Peter Greenaway
non è considerabile un regista, nel senso più restrittivo del
termine, poiché le sue sperimentazioni visive spaziano a tutto
tondo nelle arti espressive per poi confluire magicamente nel
linguaggio cinematografico. Greenaway sostiene che il cinema è
“morto”, perché in poco più di un secolo di vita non ha avuto
evoluzioni sostanziali, a differenza di quanto invece è avvenuto e
continua ad avvenire con la pittura, attribuendo la colpa ad un uso
sfrenato e commerciale della struttura narrativa, che a poco a poco
ha finito con il soffocare l’atto creativo e la ricerca
formale.
Fin dai suoi primi film la ricerca
espressiva balza immediatamente alla ribalta creando uno stile
inconfondibile ed unico, forse difficile da penetrare da parte di
un pubblico “normale”, ma deliziosamente invitante per chi decide
di farsi trascinare dai giochi enciclopedici e metaforici del
filmmaker gallese. La sua nuova fatica cinematografica “Goltzius
and The Pelican Company” è il degno coronamento di decenni di
sperimentazioni e sicuramente il punto di partenza per nuove strade
da percorrere.
La narrazione, anche se
apparentemente fondamentale, è come al solito una delle tante
impalcature che per Greenaway sostengono il materiale filmico. Ben
più importanti sono le sottostrutture, come le sei rappresentazioni
teatrali che cadenzano l’andamento del film, o i vari peccati di
natura sessuale, come l’incesto, la necrofilia, il voyeurismo, o
ancora le incisioni di Goltzius mescolate con gli schizzi dello
stesso Greenaway.
Il film racconta un episodio della
vita di Hendrik Goltzius, incisore, stampatore ed editore,
contemporaneo di Rembrandt, che è in viaggio verso l’Italia assieme
alla compagnia teatrale del Pellicano. Sulla strada decide di
fermarsi in Alsazia, ospite del margravio locale, un laido
individuo che oltre a governare e a defecare in pubblico,
sbucciando mele per le sue scimmie, si diletta di mecenatismo.
Goltzius vorrebbe convincerlo a
finanziere la realizzazione dei suoi libri con le storie
dell’antico testamento viste in maniera erotica e ambiguamente
metaforica, in particolare la storia di Lot e delle sue figlie, di
Davide e di Betsabea e di Sansone e Dalila. Il margravio però esita
a farsi convincere, così l’incisore gli propone di mettere in scena
per lui sei rappresentazioni, una per sera, insieme agli attori
della compagnia del Pellicano. Allettato dalla prospettiva di
partecipare attivamente in messinscene erotiche il Margravio
accetta. Ma la finzione si fonde con la realtà e così prende il via
un perfido gioco di sesso, sangue e potere.
Dopo il film su
Rembrandt, “Nightwatching” del 2007, Greenaway realizza il secondo
capitolo della sua personale trilogia dedicata all’arte fiamminga,
che si concluderà con un lungometraggio dedicato al visionaro
pittore Hieronymus Bosch. “Goltzius and Pelican Company” segue
inoltre un’altra importante trilogia “The Tulse Luper Suitcases”
del 2003, dove la sperimentazione visiva prendeva il sopravvento
sulla narrazione, soprattutto negli ultimi due capitoli, facendo
avvicinare l’opera più ad una complessa performance di video-arte
piuttosto che ad un film. E questo non è mio avviso un difetto,
anzi dovrebbe essere inteso come un pregio, perché le sei ore della
rocambolesca vita di Tulse Luper, racchiusa in novantadue valige
disseminate per il mondo, è un divertente viaggio enciclopedico,
visionario, surreale, a volte sconfinante nel non-sense. Peccato
che in un ambiente ormai corroso dalla mercificazione tale
colossale opera sia stata intesa come non adatta al pubblico e
quindi relegata nel limbo della non-distribuzione, eccezione fatta
per il primo capitolo della trilogia.
Il risultato visivo di “Goltzius
and Pelican Company” è a dir poco superbo. La bellezza folgorante
delle immagini si fonde con un testo profondo, ma ironico,
sovversivo, ma incredibilmente logico, dove con l’innocenza di un
fanciullo si dichiara che in fondo la parola God (Dio) atro non è
che la parola cane (Dog) letta a contrario, oppure che il detto
“una mela al giorno toglie il medico di torno” sia una conseguenza
di quanto avvenuto con Adamo ed Eva. Il tutto giocato in una
ammiccante ambiguità tra teatrale e reale, tra messinscena e gioco
di ruolo, che permette di fare quello che altrimenti non sarebbe
lecito, o meglio dignitoso. I personaggi si mascherano, pur
rimanendo perfettamente riconoscibili, e sotto questo effimera
anonimato, si abbandonano ai desideri più morbosi e agli atti più
efferati. Ma il gioco sembra sfuggire loro di mano. E quando il
labile copione viene sconvolto con l’inserimento forzato di una
storia dal nuovo testamento, quella di Salomè e Giovanni Battista,
gli stessi protagonisti sembrano subire una tragica crisi di
identità, non distinguendo più i confini della
rappresentazione.
La tecnologia digitale è di valido
supporto alla pittura su schermo di Peter Greenaway che riesce a
sviluppare le ricerche visive iniziate con il suo ormai lontano
“Prospero’s Books” (L’ultima Tempesta) del 1991, che accostato a
questa nuova opera appare oggi quasi un taccuino di schizzi.

Ma le sue sperimentazioni partono
da molto prima, anche in tempi non sospetti, quando l’uso di
tecnologie di manipolazione dell’immagine era ancora da
considerarsi fantascienza. Come non pensare ad una delle scene
chiave di “The Belly of an Architect” (Il ventre dell’architetto)
del 1987, dove il protagonista scopre di essere stato seguito e
fotografato dalla sua amante per mesi durante la sua permanenza a
Roma. In tale scena la storia del film è condensata in pochi
secondi attraverso una serie di collage fotografici reali, montati
in una successione di piccoli carrelli laterali sottolineati dalla
splendida musica di Wim Mertens; sembra quasi una dichiarazione
d’intenti, in attesa di una tecnologia adeguata che permetta di
manipolare il materiale filmico.
C’è da dire inoltre che le
sperimentazioni di Greenaway iniziano molto prima, con le sue prime
opere come “The Falls” del 1980 o “Vertical Feature Remake” del
1978, dove i suoi disegni, la sua pittura, le sue fotografie si
integrano con materiale filmico assumendo una nuova identità
espressiva.
In “Goltzius and Pelican Company”
il compositing si fa complesso, multistratificato, con intarsi
estremamente complessi e green-screen al servizio dell’arte
espressiva e non degli effetti spettacolari. Come in “Prospero’
books” , in “Pillow’s Books” e in “Tulse Luper Suitecases”,
l’immagine nell’immagine rompe il concetto di montaggio
tradizionale a stacco e sovverte le regole legate alla continuità
temporale, proponendo simultaneamente diverse viste della stessa
rappresentazione. Lo spazio esplode, si disintegra e si ricompone
digitalmente in un collage visivamente esaustivo, che sembra
seguire contemporaneamente gli enunciati delle principali
avanguardie artistiche storiche del novecento.
In alcuni momenti
entrano addirittura in gioco modellazioni in 3D volutamente
dichiarate come tali e lasciate in uno stadio intermedio, per voler
dare un senso straniante di progettazione architettonica che
irrompe nelle realtà. E’ bello vedere dichiarato tale artificio,
che nei film destinati alla normale distribuzione si cerca invece
affannosamente di farlo sembrare il più reale possibile. Per
Greenaway i personaggi sono liberi di muoversi nell’artificio, tra
obelischi disegnati e gabbie digitali, in una sorta di “graphic
novel” che sembra uscita dalle mani di Piranesi.
Goltzius, Rembrandt e tutta una
folta schiera di artisti citati esplicitamente o negli stupefacenti
giochi di collages digitali esprimono la loro arte avendo a
disposizione una tavolozza tecnologica che ai loro tempi non
sarebbe stata minimamente pensabile. E infatti Greenaway apre il
suo film con una breve disquisizione proprio sull’evoluzione delle
tecniche e delle tecnologie espressive.
Anche la scelta delle ottiche
subisce un evoluzione sostanziale. Fino a questo momento Greenaway
prediligeva ottiche medie che restituissero una esatta percezione
di quanto inquadrato e senza forzature prospettiche. Ma in
“Goltzius and Pelican Company” la visione si allarga, le ottiche
divengono sempre più corte, fino ad esibire delle splendide riprese
in fish-eye, quasi a voler sottolineare con tale scelta l’aspetto
voyeristico delle rappresentazioni.
La storia si svolge
all’interno della corte del margravio, genialmente ricostruita, o
meglio adattata in una vecchia fabbrica dimessa, con caldaie a
vapore, vasche d’acqua stagnante e tutto un fantasmagorico
patrimonio di archeologia industriale che magicamente si sposa con
l’epoca barocca grazie al lavoro dello scenografo Ben Zuydwijk e
dei costumisti Marrit Van Der Burgt e Blanda Budak. Il concetto di
rigore storico è dimenticato, le epoche si sovrappongono e si
mescolano, ma tutto rimane credibile, perché in fondo è giusto
raccontare il passato tenendo ben presente tutto quello che è
intercorso tra la nostra epoca e i fatti narrati, anzi sarebbe
disonesto il contrario.
Le splendide musiche dell’italiano
Marco Robino, insieme al suo gruppo “Gli Architorti”, accompagnano
egregiamente questa messinscena di sapore elisabettiano ibridata
con le atmosfere di Brecht e Weill.