Sarà prossimamente nelle sale
italiane l’ultimo lavoro da regista di Clint
Eastwood, Hereafter. E siccome
l’attore americano dietro la macchina da presa non sbaglia un
colpo, specie nelle pellicole della maturità, l’attesa e la
curiosità sono molte. Nel frattempo, cogliamo l’occasione per
ripercorrere le tappe della carriera artistica di questo mito
vivente di Hollywood.
Nato a San Francisco il 31 maggio
1930, da una famiglia di origini modeste, studia economia e poi si
arruola nell’esercito, dove non si fa mancare rocambolesche
avventure, degne dei film che lo avrebbero visto poi protagonista.
Ma non intende restare nell’esercito. Così, nel 1954, si fa
convincere da due amici a fare un provino per la Universal e viene
selezionato per alcuni film horror. Si aggiudica poi il ruolo
televisivo del cowboy Rowdy Yates. È l’inizio di una lunga e
fruttuosa carriera, che conoscerà anche momenti di crisi, da cui
però Eastwood saprà uscire con determinazione e tenacia. Avrà
enorme successo sia in America che in Europa con i suoi due ruoli
più celebri: quello del pistolero solitario nella Trilogia del
dollaro di Sergio Leone e quello dell’ispettore dai modi spicci e
il grilletto facile Harry Callaghan. In entrambi i casi, sarà una
figura di rottura, che inaugurerà un nuovo tipo di cinema,
rinnovando i rispettivi generi.
Partiamo dal primo. È il1958,
Clint Eastwood interpreta Rowdy Yates in
Rowhide. È proprio questa sua prova ad arrivare sul tavolo di
Sergio Leone, che cerca un protagonista per i suo
prossimo western: Eastwood gli sembra adatto e ha più modeste
pretese economiche rispetto al più esoso James Coburn, che Leone
avrebbe preferito. Clint viene così scritturato in Per un pugno di
dollari (1964), dove è protagonista nel ruolo dello “straniero
senza nome”, che arriva in una cittadina messicana al confine con
gli Stati Uniti. Lì trova due fazioni in lotta e si schiera ora con
l’una, ora con l’altra, per opportunismo e denaro. Accanto a lui,
da antagonista, Ramón/Gian Maria Volontè e poi una serie di ottimi
caratteristi e le straordinarie musiche di Ennio Morricone (Nastro
d’Argento) ad accompagnare il tutto, qui come nei successivi due
episodi. Il film inaugura un nuovo filone, quello degli
spaghetti-western, innovando profondamente gli stilemi del genere
western di stampo USA. Sarà un successo planetario, che ricoprirà
di denaro – ben oltre il pugno di dollari!- i pur poco fiduciosi
produttori. Nascono così il mito di Sergio Leone e quello di
Eastwood, rafforzati dai due film successivi: Per qualche dollaro
in più (1965) e Il buono, il brutto e il cattivo (1966).
Clint Eastwood: dove osano solo i
grandi
Nel secondo, Leone sceglie lo
stesso cast (Clint Eastwood, Volontè), al
quale si aggiunge però Lee Van Cleef, per riproporre con qualche
variazione il tema del precedente: qui i pistoleri sono più
di uno, prezzolati per eliminare banditi. Il regista cura
maggiormente le immagini e i dialoghi e i protagonisti ripropongono
lo stile che gli ha dato il successo: l’uno (Eastwood) la sua
impassibilità e freddezza, l’altro (Volontè) l’aspetto truce e
rabbioso. L’ultimo episodio della trilogia si discosta maggiormente
dai precedenti, per la componente fortemente ironica che lo
caratterizza, con punte di grottesco. Abbiamo tre uomini senza
scrupoli, assassini -il Biondo (Eastwood), Tuco (Eli Wallach) e
Sentenza (Van Cleef) – durante la Guerra di Secessione, che si
trovano a cercare insieme un tesoro, non senza rivalità. Seguono
rocambolesche avventure e l‘eliminazione di Sentenza. Il tutto
narrato con graffiante ironia, seguendo la sceneggiatura, firmata
non a caso anche da Age e Scarpelli. Inutile dirlo, terzo successo,
con relativi botteghini sbancati.
D’ora in avanti, Eastwood prende
parte a una serie considerevole di pellicole, soprattutto film di
guerra e western. Alla prima categoria appartiene, ad
esempio, Dove osano le aquile
(1969) di Brian G. Hutton, in cui l’attore
americano recita a fianco a Richard Burton; alla
seconda si ascrive invece Gli avvoltoi hanno fame, dello stesso
anno, che vede l’inizio della collaborazione con il regista
Don Siegel. Questa darà i suoi frutti migliori
nella prima delle pellicole incentrate sulla figura dell’ispettore
Harry Callaghan: Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è
tuo (1971). Sono questi infatti, i panni che più si
confanno a Eastwood, dopo il poncho. Non siamo nel
west, ma in un contesto metropolitano, ai nostri giorni. Tuttavia,
il fare freddo, cinico e spietato è lo stesso, come è la stessa la
sua abituale compagna: la pistola. L’ispettore Callaghan combatte
il crimine a suon di spari e sentenze laconiche, non preoccupandosi
se i suoi metodi sono poco ortodossi. Questi comportamenti gli
valgono il soprannome di Dirty Harry. Non sembra insomma molto
diverso dagli assassini che fronteggia. (Il treiler originale del
film recita press’a poco così: “Questa è la storia di
due assassini. Quello col distintivo è
Callaghan”). Il fisico asciutto e scattante di Clint,
il suo sguardo impassibile fanno il resto. Anche qui, si innova
profondamente un genere, quello poliziesco, introducendo un nuovo
uso della violenza, che suscitò anche aspre polemiche. Il successo
però fu enorme. La pellicola avrà numerosi sequel: Una
“44 Magnum” per l’ispettore Callaghan (1973), per la
regia di Ted Post, sceneggiatura di John Milius e Michael
Cimino; Cielo di piombo, ispettore
Callaghan (1976), diretto da James
Fargo; Coraggio… fatti ammazzare
(1983), regia dello stesso
Clint Eastwood .
Nel 1971, infatti, si era
aperto un altro capitolo importante della carriera dell’attore
californiano: quello che lo vede dietro la macchina da presa.
L’esordio, poco apprezzato, è con il giallo Brivido nella notte. E
in sordina sarà tutta la prima parte della sua attività da regista,
specie in patria, dove sarà rivalutato inizialmente solo grazie
alla risonanza e all’apprezzamento ottenuti all’estero, specie a
partire da metà anni ’80. Nel frattempo Clint, che è diventato
anche produttore, con la sua Malpaso, va avanti senza farsi
scoraggiare. Si cimenta nella direzione di film western che lo
vedono anche protagonista, con risultati di valore crescente: Lo
straniero senza nome (1973), Il texano dagli occhi di ghiaccio
(1976), dove dà corpo al personaggio del fuorilegge Josey Wales,
fino alla consacrazione, nel 1992, con Gli spietati, che gli vale
sia l’Oscar alla Regia, che quello come Miglior Film.
In oltre, si fa dirigere da altri
registi in diverse occasioni, tra le quali ricordiamo soprattutto:
Una calibro 20 per lo specialista (1974),
di Michael Cimino, allora agli esordi, e di nuovo
Don Siegel, per un’altra grande interpretazione, quella
dell’ergastolano in Fuga da Alcatraz
(1979). Nel primo film, interpreta John Doherty: un rapinatore
fuggito di galera che si mette alla ricerca del bottino nascosto.
Sulla sua strada incontra un giovane col quale cercherà di
raggiungere l’obiettivo e farà amicizia – un giovane
Jeff Bridges – passando attraverso mille
imprevisti e avventure su e giù per l’America. Per
Siegel, cinque anni dopo, sarà Frank
Morris: assieme a due compagni di cella, l’unico a
riuscire nella fuga dal più blindato penitenziario Usa, la notte
dell’11 giugno ‘62. Film carico di suspense, in cui la recitazione
asciutta di Eastwood trova perfetta
collocazione.
Tuttavia, l’obiettivo di
Clint Eastwood resta quello di veder
riconosciuto il suo talento registico. Ci riesce per la prima volta
in maniera indiscutibile nel 1988, attingendo alla sua passione per
la musica. È stato infatti anche un trombettista e pianista jazz e
coltiva una grande passione per il genere. È da qui che nasce
l’idea di omaggiare in una pellicola la figura di Charlie Parker,
tra i più grandi trombettisti di tutti i tempi, morto a soli 35
anni. Ci riesce magnificamente con il toccante ritratto Bird
(1988), facendosi da parte come attore, ma dirigendo con indubbia
maestria un intensissimo Forest Whitaker. Arriva così il primo
Golden Globe per la Regia, mentre
Whitaker ottiene la Palma d’Oro a
Cannes come Miglior Attore. Quattro anni dopo arriva un
altro successo e altri premi piovono sulla testa dell’ormai 62enne
Eastwood: è l’anno de Gli spietati, Oscar per Miglior Regia e Film,
come s’è detto. E ancora una volta per Clint il successo ha il
sapore del western. Torna infatti alle origini, reinterpretando
però a modo suo il genere, ancora una volta. William
Munny/Eastwood è un (ex) assassino che parte alla
ricerca di due balordi, rei di aver aggredito e sfregiato una
prostituta. È spinto dal solito movente: il denaro, ovvero una
ricompensa di mille dollari. Porta con sé il suo amico di colore
(Morgan Freeman) e un giovane, e deve scontrarsi
con lo sceriffo locale, che non approva il suo modo di procedere
(Gene Hackman – Oscar per Miglior Attore non
protagonista). Non c’è però, ecco la novità e l’attualizzazione,
spazio per eroismi in questo lungometraggio. Stavolta ci sono
esclusivamente violenza, avidità, cupidigia, aridità, e uno sguardo
disincantato sulla società americana, che su questi pilastri ha
posto le basi.
Dopo questo successo, la
strada è spianata per
Clint Eastwood regista: dirige e
affianca Kevin Costner in Un mondo perfetto
(1993), poi Meryl Streep, coprotagonista assieme a
lui in I ponti di Madison
County (1995), dimostrando la sua sensibilità nel
cimentarsi col genere romantico. Si prende poi di nuovo il gusto di
dirigere altri attori, limitandosi a stare dietro la macchina da
presa in Mezzanotte nel giardino del bene e del male (1997), per
cui vuole nel cast John Cusack, Kevin Spacey e
Jude
Law. Nel ’99 Clint si auto dirige di nuovo e inaugura
il corso che gli sarà proprio nel nuovo millennio: comincia cioè ad
affrontare problematiche della società di oggi, cercando una
conciliazione degli opposti, o quantomeno, una visione complessiva
dei fenomeni, che renda giustizia dei vari punti di vista. Il film
è Fino a prova contraria, e tratta l’annosa questione della pena di
morte, seppur veicolata dalla solita figura, impersonata
egregiamente da Clint Eastwood, di uomo
solitario, irriverente, cinico, con spregio delle regole. Un
giornalista di cronaca nera, che ha le ore contate per dimostrare
l’innocenza di un condannato all’esecuzione. E mentre lui si dà da
fare, noi scopriamo le contraddizioni e i difetti della tanto
osannata democrazia americana e del suo sistema giudiziario. Nel
2003 dirige un cast d’eccezione per un’altra prova potente e
scomoda: Mystic River, storia di vite
perdute in una società dominata da violenza e vendetta. Essenziale
la direzione da parte di
Clint Eastwood e straordinarie le prove
dei protagonisti, Sean Penn, Tim
Robbins e Kevin Bacon. Siamo così
all’altro capolavoro dell’attore-regista californiano: quel Million
dollar baby (2005) che gli ha portato di nuovo l’Oscar per la
Miglior regia e il Miglior Film, oltre che il Golden
Globe, sempre per la Miglior Regia. È infatti una
delle prove migliori del regista, che continua a stupire per
l’estrema sensibilità. È la storia di una ragazza (Meggie
Fitzgerald/Hilary Swank) e della determinazione
con la quale persegue il suo obiettivo: diventare un pugile e
vincere. Incontra così quello che dopo l’iniziale riluttanza
diventerà il suo allenatore (Frankie
Dunn/ Clint Eastwood). Tra i due nasce
un rapporto di profondo affetto. La ragazza progredisce a tempo di
record e miete vittorie. Presto sale sul ring per il match più
importante. Qui si consuma la tragedia che dà la svolta al film. La
pellicola è dunque un concentrato di temi: la determinazione a
costruire il proprio destino, l’amore filiale, la morte e, più
delicato tra tutti i temi trattati, ma senza retorica, l’eutanasia.
Nulla da eccepire al saggio Clint.
Una sequela di successi, dunque,
per lui negli ultimi anni, come dimostra anche la fortuna dei più
recenti Gran
Torino (2009), in cui si misura ancora una volta
con la violenza e qui anche col razzismo, interpretando
Walt Kovalski, e Invictus (2010), sulla
figura di Mandela e i primi passi del Sud Africa, che rinasce sulle
ceneri dell’apartheid. Si può ben dire perciò, che
Clint Eastwood sia uno dei più stimati
registi americani, cui si riconosce non solo la bravura attoriale,
ma una notevole sensibilità artistica nella direzione
cinematografica e un’innegabile crescita nella capacità di
affrontare in modo non semplicistico temi via via più complessi,
tipici della contemporaneità, e avventurandosi anche in territori
spinosi, zone d’ombra in cui sembra essere insolitamente a suo agio
e nelle quali non teme di inoltrarsi, per proporne letture
composite ed illuminanti. È così che questo fiero conservatore – ha
spesso appoggiato apertamente candidati di destra alle elezioni,
ultimo John McCain, ed è stato lui stesso sindaco di una
cittadina californiana- con due matrimoni alle spalle e una copiosa
prole (otto figli), ci sa stupire.
Ci aspettiamo quindi di essere
sorpresi ancora una volta dalla sua ultima fatica, Hereafter, in cui affronta
il tema della morte, dirigendo ancora Matt
Damon, dopo Invictus. È inoltre in
preparazione un film biografico sulla figura di Edgard Hoover, per
molti anni a capo dell’FBI. Per questo ruolo il regista ha scelto
invece Leonardo Di Caprio.