Una famiglia è il secondo lungometraggio di Sebastiano Riso, dopo Più buio di mezzanotte (2014). Il tema centrale della vicenda è il mercato sommerso di neonati che vengono venduti dalle madri naturali a genitori adottivi compiacenti e privi di scrupoli, che pur di avere un figlio sono disposti a pagare, ignorando le conseguenze che spesso tale gesto impulsivo ed egoista può comportare.
Vincent e Maria sono una coppia che vive modestamente e regolarmente genera e cede i propri figli in cambio di cospicue somme di denaro. Vivono isolati, in un quartiere popolare di Roma, senza amici e lontano dalle proprie famiglie, con le quali hanno tagliato i legami da molto tempo. Lui in particolare, nato e cresciuto vicino Parigi, sembra essersi gettato alle spalle un passato che vorrebbe dimenticare. Apparentemente sembrano affiatati e innamorati, ma è solo una scorza di superficie, che cela il grande dolore di Maria per la continua costrizione a cui è costretta da Vincent. Arrivata all’ennesima compravendita cercherà di opporsi, nel desiderio di poter avere finalmente una famiglia sua.
Una scritta iniziale informa che la vicenda è ispirata a storie vere e purtroppo sabbiamo bene che un tipo di mercato così bieco e spietato esiste, ma nel film, nonostante l’approccio registico volutamente spietato, freddo e di taglio molto realistico, la vicenda risulta assai poco credibile e pian piano che si va avanti si fa grande fatica accettare quello che viene raccontato. Viene naturale porsi domande o esigere delle spiegazioni. Manca completamente una descrizione del fenomeno e la terribile compravendita viene rappresentata solo attraverso poche figure: un medico, un’intermediaria e la coppia in questione. Si sente la necessità di conoscere gli spietati meccanismi di tale mercato e capire quali sono le figure che si muovono nelle sue file, molto numerose e sicuramente vicine ad altre forme di criminalità. Probabilmente si tratta di vere e proprie organizzazioni, ma nel film la vendita sembra procedere in maniera autonoma, come si farebbe per un’automobile usata. Probabilmente l’intento del regista era quello di concentrarsi sull’aspetto emotivo e interiore di scelte così estreme e questo viene avvertito, ma quando si fa riferimento a tematiche reali, oltretutto poco trattate, sarebbe doveroso cercare di indagare, di informare, di sensibilizzare.

Una famiglia ha grandi ambizioni, ma cade miseramente per estrema superficialità. Oltretutto la storia non è sorretta da un adeguata interpretazione degli attori. I protagonisti Patrick Bruel e Micaela Ramazzotti, risultano forzati, caricati e portatori di battute il più delle volte artificiose e didascaliche. Tutti gli altri personaggi, in numerosi casi inutili o meramente di servizio, sono ridotti a una vera e propria macchietta, come nel caso della coppia omosessuale che decide di comprare il figlio che ha sempre desiderato, o il mercante d’armi, o ancora la nuova candidata alla turpe attività.
La fotografia è fredda, stanca, solamente di supporto tecnico, così come la musica. Anche il lavoro di scenografia e di ambientazione, non rende giustizia alla città di Roma, al suo sottobosco di storie ai margini e di infiniti traffici illeciti. Non basta Ponte Casilino, la Tangenziale, un pontile di Ostia, per dare un idea di tutto questo e oltretutto, quanto mostrato in esterno, stona incredibilmente con gli arredi e i colori ricreati in interno, contribuendo ancora di più a trasmettere una sensazione di straniante finzione.

Vediamo se se mette a piove quando arriva lui, eh), per cui – a non prima che un giapponese mi si avvicinasse e mi chiedesse se glie vendevo una sigaretta (tranquilli gliel’ho regalata, già è giapponese e c’ha i problemi suoi di dimensioni) – siamo scappate a casa. In abito da sera, abbiamo cenato tra di noi, e ci sta. Perché nonostante le cose belle, i film di Virzì, i cocktail alla grappa, gli spritz che non si sa perché ma a me e Chiara ci offrono anche perfetti sconosciuti (chissà perché), una serata casalinga tra amici è quasi un miracolo. Poi se c’è il whisky giapponese, ancora meglio, in quel caso le dimensioni non sono importanti.
E che gli vuoi dire, non fa una piega. Oh, se riesci a dormire sereno dopo un film così vuol dire che eri proprio cotto. E io ci sono riuscito, se avessi visto gli Orsetti del Cuore mi avrebbero fatto lo stesso effetto, sfruttando anche il fatto che stamattina non ho proiezioni presto, anche se mi dicono un gran bene di Three Billboards Outside Ebbing, Missouri e che ovviamente sarò maledetto per sempre per non averlo visto qui al Festival, ma io sticazzi, sono troppo felice di aver dormito e non rimpiango nulla, che qui il sonno è come l’oro. A quanto pare sono l’unico al Lido a non avere un selfie con John Landis. Ho provato ad aspettarlo mezz’ora prima della sua conferenza per la riedizione in 3D del Thriller di Michael Jackson (amo Landis per il suo spirito squisitamente vintage. Capito? Il 3D. Quella roba che cinque anni fa cercavano di venderci come il futuro della sala), ma niente. Nemmeno
A chi dice che la Mildred del film possa portare la McDormand di nuovo agli Oscar, Frances risponde: “Mildred è la mia Marge (personaggio di Fargo premiato con l’Oscar, ndr) cresciuta. Il mio personaggio era interessante perché alcuni suoi tratti sono simili a quelli di un personaggio del western. Quando pensavo a delle icone del cinema a cui ispirarmi mi venivano in mente solo uomini, e così ho pensato a John Wayne, riferimento che è stato lasciato fuori dal film perché in un paio di scene avevo anche imitato la sua camminata.”


Io questa mattina ho appuntamento per trucco e parrucco, e non perché ce ne sia particolarmente bisogno qui (come diceva Ang passiamo le giornate tra persone vestite come DiCaprio in The Revenant a quelli vestiti da pinguini che se vengono solo a fà i selfie tra cinesi fuori dal red carpet), ma perché dopo due giorni di pioggia, ma di quelle monsoniche che pensi ti abbia mandato qualche ex fidanzato solo per romperti i coglioni e farti uscire vestita come una foca monaca, ero impresentabile pure per il Selvaggio Lido. Per cui realizzo che forse è il caso di rendermi un’umana e decido anche di farmi truccare, almeno per coprire le occhiaie da ore di sala al buio che ci rendono tanto truci, che poi sembriamo sempre incazzati col mondo andando ad alimentare l’orrendo cliché secondo cui i critici sarebbero sempre incazzati perché in verità volevano fare i registi ma erano pippe ar sugo. Orrendo, ovviamente, in quanto vero, nel 90%. Ora uno che non lo sa pensa: ‘E che ce vò, vai, te mette un po’ di ombretto, mascara, rossetto, 5 minuti e via’. Colcazzo, miei amati ventiquattro lettori. Arrivo coperta con un foulard e gli occhiali come Mata Hari per la vergogna di mostrare le ore di sonno perse, e ti trovi davanti questo Dio che uccide le imperfezioni, bellissimo già alle nove del mattino, che ti scruta con calma, ti studia, e poi inizia a pulire i pennelli. Tu osi dirgli ‘guarda, una cosa veloce giusto per nascondere le occhiaie’ e quello emette un ultrasuono, simile forse a quello dei delfini in un delfinario quanto non acchiappano al volo er pescetto – o se preferite, a quello emesso del Mostro della Laguna nel film di delToro quando gli danno scosse elettriche sulle palle, e con buona ragione – e mentre tu cerchi di sdrammatizzare e intanto te copri le orecchie per non avere le convulsioni lui ha già sfoderato un porta arnesi che simile forse l’hai visto in un film di Tarantino, e conteneva cose non proprio piacevolissime, e inizia a lavorare. Con una cura meticolosa e sprezzante verso le lancette che io guardo con la coda dell’occhio mi tortura per circa mezz’ora – roba che al cospetto le ossa spezzate e le sevizie di Brawl in Cell Block ’99 sono scherzi al telefono che finiscono con ‘stocazzo’ – e vi assicuro sono cose che pure io che faccio pipì in testa a Clio Make up non avevo mai visto fare. Dopo tutto questo lavoro, felice finalmente di potermi fumare una sigaretta, entrare in sala e godermi il film mi metto in coda per vedere Virzì. Non l’avessi mai fatto. Pure io ho pianto in maniera imbarazzante, scambiandomi kleenex col mio vicino di posto che a un certo punto, se non avesse tirato fuori una banana per far merenda (e io odio l’odore di molte cose, tra cui quello) avrei abbracciato. Poi il pensiero è andato al mio trucco, e al Dio dei pennelli e fortunatamente prima di uscire dalla sala sono passata dal bagno, che è sempre un piacere incontrare durante il festival, e ho cercato di ripulirmi senza sembrare Pierrot. In tutto questo incontro una ragazza che piagne pure lei, le faccio un cenno di intesa, le dico ‘Virzì eh’, me dice ‘no m’ha mollato quel gran figlio di una bòna donna del mio fidanzato, ora che torno lo ammazzo’. Bene, come non detto, pietra sopra. Finale con le feste, che non sempre sono una cosa bella. Perché il tipo di feste varia da quelle in cui invitano anche i cavalli di fronte al red carpet, a quelli in cui per entrare devi superare prove di sopravvivenza. Ad esempio ieri io e Ang abbiamo dovuto indossare una calzamaglia colorata e saltare su un tetto in un posto indicatoci da una mail anonima. Su quel tetto, dopo aver dato prova di saper stare 5 minuti nella posizione del Guerriero tipica dello Yoga Asana. Dopo questa prova, ci siamo calati dal tetto e io ho dovuto fare il bagno nella fontana davanti alla biglietteria, che ora copre la famosa buca della darsena, urlando ‘Ang, Ang, came here!’. E solo allora, finalmente, un ragazzo rasato vestito da Borghi ci ha consegnato 2 biglietti per andare alla festa. Com’è stata? Non lo sappiamo. Siamo annati a cena da Tiziano, ristoratore amabile che ce tiene il posto a qualsiasi ora, perché le cose troppo complicate ci stanno sul cazzo a prescindere. Ci vediamo domani, voi intanto fate 10 flessioni.





Maoz cerca con formalizzazioni alla Sorrentino di dare un tocco magico, onirico, al suo racconto che si concentra comunque sulle brutture della guerra. La scelta precisa è quella di utilizzare un tono surreale per la sequenza centrale e spostarsi poi sull’iperrealismo nella prima e nella terza scena.
Altra sonora delusione, e oggi la possiamo dire perché la Carducci è tornata e non si parlotta degli assenti, è la sua disillusa promessa di portare con sé un drone personale per le riprese e soprattutto selfie aerei con gli animali famosi. Già immaginavamo epiche scene di autoperculamento iper-tecnologico, e che il drone cominciasse a prendere coscienza come HAL-9000, si innamorasse di lei e facesse un massacro per gelosia di tutti i suoi ammiratori, con ampi schizzi di sangue e materia cerebrale che avrebbero reso il red carpet ancora più vivace. E invece no, non lo ha portato.