Jessica Woodworth
ha presentato oggi a Roma il suo ultimo film Un Re allo
sbando – King of the Belgians diretto in coppia con
Peter Brosens; entrambi sono reduci dal successo
che la commedia ha riscosso alla 73esima edizione del
Festival di Venezia e in patria, pronti per
accogliere l’uscita italiana grazie a Officine UBU
in 40 copie sia in versione originale con sottotitoli che
doppiata.
Nella cornice della Casa del Cinema,
la Woodworth ha risposto alle domande della stampa.
Com’è stato accolto il film
in Belgio?
«Il film è uscito il 30
novembre nelle Fiandre e poi, tre settimane dopo, nella Vallonia,
riscuotendo un discreto successo da entrambe le
parti»
La tradizione
cinematografica belga è molto più severa, e ci ha abituato da
sempre a titoli più drammatici e “scuri”; ora però, grazie ad un
film come questo e a una commedia come Dio esiste e vive a
Bruxelles, ne stiamo scoprendo il lato più divertente e
leggero
«In base ai nostri film
precedenti – Khadak, Altiplano e La Quinta Stagione – The
Fifth Season – abbiamo realizzato che tragedia e commedia
sono, in realtà, due facce della stessa medaglia. L’idea per il
film e nata nel 2011 mentre stavamo lavorando su altri progetti,
proprio quando il Belgio per 589 giorni non ha avuto un governo:
tutto funzionava lo stesso molto bene, ma la crisi ci aveva spinto
a creare qualcosa. Poi arrivò il vulcano islandese Eyjafjallajökul
con la sua inaspettata e prodigiosa eruzione, che costrinse il
presidente dell’Estonia a restare bloccato ad Istanbul, e solo dopo
aver visto delle foto di questo presidente che attraversava i
Balcani con un vecchio pullman, senza seguire il protocollo, c’è
venuta una piccola grande idea: perché non facciamo che sia il re
del Belgio ad essere forzato a compiere un viaggio, nell’anonimato,
senza comunicazioni attraverso l’infinita complessità dei Balcani,
partendo da Istanbul, che non è altro che la periferia d’Europa? In
queste scelte c’era una forza simbolica immensa. Ci piaceva un
viaggio vintage dove i concetti di spazio/tempo avessero una
percezione totalmente diversa.»
Gli attori sono dei non
professionisti (a parte coloro coinvolti nei ruoli principali)? E
come avete trovato un equilibrio?
«Abbiamo detto agli
attori che non stavamo facendo una commedia bensì un mockumentary,
quindi bisognava calarsi con credibilità e trovare un equilibrio.
Il rischio, una volta incontrati così tanti stereotipi lungo il
nostro percorso, era quello di incapparci; ma abbiamo evitato di
fare un’antologia di elementi, una sorta di allegoria politica: la
nostra chiave era quella di rimanere sempre molto vicini alla
figura del Re, viaggiando attraverso gli occhi di Duncan Lloyd (il
regista che lo segue nel viaggio). Potevamo inoltrarci in territori
oscuri parlando di profughi e guerre nei Balcani, ma abbiamo
cercato di trovare un equilibrio soprattutto attraverso il
montaggio, proprio mentre l’Europa stava mutando sotto i nostri
occhi. Cercavamo di rivelare delle cose ma di non svelare in nessun
modo il lato nascosto di nessuna di queste: la chiave era restare
concentrati sul Re. Un’altra difficoltà l’abbiamo incontrata nel
finanziare il film: abbiamo iniziato con il fondo fiammingo che
pero ci ha “bypassato” dicendo che non avremmo mai potuto far
ridere la gente, mentre invece a Venezia c’è stata una grande
sorpresa.
Un Re allo Sbando: Jessica
Woodworth presenta a Roma la sua nuova commedia
Molti attori sono non dei
professionisti: in Bulgaria, in Serbia e Montenegro, incontravamo
persone divertenti che si prestavano alla “nostra causa”; tutto
quello che viene detto in certi momenti è vero, non segue una
scrittura, siamo rimasti aperti alla realtà. La realtà, appunto, ci
ha dato tanti regali lungo il percorso: abbiamo girato
cronologicamente in 20 giorni, restando 2 giorni ad Istanbul e poi
trasferendoci in Bulgaria. Molte scene sono improvvisate, e ho
scelto di non consegnare i dialoghi agli attori fino all’ultimo
momento, così si sono abituati ad accettarli in extremis e hanno
vissuto un’esperienza trovando il tempo giusto per sviluppare i
personaggi e la sintonia tra di loro, cercando i comportamenti,
improvvisando sui caratteri e perfino lavorando sul protocollo,
personaggio invisibile che non si vede mai ma che aleggia fin
dall’inizio del film. Abbiamo cercato di lavorare sulle voci e la
sinergia, perfino sulla lingua, perché in certi momenti si usa una
lingua e in altri un’altra, riflettendo la stessa complessità
linguistica che riflette – a sua volta – la complessa struttura del
Belgio dominato da tre lingue.»
Il viaggio del Re Nicolas
III si sarebbe dovuto concludere in Italia: perché alla fine avete
escluso questa opzione?
«L’Italia non entra mai
nella storia: la vicenda si conclude in Albania ma non è detto che
il Re non sia scappato di nuovo, e magari stavolta proprio in
Italia. Visto che stiamo scrivendo il seguito della commedia ma né
come viaggio né come finto documentario, stavamo pensando di
girarlo sull’isola di Tito in Croazia, e forse i protagonisti
potrebbero finire in Italia, chissà. Questa volta stiamo usando un
umorismo molto più feroce e mordace, parlando dell’estrema destra
in modo forte, visto che viviamo in un’epoca di dittature e la
nostra arma principale qual è, se non la commedia unita alla
satira?»
Il rimando alla censura con
riferimento alla stampa è voluto oppure no?
«In Belgio c’è molta
libertà e non c’è autocensura, la situazione è diversa rispetto a
prima: oggi i giornalisti devono reinventarsi, c’è molta più
libertà. Pero l’immagine della famiglia reale è controllata, non
può esprimersi liberamente con la gente perché tutto è controllato.
L’immagine del re e del pase va rinfrescata, soprattutto quella
legata ad un paese come il nostro dal quale nessuno si aspetta che
possa accadere qualcosa. Per quanto riguarda il codice etico del
giornalismo, la vera domanda è: quando provocare, e come? E il
montaggio, che taglio dare? Come la domanda rivolta nel film: la
camera ci dà il diritto di entrare nella vita degli altri?
L’integrità dimostrata del documentarista Lloyd dà fiducia al Re e
lo spinge ad appoggiarlo.»
Il film è una grande
metafora: un Re allo sbando, come il Belgio, l’Europa o gli Stati
Uniti. Siete rimasti spiazzati da questa uscita profetica? Siccome
la vostra formazione è incentrata soprattutto sul documentario, vi
state orientando piuttosto sulle commedia per ricavare il maggior
numero di spettatori?
«Ogni volta pensiamo
che il nostro film sia l’ultimo. Che non ne arrivino altri: fare un
film è sacro, un privilegio per via delle innumerevoli difficolta.
Ogni film e fatto con l’idea di raggiugere il pubblico. Non abbiamo
scelto noi di avere una piccolissima distribuzione dei nostri film
drammatici e la scelta è ricaduta sulla commedia anche se non nasce
da questo discorso: noi facciamo film con fondi pubblici per il
pubblico. Oggi la gente preferisce vedere i film a casa, ma la
tradizione non si è esaurita. Per quanto riguarda il
discorso politico, oggi non solo l’Europa ma tutto il mondo è allo
sbando: stiamo vivendo un periodo triste per il nostro paese,
soprattutto dopo gli attentati terroristici. Non dobbiamo lasciare
che la paura e l’odio marchino i nostri giovani: andiamo avanti con
le cicatrici, ma pur sempre andiamo avanti. Dobbiamo recuperare un
dialogo proprio con i giovani per evitare una nuova crisi mondiale,
bisogna scongiurarla, e allontanare i vari
pericoli. Per quanto riguarda, invece, il nostro
punto di vista da registi e da abitanti del Belgio, noi non siamo
certo contro la monarchia belga, perché è qualcosa che unisce (nel
caso del nostro paese) pur costando molto al paese; c’è molta
distanza e poca comunicazione, ma il Belgio ha bisogno di questa
figura che è un collante, perché il calcio e la birra sicuramente
non bastano. Siamo uniti da tutto quello che non siamo (non siamo
francesi, non siamo tedeschi ma nemmeno olandesi). E una cosa un
po’ vecchia, ma la gente ama tutto questo: abbiamo bisogno di eroi,
di un Re che ci possa ispirare visto che oggi manca una figura
simile. Bruxelles, in fondo, è una sorta di isola nelle
fiandre.»