Il regista Gus Van
Sant gira il film Paranoid Park
nel 2007. Un ragazzino di nome Alex, che frequenta la scuola
superiore e ha la patente di guida, ama correre in skateboard, per
le strade di Portland. Il suo più caro amico, Jared, un giorno gli
propone di visitare con lui un posto molto speciale: il Paranoid
Park. Là, esiste la più importante ed impegnativa pista artificiale
per gli skaters della città. Una sera Alex si reca al
Paranoid Park da solo.
E’ uno dei ragazzi più giovani, per
cui subito gli altri skaters s’accorgono della sua
presenza. Pare che Alex non abbia l’intenzione di gareggiare, forse
perché intelligentemente sa che il suo livello di preparazione è
basso. Un ragazzo più “maturo” gli va incontro, con un gruppo di
amici. Alex gli presta il suo skateboard. In seguito, lui si farà
convincere che con loro sarebbe bello montare su un treno in corsa.
La ferrovia passa nei pressi del Paranoid Park. Alla fine, Alex
effettivamente salirà su un treno in corsa, accompagnato dal solo
ragazzo cui aveva prestato lo skateboard. Una guardia però
si accorge della loro presenza, ed arriva a batterli con la mazza.
Alex istintivamente alza il suo skateboard. Con questo,
lui colpisce la testa del sorvegliante, il quale, intontito, è
costretto ad indietreggiare. Per una pura fatalità, nello stesso
momento, un altro treno corre sul binario attiguo. Il corpo del
sorvegliante si spezza a metà, mentre Alex capisce d’aver commesso
un omicidio, guardando il volto morente.
Paranoid Park è costruito
essenzialmente tramite l’inquadratura fissa sui volti dei ragazzi.
Bisogna che ne possiamo leggere il pensiero. Nel caso di Alex,
subentreranno i sensi di colpa, per aver commesso un omicidio,
benché accidentalmente. Van Sant inquadra il volto, lasciando che
questo si giri, in maniera lenta. E’ l’avvisaglia che la persona
cercherà di evitare il contatto con gli altri. Spesso, il volto
all’inizio si vede in primo piano, ponendosi innanzi a noi. Ma
subito esso si girerà, da un lato. La visione di profilo si
percepirà facendo finta di se stessa. Se Alex è il personaggio
avente i sensi di colpa, a smascherarli ci proverebbe davvero solo
la sua amica Macy. Anche lei gioca a guardare frontalmente, salvo
poi girare il volto da un lato.
Nella scena dell’interrogatorio a
scuola, Alex potrebbe svelare al poliziotto se non la verità
quantomeno i suoi problemi. Il ragazzino maneggia la fotografia del
guardiano ucciso. Egli dapprima ha gli occhi chini sul tavolo, e
poi li alza, fronteggiando il poliziotto inquisitore. Valutiamo che
Alex alla fine non si tradisce. La sua espressione resta fredda ed
impassibile, impedendo così al poliziotto d’insospettirsi. Sin
dall’inizio del film, noi capiamo che Alex è un bravo ragazzo. Pare
che neppure la separazione dei genitori, o la spensieratezza del
fratellino, ne mini la tranquillità di carattere. Alex ha la
maturità di schivare i più sbruffoni skaters del Paranoid
Park, e persino ci dichiarerà (con la sua voce narrante) che
toglierebbe la verginità alla fidanzata Jennifer solo riconoscendo
d’amarla. Forse, l’impassibilità di Alex innanzi al poliziotto
inquisitore nasce dalla convinzione che lui, in fondo, stia già
morendo dentro.
Van Sant non prende una posizione
netta, in chiave moralistica, inquadrando i sensi di colpa del
ragazzino. Pare che Alex, sapendo d’essere un buono da sempre (di
natura), pensi che la sua condanna a ricordare l’omicidio (per
tutta la vita) già basti, pure senza l’incarcerazione.
Simbolicamente, si giustifica così l’insistenza di Van Sant a
cercare il volto, che abbandoni il rivelarsi frontale, in favore
d’un nascondimento laterale. Sembra che Alex tiri un sospiro di
non-sollievo. Il volto che abbandona il rivelarsi frontale in
favore del nascondimento centrale varrà sia facendo finta di se
stesso, sia nella prima accettazione della pena, per cui comunque
l’anima avrà una ferita insanabile. Probabilmente, a noi viene
naturale di provare compassione per Alex, influenzati dalla sua
bontà caratteriale. Il volto certo colpevole del ragazzino avrebbe
una freddezza non tanto calcolata (tacendo, per evitare la
prigione), bensì malinconicamente abbandonata a se stessa, nella
convinzione che una tragica fatalità vi si fosse abbattuta.
All’inizio, Alex pensa all’idea di consegnarsi spontaneamente alla
polizia, invocando persino la legittima difesa (per le mazzate
ricevute dal guardiano).
In
seguito, più concretamente, egli telefona al padre per cercare di
raccontargli tutto. Il caso, però, torna a dirigere la vitalità del
ragazzino. Né il padre né lo zio di Alex risponderanno alla sua
chiamata. Percepiamo bene la strana fatalità del momento. La
telefonata a casa dello zio si compie alle cinque del mattino, in
piena notte, quando è verosimile pensare che lui risponderà per
forza, svegliato dal letto in cui dorme. Van Sant lascia che il
destino salvi Alex dalla condanna sociale (col carcere), ma non da
quella interiore (per i rimorsi).
Qualcosa di simile accade nel film
Match Point, di Woody
Allen (2005). Sono frequenti le inquadrature in cui Alex
ha il volto di profilo, ma chino su se stesso. Così, percepiamo
bene l’interiorità della colpa. Alex si porterà gli occhi
virtualmente nel cuore. Quando Alex cammina nei corridoi della sua
scuola, esteticamente emerge il dettaglio della mano sinistra. Essa
può distendersi verso il cuore, oppure impugnarsi (valendo solo per
se stessa). In Alex percepiamo una dialettica etica, fra il buon
animo (che passivamente indurrebbe ad ammettere la colpa) ed il
pragmatismo della freddezza (che resisterebbe alle accuse del
poliziotto o dell’amica Macy, tacendo il più possibile la verità a
loro).
Il cuore assieme al pugno, dunque.
Alex è pure il nome assegnato da Kubrick al capobanda dei drughi,
nel celebre film
Arancia meccanica (1971). Il
ragazzino disegnato da Van Sant vive a Portland, in Oregon, e
risente (tanto per gli abiti quanto per i capelli lunghi) della
cultura grunge, dalla vicina Seattle. La contestazione alla società
di Alex-Paranoid Park non è
prevaricatrice come quella di Alex-Arancia
meccanica, esibendoci essenzialmente un
nichilismo rassegnato. Noi stimiamo Kurt Cobain il
padre sia della musica grunge sia della cosiddetta generazione X
(in cui le persone avrebbero perso gli ideali alti, verso la
comunità, privilegiando quelli bassi, verso gli affetti privati).
In Paranoid Park, Alex assolutamente non
vorrebbe fare del male a nessuno, né dirige una banda di
scalmanati. Solo, l’immaturità d’un raptus, congiunta ad
una buona dose di fatalità avversa, lo trasforma malinconicamente
in un assassino. Nello stesso Paranoid
Park, i grandi skaters forse si limitano a
spacciare le droghe leggere, contestando la società con la
rassegnazione della gara fra di loro (di nuovo: negli affetti
privati, rinunciando a complicarli pubblicamente, tramite la
politica).
Il ragazzino Alex
all’inizio sembra interessarsi ai problemi del mondo (citando la
fame e la seconda guerra in Iraq). I suoi amici invece non
avrebbero una sensibilità politica, bensì unicamente bassa (negli
affetti privati). Commesso l’omicidio, ad Alex mancherà il tempo
utile per pensare ai problemi del mondo. E’ il momento in cui lui
s’assimila agli skaters del Paranoid
Park, attanagliato dalla rassegnazione per i sensi di
colpa.
Il nichilismo di Alex ci pare
freddo, come il duro cemento della pista. Gli skaters del
Paranoid Park vivono unicamente girando a vuoto, fra un primo ed un
secondo salto in curva. Lo stesso accade per la macchina da presa.
Anche la mente di Alex segue gli skaters, girando a vuoto,
da un salto a sinistra ad uno verso destra, o viceversa.
Simbolicamente, è l’arrovellarsi (come nel più classico mal di
testa) per i sensi di colpa. Gus Van Sant sceglie d’inquadrare gli
skaters con una fotografia sgranata, ricorrendo pure a
videoregistrazioni amatoriali (da scene realmente accadute).
Immaginiamo che la mente di Alex ormai sia stata sporcata
(dall’omicidio), e poi insabbiata (tacendo l’ammissione della
colpa). Il film non ci racconta come si conclude l’inchiesta del
poliziotto. In fondo, riconducendo lo skateboard rinvenuto
nel fiume (col DNA del guardiano ucciso) al suo legittimo
proprietario, tutte le bugie di Alex cadrebbero, e lui sarebbe
immediatamente accusato. Se ascoltassimo le parole del destino,
sembra che il ragazzino possa davvero farla franca.
Nel film, una delle canzoni è
questa: “If you have a problem, I don’t care what it is, if you
need a hand, I can assure you this… It’s a fact that people get
lonely, ain’t nothing new” (Billy Swan, 1974).