Sono passati poco più di dieci anni
dall’esordio dietro la macchina da presa di Paolo
Sorrentino e sono stati sufficienti per imporlo nel
panorama del cinema italiano ed internazionale come una delle voci,
o meglio degli sguardi contemporanei più acuti e originali. Assieme
a Matteo Garrone è stato ed è uno dei protagonisti
della rinascita del cinema italiano, che da anni si attendeva. Di
rinascita infatti si è parlato quando il suo Il
Divo e
Gomorra di Garrone conquistarono Cannes nel
2008. Ma già nel 2004 l’ottima accoglienza riservata oltralpe a
Le conseguenze dell’amore aveva portato a valutare
con più attenzione e apprezzare l’opera di questo giovane regista
napoletano anche nell’Italia esterofila.
A caratterizzarlo è uno stile
meticoloso, attento ai dettagli, ma anche imprevedibile e
spiazzante, che crea meccanismi visivi perfetti e intriganti, svela
punti di vista inattesi e prospettive insolite. I suoi protagonisti
sono antieroi, perdenti da sempre o meglio ancora, vincenti
divenuti perdenti, dimenticati, vittime di sé stessi e dei propri
errori, più che del caso o di un prossimo senza scrupoli. Non sono
certo stinchi di santo: quasi tutti rappresentanti di un’umanità
mediocre, ad accostarli si ottiene un discreto caleidoscopio dei
vizi umani, mentre scarse sono le virtù.
In tutti, però, c’è qualcosa che li
rende estremamente umani: se non qualche lato positivo, qualche
commovente debolezza che li avvicina allo spettatore e lo spinge a
empatizzare. È uno sguardo mai compiaciuto o condiscendente, ma
sempre complesso e a tutto tondo, affascinato dalle parabole
discendenti e dagli improvvisi scatti d’orgoglio, dalle sterzate
inaspettate verso il meglio o il peggio, dai piccoli eventi che
scatenano grandi conseguenze. Uno sguardo che sa essere universale,
senza porsi confini di spazio, tempo e genere; che ama spaziare,
unendo realtà e fantasia, visionarietà e concretezza in una formula
personalissima e sempre suggestiva.
Paolo Sorrentino, biografia
Paolo Sorrentino
nasce a Napoli nel 1970 da padre bancario e madre casalinga; perde
entrambi a 17 anni. Forse per questo, ha dichiarato in
un’intervista, non è diventato un bancario come suo padre. Da metà
anni ’90 si dedica invece al cinema, per cui scopre di avere
passione e talento. Si cimenta nella direzione di corti e nella
sceneggiatura. È il 1998 quando si fa notare scegliendo di
collaborare con il regista Antonio Capuano, assieme al quale scrive
Polvere di Napoli. La pellicola riscuote un
buon successo a Locarno. Nello stesso anno dirige il corto
L’amore non ha confini, premiato al Roma
Independent Film Festival. Con questo lavoro Sorrentino intraprende
anche la collaborazione con la Indigo Film, che lo accompagnerà
negli anni a venire attraverso molti successi. Il lavoro di
sceneggiatura lo avvicina anche alla tv, dove si occupa di alcuni
episodi della serie La Squadra.
L’esordio nel lungometraggio arriva
nel 2001 con L’uomo in più. Protagonisti due uomini
legati da casuali quanto precise affinità: stesso nome, Antonio
Pisapia, stessa data di nascita, 15 agosto, stessa parabola
esistenziale, seppur in ambiti diversi – musica e calcio – stelle
nei primi anni ’80, poi il declino. Dalla gloria al dimenticatoio,
l’uno vittima di scelte sbagliate e di una vita di eccessi, l’altro
di un incidente che gli stronca la carriera. Per tratteggiare le
due figure, Sorrentino s’ispira a Franco Califano e ad Agostino Di
Bartolomei, mentre per le interpretazioni dei due Pisapia sceglie
rispettivamente Toni Servillo e Andrea
Renzi. Le loro vicende scorrono parallele per poi
intrecciarsi brevemente. Solo uno dei due riuscirà a reagire.
L’ambientazione è napoletana, ma si tratta di una Napoli nascosta,
insolita, come le vite dei protagonisti, dimenticati da tutti
tranne che dal regista, che li osserva e ce li fa conoscere,
coadiuvato dalle ottime interpretazioni dei protagonisti.
Sorrentino ottiene così, oltre al Ciack d’Oro alla
sceneggiatura – sempre opera sua – il Nastro d’Argento per il
miglior esordio, segno che la critica ripone in lui grandi
speranze.
Le conseguenze dell’amore
Speranze soddisfatte nel 2004,
quando alla difficile prova del secondo film, Paolo
Sorrentino partenopeo crea quel gioiellino di culto che è
Le conseguenze dell’amore. Contando ancora sulle
doti attoriali di Servillo, con cui ha intrapreso una
collaborazione destinata a tramutarlo nel suo attore “feticcio”,
Sorrentino si sofferma su un altro perdente: Titta Di Girolamo. E’
un esperto di borsa e transazioni finanziarie, che si è fatto
abbagliare dai guadagni facili, si è messo in affari con la mafia,
ha commesso un grave errore e lo sta pagando. Lo paga vivendo da
solo in un lussuoso albergo svizzero. Lontano da moglie, figli e
relazioni sociali. Dalle sue mani transitano valige piene di soldi
sporchi che lui provvede diligentemente a riciclare presso le
banche per conto della criminalità. La sua vita è come un orologio
svizzero, scandita da ritmi precisi; lui appare freddo e
impassibile, così come l’ambiente in cui si muove.
Poi entra in gioco un fattore che
scompagina questo delicato e precisissimo equilibrio: l’amore per
una ragazza, barista dell’hotel dove Titta alloggia. Le sue
conseguenze saranno imprevedibili ma nefaste per entrambi, dando
però a Titta l’occasione per mostrare il suo lato più umano, per
riscattarsi in un certo modo, mostrando generosità, e coraggio,
orgoglio e dignità. Una visione comunque estremamente pessimistica
quella sorrentiniana: l’amore, alla fine resta un miraggio, una
fugace apparizione, irrealizzabile, e anche l’amicizia è concepita
in maniera singolare, quasi asettica, seppure portatrice di senso
positivo, in quanto travalica distanze e confini per restare
indissolubile. Stilisticamente il film è costruito in
consonanza con l’estrema precisione e meticolosità del suo
protagonista: il bianco, i colori freddi, gli specchi, le superfici
metalliche, le scocche di automobili rendono la freddezza del
personaggio e degli ambienti in cui si muove; i piani sequenza, le
azioni ripetute, i rumori ricorrenti, come il fruscio delle
banconote, o il rumore della corda della valigia che si tende
(presaga di un trolley che verrà) sottolineano la ripetitività
della vita di Titta, fatta di procedimenti sempre uguali a sé
stessi, inquietanti e rassicuranti al tempo stesso.
Il film scorre lento, parco di
parole, che sono però sempre meticolosamente pensate e mai casuali,
e restano come epigrafi nella memoria degli spettatori. Con questo
lavoro presentato a Cannes, Paolo Sorrentino si
affaccia nel panorama internazionale e sulla scorta della buona
accoglienza, il film fa incetta di premi in Italia: David al film,
alla regia, alla sceneggiatura dello stesso Sorrentino, alla
fotografia di Luca Bigazzi; Nastro d’Argento a
Toni Servillo. È una vera svolta nella carriera
del regista partenopeo, che accresce enormemente la sua popolarità
tra il pubblico.
Il 2006 è l’anno de L’amico
di famiglia, favola nera di grottesco squallore e di
orrori umani senza fine, da ogni parte, senza distinzioni o
preferenze. Non è solo cioè, il laido e ripugnante protagonista
Geremia de’Geremei/Giacomo Rizzo a suscitare col
suo aspetto e con il suo sporco mestiere d’usuraio, con le sue
maniere melliflue e ciniche, la nostra riprovazione. Così accade
anche per i personaggi all’apparenza “buoni”, o “normali”, come la
bella e giovane Rosalba/Laura Chiatti, che da
vessata si trasforma in vessatrice, o l’amico, socio, poi
traditore, Gino/Fabrizio Bentivoglio, che
finiscono per rivelare una crudeltà e un cinismo quanto meno pari a
quello del protagonista. Un ritratto impietoso della società tutta,
insomma. La visione pessimistica è qui ancor più radicalizzata che
nella pellicola precedente. Le fanno in un certo senso da
contraltare, i giochi virtuosi della macchina da presa, o le
incursioni di strambi oggetti di scena. Sorrentino si mostra ancora
una volta abile nel padroneggiare il mezzo espressivo. Tuttavia,
sarà per l’estetica respingente di luoghi e personaggio, per la
bassezza e aridità che tutto comunica, per l’angosciante assenza
della benché minima speranza, per una certa ridondanza visiva, il
film può risultare meno coinvolgente dei precedenti. Serve però a
confermare le indubbie doti di Paolo Sorrentino,
anche qui sceneggiatore, e a guadagnare ancora una volta il
passaggio a Cannes.
Il 2008 è l’anno
della vera e propria consacrazione internazionale con Il
Divo, in cui si rinnova la collaborazione con
Toni Sevillo, capace di dare magistralmente
corpo alla figura di Giulio Andreotti, reinterpretata dalla
caleidoscopica immaginazione sorrentiniana. Uno sguardo
sorprendente e inaspettato, come sempre è quello del regista
partenopeo. Una delle figure che hanno segnato profondamente la
politica italiana del ‘900 viene qui presentata sotto una luce
completamente nuova. Non può non dirsi un film anche politico, ma
la visione è molto più ampia. Si fa luce, al solito, su un sistema
complesso e complessivo che è la politica italiana, ma anche sulla
società italiana, che quella politica rappresenta. Inoltre, si va a
guardare, a scoprire, a immaginare l’Andreotti sconosciuto,
privato, con i suoi vizi, manie, ossessioni, potenti emicranie,
tratteggiandolo con una vivace e ironica vena grottesca e
surreale.
Di questa figura controversa
Sorrentino fa una maschera imperturbabile, immersa in un sistema
melmoso, che tuttavia sembra non scalfirlo. Impenetrabile, come una
cassaforte che custodisce inconfessabili segreti, ma anche come
assente, attonito, forse dimentico di sé per sopravvivenza. Una
trasformazione anche fisica cui
Servillo si presta ottimamente, grazie alla sua capacità di
rendere l’intensità del personaggio grazie anche al solo sguardo.
La pellicola riesce poi ad essere anche divertente e godibile,
grazie ad uno stile eclettico e visionario che mescola immagini
stravaganti, luci, colori e musica in un mix quasi esplosivo. La
realtà risulta così più viva e pregnante, proprio perché “corretta”
dalla lente della fantasia. Presentato a Cannes, conquista il
Premio della giuria, ed è poi largamente apprezzato dalla stampa
estera, come in patria da critica e pubblico. Guadagna il Nastro
d’Argento per la Miglior regia, sceneggiatura e produzione, oltre
che per l’interpretazione di
Toni Sevillo. Inoltre, ottiene sei David
di Donatello.
Ormai amato in Francia e acclamato
protagonista della nuova cinematografia italiana, il regista
potrebbe dirsi soddisfatto. Ma c’è un altro desiderio che vuole
realizzare: dirigere Sean
Penn. E la cosa comincia a sembrargli non così peregrina, sia
perché il suo cinema sta rivelando progressivamente una vocazione
sempre più internazionale, sia perché lo stesso Penn, presidente di
giuria a Cannes, ha apprezzato moltissimo Il
Divo.
Intanto però, Sorrentino si dedica
alla scrittura. Oltre agli script dei suoi film, decide infatti di
porre mano al suo primo romanzo: Hanno tutti ragione, che
vede la luce, edito da Feltrinelli, nel 2010. Il personaggio di
Tony Pagoda, cantante neomelodico napoletano sul viale del
tramonto, va ad aggiungersi alla galleria di perdenti
sorrentiniani, capaci di raccontarci con ironico disincanto le
miserie umane, di cui sono insieme sottili analisti ed evidenti
incarnazioni. Diventa un caso editoriale ed è candidato al
premio Strega. Sarà seguìto nel 2012 da Tony Pagoda e i suoi
amici.
Tornando invece al
cinema, ecco che nel 2011 si concretizzano il progetto americano e
la collaborazione con Sean Penn in
This Must Be the Place. Stavolta siamo alle
prese col lato meno noto, nascosto della vita e della
personalità di una rockstar cinquantenne piuttosto in disarmo.
Cheyenne/Sean
Penn ha smesso infatti di suonare da quando due
ragazzi che ascoltavano la sua musica si sono uccisi, è depresso,
o, come dice la moglie Jane/Frances
McDormand, semplicemente annoiato. Esteticamente, è
rimasto fermo agli anni ’80 – il look è evidentemente ispirato a
quello di Robert Smith dei Cure – ha l’andatura incerta e malferma
e la voce cantilenante di un bambino lamentoso, come chi chieda
continuamente scusa di esistere. Come propagine di sé ha un
carrello della spesa prima e poi un trolley nero, da cui è
inseparabile. La morte del padre che non vedeva da trent’anni,
diventa per lui l’occasione di un lungo viaggio attraverso
l’America, alla ricerca di un criminale nazista che aveva umiliato
il genitore in un campo di concentramento. Ma più correttamente,
alla ricerca di una possibilità per chiudere i conti col proprio
passato e iniziare un nuovo percorso. Una crescita, un’evoluzione
che sa di ottimismo, una luce che finisce per rischiarare non solo
l’orizzonte del protagonista, ma anche quello delle vite spesso
desolate di chi gli sta intorno, o di quanti incontra sul suo
cammino. Qui, tra gli spazi aperti delle highways americane,
accompagnato dalle musiche dei Talking Heads (David
Byrne compare anche in un cameo), il regista ritrova una
visione positiva, che lo riconcilia con la vita, con gli uomini e
col mondo. Il film ottiene un grande successo al botteghino ed è
apprezzato dalla critica. È premiato col David per la migliore
sceneggiatura, scritta a quattro mani con Umberto
Contarello.
Dopo aver mostrato di trovarsi
ampiamente a suo agio anche oltreoceano, e di non essere preda di
nessun tipo di complesso d’inferiorità nei confronti del cinema
americano, Paolo Sorrentino torna però all’Italia,
raccontandoci col consueto disincanto la sua capitale, sintesi di
feroci opposti come la bellezza della sua arte, l’eleganza della
sua millenaria storia e il cattivo gusto, l’ipocrisia, la falsità,
la cattiveria di una società ritratta nelle ultime fasi della sua
inesorabile decadenza. Questi i territori in cui si muove l’ultima
fatica del regista,
La grande bellezza, che conta ancora sulla
presenza del suo alter ego cinematografico Toni
Servillo, ma si arricchisce di un nutrito cast:
Carlo Verdone e Sabrina Ferilli
innanzitutto, ma anche Roberto Herlitzka,
Carlo Buccirosso, Isabella Ferrari, Galatea Ranzi, Pamela
Villoresi, Iaia Forte, Massimo Popolizio, Giorgio Pasotti.
Della sceneggiatura si occupa lo stesso Sorrentino, ancora assieme
a Umberto Contarello. La fotografia è di Luca
Bigazzi, mentre al montaggio c’è Cristiano
Travaglioli. Il film è l’unico italiano in concorso al
Festival di Cannes nella sezione
principale. L’uscita nelle sale è prevista per il 21 maggio
prossimo.

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