra verso destra:
Pedro Pascal, Halle Berry, Channing Tatum, Taron Egerton,
Mark Strong, Colin Firth, Jeff Brodges, Julianne Moore e
Elton John.
La sinossi
di Kingsman: Il Cerchio
d’Oro
Kingsman The Secret Service ci
ha introdotti al mondo dei Kingsmen, un’agenzia indipendente
internazionale che opera ad altissimi livellidi discrezione, il cui
obbiettivo ultimo e tenere il mondo al sicuro.
In Kingsman
Il Cerchio d’Oro, i nostri eroi affrontano una
nuova sfida. Quando le loro basi vengono distrutte e il mondo è
preso in ostaggio, il loro viaggio li porta a scoprire una alleata,
un’agenzia americana chiamata Statesman. Nella nuova avventura che
mette alla prova le loro forze, queste due associazioni devono
fronteggiare un nemico senza scrupoli per salvare il mondo, una
cosa che per Eggsy sta diventando quasi un’abitudine…
Ecco una versione retrò, corretta ad
hoc, del trailer di Justice League, in cui al fianco di
Batman e Flash, vediamo RoboCop, Xena e persino l’eroe con le
branchie di Kevin Costner in Woterworld.
Ecco il primo
trailer di Justice
League dal Comic Con
Justice League sarà
diretto da Joss Whedon, che ha sostituito
alla fine della produzione Zack
Snyder, ed è previsto per il 10 novembre 2017. Nel
film vedremo protagonista Henry Cavillcome
Superman, Ben
Affleckcome Batman, Gal Gadotcome
Wonder Woman, Ezra Millercome
Flash, Jason
Momoacome Aquaman, e Ray
Fishercome Cyborg. Nel cast confermati
anche: Amber Heard, Amy Adams, Jesse Eisenberg, Willem
Dafoe, J.K. Simmons e Jeremy
Irons. I produttori esecutivi del film
sono Wesley Coller, Goeff
Johns e Ben
Affleck stesso.
Trai titoli più attesi di Venezia
74, The Shape of
Water ha segnato il ritorno di Guillermo Del
Toro ad atmosfere congeniali, a una storia semplice, alla
fiaba macabra, al suo amore, puro e cristallino, per il cinema.
Accompagnato dal suo cast
(Sally Hawkins, Octavia Spencer e Richard
Jenkins), il regista messicano ha definito il suo film un
antidoto al cinismo dei nostri giorni, proprio grazie alla sua
genuina natura di fiaba. “Dovremmo scegliere l’amore al posto
della paura. La paura sta prendendo il sopravvento nel nostro
mondo.”
D’altronde la fiaba è sempre stato
il modo prediletto per raccontare grandi storia secondo Del Toro,
che aggiunge: “Il cinema di oggi è fissato nelle indicazioni di
tempo e luogo, nella fiaba invece c’è il ‘C’era una volta’ e questo
la rende indeterminato e per questo sempre attuale.”
La musica di The Shape of Water
L’ambientazione del film è quella
dell’America degli anni ’60, tuttavia un miscuglio di atmosfere,
musiche e colori conferisce alla storia una atemporalità sospesa,
che è stata ottenuto con il lavoro congiunto di una fotografia
meticolosa insieme allo spettacolare lavoro di composizione
musicale di Alexander Desplat.
“Il colore è importantissimo
nel film. Bisogna avere sempre un’idea chiara di quello che si
vuole, ma poi si deve anche lavorare a ciò che viene dalla
collaborazione e dal confronto. Tutto ciò che circonda Eliza è
verde e azzurro, come fosse una presenza sottomarina, mentre il
rosso non c’è mai, ma rappresenta l’amore e lo vediamo nelle sue
scarpe, nel vestito, nelle poltrone del cinema, ma non prima. Il
lavoro con la luce è stato meticoloso. La scena della vasca, ad
esempio, ha richiesto sei ore solo per l’illuminazione.”
Le musiche invece sono state
costruite sull’esempio, tra gli altri, del lavoro di Nino
Rota, sull’onda delle emozioni. Lo stesso Desplat ha
registrato di sua propria bocca un fischio, scelto come “strumento”
che riuscisse a cavalcare l’onda delle emozioni veicolate dal film
stesso.
La Bella e la Bestia
Nell’ambito della fiaba, Del Toro
spiega: “Il film ripercorre La Bella e la Bestia, ma ci sono due
versioni di quella storia, una casta e romantica, l’altra violenta
e torbida. A me non interessava nessuna delle due, io volevo
raccontare una via di mezzo, perché la realtà è estremamente più
complicata di così. La stessa Eliza è un personaggio completo, una
donna normale che vive normalmente la sua sessualità, esiste ed è
normale che sia così.”
Per quanto riguarda l’ambientazione
invece, il regista ha spiegato: “Credo si tratti di
quell’America piena di promesse a cui si riferisce chi dice di
voler renderen ‘l’America grande di nuovo’. Era un periodo ricco di
promesse e aspettative, c’erano molte cose belle ma non erano per
tutti. La creatura rappresenta quell’alterità che io conosco bene
da messicano che lavora anche in America. Si tratta di un mondo
difficile in cui solo l’amore può essere una cosa abbastanza forte
da salvare le persone. Sembra una frase assurda nel mondo cinico di
oggi ma lo dicevano i Beatles e lo diceva Gesù, e credo sia
difficile che si siano sbagliati entrambi.”
Hawkins, Spencer e Jenkins
A interpretare la protagonista, una
donna orfana e muta, c’è Sally Hawkins, che con un
lavoro magistrale consegna al cinema uno dei suoi migliori
personaggi femminili degli ultimi anni. “Guillermo è molto
generoso e alcune cose accadono esattamente quando devono accadere.
Come l’incontro con lui, ad esempio. Io stavo scrivendo una storia
su una donna che non sa di essere una sirena, e di punto in bianco
arriva la chiamata del mio agente, che mi propone di lavorare a una
storia, non ancora scrittza, pensata da Guillermo Del Toro, in cui
si parla proprio di uomini pesce. Le idee si sono sovrapposte. È
molto raro quando le cose coincidono in questo modo.”
Per Octavia
Spencer, che nel film è Zelda, una donna delle pulizie, si
è trattato di tornare indietro al personaggio che le ha regalato
l’Oscar in The Help. L’attrice però ha spiegato:
“Minni era una donna molto intelligente che però non aveva la
sua voce. Con Zelda ho ritrovato un personaggio che pur essendo più
disciplinato di Minni, ha una voce propria, e la utilizza per darla
anche alla sua coraggiosa migliore amica, Eliza.”
A completare il novero degli
ospiti, Richard Jenkins è intervenuto lodando in
particolar modo lo script di The Shape of Water.
L’attore è il vicino di Eliza; artista solitario e problematico, ma
anche lui in cerca di affetto. “Tutto ciò che di buono ho fatto
per il personaggio era nella sceneggiatura. Guillermo mi ha mandato
la sceneggiatura e mi ha detto ‘dimmi se ami questo personaggio
quanto lo amo io’, e il risultato è stato amore a prima
lettura.”
Del Toro è famoso per scrivere
delle biografie per i suoi personaggi e The Shape of
Water non fa differenza: “Ho scritto delle biografie
per ognuno di loro, tranne che per il personaggio di Sally e per la
creatura. Con Sally ho lavorato gomito a gomito, abbiamo creato
insieme Eliza. Per la creatura invece ho fatto un lavoro diverso.
Se ci fate caso non ha neanche nome, e questo perché per ognuno
rappresenta una cosa diversa, una specie di Teorema di
Pasolini.”
Il futuro e
Pinocchio
Nonostante al Lido The
Shape of Water sia stato acclamato come il grande ritorno
di Del Toro, il regista ha altri progetti estremamente nelle sue
corde in cantiere, come il film in stop-motion su
Pinocchio. “Ho i pupazzi e i concept pronti ma
mancano i soldi. È anche vero che tendo a complicarmi la vita da
solo, perché quando volevo fare Hellboy a nessuno piaceva l’idea di
un film di supereroi, per Pacific Rim nessuno voleva vedere robot
giganti combattere contro mostri e per il Labirinto del Fauna,
nessuno voleva produrre un film su quel periodo della storia di
Spagna. Ammetto che volendo raccontare la storia di un Pinocchio
anti-fascista durante l’ascesa di Mussolini, anche io non mi rendo
la vita facile. Mi servono 35 milioni di dollari. Se li aveste voi
fareste di me un messicano contento. ”
Ad un anno di distanza da
chiacchierato Dog Eat
Dog, il regista Paul Schrader torna
ad interrogarsi sulla natura umana e sui vizi e le virtù dell’uomo
di oggi. La sua ultima fatica cinematografica dal titolo
First Reformed, segue le vicende del pastore
Toller, magistralmente interpretato da Ethan Hawke, in preda ad una violenta crisi di
fede.
Sconvolto dalla morte del figlio e
dalla conseguente distruzione della sua famiglia, Toller cerca di
andare avanti meglio che può e di essere sempre un punto di
riferimento per i suoi parrocchiani. Ma l’improvviso suicidio di un
giovane attivista scatenerà in lui una forza oscura e distruttiva
che lo spingerà a prendere decisioni pericolose ed estreme.
Ancora una volta quindi
Paul Schrader, pur non prendendo posizione, ci
racconta la sua visione del mondo contemporaneo e della pericolosa
condizione dell’essere umano costretto a vagare per la terra senza
più punti di riferimento. “Non credo che l’umanità abbia ancora
tanti secoli davanti. Se avete speranza vuol dire che non prestate
attenzione”. Queste sono le ultime lapidarie parole del
regista durante la conferenza stampa, parole che hanno gelato il
sangue dei presenti ma che hanno anche chiarito il suo punto di
vista; per Schrader l’uomo è destinato all’estinzione e non c’è
proprio nulla che si possa fare per invertire il processo.
First Reformed, il film
In un mondo in cui il caos regna
sovrano e l’essere umano sembra aver perso ogni speranza e
certezza, la missione di redenzione del pastore Toller sembra
destinata al fallimento. Da anni a capo di un’antica chiesetta di
periferia, Toller (Ethan
Hawke) sembra attraversare una sorta di crisi mistica
ed esistenziale; così mentre la sue fede vacilla, si ritrova a
dover aiutare una coppia di giovani sposi in crisi. Ma l’incontro
con Mary (Amanda
Seyfried) e Michael spingerà il pastore verso una
strada senza ritorno.
Il grande regista Paul
Schrader torna ad incantare il suo pubblico presentando un
film che è un vero e proprio dramma in crescendo. Attraverso il
diario segreto del pastore Toller entriamo in un mondo fatto
rimpianti e sensi di colpa ma soprattutto di dolore, una sofferenza
celata per troppo tempo dall’abito nero e dal colletto bianco che
adesso scalpita per uscire allo scoperto. Non si tratta infatti
solo di un pastore la cui fede viene a mancare ma di un uomo troppo
pieno di rabbia e frustrazione, deluso dalla vita, alla ricerca
della salvezza. Il dolore per la perdita del figlio durante la
guerra in Iraq e il successivo abbandono della moglie, hanno
trasformato l’ex militare e pastore in una vera e propria bomba ad
orologeria. Senza fede e speranza dalla sua parte Toller sembra
aver perso la bussola e vaga per il mondo alla ricerca di una nuova
missione, un nuovo e più alto scopo che ridia senso alla sua
vita.
Questa opportunità di riscatto gli
viene offerta da Mary che, come una dolce tentazione, lo spinge a
considerare cose che prima non avrebbe mai neppur osato immaginare.
Così mentre il pastore tenta (invano) di aiutare Michael a
ritrovare la retta via, riscopre alcune piccole voglie sopite e si
abbandona a piaceri e pulsioni terreni. Le atmosfere sono cupe e
silenziose, lo spazio circoscritto e quasi claustrofobico, i tempi
lenti e dilatati, tutti elementi che mirano ad esasperare il rigore
estetico di Schrader che questa volta risulta funzionale alla
storia. Sin dalla prima inquadratura – un bellissimo piano sequenza
della First Reformed all’alba, avvolta da una
leggera nebbia – si percepisce un’atmosfera carica di tensione che
accompagna lo spettatore per tutta la durata del film e che
raggiunge il suo culmine in un finale però un po’ deludente e non
all’altezza delle aspettative. Nonostante infatti il regista ci
fornisca un ritratto decisamente pessimistico della condizione
umana, le sue convinzioni non trovano corrispondenza nella
conclusione un po’ troppo leziosa e buonista. Ma in effetti è
proprio questo il messaggio del regista; per Schrader come per
Toller non esistono mezze misure e le uniche due vie di fuga sono
la morte e l’espiazione dei peccati attraverso la forza
dell’amore.
Un film duro quello di Paul
Schrader che non conosce mezze misure e che non ha bisogno
di servirsi di inutili sovrastrutture estetiche per promuovere il
suo messaggio nefasto; i pessimisti si lasceranno cullare dalle
atmosfere spettrali di First Reformed e gli
inguaribili ottimisti vedranno nel finale un barlume di
speranza.
The Hollywood
Reporter ci informa che Lily Collins è entrata
a far parte del biopic su Tolkien (e
al momento così intitolato), nei panni di Edith
Bratt, la moglie del Professore.
I due sono seppelliti vicini, e
sulle loro tombe, a imperitura memoria del loro amore, sono incisi
i nomi di Beren e Luthien, l’uomo e l’elfa che si amarono e che
diedero vita alla stirpe di Aragorn e Arwen.
A interpretare Tolkien è stato
confermato Nicholas Hoult.
J.R.R. Tolkien: in lavorazione un nuovo biopic diretto da Dome
Karukoski
Diretto da Dome Karukoski, il film
biografico sarà incentrato sugli anni formativi del Professore,
noto ai più per aver creato la Terra di Mezzo. Il film è stato
scritto da David Gleeson e Stephen
Beresford e racconterà gli anni della formazione, in cui
J.R.R. Tolkien incontra
l’amicizia, l’amore e l’ispirazione per la letteratura, prima della
Prima Guerra Mondiale.
A produrre la Chernin
Entertainment insieme alla Fox
Searchlight.
Con Casa d’altri,
in una manciata di minuti, Gianni Amelio
costruisce un suo affresco personale per ricordare il terremoto di
Amatrice, avvenuto esattamente un anno fa e sensibilizzare così il
pubblico, invitandolo a riflettere, a non speculare e soprattutto a
non dimenticare.
Tra personaggi costruiti, frutto di
fantasia, e testimonianze reali, il regista si muove tra le macerie
di un paese ormai morto, fatto solo di rovine e di persone che si
aggirano come fantasmi, alla ricerca di un passato spazzato via in
una notte, nel giro di pochi secondi. Compie dei lunghi
camera car tra i detriti ammucchiati, si sofferma sulla costruzione
delle casette in legno ancora non terminate e consegnate, punta il
dito sulla nuova terribile moda del turismo catastrofico, verso
quelle persone prive di sensibilità che anelano a scattarsi un
selfie davanti a una casa crollata o a una nave da crociera
affondata.
Vediamo terremotati che non hanno
più nulla, una maestra d’asilo che racconta come i bambini
immaginino sia morire schiacciati e soffocati tra le macerie della
propria casa, chi invoca e pretende comprensione e rispetto, chi fa
un paragone con quanto vissuto in Africa, riuscendo a stento a
trattenere le lacrime.
La casa d’altri è
un documento importante per ricordare una delle tante, troppe
catastrofi di casa nostra, enormemente rilevanti appena accadute,
quanto poi subito dimenticate dopo poco tempo. Forse, dal punto di
vista cinematografico non spicca per scelte stilistiche originali o
caratterizzazioni autoriali che avrebbero potuto rendere il
cortometraggio di Amelio ancora più convincente.
Dopo Pacific Rim
(2013) e Crimson Peak (2015), due film molto
importanti, ma per ovvie ragioni produttive non completamente
sinceri, Guillermo Del Toro torna a dedicarsi con
grinta e infinita passione a un progetto molto intimo e personale,
sfornando The Shape of
Water, un meraviglioso oggetto cinematografico dalla
forma tanto potente quanto impalpabile, fatto della stessa essenza
dell’acqua, intriso di poesia e trasudante amore per il cinema, per
le fiabe e per le immagini.
The Shape of Water come La Bella e la Bestia
La storia narrata è un B&B,
ovvero l’ennesima (ma riuscitissima) rivisitazione della fiaba
della Bella e la Bestia, un inno alla diversità e all’orgoglio di
essere diversi, rompendo a tutti i costi schemi e pregiudizi. La
bestia in questione è una creatura anfibia metà uomo e metà pesce,
simile per molti aspetti a quella de Il Mostro della laguna
Nera (1954), mentre la bella è una timida e muta addetta
alle pulizie di un centro governativo dove si effettuano studi
scientifici ed esperimenti strambi, durante il periodo della Guerra
Fredda.
Nel film si affronta il
tema della diversità sotto ogni sfaccettatura, dalla mostruosità
alla differenza di genere, dall’omosessualità al razzismo, dal
classismo al bullismo. Tutto questo con una leggerezza naturale
inusuale, con un tocco felice che non fa mai sentire la forzatura
dello sfiorare tematiche così delicate. Ma è soprattutto una storia
d’amore, una grande storia d’amore, che commuove, fa riflettere e
soprattutto ricorda che l’amore può sormontare e far crollare
qualsiasi barriera, fisica o mentale che questa possa essere. A
tratti si avvertono anche gli echi lontani, ma sempre attuali del
Romeo e Giulietta di
Shakespeare.
Del Toro, proprio a proposito
dell’amore afferma: “Le favole sono nate in tempi difficili e
complessi, quando la speranza sembrava perduta. Ho realizzato
The Shape of
Water come antidoto al cinismo. Personalmente
ritengo che quando parliamo di amore – quando crediamo nell’amore –
lo facciamo in modo disperato. Temiamo di apparire ingenui e
perfino falsi. Ma l’Amore è reale, assolutamente reale; e, come
l’acqua, è la forza più gentile e più potente dell’Universo. È
libero e senza forma fino a quando non fluisce nel soggetto al
quale è destinato, fino a quando non lo si lascia entrare. I nostri
occhi sono ciechi, ma lo stesso non si può dire della nostra anima.
Riconosce l’amore in qualsiasi forma arrivi a noi”.
L’esplorazione del sesso
E insieme all’amore in The Shape of
Water entra di prepotenza anche il sesso, troppe volte
dimenticato o volutamente rimosso dai mercanti di fotogrammi per la
paura di togliere poesia, sentimento, per il terrore smodato di
andare ad infrangere quelle regole bigotte imposte da chissà chi. E
invece il bisogno di contatto fisico, di vivere liberamente senza
pregiudizi la propria sessualità diventa un elemento fondamentale
della storia, facendo apparire i protagonisti incredibilmente vivi
e quindi credibili. I corpi si spogliano, si toccano, cercano
piacere e non importa se si tratti della pelle pallida di una
giovane donna, delle umide squame di un pesce o del corpo che
invecchia di un uomo ormai solo. Il corpo, il sesso, la
riproduzione, l’anatomia, l’invecchiamento, il disfacimento, la
decomposizione, sono i tanti tasselli di cui si compone questo
delicato racconto.
The Shape of Water
è il decimo lungometraggio del regista messicano e si inserisce tra
quelli che maggiormente lo caratterizzano come uno degli autori
visionari più importanti dei nostri tempi, con uno stile e una
poetica così riconoscibili da riuscire ad imporli anche a livello
commerciale.
Tra Tim Burton e Terry Gilliam
La cosa che più stupisce di Del
Toro è che, estremamente consapevole delle sue pulsioni e istanze
espressive, riesce a domarle, a tenerle addomesticate, riuscendo a
narrare con stile disinvolto, senza mai eccedere o cadere
nell’auto-manierismo, come purtroppo avviene per il buon caro
vecchio Tim Burton, al quale, per ovvie ragioni
non è possibile evitare di accostarlo. Ed è gustosissimo cogliere
una stoccatina, o forse un avvertimento, o semplicemente solo un
consiglio al suo macabro collega. Questo avviene nella parte
iniziale del film, dove uno dei personaggi, commentando un incendio
alla vicina fabbrica di cioccolato dice più o meno così: “E’ un
disastro, ma l’odore del cioccolato bruciato e pur sempre
meraviglioso”. E del Toro sembra anche rimanere immune dagli
eccessi scriteriati incontrollabili che affliggono un altro suo
collega di affabulazioni visionarie, Terry
Gilliam.
The Shape of Water
è un progetto relativamente economico per gli standard a cui è
abituato Guillermo Del Toro sia come regista che
come produttore. Infatti è costato solamente (si fa per dire)
19 milioni di dollari, grazie anche alla rinuncia a grossa
parte del suo compenso, in modo da convincere la Fox
Searchlight a sostenerlo nell’impresa. La pellicola si
pone quasi come completamento di quella trilogia composta da
La Spina del Diavolo (2001) e Il Labirinto
del Fauno (2006), per la quale era prevista una naturale
terza parte, ma poi mai realizzata. E al tempo stesso si nutre di
elementi creati per i due capitoli di HellBoy
(2004 – 2008), tanto come atmosfera, che come personaggi e
creature. Si avvertono anche innumerevoli omaggi al cinema, dai
mostri della Universal, ai film della Hammer, dai musical degli
anni cinquanta alle pellicole di fantascienza e i B-movie.
E si coglie anche un affettuoso
omaggio all’Amelie Poulain di Jean Pierre
Jeunet, a cominciare dalla protagonista Elisa,
interpretata da una bellissima, bravissima e sensuale Sally
Hawkins, passando per la caratterizzazione del suo vecchio
amico illustratore, che ricorda inequivocabilmente il pittore con
le ossa di vetro del film francese. Anche le scenografie di
molti ambienti, il gusto visivo di alcune scene, i colori e la
fotografia rimandano la memoria indietro nel tempo a quel film. Ma
sono piccoli riferimenti, omaggi voluti e sentiti, perché la
potenza espressiva e l’originalità di Guillermo del
Toro sono assolutamente meravigliose e fuori
discussione.
Chi ha seguito dall’inizio le
vicende cinematografiche di Iron Man, ricorda bene
in che condizioni il genio Tony Stark ha costruito la sua Mark I,
la prima armatura di Iron Man.
Grazie a un concept inutilizzato
condiviso su Instagram da Ryan
Meinerding, possiamo ammirare una versione alternativa
dell’armatura che ha permesso a Stark di fuggire dalla sua
prigione.
La sinossi: Mentre
gli Avengers continuano a proteggere il mondo da minacce
troppo grandi per un solo eroe, un nuovo pericolo emerge dalle
ombre cosmiche: Thanos. Despota di intergalattica scelleratezza, il
suo scopo è raccogliere le sei gemme dell’Infinito, artefatti di un
potere sconfinato, e usarle per piegare la realtà a tutto il suo
volere. Tutto quello per cui gli Avengers hanno combattuto ha
condotto a questo punto – il destino della Terra e l’esistenza
stessa non sono mai state tanto a rischio.
Avengers
Infinity War arriverà al cinema il 4 Maggio
2018. Christopher Markus e Stephen
McFeely si occuperanno della sceneggiatura del film,
mentre la regia è affidata a Anthony e Joe
Russo.
Il cast del film al momento è
composto da Cobie Smulders, Benedict Cumberbatch,
Chris Pratt, Vin Diesel, Scarlett Johansson, Dave Bautista, Karen
Gillan, Zoe Saldana, Brie Larson, Elizabeth Olsen, Robert Downey
Jr., Sebastian Stan, Chris Hemsworth, Chris Evans, Tom Holland,
Bradley Cooper, Samuel L. Jacksson, Jeremy Renner, Paul Rudd, Peter
Dinklage, Mark Ruffalo, Josh Brolin, Paul Bettany, Benedict
Wong, Pom Klementieff e Chadwick
Boseman.
Niente più scene pericolose
per Daniel Craig. Pochi giorni dopo aver confermato il suo
ritorno nei panni di James
Bond, l’attore inglese ha annunciato che abbandonerà gli
spericolati stunts degli ultimi film, per lasciarli agli
stuntmen professionisti. Per sua stessa ammissione, il fattore
determinante è stato la volontà della moglie, l’attrice
Rachel Weisz, preoccupata per i pericoli incorsi
dal marito sul set.
Craig, 49 anni, ha interpretato
l’agente speciale 007 negli ultimi quattro film della saga. Ha
cominciato nel 2006 con Casino Royale, adattamento del
primo romanzo di Ian Fleming, per poi proseguire con
Quantum of Solace (2008), Skyfall (2012) e Spectre (2015).
Nove anni di Bond, però, hanno
lasciato il segno. Daniel Craig è uno dei pochi attori che non
ricorre mai a controfigure per le scene d’azione. In questo club è
in buona compagnia (Jason
Statham, Tom Cruise, Matt Damon) ma è in assoluto il
primo fra i James Bond. “Con Sean Connery, a meno che non lo
vedessi in faccia era una controfigura” ha raccontato Gary Powell,
coordinatore degli stuntmen in Quantum of Solace e Casino Royale.
“Daniel invece pensa: “state pagando per vedere me, ed eccomi qua”.
Vuole che il pubblico lo sappia.”
L’amore per il realismo ha avuto le
sue conseguenze. Come raccontava lo stesso Craig due anni fa al
Graham Norton Show, “sul set di Spectre mi sono infortunato al
ginocchio e mi hanno dovuto operare, mi hanno ricostruito la spalla
destra e operato all’altro ginocchio, e poi mi sono fatto male al
pollice.”
Questi infortuni però sono solo gli
ultimi di una lunga serie. I dolori sono cominciati nel 2005,
quando Craig si è rotto due denti filmando il primo stunt di
Casino Royale. Il danno era così grave che il suo
dentista ha dovuto prendere un volo da Londra per incapsulargli i
denti.
A questo hanno fatto seguito una
serie di infortuni sul set di Quantum of Solace,
nel 2008, inclusa una botta al volto che ha richiesto l’intervento
di un chirurgo plastico. Si è anche tagliato la falange di un dito,
distorto un muscolo della spalla e incrinato delle costole.
I due infortuni al ginocchio sul
set di Spectre sono stati la ciliegina sulla torta. I produttori
hanno pensato di fermare le riprese per sei mesi, ma Craig ha
insistito per tornare sul set dopo due settimane.
Per questa ragione, quando il
marito ha accettato di vestire i panni di 007 per la quinta volta
(numero che lo mette alla pari con Sean Connery, ma dietro Roger
Moore) Rachel Weisz gli ha chiesto di lasciar fare agli stuntmen.
Soprattutto considerando
il recente infortunio di Tom Cruise sul set di Mission
Impossible 6.
Il titolo provvisorio del film è Shatterhand, e
sarà basato sul romanzo del 2001 Never Dream of Dying,
scritto da Raymond Benson. Benson è autore di tre
romanzi di Bond, adattamenti di altrettanti film, ma questo è il
suo primo romanzo a fare il percorso inverso.
C’è ancora incertezza, invece, sul
nome del regista. Gli ultimi due film, diretti da Sam
Mendes, hanno incassato complessivamente 2 miliardi di
dollari.
Arriva oggi in sala Dunkirk,
il nuovo film di Christopher Nolan che racconta
l’evacuazione della famosa spiaggia francese, durante la Seconda
Guerra Mondiale.
Dunkirk
sarà ambientato durante la Seconda Guerra
Mondiale, e si concentrerà sulla cronaca dell’evacuazione
di Dunkerque nel 1940, nota anche come Operazione
Dynamo. La Warner Bros. Pictures
distribuirà in tutto il mondo il film il 21 Luglio 2017, il 31
agosto in Italia. L’evacuazione si svolse dal 27 maggio al 4
giugno: truppe francesi, inglesi e belghe erano rimaste circondate
dalle forze tedesche. Circa un milione di soldati. Alla fine
dell’operazione se ne salvarono 330 mila grazie alla fuga via mare
verso la Gran Bretagna.
Oggi è anche il gran giorno di che
presenta Paul Schrader in concorso a Venezia
74 First Reformed che vede
protagonisti Amanda Seyfried e Ethan
Hawke.
First
Reformed racconta di di un ex cappellano
militare (Ethan Hawke) che, dopo aver perso suo figlio, ama una
donna (Amanda Seyfried) che soffre anche dalla perdita del marito.
La sua vita da cappellano però lo porta a covare sospetti sugli
affari della chiesa fino ad arrivare in profondità e
conoscere i segreti nascosti della complicità della sua chiesa
con le corporazioni non etiche”
Sarà presentato invece fuori
concorso oggi Zama della regista argentina
Lucrecia Martel che vede protagonisti tratto
dal romanzo di Antonio Di Benedetto.
Il film racconta quello che
accade a Don Diego de Zama (Daniel Giménez Cacho), un impiegato del
governo che rimane bloccato in Paraguay, distante dalla sua
famiglia. Con il passare del tempo l’uomo diventa sempre più
violento e frustrato.
“È un dramma ambientato nel
1963, non è un film di fantascienza, non è un film di
genere ma io interpreto comunque una creatura. Sono una specie di
pesce umano, un enigma, nessuno da dove vengo, sono l’ultimo della
mia specie quindi è come se fossi un’anomalia naturale. Sono stato
studiato e testato in una struttura governativa degli USA nel 1963,
quindi durante la Guerra Fredda con la Russia, la corsa allo
spazio, quindi c’è tutto un background da raccontare. Sono stato
testato per cercare di misurare che tipo di potenzialità potevo
avere contro il nemico, per usarmi come vantaggio militare o per i
viaggi nello spazio, o per la tecnologia. Possiamo usarlo a favore
degli umani? Quindi provano a tenermi segreto dai Russi.”
Una storia d’amore al centro
di The Shape of Water
Il cast di The Shape of
Water include Sally
Hawkins (Blue
Jasmine, Happy-Go-Lucky), il
candidato all’Oscar Michael
Shannon (Revolutionary
Road, 99 Homes), il candidato
all’Oscar Richard
Jenkins (The Visitor, Olive
Kitteridge), Doug
Jones (Crimson
Peak, Hellboy), il candidato al
Golden Globe Michael
Stuhlbarg (A Serious
Man, Steve Jobs) e la
vincitrice dell’Oscar Octavia
Spencer (The
Help, Gifted).
A quattro anni dal brillante e
toccante Nebraska, Alexander
Payne torna a portare sul grande schermo la sua penna
leggera in grado di fotografare la realtà e trattarla con un punto
di vista distaccato ma attento e sensibile; lo fa con
Downsizing, film scelto dalla commissione di
Alberto Barbera per aprire la 74° Mostra d’Arte
Cinematografica di Venezia. All’apparenza, Payne sconfina nella
fantascienza, allontanandosi dai suoi temi relativi all’analisi
lucida ma mai cinica della società americana. Tuttavia,
avvicinandoci alla storia dalle premesse inevitabilmente sci-fi, ci
accorgiamo che il regista di Paradiso Amaro ha
trovato un modo alternativo per continuare a parlare
dell’umanità.
In un ipotetico futuro, uno
scienziato norvegese scopre un processo che permette di
miniaturizzare gli esseri viventi. Tale tecnica, applicata alle
persone, potrebbe produrre degli effetti straordinari
sull’ambiente, sulla tutela e sulla salvaguardia del Pianeta Terra.
La scoperta prende così piede e dopo circa dieci anni è possibile,
per chiunque lo voglia, avviare il processo di miniaturizzazione
irreversibile che permetterà alle persone di trasferirsi in
comunità adibite appositamente per questi “minuscoli”. Paul, un
cittadino medio, con una vita media, decide di realizzare la
pratica su se stesso, ma quando sul più bello la moglie lo
abbandona, rinunciando a farsi miniaturizzare, l’uomo rimane solo,
nella sua nuova dimensione, e deve cominciare tutto dall’inizio.
Qualche incontro fortuito gli offrirà un nuovo punto di vista e lo
porrà in maniera diversa rispetto al mondo.
Downsizing – la recensione
Il racconto di Payne si compone di
diversi elementi: dalla trama fantascientifica di base partono le
ramificazioni che ci portano a riflettere sull’inquinamento,
sull’utilizzo della tecnologia, sul “semplice” scorrere della vita
e sulla canonica (ma neanche troppo) storia d’amore. Matt Damon riesce con convinzione a
interpretare l’uomo medio che, sebbene si sforzi di cercare un
senso più alto alla sua sorte, rimane nella sua giusta mediocrità,
svolgendo il suo compito con precisione, fondamentalmente spinto da
uno spirito più integro e forte, che però non è il suo. Payne si
avvale di uno stuolo di attori famosi e amati, che utilizza
sorprendentemente in piccolissimi ruoli, a partire da Margo
Martindale, irriconoscibile nella sua “dimensione”,
passanto per Laura Dern, Neil Patrick Harris e Jason Sudeikis, fino a Christoph Waltz, unico volto famoso (Damon a
parte) ad avere un ruolo più corposo ma da perfetta macchietta.
Scoperta del film è senza dubbio
l’energica Hong Chau, nei panni di una dissidente
vietnamita che sconvolge gli ordini mentali del protagonista.
L’atipica co-protagonista diventa quindi una donna che, in un film
“normale”, sarebbe stata relegata al ruolo di comprimaria e che
invece Payne ha il coraggio di trasformare in personaggio femminile
di rilievo, efficace e importante per lo sviluppo del protagonista.
L’idea brillante iniziale di Downsizing si
annacqua con lo scorrere dei minuti e l’aggiunta di diverse trame e
strati che forse spostano troppo verso il realismo l’originale
surrealismo del presupposto. Si conserva, anzi si accentua, invece,
il doppio registro tragicomico. Lo humor sottile e costante si
dipana lungo tutta la storia, aiutando lo spettatore a digerire il
lungo pasto, purtroppo mancante di sale.
Oltre quaranta anni dopo la
realizzazione del suo film più famoso, L’Esorcista
(1973), William Friedkin si interroga, usando il
linguaggio del documentario e del diario filmato, su quel tema che
aveva affrontato in maniera istintiva e senza la preparazione
culturale ed emotiva che a suo stesso avviso avrebbe richiesto: il
risultato è The Devil and Father Amorth.
Per indagare sceglie di seguire una
vera superstar della lotta al demonio, ovvero Padre
Gabriele Amorth, esorcista del Vaticano e della
Diocesi di Roma da trentacinque anni. Lo segue durante i rituali di
uno dei suoi ultimi casi, una ragazza arrivata al ragguardevole
traguardo del nono esorcismo.
L’Esorcista è un
vero e proprio capolavoro, sia per gli amanti dell’horror che per
un pubblico più evoluto, alla ricerca di contenuti, riflessioni e
sguardo d’autore. Ha aperto la strada a un genere del tutto
particolare, incentrato sulla possessione diabolica e sulla lotta
al maligno. A detta di Friedkin, lo stesso padre Amorth si
complimentò con lui, dicendogli che fosse il suo film preferito e
ringraziandolo per aver contribuito a far conoscere e permettere di
comprendere il suo delicato lavoro. Allo stesso tempo però lo
rimproverò per aver calcato un po’ troppo la mano con effetti
speciali esagerati e situazioni alquanto impressionanti.
Afferma il regista, che
prima di girare il film, non aveva mai assistito a un vero
esorcismo e non ne sapeva assolutamente nulla, come del resto
Bill Blatty che scrisse il romanzo e la
sceneggiatura. All’epoca non esisteva una documentazione adeguata,
non c’erano libri e quel poco che si poteva reperire era totalmente
irreale o inventato in maniera esagerata.
Dopo aver studiato e meditato per
tanti anni su quel tema Friedkin decise di voler continuare a
indagare con il mezzo cinematografico, ma tralasciando ogni forma
di narrazione costruita o di messinscena. Così contattò un amico
teologo chiedendogli se fosse stato possibile incontrare Padre
Amorth. Il sacerdote non solo acconsentì, ma lo autorizzò a
seguirlo e a filmare un suo esorcismo. La sola condizione fu che
non ci fosse troupe e luci, in modo da non interferire e non
disturbare durante il delicato rituale.
The Devil and Father
Amorth, il film
The Devil and Father
Amorth è la testimonianza di quell’esorcismo, celebrato in
occasione del novantunesimo compleanno di Padre Amorth, poi venuto
a mancare nei mesi successivi. Le riprese effettuate in quella
giornata sono poi state sapientemente integrate con interviste a
medici, psichiatri e religiosi, in modo da avere diversi commenti e
punti di vista su quanto accaduto. Friedkin sostiene di aver
vissuto e documentato un’ esperienza sconvolgente, che il film da
lui realizzato è un viaggio esplorativo e la chiusura di un cerchio
iniziato più di quarantacinque anni fa.
Tuttavia si avverte troppa enfasi
nella narrazione di Friedkin, sempre condotta in prima persona,
ponendosi davanti alla macchina da presa, anche quando per
necessità si cala nel ruolo di videomaker. In molti casi racconta
la sua esperienza su quegli stessi luoghi reali dove girò
L’Esorcista. Quando si affida solamente alle
parole per descrivere accadimenti a suo dire terribili, per cause
fortuite viene a mancare il materiale video, cosa che purtroppo
lascia intendere che la sua possa essere suggestione.
La cittadina di Alatri,
dove vive Sabrina, la posseduta che viene sottoposta ai ripetuti
esorcismi, viene descritta come una sorta di borgo sperduto chissà
dove, una sorta di roccaforte del male rimasta isolata nel tempo,
dove per raggiungere la chiesa è necessario inerpicarsi per un’ora
e mezza. Nonostante si tratti di un documentario si avverte
purtroppo una costruzione tipica di determinati meccanismi di
genere, quando non si cade in veri e propri luoghi comuni.
Certo, Friedkin è comunque un
narratore navigato e il film cattura, incuriosisce, ma non mostra o
racconta nulla di così convincente da divenire un documento
importante, né dal punto di vista antropologico o psichiatrico, né
tantomeno da quello religioso. Con questo non si vuole
assolutamente mettere in dubbio l’autenticità di fatti o persone,
ma non si avverte dalle riprese quella forza sovrumana che il
posseduto dicono abbia, non si sente una voce o un suono che le
corde vocali del soggetto non sia in grado di emettere, non si
ascoltano lingue incomprensibili. Si percepisce però una grande
fede, si avverte la lotta eterna tra bene e male, la volontà di non
alimentare e combattere senza indugio ciò che viene avvertito come
malefico.
Forse l’aspetto più interessante e
toccante è il dibattere tra scienza e fede, mettendo a confronto le
due posizioni opposte, ma inaspettatamente aperte l’una nei
confronti dell’altra. Spiazzante è la testimonianza del Vescovo di
L.A., che con grande umanità confessa che non potrebbe mai
celebrare un esorcismo, per la troppa paura; dice che per fare una
cosa simile c’è bisogno di una fede fortissima, di una forza
di spirito non comune, che lui non sente di avere.
Apre con una storia di musica e
dolore la sezione Orizzonti di Venezia 74; il film è Nico,
1988 e alla regia c’è l’italiana Susanna
Nicchiarelli, che torna dietro la macchina da presa dopo
tre anni, e lo fa con coraggio e bellezza.
Il film racconta di Christa
Päffgen, in arte Nico. Musa di Warhol,
cantante dei Velvet Underground e donna dalla
bellezza leggendaria, Nico vive una seconda vita dopo la storia che
tutti conoscono, quando inizia la sua carriera da solista. La sua
musica è tra le più originali degli anni ‘70 e ‘80 ed ha
influenzato tutta la produzione musicale successiva. Ambientato tra
Parigi, Praga, Norimberga, Manchester, la Polonia e Anzio, il film
è un atipico road movie che racconta gli ultimi due anni di vita
della donna che riesce finalmente a dismettere i panni di mito e
icona e a indossare quelli sgualciti di musicista e quelli mai
indossati di madre del figlio dimenticato.
Nico, 1988 – biopic su Christa
Päffgen
La Nicchiarelli utilizza un
linguaggio privo di fronzoli, delicato eppure diretto, che mostra
la forza della donna che non rinuncia all’essere madre dopo aver
davvero capito il valore di questo particolare legame che la lega
ad Ari, unico figlio che ha abbandonato da piccolo, perché incapace
a fare la madre. La “sacerdotessa delle tenebre” insiste a voler
portare l’attenzione su se stessa, durante il suo ultimo tour,
mentre il pubblico e la stampa continuano a trascinarla indietro,
negli anni ’70, a quando era intrappolata, per sua stessa
ammissione, nella sua bellezza che le valse i favori di Warhol.
Senza farsi cronistoria (alcuni
eventi sono stati modificati per rispettare la privacy dei
coinvolti), né apologia (la donna è mostrata in tutte le sue
numerose debolezze e nei suoi vizi), il film illustra con tocco
leggero la storia di una vita che si spoglia della sua
eccezionalità e diventa rincorsa di un rapporto normale (quello tra
madre e figlio) in un contesto politico sociale ostile, quello
europeo di metà anni ’80. A un passo dalla serenità cercata e
conquistata, Christa Päffgen trova a Ibiza il suo
piccolo angolo di paradiso, ma trova anche la sua fine, che l’ha
consegnata alla storia della cultura pop, e da oggi ricordata anche
dal cinema.
Ecco una “nuova” versione del
trailer di Thor Ragnarok, in cui il video ha
subìto il trattamento SWEDED , ovvero
è stato realizzato nello stesso stile utilizzato dai protagonisti
del film di Michel Gondry, Be Kind
Rewind.
Thor
Ragnarok è diretto da Taika Waititi. Nel cast
del film Chris
Hemsworth sarà ancora Thor; Tom Hiddleston
il fratello adottivo di Thor, Loki; Il
vincitore del Golden Globe e Screen Actors Guild Award Idris Elba sarà la
sentinella di Asgard, Heimdall; il premio Oscar Sir Anthony Hopkins
interpreterà nuovamente Odino, signore di Asgard.
Nelle new entry invece si annoverano il premio
OscarCate Blanchett (Blue
Jasmine, Cenerentola) nei
panni del misterioso e potente nuovo cattivo Hela, Jeff Goldblum
(Jurassic Park, Independence
Day: Resurgence), che sarà l’eccentrico
Grandmaster, Tessa Thompson
(Creed, Selma)
interpreterà Valkyria, mentre Karl Urban
(Star Trek, il Signore degli
Anelli: il ritorno del re) aggiungerà la sua forza
nella mischia come Skurge. Marvel ha anche confermato che
Mark Ruffalo riprenderà
il suo ruolo di Bruce Banner / Hulk nel sequel. La data d’uscita è
prevista per il 3 novembre 2017.
La trama di Thor
Ragnarok – “In Marvel Studios’ Thor Ragnarok, Thor è
imprigionato dall’altro lato dell’universo senza il suo formidabile
martello e si trova in una corsa contro il tempo per tornare a
Asgard per fermare il Ragnarok, la distruzione della sua casa e la
fine della civiltà asgardiana, dalle mani di una nuova e potente
minaccia, la spietata Hela. Ma prima deve sopravvivere a una
mortale lotta tra gladiatori che lo metterà contro uno dei suoi
amici Avengers, l’incredibile Hulk.
Bentrovati, sacchi di mucillaggine.
Quest’estate ho fatto delle cose gravissime, tipo postare un paio
di foto di me in costume sulla spiaggia e andare in fissa per
Sarahah per ben tre giorni. Sono evidenti segni di
scarsa professionalità ed egocentrismo, e quindi dovevo
espiare.
Infatti, poco prima di partire, ed
esattamente giovedì sera, dopo una giornata che se ve la dico non
ce credete quindi faccio prima a riservarla per quando devo
scrivere un racconto horror, ho avuto una violentissima colica
renale, causata da due calcoli piccoli ma cattivi come l’Inferno,
con conseguente visita al pronto soccorso e stop di due giorni che
in realtà nemmeno mi è dispiaciuto, almeno i bagagli me li sono
fatti con calma, una volta tanto.
Questo per dirvi che se
improvvisamente durante una proiezione sentite qualcuno che guaisce
non allarmatevi, non è un modo codificato prima di urlare
‘Allah Ackbar!’ prima di farvi saltare in aria, e
nemmeno il Diavolo che possiede qualcuno come nel documentario di
William Friedkin The Devil and Father
Amorth, presentato oggi fuori concorso, sono io che
ululo, chiamate solo l’ambulanza o almeno preparate un colpo letale
così smetto di soffrire.
Ovviamente devo bere tantissimo –
acqua, non Spritz, purtroppo. E a tal proposito vedete de non rompe
er cazzo con i vostri ‘ma dai, un sorso non può farti male’ che già
mi rode il culo abbastanza così – e la cosa più preoccupante sarà
trovare il tempo per pisciare tra un film e una conferenza. Stavo
pensando di farmi assegnare tutte le proiezioni della Sala Volpi e
pisciare direttamente lì per terra, tanto puzza di marcio da sempre
e nessuno se ne accorgerebbe. Come se non bastasse, ho l’ansia che
i dolori ritornino, a ogni minima avvisaglia salto come se ci fosse
Pennywise alle mie calcagna, quindi non preoccupatevi nemmeno se
rispondo ‘Oh Cristo Aiuto!’ se mi chiedete l’ora.
La prima sera c’è solo un film di
Lubitsch in edizione restaurata, un raffinato lavoro di altissimo
valore intellettuale e morale, che non si è inculato nessuno, tutti
troppo impegnati ad andare a mignotte per celebrare l’apertura o a
strafogarsi di sgroppini e baccalà mantecati, anche insieme, tanto
le papille gustative dei critici sono devastate da anni di
dipendenza dal Maalox e ormai non si fa più caso a
cose frivole come l’equilibrio dei sapori.
monumento al Gran Cazzo Che Me Ne Frega
Comunque, come inizio nemmeno male:
il treno porta incredibilmente solo cinquanta minuti di ritardo.
Noi siamo Vip e arriviamo tutti in Lancia. La città ci accoglie con
un meraviglioso monumento al Gran Cazzo Che Me Ne
Frega nella sua dorata e sbrilluccicante estensione, che
useremo come stampo per la foggia del premio d’analogo nome che
diamo a fine Festival. Nonostante cotanta onoreficenza, il tassista
acquatico non possiede il pass per farci giungere in zona Casinò,
dove si ritirano gli accrediti. Noi sì, ma siccome andare a nuoto
negli acquitrinosi canali lidensi non è una grande idea siamo
costretti ad arrampicarci su un dirupo pieno di sterpaglie con
tanto di bagagli a carico, uscendo direttamente da un tombino come
Indy ne L’ultima crociata.
Lì era a San Barnaba, ma sempre di
Venezia si tratta. E meno male che il dottore s’è raccomandato ‘non
strapazzarti troppo’. Preso possesso della casa è già tempo di
accrediti e di constatare che i pluriennali petaloni rossi che
adornavano il red carpet e il Palazzo del Cinema e avevano
effettivamente scassato la minchia hanno lasciato spazio a una
nuova brillante scenografia di pareti bianche e lampadari lucenti,
che pare sostanzialmente un’esposizione di mobili Brianza dietro a
Ikea sull’Anagnina.
La prima sera se ne passa tra una
spaghettata alcoolica e una fintamente alcoolica, con me che, mio
malgrado, mi faccio riempire il bicchiere una volta sola fingendo
di attingervi per non cadere in tentazione, che io lo so, come
funziona. Svuoti e riempiono, e da lì a evocare la colica il passo
è breve. Perfino il nome del regista che apre Ufficialmente le
proiezioni, Alexander Payne, mi suona come ‘Pain’ e dunque come
tristo presagio. Il film, sebbene parta da un assunto che pare una
cazzata gargantuesca, è in realtà l’esatto contrario.
In primis perché è una storia di
gente che vive in un mondo dove la scienza ha scoperto come
rimpicciolire l’umanità affinché rompa meno il cazzo. Poi perché
tutto sommato non è male. Almeno per i primi quaranta minuti, poi
si perde in una serie di smielati sentimentalismi tra Matt
Damon e un’ignota signora vietnamita che alzano parecchio
il livello di zuccheri, giusto per chi si era lamentato che La
La Land era troppo sdolcinato.
Tornando invece al documentario di
Friedkin, è una cazzata gargantuesca e basta. Anzi, diabolica. Che
diciamocelo, esiste solo perché lui ha diretto
L’Esorcista, e fargli fare un doc sugli esorcismi veri fa
ridere.
Qualsiasi altro regista, compreso
Spielberg, l’avrebbero mandato affanculo con tutte le scarpe a lui
e al Diavolo. O al Diavolo con tutte le scarpe e a lui affanculo,
scegliete voi. L’opera segue le vicissitudini di un’architetta di
Alatri che non riesce a lavorare a causa della possessione
diabolica, che in effetti, per un architetto, deve essere una cosa
seccante. Tu sei lì tranquillo a fare i tuoi progetti e di punto in
bianco inizi a contorcerti e bestemmiare. Le testimonianze a inizio
film riportano scene spaventose di pance che si gonfiano fin quasi
a scoppiare, voci orripilanti che parlano lingue sconosciute e
volti che si deformano fino ad assumere tratti animaleschi.
Poi però, quando s’arriva al dunque,
non si vede niente di tutto questo. Solo una povera crista che
soffre tanto e si dimena – e questo mi dispiace – ma io l’altra
sera con le coliche facevo peggio, anche in termini di bestemmie.
La voce ha lo stesso effetto che aveva il mio cantante del gruppo
del liceo quando facevamo le cover dei Cradle of Filth.
Con questo non intendo insinuare che
sia stata ritoccata in post-produzione, solo che probabilmente il
Diavolo ama il grind metal, cosa tra l’altro abbastanza
comprensibile. Poi c’è una parte palesemente inventata – guarda
caso non sono disponibili testimonianze video – in cui Friedkin
racconta di come la poraccia abbia cominciato a strisciare e
svolazzare nel perimetro di una chiesa minacciandolo di morte.
Tranquilli, è la parte più bella. Grandi risate e applausi a scena
aperta. È risaputo che il Diavolo non fa i coperchi ma stavolta,
pure per le pentole, era meglio che chiamavate Mastrota.
Ang
la lancia deluxe
Il mio sbarco al Lido è stato, ehm,
sobrio: il treno portava ritardo, che in condizioni normali già ti
sanguinano occhi mentre guardi il tabellone, figuriamoci su un
binario invaso dai tuoi bagagli manco dovessi andare in tour con
Brosio per le capitali cattoliche.
In più avevo uno zaino che se perdi
il baricentro te rovescia come una tartaruga (poi voglio vedè chi
me gira), per cui ero anche un’arma pericolosissima se decidevo di
voltarmi potevo far fuori chiunque senza il culo che se sta a fa
Kim Jong-un co sti cazzo de missili. Così in preda al panico, in
una situazione diciamo pericolosa, decido che è meglio che me levo
da sto binario e mi butto su un primo Italo in partenza.
Da qui, diciamo che è tutto
abbastanza discesa: considerando la mia settimana demmerda si vede
che il karma si è guardato allo specchio, si è sputato in faccia e
ha deciso di fare qualcosa di socialmente utile (tipo non infierire
sulla Pettinato) perché riusciamo miracolosamente a essere ospiti
su una lancia Deluxe e arrivare comodamente a destinazione. Per
tutto il viaggio siamo stati umili e discreti come una performance
di Beyoncé, che tra un po’ tiravo un calcioinculo
al tizio della lancia e me mettevo al timone per farmi un selfie in
mezzo al canale.
Man on Wire, Venezia Edition
Sì, perché quest’anno siamo ancora
de selfie, ma ve lo racconteremo più in là, no spoiler. Sbarco
traumatico con un fantastico tentativo di farci scendere su una
passerella minuscola (che già me vedevo tipo ‘man on wire’, novella
Petit col bilanciere per non fare un bagno nella melma, poi
ovviamente nella mia versione cinematografica cadevo e morivo con
dignità abbracciando la valigia con i miei vestiti, come metafora
dell’attaccamento dell’uomo alle cose materiali). Ultimo aneddoto
da raccontarvi: l’ospitalità è sempre unamerda, tranquilli.
Ieri mentre facevamo una serena e
mite spaghettata verso le 21,45, ora in cui a Roma sei indecisa
ancora se metterti le scarpe col tacco a spillo o più comodi
plateau per annà a fa aperitivo, la vecchia del piano di sopra si
affaccia e ce cazzia con la seguente motivazione: ‘ho
sentito che ridevate’. Mo me spiego tante cose, tipo
perché qua glie rode sempre il culo. Che tu chiedi una minima
informazione e anche se non sanno invece di dirti un onesto,
sincero, ‘boh’ comunque te devono imbruttì. Per loro ridere deve
esse ‘na brutta cosa, tipo una sciagura, se ridi te arriva
un’ondata de zanzare tigre dal canale e te gonfia come una
zampogna. Forse gliel’hanno insegnato da piccoli.
Ma a noi ce piace ride, quindi daje
de Autan, almeno fino a quando la signora non ci rovescerà le
proprie analisi delle urine dal balcone. In chiusura novità veloci
veloci: Il lido è sempre il solito posto inospitale, dicevamo. Allo
Spazio Universal non fanno più lo spritz con l’olivetta e non ti
danno manco le patatine (rimedieremo presto con una raccolta di
firme) I petali del red non ci sono più. Quest’anno palle. Che di
sera, dicono, si colorano di mille luci trasformando il mobilificio
Brianza in un carosello di magia. Verificheremo. Ieri eravamo
troppo ubriachi. Sarà un rebus? Le soluzioni nel prossimo
numero del blog.