Peter
Weir – È uno dei registi australiani più noti al
mondo. In patria, negli anni ’70 ha lasciato la sua impronta
inconfondibile nel cinema, inaugurando un nuovo corso. Ma presto si
è fatto apprezzare anche a livello internazionale, arrivando a
conquistare Hollywood con capolavori come L’attimo
fuggente e The Truman Show.
Ama la natura, gli spazi sconfinati
e il fascino misterioso che da essi promana, e spesso
costringe i protagonisti dei suoi film a confrontarvisi. Ama le
sfide – come quella di sperimentare generi cinematografici diversi
– e allo stesso modo, ama mostrarci personaggi alle prese con sfide
apparentemente impossibili: intrappolati in universi asfittici,
claustrofobici, a volte realistici, altre fantastici ma sempre
perfettamente funzionanti nei loro meccanismi perversi e
costrittivi, i suoi protagonisti non riescono ad essere e ad
esprimere sé stessi e lottano per uscirne e vivere finalmente
liberi.
La sua ultima fatica risale al 2003
ed è per questo che c’è molta attesa per il suo nuovo The
way back nelle sale italiane dal prossimo giugno, che,
guarda caso, è proprio un’epopea di fuga dalla prigionia attraverso
spazi immensi, in condizioni ostili.
Peter Weir nasce in Australia
nell’agosto del 1944. Mostra subito interesse per l’arte, che
studia all’università di Sidney assieme a legge. Si avvicina al
mondo dello spettacolo partendo dalla tv, a metà anni ’60, facendo
l’assistente di produzione alla tv australiana ATN-7 per una
commedia satirica: The Mavis Bramston Show. Presto si dedica anche
all’attività di documentarista, con cui è più libero di
sperimentare e trattare temi a lui cari. Aderisce così alla
Commonwealth Film Unit, producendo nel decennio ’60 una serie di
documentari cui deve la sua prima notorietà in patria. Di
particolare rilievo quello che ritrae la vita nei sobborghi della
sua città, Sidney.
Il primo vero
progetto indipendente, dopo l’abbandono del CFU, è il
cortometraggio Homesdale, del 1971: una commedia
nera in cui Weir compare anche come attore in un piccolo ruolo.
Quattro anni dopo, è la volta del suo primo lungometraggio:
Le macchine che distrussero Parigi, un horror
ambientato in una piccola cittadina del deserto australiano (la
Parigi del titolo): un universo parallelo in cui la gente,
coadiuvata da automobili modificate all’inverosimile, provoca
incidenti stradali sui quali poi lucra più che può per risollevare
la propria economia. Il protagonista del film, Arthur/Terry
Camilleri, e suo fratello ci passano per caso, ma vi rimangono
intrappolati. Il film diventa presto un cult tra gli appassionati
del genere.
Finora, nonostante un discreto
successo nel circuito cinematografico underground, Weir non sembra
attirare l’attenzione della critica. Ma questa non potrà non notare
e apprezzare il suo drammatico Picnic a Hanging
Rock, che vede la luce in quello stesso ’75. Qui,
l’universo costrittivo non è affatto di fantasia, ma è quello della
società vittoriana del 1900 australiano. È contro la sua rigidità,
il suo moralismo e la sua ipocrisia che il regista concentra la
propria critica. Ad essere immerse in questo ambiente e a farne le
spese sono un gruppo di giovani collegiali, tre delle quali
scompaiono però misteriosamente durante una gita scolastica a
Hanging Rock, richiamate da quella natura selvaggia e misteriosa
che considerano forse sinonimo di libertà. La pellicola, tratta da
un romanzo di Joan Lindsay, colpisce per la molteplicità di
questioni che sa affrontare, per la sua estrema raffinatezza e per
il fascino che promana dalla natura stessa, che qui il regista
rende protagonista, assieme alla bellezza e all’innocenza delle tre
ragazze. Il film fa parlare molto di sé e ottiene un notevole
successo di critica in patria, tanto da essere considerata un’opera
fondamentale, che dà il via alla New Wave del cinema
australiano.
Gli anni Ottanta vedono l’eclettico
Weir pronto ad affacciarsi sul panorama internazionale e a prendere
parte a produzioni americane. Lo farà stupendoci sempre, per la sua
capacità di puntare su attori non ancora arrivati all’apice del
successo, ma che riusciranno a raggiungerlo anche grazie a lui,
oppure, su nomi già noti, ma che metterà alla prova facendoli
recitare “fuori ruolo”. Vincerà sempre la sua scommessa, ottenendo
spesso da loro le migliori interpretazioni delle rispettive
carriere. Inizia nell’ ‘81 con Mel Gibson, interprete principale ne
Gli anni spezzati, lungometraggio
sull’insensatezza della guerra e la forza dell’amicizia, al suono
dell’Adagio di Albinoni (ma anche di Bizet, Strauss e
Paganini e tra i contemporanei, di Brian May e Jean Michel Jarre).
Il film, che farà dell’attore una vera star, è oggi considerato un
classico del cinema australiano. Due anni dopo Weir scommette
ancora su Gibson, stavolta in accoppiata con un’altra attrice già
nota, ma non ancora all’apice del successo: Sigourney Weaver.
I due sono
efficaci protagonisti di Un anno vissuto
pericolosamente, pellicola che racconta le vicende di un
giornalista inviato nell’Indonesia di Sukarno. Un’altra intuizione
di Weir è quella di far interpretare la parte maschile del
fotoreporter Billy Kwan all’attrice Linda Hunt, che ottiene così
l’Oscar come miglior interprete non protagonista.
Nel 1985 ha inizio la stagione
propriamente americana della cinematografia di Weir. Sbarca infatti
ad Hollywood reclutando Harrison Ford, già famosissimo per aver
interpretato Indiana Jones e Guerre Stellari. Lo
vuole per ben due film, ma, come suo costume, non per vestire panni
simili ai precedenti, bensì per fargli indossare quelli del dramma.
Così sarà in Witness – Il testimone, che gli vale
la prima nomination all’Oscar della sua carriera registica. Ford
stupisce e convince nel ruolo del poliziotto braccato da colleghi
corrotti, che trova riparo in un villaggio Amish e vuole proteggere
un bambino testimone di un omicidio. Guadagna così la sua unica
nomination da parte dell’Academy. Qui ritroviamo il tema della fuga
e dell’ambivalenza dell’ambiente in cui il protagonista si rifugia:
un posto sicuro, ma che può diventare a sua volta una prigione. La
pellicola alla fine riceverà due statuette per la miglior
sceneggiatura e il miglior montaggio. La coppia artistica Weir-Ford
tenta il bis l’anno dopo con Mosquito Coast.
Il regista mette l’attore alle prese con la ricerca della propria
realizzazione, che lo spinge con la famiglia lontano dagli Usa
verso l’America Centrale. Qui crea un equilibrio che sembra
perfetto, finché qualcuno non arriva a turbarlo. Ford si cimenta
ancora con successo in un ruolo complesso, dimostrando doti da
attore completo. A questo punto, il nome del nostro regista
australiano risuona ormai anche negli Usa.
A dargli la grande fama, tuttavia,
saranno due pellicole che dirigerà successivamente. Il 1989,
infatti, è l’anno de L’attimo fuggente. Ed eccoci
a un’altra delle scommesse di Weir in fatto di attori. Per il ruolo
assai impegnativo del professore anticonformista John Keating,
protagonista di questa pellicola, il regista australiano sceglie
infatti Robin Williams, fino ad allora noto per il suo talento
comico. La scommessa è ancora una volta vinta, perché Williams dà
corpo in maniera assai intensa al personaggio affidatogli. Siamo in
un contesto simile a quello già visto per Picnic a Hanging
Rock: un’istituzione scolastica e una società costrittivi
educano i ragazzi al rispetto di rigidi quanto spesso vuoti codici,
anziché spingerli verso la consapevolezza di sé e dare loro
possibilità espressive. Qui però, non siamo agli inizi del secolo
scorso, ma negli anni ’50 e ad aprire le menti dei ragazzi,
instillandovi idee di libertà è appunto il professor Keating,
chiamato a insegnare lettere in un austero collegio, in cui porterà
contenuti e metodi non convenzionali.
Un racconto di
formazione e un inno alla libertà, autenticamente sentito da
regista e cast, che coinvolge lo spettatore. Il film ottiene
dall’Academy hollywoodiana diverse nomination, tra cui quella a
Weir per la migliore regia, ma vince “solo” il premio per la
miglior sceneggiatura di Tom Shulman. Mette però d’accordo critica
e pubblico. Piace particolarmente nel nostro paese, che gli tributa
due importanti riconoscimenti: il David di Donatello e il Nastro
d’Argento come miglior film straniero. Ancora oggi è
considerato uno dei più grandi successi del cineasta
australiano.
Dopo le commedie oscure, i film
drammatici e d’avventura, nel ’93 Weir spiazza tutti con una virata
in terreno romantico. È infatti questa la natura della commedia che
vede protagonista un’altra “strana coppia” creata dall’intuito del
regista: il divo del cinema francese Gérard Depardieu e l’americana
Andie MacDowell. Insieme danno vita a Green card,
che pur senza eccessivi colpi di genio, si rivela piacevole.
Il 1998 è invece l’anno di un altro
vero capolavoro di Weir, forse il più geniale della sua carriera
registica: The Truman Show. Qui, opera una
costruzione di fantasia, ma ci rimanda alla realtà per mettere a
nudo con la satira le contraddizioni e l’aspetto fagocitante di una
società come quella attuale, dominata dallo strapotere dei media,
che sono parte integrante delle nostre vite. Lo fa attraverso le
vicende di Truman Burbank, un uomo qualunque, con una vita come
tante. Sennonché, attorno ai trent’anni si accorge che si tratta di
una gigantesca messinscena – una specie di “reality show”,
diremmo oggi, e in questo il film è profetico – in cui le persone
che gli vivono accanto sono tutti attori. A questo punto farà
l’unica cosa che lui, unico uomo autentico, che non finge, può
fare: cercare la libertà. Dunque, ancora una volta Weir sottolinea
il desiderio di libertà che può nascere solo da una piena
consapevolezza. La sua abilità direttiva qui è notevole e
trasforma perfettamente in immagini la sceneggiatura di Andrew
Niccol. A portare brillantemente sulle sue spalle questa
efficacissima costruzione d’ingegno è uno Jim Carrey in grande
spolvero nel ruolo di Truman. Diretto da Weir, Carrey ha
l’opportunità di mostrare il suo talento non solo come attore
comico trasformista e irriverente, ma anche in un ruolo che a ben
guardare, è più drammatico che comico. Le nomination agli Oscar
sono varie, tra cui miglior sceneggiatura e regia, ma neppure
questa volta Weir porta a casa la statuetta. Da qui in avanti il
cineasta australiano rallenterà il ritmo, abituandoci ad una
cadenza almeno quinquennale d’uscita dei suoi lavori.
Siamo infatti già nel nuovo
millennio, nel 2003, quando vede la luce Master and
commander – Sfida ai confini del mare. Uomini che sfidano
altri uomini, legami forti come l’amicizia e su tutto la natura
immensa e ingovernabile (in questo caso maestosamente rappresentata
dall’acqua). I temi cari a Weir che tornano, un solido protagonista
come Russell Crowe cui affidarli, sapienza nel
dirigere, in modo tradizionale ma senza disdegnare anche il ricorso
agli effetti speciali, ed il gioco è fatto. Ecco un altro successo
che si porta a casa due Oscar (fotografia ed effetti speciali), ma
al nostro regista il premio sfugge ancora.
Una storia d’amicizia, ma anche
un’epopea di fuga attraverso una natura ostile sarà il punto nodale
del successivo lavoro di Weir: The Way Back, del
2010. A scappare qui sono alcuni prigionieri di un campo di lavoro
in Siberia, negli anni ’40. Weir ha dichiarato che il film è stato
preceduto da una lunga fase di ricerca. “Amo la fase di
ricerca, che per i soggetti storici ovviamente è rilevante, (…)
andare sui luoghi reali” In questo caso, la Siberia e il
deserto del Gobi. Il regista ha così avuto modo di parlare con
alcuni superstiti dei Gulag, tra cui un prigioniero polacco, poi
fuggito. Molto del materiale così raccolto è finito nel film. Ma
Weir ha anche sottolineato il ruolo, ancora una volta fondamentale,
della natura in questa pellicola. Sebbene non sia stata girata
davvero sull’Himalaya, ma tra le montagne della Bulgaria e in
Marocco, il che ha reso necessario ricostruire alcuni elementi
attraverso fotografie, la natura delle due location è rimasta
comunque protagonista: “La maggior parte del tempo, forse il
90%, è la natura con i suoi meravigliosi estremi.(…) Ci sono le
condizioni più diverse, ogni tipo di tempo atmosferico: pioggia,
tempeste di sabbia e di neve”, e si è detto convinto che le
location siano state un’importante fonte d’ispirazione per gli
attori. Nel cast Colin Farrel, Ed Harris e Saoirse Ronan. Il film
sarà nelle sale italiane dal prossimo 6 luglio, distribuito da 01
Distribution.