Anno: 2014
Regia:
Devon Downs, Kenny Gage
Genere:
Horror
Interpreti: Robert La Sardo, Sara Fabel,
Tiffany DeMarco, Claire Garvey
Trama
Durante un soggiorno di vacanza in
uno sperduto paesino nel cuore oscuro della Lituania, un gruppo di
giovani studenti si ritrova a partecipare ad uno dei tanti rave
party all’insegna di droghe e divertimenti sfrenati. Quando però
uno dei compagni sparisce misteriosamente nel nulla dopo aver
abbordato un’eccentrica ragazza del luogo, gli amici si mettono
subito sulle sue tracce, scandagliando in lungo e in largo la
cittadella senza però trovare traccia del loro coetaneo. La giovane
e virginale Amy decide allora di indagare per proprio conto, e dopo
aver chiesto un po’ in giro alla ricerca della strana ragazza della
sera precedente, si imbatte in una piccola bottega di tatuaggi
gestita da uno strano e intrigante personaggio che si fa chiamare
l’Artista e che forse, dietro ad un’apparente disinvoltura
ed affabilità, nasconde qualche segreto. Sarà solo l’inizio di un
viaggio infernale che condurrà Amy verso una spirale di follia ed
orrore dal quale sarà difficile scappare.
Recensione
Il nutrito pantheon del genere
horror ci ha da sempre consegnato una parata di personaggi e figure
divenute nel corso del tempo veri e propri archetipi sacri
destinati ad imprimersi, chi più e chi meno indelebilmente, nella
memoria collettiva. Forse, il fatto che il male, come ci insegna la
psicologia spicciola da salotto borghese, si annida in ognuno di
noi e per tale motivo chiunque è potenzialmente in grado di
improvvisarsi capace di atti orrendi, allora l’ormai abusato titolo
accademico di killer (o meglio ancora di serial
killer) è stato destinato ai soggetti più disparati, ricoprendo il
più vasto campionario di mestieri e occupazioni in maniera
grottescamente democratica. Abbiamo avuto infatti dentisti
assassini, impiegati assassini, poliziotti
assassini, casalinghe assassine, persino diversi Babbo
Natale assassini, ma la figura del tatuatore
assassino è, a dire il vero, molto poco frequentata nel campionario
del cinema dell’orrore. Se escludiamo infatti opere di inizio
millennio nelle quali i temi del tatuare e dell’uccidere si
relazionavano solo di sfuggita, come ad esempio in chiave thriller
metropolitano in Tattoo
(2002) di Robert Schewentke
oppure nella farsa grottesca del thailandese Killer
Tattoo (2001), la figura dell’artista capace di
creare capolavori sulla superfice della pelle umana e allo stesso
tempo di farsi artefice di orribili mattanze era rimasta, almeno
fino ad oggi, quasi del tutto inesplorata.
Anarchy
Parlor appare ad una prima rapida e approssimativa
lettura un prodotto a dir poco anomalo, sia per la sua apparente
sfacciataggine nell’inserirsi senza troppi crismi né
giustificazioni all’interno dell’ormai ampio solco tracciato da
opere coeve quali Hostel e
Turistas (avallando il topico e
iperabusato stereotipo del paese dell’est Europa come sinonimo di
nefandezze e covo di psicopatici assassini dal gusto Grand
Guignol ) sia per una dimensione narrativa e simbolica che
attinge a piene mani da generi tra loro molto simili e che vanno
dal torture porn più calcato sino alle frange più estreme
del gore. In realtà, passato un primo momento di lecito
spaesamento (così come di comprensibile irritazione), ecco che la
pellicola si dipana i tutta la sua impensabile coerenza e, pare
davvero strano a dirsi, anche originale capacità di assemblaggio di
citazioni e rimandi ad un gustoso immaginario orrorifico dal sapore
di iperealistico. Superata la fastidiosa e canonica sequenza di
apertura in puro stile goliardico e condita con una miscela ormai
collaudata di erotismo, droghe pesanti e un colorito linguaggio
sboccato tutto post-adolescenziale, il film si addentra in
atmosfere e svolte narrative sempre più cupe e suggestive, complice
in primo luogo una sceneggiatura solida e onesta abbinata ad una
regia fredda e ben presente, prodotto a quattro mani della coppia
Devon Downs e Kenny Gage, due
artigiani del genere che, senza strafare né emergere con alcun
vezzo autoriale in particolare, sanno ben guidare il racconto
attraverso un livello di perversione e di forza visiva sempre
maggiore.
Altro grande tassello vincente del
puzzle tecnico spetta poi alla rugginosa e al contempo psichedelica
fotografia capace da sola di evocare emozioni forti e scenari da
incubo degni di un quadro di Francis Bacon (per altro base
strutturale per tutta un’estetica della distorsione corporea),
senza nulla togliere ovviamente alle suggestive e crepuscolari
ambientazioni cittadine (pienamente in linea con un immaginario di
povertà post-regime comunista orami ben sondato da certo cinema del
settore), così come in primis gli interni della
perturbante piccola bottega dei di tatuaggi (o meglio, degli
orrori!), strutturata con cubicoli e sotterranei che paiono
esciti da un film espressionista tedesco così come dalla
indimenticabile bottega da barbiere dello Sweeney
Todd burtoniano.
Fuori da ogni dubbio però il vero
punto nevralgico dell’intera pellicola ruota attorno alla figura
travolgente quanto brutale di un intrigante e coltissimo tatuatore
che pare essere stato appena partorito dall’estetica
cyberpunk di William Gibson tanto quanto dalle viscere
allucinogene sub-urbane di William S. Burroughs, un personaggio a
dir poco estremo che le sembianze marmoree di Robert
LaSardo riescono appieno a plasmare. Un assassino
gentiluomo, uno psicopatico dedito ad una perversa quanto
ancestrale forma d’arte che sa applicare senza alcuno scrupolo e in
nome della creazione suprema. Il tatuaggio, antica pratica
sociologica inizialmente impiegata come sistema di definizione dei
ruoli e delle gerarchie in molte culture diverse (dalle tribù
aborigene della Nuova Zelanda sino alle più recenti pitture
corporali carcerarie della varie associazioni mafiose russe e
giapponesi) diviene a partire dagli anni ’80 il simbolo della
controrivoluzione giovanile e di quelle che Simon Frith definiva le
sub-culture, collettivi anticonformisti e fortemente
aggreganti capaci di opporsi al potere costituito e di eleggere a
pratica di impronta identitaria l’uso dei simboli e delle figure
impresse sulle superfici aptiche. Catalogata a lungo
(ingiustamente) come pratica sovversiva e divenuta impropriamente
sinonimo di criminalità e devianza (soprattutto associata ad
un’epoca dominata dalle droghe ultra-pesanti quali LSD ed eroina),
la pratica del tatuaggio è divenuta col tempo una vera e propria
forma d’arte in grado di produrre splendide opere
organiche, impresse su di una tela viva e traspirante
quale la pelle umana, come per altro moltissimi film sin dai tempi
de I racconti del cuscino di
Peter Greenaway e il più recente
Educazione Siberiana di Gabriele
Salvatores hanno saputo ben definire. Ciò non toglie
comunque che l’aura fortemente sovversiva e per certi versi
misterica ed inquietante (potremmo anche dire a buon titolo
disturbante) che ancora oggi avvolge la dimensione del
tatuaggio e delle pitture corporee possiede una connotazione
fortemente simbolica all’interno dell’atmosfera brumosa, secca e
tagliente di una pellicola del genere, contribuendo non poco a
sostanziare e dare man forte ad una dimensione visiva che, per
prendere in prestito un’espressione mutuata direttamente dalla
poetica della bit generation, potrebbe definirsi a tutti
gli effetti come un’estetica della luci al neon.
Ma è proprio questo il quadro
perverso su cui si regge l’intero plot della vicenda di cui
Anarchy Parlor si fa testimone, ovvero l’idea grottesca
quanto spietatamente fattibile di un artista del tatuaggio in cerca
della superfice corporea perfetta e immacolata da usare come
supporto vergine per i propri dipinti, una necessità che
non si ferma alla semplice individuazione di tale superfice ma che
conduce alla sua radicale asportazione dal soggetto originale (il
tutto in modalità rigorosamente “a mente lucida”) in un
tripudio di chirurgia invasiva che farebbe storcere il naso e
ribollire lo stomaco anche ai più assidui frequentatori della
factory di Eli Roth.
Se il semiologo Charles Peirce,
nella sua ormai famosissima e accademica classificazione, definiva
il tatuaggio un segno indicale (dove cioè il significato
intraprende un rapporto diretto e materico col proprio
significante, tanto da lasciare una vera e propria
impronta), uscendo dalla trattazione puramente concettuale
è possibile in questa sede notare con grande attenzione quanto
importante divenga, all’interno dell’economia squisitamente
figurativa oltre che metaforica del film, l’atto stesso della
pittura corporea, un atto che assume le tinte estreme e grottesche
più di una forma di arte perversa che di una classica
iconografia della tortura, proponendo una gustosa commistione di
corpi affettati e martoriati che citano apertamente e riprendono in
maniera spudorata un ormai consolidato binomio che lega
arte e corpo. Sono proprio le matrici di stampo
artistico che vengono riportante alla luce, riprendendo la lunga
tradizione iniziata negli anni ’50 con le primissime forma di
body art (basti citare le famose atropometrie,
pitture corporee di Yves Klein e Piero Manzoni) sino a giungere
alle forme più estreme di accanimento fisiologico a scopo artistico
generate dall’Azionismo Viennese e da alcune autori come Orlan e
Stelarc, personaggi che hanno dato origine ad una forma propulsiva
e deviante di performatività fisica elevando l’alterazione e
l’elemento invasivo sul proprio corpo come massimo atto di
espressione.
Anarchy Parlor è tutto
questo, un prodotto senza infamia né lode che si prende per quello
che è, una pellicola che non ci dice nulla di veramente nuovo ma
che punta tutto proprio su questa consolidata dimensione
dell’orrore, un orrore già visto e declinato in molti modi ma che
per questa ragione risulta ogni volta ancora più feroce e
sconvolgente. Se il fine ultimo del cinema di genere è quello di
creare incubi e fascinazioni disturbanti, ebbene, la pellicola di
Downs e Gage raggiunge appieno il suo obiettivo con sincerità
d’intenti e coerenza stilistica, riuscendo nell’intento di
soddisfare discretamente un palato spettatoriale ormai divenuto
(forse) eccessivamente insensibile a causa della reiterazione
forzata di temi e situazioni.