Ecco il trailer italiano di
La Teoria di Tutto
(TheTheory of
Everything), film che vedrà riportare sul grande
schermo la giovinezza del celebre scienziato Stephen
Hawking. Nel trailer possiamo vedere Eddie
Redmayne nei panni di un giovane Hawking e
Felicity Jones, che interpreta invece la moglie
dello scienziato, Jane Wilde.
La
Teoria di Tutto è diretto dal regista premio
Oscar James Marsh (Man on Wire; Doppio
Gioco) ed è basato sulle memorie di Jane
Wilde“Travelling to Infinity: My Life with
Stephen”; la sceneggiatura è diAnthony
McCarten che si occupa anche della produzione con
Lisa Bruce e i soci della Working Title
Tim Bevan e Eric Fellner.
La
Teoria di Tutto si concentra sulla relazione
romantica che Hawking ha intrecciato all’epoca di Cambridge con la
donna che sarebbe poi diventata sua moglie, Jane Wilde. La
relazione con questa brillante donna portò lo scienziato ad
abbracciare notevli sfide personali e scientifiche, e aprì il suo
mondo, così a sua volta lui fu in grado di aprire il mondo intero
ad una nuova visione ed una nuova prospettiva. Il film uscirà il 7
novembre 2014.
Peter Schlessel,
CEO della Focus, ha commentato: “Questa straordinaria storia
d’amore tra una delle più grandi menti della storia e sua moglie è
profondamente commovente e d’ispirazione, raccontata con cuore e
humor. Sotto la dinamica regia di James Marsh, Eddie Redmayne e
Felicity Jones ci consegnano due performance di straordinario
impatto emotivo.”
Oltre a Eddie
Redmayne e Felicity Jones nel cast de
La
Teoria di Tuttoci sono anche
Emily Watson eDavid Thewlis.
Arriva domani in Blu-ray e DVD la
toccante interpretazione del Premio Oscar Eddie
Redmayne ne La
Teoria di Tutto, il coinvolgente drama sulla vita
dell’astrofisico Stephen Hawking.
Il film, interpretato da
Eddie Redmayne e Felicity Jones e
diretto da James Marsh, si è aggiudicato tra gli
altri riconoscimenti un Premio Oscar ,
due Golden Globe (Miglior attore in
un film drammatico, Miglior colonna sonora originale) e due
BAFTA (Miglior attore
protagonista e Miglior sceneggiatura non
originale).
La Tenerezza,
ritorno al cinema di Gianni Amelio, è un film
sulla difficoltà nei rapporti umani, specie quelli tra padri e
figli, su un’incapacità che pare senza rimedio, ma forse non lo è
sempre, e anche sulla difficoltà ad accettare l’età che avanza.
Protagonista Renato Carpentieri nei panni
dell’avvocato in pensione, Lorenzo, e la sua relazione tormentata
con i figli, soprattutto Elena (Giovanna
Mezzogiorno). A spingerlo verso un cambiamento sarà
l’incontro casuale con una giovane coppia, Michela (Micaela
Ramazzotti) e Fabio (Elio
Germano) e i loro due bambini.
Tecnicamente solido, il film conta
sulla sensibilità di Amelio nell’inquadratura e sulla fotografia di
Luca Bigazzi, che oltre a un ottimo lavoro sui
personaggi, rendono coprotagonista la città di Napoli, come su un
cast di tutto rispetto, in cui Carpentieri disegna con efficace
intensità il ruolo principale.
Coraggioso da parte del regista
mettere al centro la figura dell’anziano Lorenzo, avvocato esperto
in piccole truffe alle compagnie assicurative. Lo spettatore vede
attraverso i suoi occhi. Dunque, degli altri personaggi non sa più
di quanto sappia lui, burbero e schivo, che quasi non conosce i
figli Elena e Saverio (Arturo Muselli) e poco sa
di Fabio e Michela, suoi nuovi vicini appena arrivati a Napoli, ma
con cui si trova stranamente a suo agio. È in sintonia con Michela,
simpatica, estroversa e un po’ sbadata, ma anche con Fabio, nelle
cui difficoltà a rapportarsi ai figli rivede in parte sé stesso.
Nella coppia gli pare di trovare l’amore e la complicità che lui e
la sua defunta moglie non hanno mai vissuto.
Al contempo, però, ogni
personaggio secondario introduce una sua peculiare solitudine, un
vissuto ricco di spunti interessanti e temi forti – dal terrorismo
al funzionamento del sistema giudiziario, alla violenza che spesso
si annida dove non ci si aspetta ed ha radici profonde. Temi che
meriterebbero un maggiore sviluppo, mentre molti interrogativi
restano aperti circa esistenze solo sfiorate (soprattutto quelle di
Fabio e Michela, le più complesse e sacrificate).
Coraggiosa anche la scelta del
registro minimalista: scrittura scarna, povera di dialoghi, poche
frasi spesso ruvide o laconiche, lunghi silenzi e gesti che
sembrano definitivi, abbandoni e rinunce che lasciano enormi vuoti.
Interpretazioni tese a trattenere le emozioni piuttosto che a
mostrarle, eppure intense. Una scelta severa, per cui il film può
risultare di fruizione non facile, simile ai suoi personaggi: una
superficie all’apparenza fredda, dalla quale il regista fa emergere
solo in rari sprazzi il magma di sentimenti sopiti, rimossi,
ricacciati in profondità. Lo spettatore deve essere pronto a
coglierli.
Amelio restituisce così una visione
dura, di un mondo in cui solitudine e incomunicabilità rischiano di
schiacciarci e in qualche caso lo fanno, in cui gli uomini sembrano
più fragili, le donne più tenaci – anche se a volte la tenacia è
solo ostinazione o sopportazione – i bambini i più danneggiati
dall’incapacità degli adulti. Lascia però aperto uno spiraglio al
cambiamento, che passi magari attraverso un gesto di tenerezza.
Presentato a Roma il nuovo lavoro di
Gianni Amelio, La Tenerezza, in
anteprima al Bari International Film Festival il 22 aprile e in
sala dal 24. Il regista ne parla assieme al ricco cast –
Renato Carpentieri, Giovanna
Mezzogiorno, Elio Germano e
Micaela Ramazzotti .
Ci dia la sua definizione di
“tenerezza”.
Gianni Amelio: “In realtà non ci
ho mai riflettuto. Il titolo è venuto pensando al finale e
soprattutto alla testardaggine con cui la figura di Elena
[Giovanna Mezzogiorno ndr] cerca di recuperare un gesto da suo
padre. […] Credo sia qualcosa di cui abbiamo bisogno per scacciare
l’ansia, oggi che siamo prigionieri di un mondo in cui non ti
aspetti ciò che potrebbe succedere fra un secondo, un mondo fatto
di trappole e inganni. […] Ci vuole il coraggio di non essere
timidi e vergognosi, anche se un gesto di tenerezza contrasta con
il nostro essere forti, o volerlo essere. Un uomo che fa un gesto
di tenerezza si considera debole e anche le donne ormai hanno
capito che la tenerezza va data quando è autentica, altrimenti è
una merce scaduta”.
Com’è stato lavorare con
Gianni Amelio?
Renato Carpentieri: “Da quando
ho fatto Porte Aperte ho sognato di fare un altro
film con Gianni. Qui poi avevo un’altra responsabilità: essere il
suo doppio, c’era qualcosa di Gianni nel mio personaggio”.
Amelio: “Renato ed io abbiamo la
stessa età, mi specchio in lui, è il mio lato bello sullo schermo e
siamo in sintonia su molte cose”. “Se c’è una qualità che
mi riconosco è proprio quella di aver scelto questi attori”.
“Li ho voluti in modo tignoso e appassionato, perché la scelta
dei compagni di viaggio è fondamentale, sono loro che ti rendono il
viaggio bello oppure un inferno”.
Micaela Ramazzotti: “Siamo stati
tutti adottati da Gianni, che ci ha liberato, ci ha fatto essere
ciò che voleva e che noi forse desideravamo, perché quando
incontri un regista come lui vale più di cento riconoscimenti
insieme. Sai che c’è qualcuno pronto a prenderti qualsiasi cosa tu
faccia e questo ci ha dato energia”.
Elio Germano: “È vero, Gianni ti
abita. Lavorare con lui è un abbandono. Pensiamo sempre che il
nostro mestiere sia di volontà, invece, specialmente con
grandissimi autori, è l’abbandono che fa la differenza. A un certo
punto non sai in che strada stai andando e questo è molto
piacevole”.
Giovanna Mezzogiorno: “Anch’io
penso che bisogna sapersi abbandonare, fidarsi completamente, più
che andare verso un film o un personaggio lasciare che questi
vengano a te, che ti prendano, ed essere pronti ad accoglierli a
braccia aperte. Si può leggere un copione, pensare al personaggio,
parlarne molto prima delle riprese, ma c’è sempre un momento in cui
non hai più il controllo, vieni preso e portato dove non sai e non
lo puoi sapere prima. […] È il momento migliore”.
Quali le differenze rispetto
al libro cui il film è liberamente ispirato [La tentazione di
essere felici di Lorenzo Marone ndr]?
Amelio: “Il protagonista del
libro è del tutto diverso da Lorenzo, protagonista del film”.
“Ho dato al personaggio un’inquietudine che io e Renato
condividiamo, ovvero una sorta di rifiuto dell’età che avanza.
Trovo che sia una cosa ingiusta, ci si dovrebbe fermare nell’età
migliore, un uomo ai 45, una donna ai 35, e portarseli per tutta la
vita, però avendo la saggezza della maturità. L’idea di invecchiare
dà una sorta di rifiuto della premura altrui, anche quando è
giustificata”.
Come avete scelto le
ambientazioni napoletane?
Amelio: “Il libro si ambienta al
Vomero. […] Per chi come me non è napoletano, però,
arrivare al Vomero non è arrivare a Napoli. Io non saprei
raccontare quel quartiere. È come se un turista giapponese
arrivasse a Roma e andasse subito ai Parioli, piuttosto si va al
Colosseo o a Trastevere. Quindi ho operato una variante enorme: la
Napoli del film è quella dei bassi, ma anche dei suoi straordinari
attici”.
Carpentieri: “Ha scelto tutto
Gianni, ma quella che ha scelto è la mia Napoli, sono i luoghi
della mia vita, quelli che conoscevo a menadito, c’era un legame
affettivo”.
Perché il film non è a
Cannes?
Amelio: “Sono stato sette volte
a Venezia con un Leone d’Oro e quattro volte a Cannes. I premi li
ho vinti, ora da questo film, che abbiamo fatto con grande onestà,
passione e semplicità, vorrei il pubblico”.
La Tenerezza,
prodotto da Pepito Produzioni di Agostino Saccà e Rai Cinema,
arriva nelle sale il 24 aprile.
C’erano una volta e ora ce ne sono di meno, dei
film che impressionavano per il loro contenuto violento e che
venivano spesso accusati di ispirare reali manifestazioni di
violenza all’interno della società.Ma la responsabilità dell’artista è più
nell’opera in sé e meno negli effetti che essa produce, per quanto
nefasti essi possano essere.
Dico che c’erano una volta perché ora poco o
nulla sembra poter produrre in noi sconcerto. Siamo spettatori
terribilmente svezzati, disincantati, smaliziati. Alla violenza che
vediamo sullo schermo ci siamo ormai abituati, tanta ne abbiamo
veduta, tanta ne vediamo e ne viviamo.La violenza è paradossalmente accettata e non
sappiamo più ricevere dalla sua rappresentazione uno shock, non
sappiamo più rimanerne sconcertati.
La vediamo dappertutto e dunque non è mai
estranea, tanto ne siamo imbevuti. È conosciuta una volta per
sempre, è classificata, incasellata in miliardi di servizi
televisivi da paesi che ci sembrano ancora più lontani visti sullo
schermo, è sterilizzata dal linguaggio giornalistico che funziona
come una litote.
È la società dello spettacolo, la nostra, diceva
Debord. L’immagine è al centro di tutte le possibili relazioni tra
tutti i soggetti. E così produciamo immagini a iosa e ne siamo
imbevuti.Ma è proprio questo
vedere di tutto sempre acritico e passivo ad averci reso meno
ricettivi, anche per quelle immagini che dovrebbero colpirci. Il
sentimento della meraviglia si attenua. L’abitudine a vedere deve
averci reso ciechi.
Del resto, fa notare Ghezzi nel suo castoro su
Kubrick prendendo le definizioni del dizionario Inglese-Italiano
Hazon, che “Overlook” significa tanto “guardare con attenzione” che
“trascurare”, “lasciarsi sfuggire”. E così anche Edipo pur vedendo
tutto era cieco, e solo quando dal troppo aver conosciuto si crepò
gli occhi, tornò a vedere.
“What have you done to his eyes?”, urlava una
(comprensibilmente) terrorizzata Rosemary guardando gli occhi di
quel suo figlio avuto da sua maestà infernale. Cosa è stato fatto
dei nostri occhi? Diversamente dal Gloucester di Re Lear, a noi non
sono stati strappati. Piuttosto è stata loro strappata la capacità
di farci assalire da questa o quell’altra visione: tutte si
equivalgono, tutte hanno lo stesso sapore. I prodotti
cinematografici sono sempre più prodotti seriali, pressoché simili.
Del resto, quella del cinema è un’industria, fordiana, ma più nel
senso di Henry che di John.
Avvertiamo dunque la falsità del dispositivo
cinematografico e di ciò che esso mostra: è più chiaro a noi che a
Welles che un film è sempre un fake, e come tale non ce ne facciamo
suggestionare, così per la violenza in esso mostrata. Erano
trent’anni fa o trenta secoli fa quando “Cane di paglia” e “Arancia
meccanica” ci facevano paura?
Eppure necessitiamo di verità perché tutto ci
sembra falso, tutto uguale, nulla ci impressiona realmente. Perché
torniamo a impressionarci, è necessario che le cose ci appaiano
veramente vere, e questo perchè forse siamo noi ad essere diventati
un po’ più finti: anche noi parte del gioco della società dello
spettacolo, con la nostra immagine da portare
avanti. Diceva Alex De Large che non era affatto meccanico che
“è buffo come i colori del mondo vero diventano veramente veri solo
quando uno li vede sullo schermo”.
Ecco allora i mockumentaries: da “The Blair Witch
project” fino a “Cloverfield”. Per potere essere impressionati di
nuovo da ciò che viene mostrato sullo schermo, abbiamo necessità
che esso sia dichiaratamente non-finto, che sia reale, presentato
come documentario.
Come il santo straccione di Pasolini arrivava
alla soluzione estrema di crepare davvero sulla croce perché non
aveva alcun altro modo per ricordare di essere vivo, così anche noi
ricorriamo all’estremamente finto (il mockumentary, documentario
finto che finge d’essere vero) per poter essere ancora emozionati,
perché ci appare estremamente vero.
Ecco anche i reality shows in ambientazioni
esotiche… Perché non ci basta più vedere un altro normale show
televisivo: ci siamo abituati.
Alex
De Large ci sta molto più simpatico del suo carceriere (il
secondino della prigione). Quest’ultimo è davvero “meccanico”, “a
orologeria”, mentre Alex è vitale. Perché è questo mondo a volerci
meccanicizzati, perché vorremmo sentirci vivi quando invece non lo
siamo e abbiamo un disperato bisogno di verità dai realities ai
mockumentaries perché solo così possiamo tornare a sconcertarci e a
impressionarci, per assicurarci di non essere meccanici…
Ci sono storie talmente tanto ricche
di avventura, ostacoli da superare e passioni che sembrano essersi
svolte appositamente per divenire poi film per il cinema. Una di
queste è quella narrata in La tempesta
perfetta, film del 2000 diretto da Wolfgang
Petersen, autore di titoli come Air Force One e
Troy. La vicenda ruota qui intorno alle intemperie del
mare contro cui si imbatté un peschereccio nel 1991. Uno scontro
realmente avvenuto e che ha portato allo stremo e alla morte quanti
vi rimasero coinvolti. Il film ripercorre così, in chiave
romanzata, tali eventi, portando in scena tanto la bellezza quanto
il terrore che un tempesta perfetta può suscitare.
Nel dar vita a questa storia, la
pellicola si è basata sull’omonimo romanzo del 1997 scritto da
Sebastian Junger. Giornalista americano, questi ha
riportato nel libro un dettagliato resoconto della tempesta anche
nota come Nor’ester del periodo di Halloween del 1991. Un
evento che causò diversi morti tra i pescatori del Massachusetts,
nonché oltre 500 milioni di dollari di danni. Ancora una volta lo
scontro tra l’uomo e la natura si pone al centro dell’interesse di
Hollywood, che vide in questa storia il materiale perfetto per
trarne un film con cui rendere omaggio alla memoria di quanti
persero la vita.
La tempesta perfetta si
rivelò poi un buon successo al box office, arrivando ad incassare
un totale di 327 milioni di dollari a fronte di un budget di 120.
Tra grandi effetti speciali e memorabili interpretazioni, il film è
ancora oggi un titolo tutto da riscoprire e apprezzare. Prima di
intraprendere una visione di questo, però, sarà certamente utile
approfondire alcune delle principali curiosità ad esso relative.
Proseguendo qui nella lettura sarà infatti possibile ritrovare
ulteriori dettagli relativi alla trama, al
cast di attori e alla vera storia dietro
al film. Infine, si elencheranno anche le principali
piattaforme streaming contenenti il film nel
proprio catalogo.
La tempesta perfetta: la
trama del film
Protagonista del film è l’equipaggio
del peschereccio noto come Andrea Gail, capitanato
dal lupo di mare Billy Tyne. Questi, accompagnato
dai suoi fedeli uomini, decide di uscire in mare confidando in una
pesca sostanziosa al tal punto da poter risollevare la difficile
situazione economica di tutti loro. Avventuratosi oltre le normale
rotte di pesca, l’equipaggio si dirige verso Flemish Cap, un’area
nota per i consistenti banchi di pesce spada. Qui gli uomini
riusciranno a dar vita ad una pesca particolarmente fruttuosa, ma i
problemi per loro devono ancora iniziare. In breve, infatti, si
imbattono in una tempesta di proporzioni colossali, che li
costringerà a decisioni estreme. Gli uomini si troveranno così
costretti a sfidare la tempesta perfetta, mettendo in gioco la loro
stessa vita.
La tempesta perfetta: il
cast del film
Tra i maggiori elementi di interesse
del film vi è un cast composto da alcuni tra i più celebri
interpreti di Hollywood. George Clooney è il
capitano Billy Tyne, amante del mare e delle pesca ma privo di
grande fortuna. L’attore, inizialmente, si propose per un ruolo
secondario, ma venne convinto dal regista di avere le giuste
qualità per interpretare il protagonista. Fu Mark Wahlberg
ad ottenere il ruolo originariamente voluto da Clooney, quello di
Bobby Shatford, imbarcatosi in cerca di denaro. Per dar vita a
questi, l’attore decise di conoscere i famigliari di Shatford,
acquisendo da loro informazioni su Bobby. Dovette inoltre
impegnarsi per nascondere il suo accento tipico della città di
Boston. L’attrice Diane Lane dà
invece vita a Christina Cotter, fidanzata di Bobby, la quale
cercherà di dissuaderlo dal partire per mare.
L’attore John C. Reilly
interpreta Dale Murphy, membro dell’Andrea Gail e personalità in
crisi dopo la fine del suo matrimonio. William
Fichtner veste invece i panni di David Sullivan, individuo
spostato e indolente ma che non mancherà di rivelare la propria
generosità. L’attore Michael Ironside venne scelto
per il personaggio di Bob Brown per via della sua grande
somiglianza con questi. Questa era tanto forte che in più occasioni
Ironside venne scambiato dai locali per il vero pescatore.
Mary Elizabeth Mastrantonio interpreta qui Linda
Greenlaw, comandante del peschereccio Hannah Boden.
L’attrice, dopo una brutta esperienza sul set di The
Abyss, dichiarò che non avrebbe mai più partecipato a film
ambientati in mare. Il regista riuscì tuttavia a convincerla a
ricoprire il ruolo poiché le sue scene si svolgevano sulla terra
ferma.
La tempesta perfetta: la
vera storia dietro al film
Nell’ottobre del 1991 il ciclone
tropicale noreaster ha imperversato nell’Oceano Atlantico per
diversi giorni, causando innumerevoli danni e vittime. Questo si
originò in seguito al confluire di diversi venti e correnti,
formando così una tempesta di eccezionale potenza sopra ad una
vastissima area. Non presentando i tipici avvertimenti di un
uragano, le piccole imbarcazioni di pescatori già in mare si
trovarono ad essere colte alla sprovvista, dovendo così
fronteggiare una situazione particolarmente difficile. Tra queste
vi era l’Andrea Gail. Contrariamente a quanto avviene nel film,
infatti, l’equipaggio non aveva idea di essere in procinto di
imbattersi in un evento metereologico di questa portata. Da questo
punto in poi, nessuno sa realmente cosa sia accaduto al
peschereccio, e lo stesso film propone una versione dei fatti del
tutto romanzata, frutto di supposizioni.
Terminata una tempesta, un
elicottero di soccorso venne inviato in mare, dando vita ad una
ricerca di eventuali superstiti che però non portò a nessun
risultato. Dopo 10 giorni, la ricerca venne interrotta per via
dell’ormai certa morte dei pescatori rimasti in mare. In totale,
durante la tempesta persero la vita 13 uomini, di cui 6
appartenenti al peschereccio Andrea Gail. I danni furono però
numerosi anche sulla terra ferma. Numerose case e attività vennero
distrutte dalla tempesta, costringendo in molti a spostarsi in
cerca di sicurezza. Strade e aeroporti vennero chiusi, e migliaia
di persone rimasero senza corrente elettrica. La città di
Gloucester, particolarmente colpita, dedicò poi una statua ai
pescatori morti in mare, riportante appunto la dicitura “They
that go down to the sea in ships“.
La tempesta perfetta: il
trailer e dove vedere il film in streaming e in TV
È possibile vedere o rivedere il
film grazie alla sua presenza su alcune delle più popolari
piattaforme streaming presenti oggi in rete. La
tempesta perfetta è infatti disponibile nel catalogo
di Rakuten TV,Chili Cinema, Google Play,
e Apple iTunes Per vederlo, in base alla piattaforma
scelta, basterà iscriversi o noleggiare il singolo film. Si avrà
così modo di poter fruire di questo per una comoda visione
casalinga. È bene notare che in caso di solo noleggio, il titolo
sarà a disposizione per un determinato limite temporale, entro cui
bisognerà effettuare la visione. Il film sarà inoltre trasmesso in
televisione il giorno giovedì 7 luglio alle ore
21:00 sul canale
Iris.
È finalmente arrivato quel periodo
dell’anno tanto temuto e detestato dai grinch di tutto il mondo. Il
periodo in cui, tra luci colorate, plaid dalle stampe discutibili e
tazzoni di cioccolata calda, ci si piazza davanti il piccolo
schermo per perdersi in lunghe sessioni di binge watching di film e
serie tv natalizie di ogni genere. Proprio per questo motivo, ogni
anno sempre più, Netflix
arricchisce il suo catalogo con una lunga lista di prodotti adatti
all’occasione. Infatti, di recente è stata aggiunta la
tenera rom-com La tavola di Natale
(titolo originale Catering Christmas) che, nell’arco di
pochi giorni, ha raggiunto l’ambita classifica italiana della Top10
Netflix.
Il film, dalla durata di 1
ora e 25 minuti, è diretto dal regista canadese
T.W. Peacocke, veterano nella realizzazione di commedie
romantiche, e nasce dal grembo della nota rete televisiva Great
American Family.
La tavola di Natale trama
La tavola di Natale segue
il fatidico e dolce incontro tra Molly Frost e Carson
Harrison, interpretati rispettivamente da Merritt
Patterson e Daniel Lissing. Molly è una giovane cuoca e
imprenditrice in cerca di opportunità per lanciare la sua nuova
attività di ristorazione, il Molly’s Menu Magic. Carson,
invece, è l’attraente nipote della tanto stimata e rispettata Jean
Harrison (Rosemary Dunsmore), proprietaria della Harrison
Foundation. Ogni anno la signora Jean organizza il più grande
evento di beneficenza nel New Hampshire, il gala di Natale
della Harrison Foundation. E proprio per questa attesa
occasione che l’esigente zia Jean, dopo un disguido con il catering
già scelto tempo prima, chiama il secondo servizio di ristorazione
più richiesto in città, quello di Molly. Entusiasta per la
possibilità di occuparsi dell’organizzazione di un evento tanto
importante, Molly si ritrova così a passare molto tempo con
Carson, a cui la zia affida l’incarico di responsabile
nella speranza che possa accettare di ereditare la grande
fondazione di famiglia.
La tavola di Natale – In foto Merritt Patterson e Daniel
Lissing
Un film che non lascia spazio all’immaginazione né al
sentimentalismo
Il connubio Amore e
Cucina ha caratterizzato alcune delle pellicole romantiche
più celebri di sempre, come l’indiscusso cult Mangia Prega Ama di Ryan Murphy. E se
a questa accoppiata si aggiunge anche la suggestiva e
commovente atmosfera natalizia, si può quasi pensare di
avere la ricetta invincibile per la rom-com perfetta. Ma basta
questo per creare una emozionante e indimenticabile storia d’amore?
Sfortunatamente per Peacocke, no.
La tavola di Natale è
una commedia romantica che fatica a farsi
guardare. Infatti, al di là della trama semplice e già
vista, e dei personaggi principali bidimensionali e poco efficaci
(per non parlare dell’inutilità di quelli secondari), la storia –
minuto dopo minuto – finisce per essere fortemente penalizzata da
dialoghi scialbi, irrilevanti e privi dell’appassionante e
travolgente romanticismo che tanto distingue questo
genere. Mancano la profondità, la poesia, l’entusiasmo e la
delicatezza del sentimento amoroso. Più che una relazione
d’amore, i due protagonisti sembrano unirsi l’un l’altra da un
freddo e labile rapporto di stima e fiducia. Persino l’improvvisata
coppia composta dalla zia e dal suo collaboratore appare, alla fine
del film, più affiatata e intraprendente della coppia
protagonista.
Una rom-com da mettere in sottofondo
La tavola di Natale è,
dunque, la dimostrazione che sempre più spesso i prodotti
televisivi e cinematografici finiscono per assoggettarsi a una
richiesta di mercato che punta più sulla quantità che sulla
qualità. La storia di Molly e Carson – così frettolosa,
piatta e priva di sorprese – non riesce a coinvolgere,
emozionare e né, tanto meno, a intrattenere il
pubblico.
Il film di Peacocke manca di
opportunità e finisce per presentarsi come il classico
prodotto audiovisivo da mettere in sottofondo, quando si è stanchi
della playlist di Mariah Carey, mentre si decorano distrattamente i
biscotti di Natale.
La Tamburina (The Little
Drummer Girl) è la serie vento BBC/AMC dagli autori
dell’acclamata “The
Night Manager” e tratta dall’omonimo best seller di John le
Carré.
La Tamburina (The Little Drummer
Girl): quando esce e dove vederla in tv e in streaming
La Tamburina (The Little Drummer
Girl) uscirà
arriva a settembre in prima tv su laF (Sky 135)
La Tamburina (The Little Drummer Girl), la trama e il
cast
La Tamburina (The Little Drummer Girl) è la serie
evento firmata BBC/AMC, una spy story all’ultimo respiro.
Spionaggio, amore, intrighi politici, tradimento, manipolazione: un
thriller in 8 episodi ambientato nel 1979 dove nulla è come sembra
diretto da Park Chan-wook, già all’opera con la trilogia della
vendetta (Grand Prix Speciale della Giuria di Cannes 2004 con “Old
Boy”).
In La Tamburina (The Little Drummer Girl)
protagonisti sono Alexander Skarsgård (vincitore di un Emmy, un
Golden Globe e un Critic’s Choice Award per “Big Little Lies”),
Florence Pugh (candidata all’Oscar per
“Piccole donne”),
Michael Shannon (candidato due volte agli Oscar per
“Revolutionary Road” e per “Animali notturni”).
Gli episodi di La Tamburina (The Little Drummer Girl)
Episodio 1: Charlie, una giovane
attrice focosa e brillante, incontra un misterioso sconosciuto
sulla spiaggia in Grecia e lui la trascina in un’operazione di
spionaggio internazionale ad alto rischio.
Episodio 2: Charlie viene reclutato
con la promessa del ruolo di una vita per infiltrarsi in una
pericolosa cellula rivoluzionaria. Come storia di copertina, lei e
Becker devono fingere di essere amanti.
Episodio 3: Charlie guida un’auto
carica di esplosivo verso un deposito in Austria, mentre Kurtz e
Becker corrono per salvarla da un errore fatale.
Episodio 4: Charlie attende il
contatto dalla rete di Michel, ma la sua performance potrebbe non
reggere sotto esame. Lei e Becker condividono un ultimo momento
insieme prima che lei attraversi il punto di non ritorno.
Episodio 5: Charlie si unisce a un
gruppo di rivoluzionari in Libano, senza nessuno che la salvi se
viene smascherata come spia. Lavora per guadagnarsi la fiducia di
Khalil e della sorella di Michel, Fatmeh.
Episodio 6: Charlie si prepara per
la sua parte nel prossimo sciopero di Khalil.
Passato quasi in sordina
a Venezia
a causa dell’effetto Shame, arriva in Italia La
Talpa (Tinker, Tailor, Soldier, Spy in
originale) opera secondo di Tomas Alfredson. Si
tratta di uno dei film più attesi della stagione, dal momento che
oltre ad avere al timone il regista rivelazione di Lasciami Entrare, ha al suo attivo un cast di
pezzi da novanta, capitanati nientemeno che da Gary Oldman, già bravissimo e amatissimo
commissario Gordon per Christopher Nolan. Insieme a lui sua altezza
reale Colin Firth, il bravissimo John Hurt,
Mark Strong che sta diventando uno dei migliori
caratteristi in circolazione, il Warrior
Tom Hardy e Benedict Cumberbatch, noto ai più come
Sherlock Holmes, protagonista dell’omonima e
recentissima serie tv della BBC One.
La Talpa, tratto
dal romanzo di John
le Carré, si concentra in un periodo storico molto
teso, che vede al suo apice le tensioni tra USA e URSS nel corso
della Guerra Fredda. Di mezzo c’è una presunta ‘talpa’, un
infiltrato nei servizi segreti britannici che sta dalla parte dei
sovietici e che potrebbe incrinare i preziosi rapporti di amicizia
che ci sono tra Regno Unito e i cugini d’Oltreoceano. Incaricato di
stanare la talpa è assegnato a George Smiley (Gary
Oldman), che mettendosi sulla pista lasciatagli dal
suo superiore dal nome in codice Controllo (John
Hurt), si muove con astuzia in mezzo alle difficili trame
nascoste dei servizi segreti. Alfredson mostra per
la seconda volta la sua accattivante eleganza con la macchina da
presa centellinando parole e note, per lasciare spazio alle
immagini, ai piani larghi e ai gesti misurati di un protagonista
immenso, che con uno sguardo, un’inclinazione del viso o
un’increspatura delle labbra riesce a dire tutto ciò che serve.
La Talpa, tra stile e
regia
Lo stile del regista riesce,
rinunciando a qualsiasi espediente esterno come la musica e il
montaggio frenetico, a mantenere alta l’attenzione in una vicenda
che ne richiede molta, soprattutto considerando che viene
raccontata in base ad un susseguirsi di eventi cronologicamente non
lineari e che, soprattutto all’inizio rischiano di confondere lo
spettatore. Purtroppo, proprio questo interessante elemento di
ricercatezza stilistica ha il difetto di appesantire la narrazione,
rendendo il film un po’ meno appetibile. La sensazione che si ha
alla fine è quella di un film concluso, compiuto nella sua
contingenza narrativa ma che promette un futuro in cui altro deve
ancora accadere e dando l’impressione che infondo non è veramente
importante chi sia la talpa, ma chi, una volta rimossa ‘la mela
marcia’, riesce ad ottenere il permesso di guidare i meccanismi
segreti che reggono una nazione.
La talpa (Tinker, Tailor, Soldier,
Spy) è un film del 2011 diretto da Tomas Alfredson, basato
sull’omonimo romanzo del 1974 di John le Carré. Il film è
interpretato da Gary Oldman, nei panni di George Smiley, con Colin
Firth, Tom Hardy, Mark Strong, Ciarán Hinds e Benedict Cumberbatch.
È stato presentato in concorso alla 68ª Mostra internazionale
d’arte cinematografica di Venezia. Il romanzo di John le Carré era
già stato adattato per il piccolo schermo nel 1979, in una
miniserie TV diretta da John Irvin ed interpretata da Alec
Guinness. Il progetto è stato inizialmente avviato da Peter Morgan
quando scrisse una bozza della sceneggiatura, che venne offerta
alla Working Title Films. Morgan ha poi abbandonato il film come
sceneggiatore per motivi personali, ma rimanendo i vesti di
produttore esecutivo. A seguito della partenza di Morgan, la
Working Title ingaggia Peter Straughan e Bridget O’Connor per
riformulare lo script. Il regista svedese Tomas Alfredson è stato
confermato per dirigere la pellicola nel luglio 2009. La talpa è il
suo primo film in lingua inglese. Il budget del film si aggira
attorno ai 30 milioni di dollari, con il sostegno finanziario del
francese StudioCanal.
Gary Oldman è stato scelto per il ruolo del protagonista, George
Smiley. Successivamente si sono uniti al cast Colin Firth e Mark
Strong. Michael Fassbender è stato in trattative per il ruolo di
Ricki Tarr, ma il programma delle riprese andava in conflitto con
il suo lavoro in X-Men – L’inizio, così la parte venne affidata a
Tom Hardy. Jared Harris era stato scelto per far parte del cast, ma
dovette abbandonare il progetto, a causa di conflitti di
programmazione con Sherlock Holmes – Gioco di ombre, venendo
sostituito da Toby Jones. Le riprese del film si sono svolte tra
Budapest, Istanbul e Londra.
Dopo essere stato presentato in
anteprima Fuori concorso alla 39a
edizione del Torino Film Festival, esce
su Netflix
il 20 aprile il film La
Svolta, esordio al lungometraggio di Riccardo
Antonaroli con, tra gli altri: Andrea
Lattanzi, Brando Pacitto, Ludovica Martino, Max
Malatesta, Chabeli Sastre Gonzalez,
Federico Tocci, Tullio
Sorrentino, Cristian Di Sante,
Aniello Arena, Grazia Schiavo,
Claudio Bigagli, con la partecipazione
straordinaria di Marcello Fonte e un brano scritto
e interpretato appositamente da Carl Brave.
La Svolta, prodotto da
Rodeo Drive e Life Cinema con
Rai Cinema, è un racconto intimo e delicato di due
solitudini che si incontrano: Ludovico (interpretato dal
talentuosissimo Brando Pacitto in un ruolo
insolito), che vive rintanato nel vecchio appartamento della nonna
ed è troppo spaventato dalla vita per uscire fuori nel mondo e
mostrare se stesso, e Jack (l’ottimo Andrea
Lattanzi) che invece ostenta durezza e determinazione.
La convivenza forzata dei due
protagonisti, però, si trasforma man mano in un vero e proprio
percorso d’iniziazione all’età adulta, alla scoperta dei rispettivi
veri caratteri, in un’alternanza di comico e drammatico, di gioia e
di dolore. E quando la realtà dura che li bracca spietata arriva a
presentargli il conto, dovranno affrontarla, forti di una nuova
consapevolezza e di un insperato coraggio.
L’alternanza dei registri del film
è accompagnata anche da una cifra stilistica che si muove con
abilità fra inquadrature statiche e composte, che ritraggono una
suggestiva location come lo storico quartiere popolare di Roma
Garbatella (in cui il film è interamente
ambientato), e una dimensione estetica più “sporca” e mobile, in
cui a soffermarsi sul volto dei due attori è una macchina a
mano.
La Svolta è un film che
gioca con i generi, presentandosi come una sorta di “road movie da
fermo” ma è anche un omaggio al cinema di genere (e non solo). Per
l’intero decorso narrativo, infatti, si colgono numerose citazioni
e ispirazioni – da quelle più esplicite come il celebre film di
Dino Risi Il Sorpasso, a quelle più estetiche che si
rifanno all’immaginario letterario del comics.
Il tutto viene accompagnato dalle
note e dalle parole di Carl Brave, uno dei rapper
più noti e acclamati della scuola romana, che per il film ha
scritto e interpretato l’omonimo brano musicale La
Svolta.
Dopo essere stato presentato in
anteprima Fuori concorso alla 39a
edizione del Torino Film Festival, esce
su Netflix il 20 aprile il film
La Svolta, esordio al lungometraggio di
Riccardo Antonaroli con, tra gli altri:
Andrea Lattanzi, Brando Pacitto,
Ludovica Martino, Max
Malatesta, Chabeli Sastre Gonzalez,
Federico Tocci, Tullio
Sorrentino, Cristian Di Sante,
Aniello Arena, Grazia Schiavo,
Claudio Bigagli, con la partecipazione
straordinaria di Marcello Fonte e un brano scritto
e interpretato appositamente da Carl Brave.
La Svolta, prodotto da
Rodeo Drive e Life Cinema con
Rai Cinema, è un racconto intimo e delicato di due
solitudini che si incontrano: Ludovico (interpretato dal
talentuosissimo Brando Pacitto in un ruolo
insolito), che vive rintanato nel vecchio appartamento della nonna
ed è troppo spaventato dalla vita per uscire fuori nel mondo e
mostrare se stesso, e Jack (l’ottimo Andrea
Lattanzi) che invece ostenta durezza e determinazione.
La convivenza forzata dei due
protagonisti, però, si trasforma man mano in un vero e proprio
percorso d’iniziazione all’età adulta, alla scoperta dei rispettivi
veri caratteri, in un’alternanza di comico e drammatico, di gioia e
di dolore. E quando la realtà dura che li bracca spietata arriva a
presentargli il conto, dovranno affrontarla, forti di una nuova
consapevolezza e di un insperato coraggio.
L’alternanza dei registri del film è
accompagnata anche da una cifra stilistica che si muove con abilità
fra inquadrature statiche e composte, che ritraggono una suggestiva
location come lo storico quartiere popolare di Roma
Garbatella (in cui il film è interamente
ambientato), e una dimensione estetica più “sporca” e mobile, in
cui a soffermarsi sul volto dei due attori è una macchina a
mano.
La Svolta è un film che
gioca con i generi, presentandosi come una sorta di “road movie da
fermo” ma è anche un omaggio al cinema di genere (e non solo). Per
l’intero decorso narrativo, infatti, si colgono numerose citazioni
e ispirazioni – da quelle più esplicite come il celebre film di
Dino Risi Il Sorpasso, a quelle più
estetiche che si rifanno all’immaginario letterario del comics.
Il tutto viene accompagnato dalle
note e dalle parole di Carl Brave, uno dei rapper
più noti e acclamati della scuola romana, che per il film ha
scritto e interpretato l’omonimo brano musicale La
Svolta.
La Svastica nel
Ventre è il film del 1977 diretto da Mario Caiano con protagonisti nel
cast Sirpa Lane, Giancarlo Sisti, Roberto Posse e
Marzia Ubaldi.
A partire dagli anni ’70 molti
autori e registi sembrano restare affascinati dalle malvagità e
dalle nefandezze del regime nazista, tanto da restituire nelle loro
pellicole un ritratto scandaloso, erotico e perverso del Reich e di
tutti coloro che avevano contribuito alla sua macabra ascesa.
Secondo la critica, si trattava in
realtà dell’unica possibilità per le piccole case di produzione di
realizzare horror a basso budget esplorando i nuovi sentieri del
marketing: film come Salon Kitty
(Tinto
Brass, 1976), Ilsa la
Belva delle SS, La Bestia in Calore, Il Portiere di
Notte (Liliana Cavani, 1974)
o Il Fantasma di Sodoma di Lucio Fulci-
datato, però, 1988- contribuiscono a creare un vero e proprio
sottogenere cinematografico ribattezzato
nazisploitation, (che si colloca nel
macro- genere dell’exploitation tanto in voga negli anni
’70) Erossvastica o porno- nazi, proprio perché
tutte le pellicole erano accomunate da un gusto particolare per
l’erotismo violento, i film di guerra e la classica tipologia da
women- in- prison film.
Nel 1977 il regista Mario
Caiano, con lo pseudonimo di William
Hawkins, dirige un cult del genere che ha,
addirittura, influenzato Quentin Tarantino nelle
sue scelte cinefile, nonché nella realizzazione dello script di
Inglourious Basterds: La
Svastica nel Ventre – questo il titolo- racconta la
storia di Hannah, una giovane ebrea moglie di un militare tedesco,
che viene catturata dalle SS dopo che la sua famiglia è stata
sterminata. Internata in un campo di concentramento, viene
costretta a subire in silenzio violenze e soprusi, finché non viene
notata per la sua bellezza da un alto ufficiale che prima la fa
trasferire in un bordello per soldati e poi, dopo essersi invaghito
di lei, la fa diventare sua amante affidandole la direzione di un
altro bordello di lusso: questa lenta discesa negli inferi rientra
nel piano della donna per vendicarsi dei suoi aguzzini, nonostante
lo sforzo titanico del marito per ritrovarla e salvarla.
La trama del film ha palesemente
ispirato Tarantino nella stesura dello script di
Bastardi Senza Gloria, a partire dalla scelta
della protagonista: una donna che ha vissuto sulla sua pelle
l’odio, la violenza, l’orrore e che decide di portare avanti la sua
vendetta- tremenda e spietata- a qualunque prezzo, fino a
sacrificare la propria vita. Hannah come Shosanna (notare anche la
curiosa assonanza dei due nomi): figure femminili dominanti, in
entrambi i casi due storie di guerra atipiche dove il fil rouge è
proprio la vendetta, quella possibilità per il più debole, per la
parte lesa della situazione, di diventare per la prima volta
fautore del proprio destino e delle proprie scelte, ribellandosi
all’oppressore e alle sue torture.
Tecnicamente il film non brilla
certo per la perizia tecnica: presenta delle ingenuità registiche
notevoli, delle ricostruzioni d’epoca improbabili e delle scelte
paesaggistiche improprie che non permettono ad un’idea interessante
di avere il giusto sviluppo diegetico, rendendola un po’ figlia del
suo tempo e relegando il film al cimitero cinefilo destinato ai
patiti del genere.
Nel trentesimo anniversario del
disastro di Černobyl’ (26 aprile 1986), il cinema
ricorda il più grave incidente mai verificatosi in una centrale
nucleare con un film, La Supplication di
Pol Cruchten, che avrà la sua anteprima
mondiale al 27. Trieste Film Festival domani,
sabato 23 gennaio, alla presenza dell’autore.
Tratto dal romanzo “Preghiera
per Černobyl’. Cronaca del futuro” del premio
Nobel Svetlana Aleksievič (un classico
contemporaneo tradotto in tutte le lingue del mondo occidentale) il
film trova nello straordinario lavoro della scrittrice
un’inesauribile fonte di ispirazione, rielaborando le testimonianze
raccolte per il libro in una forma cinematografica non
convenzionale.
“Le voci che danno forma a
La supplication – spiega il regista – sono innumerevoli e di
diverso tenore. Sono voci che ci parlano direttamente e
testimoniano quella catastrofe di proporzioni universali. Ci
toccano con la loro autenticità, la loro intelligenza, il loro
coraggio e la loro umanità. E ci toccano anche perché sono più che
mai pertinenti e rilevanti. Il materiale nel libro di Svetlana
aveva già un suo fascino universale. In quel libro lei parlava non
solo delle conseguenze della catastrofe nucleare ma anche della
natura, della Terra, degli uomini che si mettono al posto di Dio,
della paura e della fiducia nel futuro, della Fede e dell’amore. In
poche parole, della nostra condizione umana“.
Giunto quest’anno alla 27. edizione,
il TRIESTE FILM FESTIVAL è il più
importante appuntamento italiano con il cinema dell’Europa
centro-orientale: nato alla vigilia della caduta del Muro
di Berlino (l’edizione “zero” è datata 1987),
il festival continua ad essere da quasi trent’anni un
osservatorio privilegiato su cinematografie e autori spesso poco
noti – se non addirittura sconosciuti – al pubblico italiano, e più
in generale a quello “occidentale”. Più che un festival, un
ponte che mette in contatto le diverse latitudini dell’Europa del
cinema, scoprendo in anticipo nomi e tendenze destinate ad imporsi
nel panorama internazionale.
La Summit
Entertainment si è assicurata i diritti di un’idea
originale per un nuovo film Sci-Fi scritto da Olaf de
Fleur, famoso per aver scritto e diretto City
State. The Hollywood reporter
Kristen Stewart si sta decisamente
dando da fare per costruire al meglio la sua immagine di attrice
completa, senza adagiarsi sugli allori che la Bella di Twilight le
sta offrendo in tutto il mondo.
Sony Pictures sta gettando le basi per
un film che presenterà la famosa strega Sabrina, protagonista del
fumetto americano “Sabrina the Teenage Witch”, alla stregua
Un nuovo splendido poster per
Il
Grande e Potente Oz di Sam Raimi, atteso nuovo
adattamento dell’intramontabile storia fantasy, con un cast
d’eccezione che comprende
James Franco,
Michelle Williams,
Mila Kunis,
Rachel Weisz,
Abigail Spencer e Zach Braff. La locandina ritrae una delle
streghe più famose della storia: La strega dell’Ovest. La
Sceneggiatura è stata scritta da Mitchell Kapner, David
Lindsay-Abaire, mentre l’uscita è stata fissata per in Italia per 7
Marzo 2013.
“Penso quasi che si potrebbe
mettere ‘basato su una storia vera’ prima di ogni spettacolo,
perché tutti i migliori spettacoli provengono da un certo posto
all’interno di qualcuno“. Questo è ciò che lo scrittore e
interprete Richard Gadd, che interpreta il
protagonista Donny Dunn nel nuovo show di successo di
Netflix,
Baby Reindeer, dice al The Guardian riguardo al
tema dell’ispirazione dal proprio io per raccontare una storia. E,
sì, ha ragione. La maggior parte degli artisti scava nei propri
sentimenti più profondi o addirittura nelle proprie esperienze più
oscure quando crea un nuovo lavoro. Tuttavia, c’è ancora una
differenza tra una storia basata su eventi reali e una
completamente inventata. Mentre la seconda può avere una certa
somiglianza, accidentale o meno, con persone reali, la prima è un
resoconto di qualcosa che è realmente accaduto nel mondo reale.
Baby Reindeer è una serie
basata su eventi reali. Lo show, della durata di otto
episodi, segue l’alter ego del suo creatore, Donny Dunn
(interpretato dallo stesso Gadd), mentre viene tormentato da un
implacabile stalker. Mentre nomi come Martha (Jessica
Gunning), Teri (Nava Mau) e Darrien (Tom
Goodman-Hill) sono stati scelti unicamente per raccontare una
storia, tutti questi personaggi hanno delle controparti al di fuori
dello schermo. Non dovrebbe essere una sorpresa: Baby
Reindeer è una di quelle storie così intime e brutalmente
oneste che sarebbe strano se non fosse basata su qualcosa che il
suo autore ha vissuto. Diventata un successo per Netflix,
attualmente al primo posto in tutto il mondo, la miniserie ha
spinto i fan a cercare di capire la vera identità dei personaggi
che compaiono nello show. Il problema è che questa potrebbe non
essere una buona idea…
Baby Reindeer racconta la
relazione tra un uomo e il suo stalker
Baby Reindeer
inizia in modo abbastanza innocente con una donna che entra in un
pub senza soldi e a cui il barista offre una tazza di tè offerta
dalla casa. Tuttavia, per Donny e Martha, questo simpatico scenario
si rivela un punto di svolta che trasformerà le loro vite in un
incubo. Donny, aspirante comico con l’e-mail facilmente reperibile
sul suo sito web, viene immediatamente inondato di messaggi
dall'”iPhone” di Martha, che vanno dall’affascinante al
sessualmente esplicito, fino al limite della violenza. All’inizio
Donny non se ne rende conto, ma ha trovato una stalker che lo
tormenterà per anni a spese del suo benessere fisico e mentale. Con
il tempo, arriverà anche a tormentare i suoi genitori e ad
aggredire fisicamente le sue precedenti e attuali fidanzate.
Donny non sa esattamente come
affrontare l’interesse di Martha per lui. Per un po’,
addirittura lo accoglie e lo incoraggia, perché ha i suoi demoni da
affrontare. Infatti, anni prima di incontrare Martha,
Donny era stato preso sotto l’ala di un comico più anziano e di
maggior successo che lo aveva adescato, drogato e violentato
ripetutamente. Questo ha lasciato un segno nell’immagine di sé di
Donny e il fatto di tenere tutto segreto ha avuto ripercussioni sul
suo rapporto con gli altri. Così, quando Martha capisce che è stato
ferito e si complimenta con lui per i suoi tratti forti,
Donny non può fare a meno di sentirsi visto e persino
amato. Inoltre, c’è una certa ironia nel consegnare alla
polizia questa donna chiaramente malata di mente, ma non l’uomo
violento che lo ha ferito tanti anni prima.
Baby Reindeer è basato su due
spettacoli teatrali di Gadd
Sia lo stalking che l’abuso
descritti in Baby Reindeer sono eventi reali
accaduti nella vita di Richard Gadd. Inoltre, Baby
Reindeer non è la prima volta che lo scrittore e
interprete parla del suo trauma. La serie di
Netflix è un amalgama di due one-man show che Gadd
ha messo in piedi negli ultimi dieci anni. Il primo, in cui
esorcizza i suoi demoni di violenza sessuale mentre corre su un
tapis roulant inseguito da un gorilla, si chiama Monkey See Monkey
Do. Acclamato dalla critica, lo spettacolo ha vinto gli Edinburgh
Comedy Awards 2016. Il secondo one-man show, Baby
Reindeer del 2019, ha esordito al fringe di Edimburgo, è
passato al West End e ha fatto vincere al suo creatore un Olivier
Award, uno dei più alti riconoscimenti del teatro britannico.
Questi due spettacoli entrano a far
parte della miniserie Netflix Baby Reindeer sotto
forma di una sfuriata non programmata che Donny sfoga durante uno
sfortunato spettacolo comico. La sfuriata diventa poi virale,
spingendo la sua stalker, che si era presa una pausa dalla sua
vita, a tornare e a minacciare di raccontare ai suoi genitori
quelli che lei percepisce come difetti della sua mascolinità: lo
stupro, le sue esperienze sessuali con gli uomini, la sua relazione
con una donna trans… Si tratta, in effetti, di una rappresentazione
in qualche modo romanzata di ciò che è accaduto a Gadd nella vita
reale dopo la prima di Monkey See Monkey Do. Al Guardian, il comico
ha raccontato di come lo spettacolo abbia riportato la sua stalker
nella sua vita e di come lei abbia minacciato di riprendere a
chiamare i suoi genitori. Tuttavia, il loro sostegno e il caloroso
abbraccio del pubblico lo hanno aiutato ad andare avanti.
Quanto sappiamo della vera storia
di Baby Reindeer?
Questo è il caso di molto di ciò
che vediamo in Baby Reindeer: Gadd ha alterato
molti fatti ed eventi per scopi drammatici o per tenere al sicuro
l’identità di altri, persino dei suoi abusatori. Dopo tutto, quando
parla della vera Martha, il cui nome potrebbe essere qualsiasi
cosa, da Abigail a Zelda, è categorico sul fatto che non è l’unica
persona da incolpare per quello che è successo. “Sarebbe
ingiusto dire che lei era una persona orribile e io una
vittima“, ha detto al Guardian quando è uscita la commedia.
“Non mi sembrava vero“. Gadd è ben consapevole di aver
gestito l’intera situazione in modo estremamente scorretto e che il
suo stalker è una persona con problemi mentali. Per questo motivo,
il suo spettacolo è estremamente attento a non rendere mai nota la
sua identità.
“Abbiamo fatto di tutto per
camuffarla al punto che non credo si riconoscerebbe“, ha detto
a GQ. “Quello che è stato preso in
prestito è una verità emotiva, non un profilo di qualcuno fatto per
fatto”. Quindi, della stalker di Gadd si sa ben poco, a parte il
fatto che, in sei anni, lo ha tormentato con 41.071 e-mail, 744
tweet e 350 ore di segreteria telefonica. Per non parlare del caos
che ha provocato nella vita delle persone a lui vicine. Nemmeno il
suo destino è noto: mentre nella serie Martha viene arrestata e
condannata al carcere, Gadd è estremamente riservato quando si
tratta di parlare di ciò che è accaduto alla sua stalker.
Lo stesso vale per Darrien, la
controfigura del comico più esperto che ha abusato di Gadd
all’inizio della sua carriera. Quello che lo spettacolo ci racconta
è la verità emotiva di Gadd e uno schema di base degli eventi. I
nomi reali non vengono mai fatti. Nella serie, Darrien lavora per
uno show televisivo fittizio chiamato Cotton Mouth e attira Donny
nel suo mondo con promesse di ricchezza e fama. Se il vero Darrien
avesse o meno un lavoro in TV è qualcosa che non sapremo mai, e
questo per volontà di Gadd.
Perché le persone non dovrebbero
andare alla ricerca della vera Martha o Darrien
Purtroppo, questo non ha impedito
ai fan di cercare di capire chi sia la vera Martha o il vero
Darrien. Persino uno degli amici di Gadd, il regista Sam Foley, è
stato accusato di essere il vero Darrien. “Vi prego di non fare
ipotesi su chi potrebbero essere le persone reali. Non è questo lo
scopo del nostro spettacolo“, ha implorato Gadd ai suoi
follower su Instagram, un’affermazione che l’interprete di Martha,
Jessica Gunning, condivide ampiamente. E, in effetti, basta un
episodio di Baby Reindeer per capire che si
tratta di una serie su come le persone ferite interagiscono tra
loro, invece di puntare il dito. Tuttavia, c’è qualcosa nelle
parole “storia vera” che non lascia
tranquilli.
Alla
fine, ci sono ottime ragioni per non andare alla ricerca della
vera identità di Martha e Darrien. Innanzitutto, si tratta di
rispettare la volontà di Gadd. Questa è la sua storia da
raccontare, e dovrebbe poterla raccontare secondo le sue
condizioni. Non è raro che le persone abusate non siano pronte a
confrontarsi con i loro abusatori, e non dovremmo forzarle.
Inoltre, c’è lo stato mentale della vera Martha: come Gadd stesso
afferma più volte, è una donna malata e come tale merita la
sua privacy.
Ma, soprattutto, non dovremmo
andare in giro ad accusare persone che non conosciamo di cose che
crediamo abbiano fatto a causa di un programma televisivo. Non solo
è crudele, ma potrebbe essere pericoloso sia per gli accusati che
per gli accusatori: la polizia è stata coinvolta nella vicenda di
Sam Foley, e a contattarla è stato lo stesso Foley. Quindi, sì,
Baby Reindeer è basato su una storia vera e no, non
sappiamo molto di ciò che è realmente accaduto. Ma, ehi,
forse dovremmo lasciar perdere.
La straordinaria vita di David Copperfield
porta al cinema un Charles Dickens che ci stupirà.
Punto cardinale della letteratura popolare inglese, l’autore, che
ha promosso la cura dell’infanzia e ha denunciato attraverso i suoi
romanzi la condizione in cui versavano i più deboli all’inizio
dell’epoca vittoriana, non era mai stato rappresentato al cinema o
in tv con un approccio tanto fresco, libero, moderno, fedele allo
spirito più che alla storia. A farlo è Armando
Iannucci, che firma il suo primo film non vietato ai
minori, insieme a Simon Blackwell, che collabora
alla sceneggiatura e all’adattamento del romanzo di Dickens.
La storia è quella di David, un
ragazzo che cresce senza padre e che si trova costretto a crescere
in una fabbrica di cristalli a Londra quando la madre si sposa con
un uomo burbero e intransigente, che vede il ragazzo come un
ostacolo. Lo manda quindi in città, dove David alimenterà la sua
intelligenza e crescerà bene, remissivo ma non certo sciocco, in
mezzo alle brutture del mondo. Diventato un giovane uomo e messo al
corrente della morte della madre, David abbandona la fabbrica e si
rivolge ad una zia, sorella del padre, che si prenderà cura di lui
e lo aiuterà a concludere gli studi ed a trovare lavoro. Di nuovo
in città, con tutt’altre prospettive, David lotterà per trovare la
sua strada, sempre attratto dalle parole, dalle storie,
dall’esigenza di raccontare la sua.
La straordinaria vita di David Copperfield è
un adattamento dal classico di Charles Dickens che
si distingue per due caratteristiche fondamentali, che ne attestano
unicità e valore. In primo luogo, l’adattamento del regista
Iannucci, insieme allo sceneggiatore Blackwell, è una
modernizzazione mai vista prima dell’opera più personale di Dickens
stesso. La storia si apre con lo stesso David che racconta in prima
persona la sua vita, racconta la sua nascita e quello che non
poteva ricordarsi, fino all’infanzia, dove tutto appare più
colorato e vivace di come è in realtà, la sua fantasia,
l’immaginazione, la passione per giocare con le parole e metterle
ferme su carta, fino all’età adulta alla ricerca della fortuna, al
trovare un amore, una storia, una vita da raccontare, trovare le
parole giuste per la sua stessa storia.
Iannucci racconta tutto con un
spirito leggero, allegro, giocoso, usando uno stile visivo
originale, in cui i racconti dei personaggi prendono vita sui
fondali delle scene, come fossero proiezioni, in cui si viaggia da
un luogo all’altro con balzi in avanti o indietro, da slapstick
comedy, con battute sopra le righe e personaggi bizzarri, assurdi,
a volte sgradevoli, ma sempre accarezzati da una mano
divertita.
Una bella boccata d’aria
fresca rispetto a quanto era stato fatto rpima di adesso con i
personaggi dickensiani, tutti appesantiti dalla polvere vittoriana,
dagli scenari desolanti delle città, dalla Londra iconograficamente
legata al fumo e alla povertà. La straordinaria vita di
David Copperfield è, secondo le parole del regista stesso,
più fedele allo spirito di Dickens che alla storia stessa, come
dimostra anche il casting, che è il secondo elemento di originalità
e pregio del film.
Un trionfo di etnie diverse
Per interpretare i personaggi del
romanzi, tutti bianchi scritti per bianchi, Iannucci sceglie una
varietà di etnie che arricchiscono di colori vivacissimi ogni
singola scena, completamente incurante non solo dei testi
originali, ma anche della genetica, tanto che lo stesso David, ad
esempio, è interpretato da Dev Patel, di origini indiane, e sua
madre e sua zia paterna, ad esempio, sono attrici bianche
(Morfydd Clark e Tilda Swinton). E così la madre del migliore
amico di David, interpretato da un attore caucasico
(Aneurin Barnad) è interpretata da un’attrice di
colore (Nikki Amuka-Bird). Una mescolanza di etnie
che rende il film estremamente contemporaneo, quasi una fotografia
di quello che è diventato adesso il tessuto sociale londinese, in
particolare.
La regia si lascia andare a momenti
molto romantici e toccanti, cambiando rotta e toccando punte di
epica e adagiandosi al sicuro tra le braccia della commedia, non la
caustica a cui il regista scozzese ci ha abituati, ma un linguaggio
vivace e leggero, ma mai superficiale, che fa di La straordinaria vita di David Copperfield un
film adatto alle famiglie di ogni foggia e tipo.
Roberto Andò è uno di
quei registi che negli ultimi anni ha regalato al cinema italiano
film in grado di suscitare domande e riflessioni, spesso attraverso
l’utilizzo di generi diversi. Da Viva la libertà a
Le confessioni, da
Una storia senza nome e
fino Il bambino nascosto. Con quello che ad oggi è il suo
ultimo film, La
stranezza (qui
la recensione) si è poi riconfermato come uno dei più
interessanti registi attivi oggi in Italia. Distribuito nel 2022,
il film porta a riscoprire la figura di Luigi
Pirandello attraverso una storia che, nel pieno
dell’intenzione celebrativa dell’autore premio Nonel, si muove tra
realtà e finzione, divertendo ma anche sollevando importanti
riflessioni sulla natura umana.
Candidato a ben 14 David di
Donatello (vincendo poi quelli per Miglior sceneggiatura originale,
Miglior produttore, Miglior costumista e Miglior scenografo), il
film ha dunque presentato una serie di elementi che hanno subito
attirato l’attenzione della critica e del pubblico, facendo
registrare incassi superiori ai 5 milioni di euro. Si tratta dunque
di uno dei maggiori successi per un film italiano negli ultimi
anni, favorito anche da un crescente passaparola che ha permesso di
rendere tale pellicola sempre più popolare. Indubbiamente la
presenza dei tre principali protagonisti, Toni Servillo e il duo
Ficarra e Picone ha aiutato in
tal senso.
Grazie ora al suo passaggio
televisivo, è dunque questo un titolo da non perdere, meritevole
anzi di più visioni affinché si possano cogliere le sue numerose
sfumature che tanto ci dicono dell’arte cinematografica e teatrale
quanto dell’essere umano e della vita. In questo articolo,
approfondiamo dunque alcune delle principali curiosità relative a
La
stranezza. Proseguendo qui nella lettura sarà infatti
possibile ritrovare ulteriori dettagli relativi alla
trama, al cast di attori e alla
storia vera a cui si ispira. Infine, si
elencheranno anche le principali piattaforme
streaming contenenti il film nel proprio catalogo.
La trama e il cast di La stranezza
Nel 1920, Luigi
Pirandello torna per motivi personali in Sicilia e
all’arrivo a Girgenti apprende della morte dell’amata balia Maria
Stella. Al funerale incontra due becchini, Nofrio
e Bastiano, esseri singolari che per diletto
praticano anche il teatro. Sempre più incuriosito dal fascino
singolare dei due becchini, Pirandello decide di spiarne le prove e
assiste alla prima della loro nuova farsa: La trincea del
rimorso, ovvero Cicciareddu e Pietruzzu. Durante lo
spettacolo, però, accade un evento imprevisto che costringe Nofrio
e Bastiano a interrompere la rappresentazione. Per Pirandello,
presente tra il pubblico, sarà la scintilla che darà forma a quella
stranezza che aveva in mente da un po’.
Ad interpretare Luigi Pirandello vi
è l’attore Toni Servillo, mentre Sebastiano “Bastiano”
Vella e Onofrio “Nofrio” Principato sono interpretati
rispettivamente dal duo comico Salvatore Ficarra e
Valentino Picone. I due sono poi stati candidati
insieme come Miglior attore protagonista ai David di Donatello.
Fanno poi parte del cast l’attrice Giulia Andò nel
ruolo di Santina Vella, sorella di Sebastiano e amante di Onofrio,
mentre l’attore Rosario Lisma è Mimmo Casà e
Aurora Quattrocchi è la balia Maria Stella.
L’attrice Donatella Finocchiaro interpreta invece
Maria Antonietta, mentre Luigi Lo Cascio è il capocomico
e Renato
Carpentieri fa una breve comparsa nel ruolo dello
scrittore Giovanni Verga.
La storia vera e il significato del film
Nel pieno rispetto della poetica
pirandelliana, dove verità e finzione si mescolano continuamente,
anche il film presenta una combinazione di vicende e personaggi
realmente esistiti e altri invece pura invenzione degli
sceneggiatori Roberto Andò, Ugo
Chiti, Massimo Gaudioso. La
stranezza propone dunque un ipotetico antefatto
all’ideazione di Sei Personaggi in cerca
d’autore, inscenando la vicenda di due personaggi in
realtà mai esistiti: i becchini appassionati di teatro
Nofrio e Bastiano. Questi
personaggi servono infatti al film unicamente come presenza che
scatena l’intuizione in Pirandello di quel qualcosa a cui non
riusciva a dare forma.
Nel corso del film, l’autore premio
Nobel è infatti quasi un personaggio secondario, più spettatore che
non attivamente coinvolto nelle vicende. Egli si limita ad
osservare le loro vicende teatrali, trovando ispirazione in esse
per quella serie di tematiche che gli interessava affrontare e che
confluiranno poi in Sei Personaggi in cerca d’autore. Se
dunque gli elementi biografici di Pirandello sono ispirati alla
realtà, dal suo ritorno in Sicilia per il compleanno di
Giovanni Verga fino agli accenni riguardanti la
salute di sua moglie Maria Antonietta Portulano.
Dal momento in cui incontra Nofrio e Bastiano, però, subentra la
finzione.
Sarà dunque osservando le situazioni
di vita quotidiana che i due becchini teatranti portano in scena,
con i loro paradossi, contraddizioni e quelle maschere indossate
per rispettare certe convenzioni, che Pirandello sviluppa l’idea
per Sei Personaggi in cerca d’autore. Opera che, come
mostrato nel finale del film, verrà poi accolta in modo
contrastante al momento della sua prima il 9 maggio del
1921 al Teatro Valle. Il pubblico presente in sala scatenò
infatti una vera e propria rivolta nei confronti di Pirandello,
accusandolo di averli ingannati con una farsa. Nel 1923 l’opera
diverrà però uno dei maggiori successi di Pirandello e lo porterà a
ricevere il Premio Nobel nel 1934.
Per quanto riguarda Nofrio e
Bastiano, invece, il finale del film solleva dubbi non sulla loro
reale esistenza, che sappiamo non trovare conferme nella realtà,
bensì sulla loro effettiva presenza nelle vicende del film. Quando
nel finale Pirandello chiede all’assistente di scena se i biglietti
per i due becchini siano stati ritirati, questi gli dice di non
aver mai ricevuto disposizione di invitare nessuno che
corrispondesse a quei nomi, lasciando il grande autore in preda ai
dubbi. Anche Nofrio e Bastiano sono dunque personaggi inventati
dalla mente di Pirandello? Possibile che l’autore abbia immaginato
tutte le vicende dei film, assistendo dunque ad un mero
manifestarsi dei fantasmi della sua mente?
Sono domande che si pongono anche
gli spettatori di una rappresentazione dei Sei personaggi in
cerca d’autore. Cos’è vero e che cos’è falso? Dove inizia la
persona e dove il personaggio? Nel sollevare tali domande mentre
racconta la finta genesi della vera opera, La
stranezza si dimostra dunque intenzionato a replicare
a sua volta gli espedienti del testo di Pirandello, suscitando
medesime domande e riflessioni sulla natura umana e i confini tra
persona e personaggio. Il film, dunque, ci racconta della celebre
opera non in modo lineare ma ricorrendo a quel teatro nel teatro e
a quella frammentazione della linea temporale teorizzata da
Pirandello, per il quale la vita non segue un corso lineare.
Il trailer di La
stranezza e dove vedere il film in streaming e in TV
È possibile fruire di La
stranezza grazie alla sua presenza su alcune delle più
popolari piattaforme streaming presenti oggi in rete. Questo è
infatti disponibile nei cataloghi di Rakuten TV, Apple
TV e Prime Video. Per vederlo, una volta
scelta la piattaforma di riferimento, basterà noleggiare il singolo
film o sottoscrivere un abbonamento generale. Si avrà così modo di
guardarlo in totale comodità e ad un’ottima qualità video. Il film
è inoltre presente nel palinsesto televisivo di mercoledì
1° maggio alle ore 21:30 sul canale
Rai 1.
Vada come vada, La
stranezza di Roberto Andò resterà un film emblematico, per
la collaborazione tra RAI e Medusa che il regista ringrazia per il
“gesto particolarmente significativo in un momento così difficile”.
E sia come sia, la fantasia del regista sulla “nascita di un
capolavoro che ha cambiato per sempre e in ogni latitudine l’idea
del teatro” potrebbe sostituire gli altri titoli della sua ricca
filmografia nel cuore degli appassionati. Sicuramente quelli di
Ficarra e Picone (qui alla loro prova migliore) e di
Toni Servillo, che offre l’interpretazione di
un Pirandello che difficilmente potremo scindere dall’immagine che
abbiamo del grande autore siciliano.
La stranezza di
Pirandello, e dei suoi amici
Ed è proprio
Luigi Pirandello, in occasione dell’ottantesimo
genetliaco dell’amico Giovanni Verga nel 1920, a intraprendere un
viaggio di ritorno nella sua terra. A Girgenti conosce i due
singolari becchini Nofrio e Bastiano, impegnati per passione nella
preparazione di uno spettacolo teatrale, alle prove del quale lo
scrittore finisce per assistere anche per distrarsi dalla
preparazione della sua nuova commedia, ancora in fieri eppure in
grado di ossessionarlo con visioni spettrali, ricordi, malinconiche
apparizioni.
Invitato da Nofrio e
Bastiano alla prima della loro farsa – La trincea del rimorso,
ovvero Cicciareddu e Pietruzzu – Pirandello assiste alla
trasformazione della recita in una tragedia che coinvolge tutti gli
abitanti presenti nel piccolo teatro. Una resa dei conti totale in
cui a confrontarsi sono la platea e gli attori, alla quale lo
scrittore assiste turbato. Ma che sembra in grado di lasciare un
segno, al punto da spingere l’autore a ricambiare l’invito ai due,
che ritroviamo a Roma, nel 1921, alla prima dei Sei personaggi in
cerca d’autore in programma al Teatro Valle.
Un’opera immortale, un
omaggio unico
Nelle mani di Andò,
questa volta, invece, tutti i personaggi trovano un autore, e una
loro vita, ma soprattutto un equilibrio del quale non si può che
dare i meriti al regista di Palermo. Che fa un lavoro egregio nel
gestire un trio di protagonisti tanto ‘ingombranti’ (per visibilità
e importanza), e ad alternarli in scena, dopo aver realizzato una
sceneggiatura – insieme a Massimo Gaudioso e
Ugo Chiti – di quelle che non si vedono spesso sui
nostri schermi.
Di certo, l’amore per il
soggetto e il ricordo del giorno in cui fu lo stesso
Leonardo Sciascia a regalargli la splendida
biografia di Luigi Pirandello curata da Gaspare Giudice devono
averlo motivato in maniera particolare, ma questo non inficia in
alcuna maniera l’apprezzamento per un risultato sorprendente. Un
film pieno, godibile, ben realizzato, divertente e commovente
insieme, nel quale mito, folklore e fantasia si mescolano rapendo
lo spettatore, felice di abbandonarsi a un’avventura
verosimigliante che gioca con l’esito surreale – eppure reale – che
la storia della nostra letteratura e del nostro teatro ci
raccontano.
La creazione resta
‘Stranezza‘ fino a che non trova una propria voce,
o qualcuno che parli la stessa lingua. E mentre il dramma
rappresentato si sovrappone a quello vero, in un gioco di finzioni
e ambiguità, va svelandosi il paradosso che permea questa strana
commedia, divertente e stratificata. Che gradualmente ci conquista,
prima con l’umorismo più riconoscibile e definitivamente con i
fantasmi di una storia che fa indissolubilmente parte del nostro
DNA.
Quello del vicino di casa misterioso
che potrebbe rivelarsi essere un assassino è uno scenario che il
cinema ha affrontato in numerose occasioni. Da un classico come
La finestra sul cortile fino a Disturbia, film che lo omaggia, passando poi per
titoli come
Il ragazzo della porta accanto. Ad essi nel 2021 si è
unito anche il
thriller diretto da Gordon
Yang dal titolo La strana signora della porta
accanto.
In questo film si mescolano infatti
elementi come l’ossessione, segreti dal passato, follia omicida e
malattia mentale, proponendo dunque un racconto che non può
soddisfare i gusti di ogni appassionato di questo genere. Il film
viene inoltre proposto in prima visione assoluta sulla televisiione
italiana per il ciclo di Rai 1 “Nel segno del giallo”,
dedicato appunto a film di mistero che richiedono un’attenta
partecipazione dello spettatore per cogliere tutti gli indizi
seminati lungo il percorso.
In questo articolo, approfondiamo
dunque alcune delle principali curiosità relative a La
strana signora della porta accanto. Proseguendo qui nella
lettura sarà infatti possibile ritrovare ulteriori dettagli
relativi alla trama, al cast di
attori e alla spiegazione del finale.
Infine, si elencheranno anche le principali
piattaforme streaming contenenti il film nel proprio
catalogo.
La trama e il cast di La
strana signora della porta accanto
Protagonista del film è la giovane
coppia formata da Sarah e Kyle Collins. I due, che
aspettano un bambino, si sono appena trasferiti in un nuova casa,
in quello che sembra il quartiere ideale dove crescere un figlio.
Al loro arrivo, quando ancora stanno trasportando le loro cose
nella nuova casa, fanno la conoscenza della loro vicina
Helen, un’anziana signora che vive sola, da quando
qualche anno prima la sua unica figlia Layla si è tragicamente
tolta la vita.
All’inizio, l’impressione che hanno
di Helen è quella di una simpatica, benevola e carismatica
vecchietta. Tuttavia, con il tempo, l’anziana sembra sviluppare una
crescente attenzione nei confronti di Sarah, che si trasforma ben
presto in vera e propria ossessione. Mentre persone accanto al loro
iniziano a scomparire, la futura mamma apprenderà con orrore il
passato di Helen e i suoi piani per lei e si troverà a dover
lottare per la propria sopravvivenza.
Ad interpretare Sarah vi è l’attrice
Julia Borsellino, attrice vista anche in Puoi
baciare la damigella e
Una giusta causa. Suo marito Kyle è invece interpretato da
Mark Taylor, mentre la madre di lui, Judith, è
interpretata da Marium Carvell. Nel ruolo di Helen
vi è l’attrice Deborah Grover, nota per le serie
Jann e Chiamatemi Anna. Completano il cast Cait
Alexander nel ruolo di Angela, ex di Kyle,
Michelle Chiu in quello di Jennifer, amica di
Sarah, e Deanna Jarvis in quello di Grace,
terapeuta di Helen.
La spiegazione del finale del
film
Nel corso del film scopriamo che
Helen non è la tranquilla e simpatica anziana che fa credere di
essere. Da qualche mese è stata rilasciata da un istituto
psichiatrico, dove era stata rinchiusa dopo la morte della figlia.
Tornata a casa sua, l’anziana donna continua però ad essere
ossessionata dall’idea di ricostruirsi una famiglia e di trovare
una sostituta alla figlia morta. Sarah, naturalmente, diventata la
candidata ideale per quel ruolo, a maggior ragione essendo incinta,
cosa che permetterebbe ad Helen di diventare anche nonna.
Per ottenere tale obiettivo,
l’anziana è pronta ad eliminare quanti si pongono sul suo percorso.
Ed è così che prima elimina Grace, la sua
terapeuta, e Judith, la madre di Kyle venuta a
trovare la coppia nella loro nuova casa. A questo punto, rimane da
far separare Sarah dal marito e per far ciò propone ad
Angela, ex di Kyle, di lavorare insieme per far
separare i due. La ragazza accetta e, si fa fotografare durante un
incontro con l’uomo, in modo da mandare le foto a Sarah.
Questa, appena le vede, distrutta,
decide di andarsene di casa ed accetta l’invito di Helen di
trasferirsi nella sua casa nel bosco. Una volta qui, però, Sarah
capisce ben presto di essere una vera e propria prigioniera. Nel
mentre, Angela pentendosi di quanto compiuto avvisa Kyle della
follia di Helen e l’uomo insieme a Jennifer, amica
di Sarah, si mettono sulle sue tracce. Individuata l’abitazione
dell’anziana, Kyle riesce a riprendere con sé sua moglie, lasciando
l’anziana disperata a riflettere finalmente sugli orrori
compiuti.
Dove vedere La strana
signora della porta accanto in streaming e in TV
Sfortunatamente il film non è
presente su nessuna delle piattaforme streaming attualmente attive
in Italia. È però presente nel palinsesto televisivo di
sabato 22 giugno alle ore 21:20
sul canale Rai 2. Di conseguenza, per un limitato
periodo di tempo sarà presente anche sulla piattaforma Rai
Play, dove quindi lo si potrà vedere anche oltre il
momento della sua messa in onda. Basterà accedere alla piattaforma,
completamente gratuita, per trovare il film e far partire la
visione.
Asseriva Peppino Impastato,
ne I Cento Passi di Marco Tullio Giordana, che
“se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di
un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. All’esistenza
di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro
squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta
facilità […] e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi
prima, ed ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover
essere così da sempre e per sempre”. A risvegliare questa
memoria ci hanno provato gli autori del docufilm La Strage di
San Gennaro, una produzione di SkyCrime diretta da Matteo
Lena. Al centro della storia, l’omicidio di sei immigrati
africani a Castel Volturno, in provincia di Caserta, il 18
settembre 2008. Una strage senza un movente diretto verso gli
uomini che rimangono a terra, raggiunti da un volume di fuoco di
centinaia di bossoli sparati da kalashnikov e pistole al servizio
di un boss della camorra in cerca di una rapida ascesa al potere.
Questo è l’orrore, senza dubbio, ma come ci siamo arrivati?
Alle origini della strage di San
Gennaro
La sceneggiatura di Carlo
Altinier e Stefania Colletta racconta la strage di San
Gennaro partendo dagli anni Settanta, quando il degrado
dell’odierna Castel Volturno era un’ipotesi impossibile da
formulare per i suoi ricchi frequentatori. La cartolina di un mare
cristallino, con una pineta tra le più estese d’Italia, villette
curate e un turismo d’élite a meno di un’ora da Napoli, rappresenta
uno sbiadito ricordo a cui, nel tempo, si sono sovrapposti proprio
gli orrendi palazzi predetti da Impastato. Otto, per la precisione,
costruiti sulla spiaggia ad opera dei fratelli Cristoforo e
Vincenzo Coppola, originari di Casal di Principe, che
sognavano di impiantare qui una Rimini campana nella completa
ignoranza di qualsivoglia vincolo paesaggistico.
Le torri di Pinetamare, come era
conosciuto il villaggio, vennero abbattute tra il 2001 e il 2003,
con una serie di interventi registrati dal film documentario
L’esplosione di Giovanni Piperno. Restituire quel
tratto di terra al mare non è stato sufficiente a ripristinare
l’antica bellezza: l’abuso edilizio, nel suo degradare l’ambiente,
aveva nel frattempo aperto la strada alla cultura dell’illegalità,
come se il ‘brutto’, come viene testimoniato in questo docufilm,
avesse cominciato a permeare la mentalità stessa degli abitanti.
Scomparsi i turisti benestanti, anche i privati hanno
progressivamente abbandonano i propri immobili e in una
generalizzata mancanza di cura, il territorio di Castel Volturno ha
finito per diventare un luogo fatiscente, preda facile di qualsiasi
forma di criminalità.
La ricostruzione dei fatti di
cronaca di Castel Volturno
Lo dichiara Cesare Sirignano,
pubblico ministero nel processo contro Giuseppe Setola, il
mandante della strage di San Gennaro e lui stesso a capo del gruppo
di fuoco che nel 2008, nella frazione di Ischitella, a Castel
Volturno, si scagliò contro la sartoria del ghanese El Hadji
Ababa. Quella sera, per caso fortuito, nel locale si
trovavano anche i connazionali Joseph Ayimbora, Kwame
Antwi Julius Francis, Affun Yeboa Eric, Christopher
Adams, oltre a Samuel Kwako, originario del Togo, e a
Jeemes Alex, originario della Liberia. Ayimbora, l’unico
sopravvissuto, riuscì a salvarsi perché il suo corpo insanguinato
fu protetto da quello di un compagno colpito più duramente e caduto
a morte.
Il documentario parla di loro, delle
vittime degli spari, perché Setola è solo uno dei tanti pervasi dal
‘brutto’ e indagare la sua storia non sarebbe sufficiente per
rispondere alla domanda: “per quale motivo?”. Alle ore 19.55 di
quella sera di fine estate, Setola, ancora in umore di sangue dopo
aver sparato ad Antonio Celiento, un pregiudicato ritenuto
informatore delle Forze dell’Ordine, chiede ai suoi scagnozzi di
trovare dei neri. Il suo messaggio deve arrivare forte e chiaro
alla cosiddetta mafia nigeriana, che da anni sfrutta la
prostituzione per reinvestire i proventi nel traffico di
stupefacenti sul ‘suo’ territorio. La sua bestialità non è unica,
distintiva, e la scelta di campo degli autori è molto precisa nel
ricollocare l’arroganza di un atteggiamento omicida nel quadro di
miseria di un territorio abbandonato a se stesso, senza servizi, né
possibilità di crescita. Solo attraverso la lucidità di
quest’analisi diventa chiaro che si tratta esclusivamente di una
questione di tempo prima che il prepotente di turno voglia
riattivare un clima di violenza per imporre la propria legge
personale, come ammonisce sul finale Vincenzo Ammaliato,
giornalista del Il Mattino, tra i primi ad accorrere sul luogo
della strage di San Gennaro.
Un docucrime che sa mantenere
l’impianto informativo
Non è la prima volta che il regista
Matteo Lena si confronta con il racconto del Male: già Premio
Ilaria Alpi per il documentario Le mani su Palermo, ha
firmato la sceneggiatura e la regia della docuserie Il Mostro di
Udine. La forza del lavoro realizzato per SkyCrime risiede in
un trattamento del soggetto che sposta l’attenzione dai fascicoli
delle indagini, dalle intercettazioni, dai verbali degli
interrogatori alle condizioni di una comunità intera per allargare
il campo della responsabilità e la capacità di identificazione di
un pubblico abituato a trovare il focus del docucrime nel vicino
della porta accanto, che si tratti della vittima o
dell’aggressore.
L’influenza degli standard imposti
da Gomorra, produzione originale Sky, a questo tipo di
narrazione sono visibili nei passaggi legati alla ricostruzione del
fatto di cronaca, sovrapposti alle riprese d’archivio, La
Strage di San Gennaro, tuttavia, riesce ad andare oltre.
L’impianto giornalistico rimane infatti l’asse portante di un
racconto che non concede facili risposte. La ‘soluzione’,
contrariamente a quanto accade nei classici docucrime, non risiede
nella possibilità di delimitare la violenza al percorso deviato di
una sola mente criminale: il pericolo è molto più pervasivo e
nessuno di noi può dirsi davvero immune.
Debutterà l’8 gennaio 2024 in prima
serata la nuova serie tv di RAI FICTION, La
storia, creata da Giulia Calenda, Ilaria Macchia,
Francesco Piccolo e diretta da Francesca Archibugi.
Protagonisti con
Jasmine Trinca,
Elio Germano, Asia Argento,
Lorenzo Zurzolo, Francesco Zenga e con
Valerio Mastandrea.
La storia è composta da 4 puntate
da 100 minuti ciascuno scritti da Giulia Calenda, Ilaria
Macchia, Francesco Piccolo e Francesca Archibugi e tratto
da “La Storia” di ELSA MORANTE pubblicato in Italia da Giulio
Einaudi Editore, Torino.
La storia: la trama
Foto di Lacovelli Zayed
Roma, quartiere San Lorenzo. Alla
vigilia della seconda guerra mondiale, Ida Ramundo, maestra
elementare rimasta vedova con un figlio adolescente di nome Nino,
decide di tenere nascoste le proprie origini ebraiche per paura
della deportazione. Un giorno, rientrando a casa, viene violentata
da un soldato dell’esercito tedesco, un ragazzino ubriaco.
Dopo lo sgomento, l’angoscia e la
vergogna, scopre di essere incinta. Mentre Nino trascorre l’estate
al campeggio degli Avanguardisti, Ida partorisce in segreto un
bambino prematuro, piccolo e quieto, con gli stessi occhioni
azzurri del padre, quel soldato ragazzino tedesco già morto in
Africa. Quando Nino torna a casa e scopre il fratellino, lo accetta
di slancio e se ne innamora. Lo soprannominerà Useppe.
La piccola famiglia viene stravolta
dagli eventi della guerra: prima Nino, fascista convinto, decide di
partire per il fronte contro il parere di Ida, lasciandola sola con
Useppe; poi, nel bombardamento di San Lorenzo del luglio 1943, la
loro casa viene distrutta, Ida perde tutto ed è costretta a
sfollare a Pietralata. Da quel momento, ogni giorno diventerà una
lotta per la propria sopravvivenza e per quella del suo bambino.
Intanto, Useppe cresce aspettando i ritorni di suo fratello, al
quale è legato da un amore inossidabile, mentre una vitalità a
tratti disperata spinge Nino verso la lotta armata di Resistenza,
verso l’amore, verso i compagni, pieno di desideri; più soldi, più
affari, più avventura. Dopo la guerra si darà al contrabbando,
prima di sigarette e poi in quello delle armi. Vuole una vita
migliore per sé, per Ida e per Useppe.
Note di regia
Tutta la Storia e le nazioni della
terra s’erano concordate a questo fine: la strage del bambinello
Useppe Ramundo. “La Storia”, Elsa Morante, 1974 Ida Ramundo vedova
Mancuso viene violentata. Tutto nasce da una violenza sessuale di
un giovane soldato tedesco su una donna incapace di difendersi.
Quel giovane soldato morirà poco dopo, in guerra. Tutti sono
incapaci di difendersi. I personaggi di questo grandioso libro sono
creature senza nessun potere, attraversate da forze collettive,
piccole figure che tentano di sopravvivere nel decennio di un
secolo che ha attraversato l’orrore assoluto. Come mettersi al
servizio di un’idea tanto semplice quanto gigantesca? Con tutta
l’umiltà e la fedeltà possibili. Attenzione spasmodica alla
distribuzione dei ruoli, alla scelta degli attori e delle attrici,
dei cani e dei bambini, delle case, delle piazze, delle scarpe e
delle ciabatte. Immagini. Voci. Luci. Suoni. Il lavoro di regìa è
una sequenza infinita di scelte macro e microscopiche, grandi
impostazioni e minimi dettagli. Guidare una armata di collaboratori
geniali, tutti tesi allo stesso scopo: cercare di restituire nei
personaggi e nelle scene lo stesso stupore, divertimento, orrore,
disperazione che si è provati leggendo La Storia da adolescenti.
Con la precisa certezza che sarebbe stato impossibile. È stato
terrificante e bellissimo. Francesca Archibugi
La storia, trama del primo
episodio
La maestra Ida Ramundo è ebrea, ma
lo tiene nascosto. Il marito è morto anni prima e lei vive con suo
figlio Nino, adolescente bellissimo ed esuberante. La vita di Ida,
fra scuola e San Lorenzo, procede impaurita ma tranquilla, aiutata
spesso dall’oste Remo. Un giorno di gennaio del 1941 tutto
cambia: Gunther, un giovanissimo soldato tedesco, la segue in casa
e la violenta. È quello il giorno in cui la Storia bussa alla porta
di una donna normale: Ida si scopre incinta. Mentre Nino è lontano
al campeggio con gli Avanguardisti, nasce un neonato magico, con
degli occhi azzurri bellissimi.
La storia, trama del secondo
episodio
Al ritorno, Nino non fa domande e
si innamora istantaneamente del fratellino. E il piccolo di
lui. Fra i due fratelli s’instaura un legame fortissimo. Però Nino,
fascista esaltato, abbandona la famiglia e il liceo, spezzando i
sogni di Ida, e si arruolerà in guerra volontario, salutato da
tutto il quartiere. Ida resta sola con il piccolo soprannominato
Useppe. Ma la guerra sconvolgerà ben presto le vite di tutti. San
Lorenzo viene bombardato, la casa di Ida distrutta e
Blitz, il cagnolino di Nino, morirà sotto le macerie.
Il cast di La storia
Ida Ramundo vedova
Mancuso(Jasmine
Trinca): è una diligente maestra elementare, figlia di
maestri, semplice, infantile, conserva ancora una “faccia da
bambina sciupatella”. Crede con fervore nell’istruzione e
solo dentro l’aula con i suoi scolari prova un po’ di pace. Il
mondo le fa paura. Rimasta vedova e sola da giovane,
mezza ebrea, attraversa il fascismo, le leggi razziali e
l’occupazione di Roma da parte dei nazisti con un terrore
occulto.
Ama i suoi figli come
un’innamorata, prima di Nino, adolescente bello e inquieto che la
tiene in un continuo stato d’agitazione, e poi di Useppe, il suo
pupetto dallo sguardo celeste. I suoi figli sono la sua unica
ragione di vita, “come certe gatte malandate”.
Nino(Francesco Zenga): cresce durante i cinque anni di
guerra. Odia andare a scuola, al liceo classico, e infrange i sogni
di Ida di vederlo laureato abbandonando gli studi per arruolarsi
volontario nell’esercito fascista. S’immerge nel caos della guerra,
ritorna a casa dopo essersi unito a sorpresa ai partigiani della
cellula dei castelli romani. L’Italia sobbolle, lui viaggia,
attraversa il fronte, va a Napoli, si unisce agli americani. Nino è
sempre in movimento, pieno di idee, a volte in conflitto fra loro;
da orfano di padre, comanda sulla madre ed è intollerante a tutte
le autorità, correndo a perdifiato felice e disperato verso il suo
destino.
Useppe(Christian Liberti/Mattia Basciani): frutto della
violenza sessuale di un soldato tedesco, è un bambino di una
dolcezza quasi soprannaturale, pieno d’amore per l’universo, gli
uomini e gli animali. Il suo sguardo azzurro conquista il mondo e
tutte le persone che lo incrociano. Durante la terribile
occupazione nazista che affama Roma, Ida si batte come una lupa per
cercare di trovare per lui qualcosa da mangiare, farlo crescere,
non farlo ammalare. Perché Useppe soffre di assenze, chiamate
Piccolo Male che finita la guerra lo faranno passare attraverso la
trafila di medici e medicine. Ida è fiduciosa perché è la stessa
malattia di cui soffriva lei da piccola e dalla quale è
guarita.
L’oste Remo(Valerio Mastandrea): proprietario di un’osteria a
San Lorenzo, è una specie di capo di quartiere, amato e rispettato,
l’unico che Nino sta a sentire e, per questo, amato anche da Ida.
Si scoprirà essere uno dei capi della resistenza armata e farà da
tramite per passare le notizie tra Ida e il figlio Nino. Non
abbandonerà mai Ida e le sarà sempre vicino.
Eppetondo(Elio
Germano): Giuseppe Cucchiarelli è un marmista
che dopo il bombardamento di San Lorenzo sfolla a Pietralata
insieme a Ida e Useppe. Chiamato Giuseppe Secondo per l’eccesso di
Giuseppi nel capannone degli sfollati, viene ribattezzato Eppetondo
da Useppe che non sa pronunciarne il nome. Comunista, d’animo
gentile e generoso, è uno strano tipetto che si lega con amicizia
fortissima e anomala prima a Useppe e poi a Ida.
Quando compare Nino partigiano, si
unisce di slancio alla lotta armata. Catturato dai nazisti, si
comporterà da piccolo grande eroe per non tradire i compagni.
Carlo Vivaldi(Lorenzo Zurzolo): il cui vero nome è Davide Segre,
studente ebreo di Mantova, è un anarchico nonviolento. Scampato
alla deportazione che ha sterminato la sua famiglia, dopo
l’incontro con Nino si convince a partecipare attivamente alla
lotta partigiana. L’uccisione violenta di un tedesco, lo porterà a
un conflitto interiore che lo consumerà. Dopo la guerra, ritrova
Useppe conosciuto durante lo sfollamento a Pietralata. Il bambino
si legherà a lui, lo cercherà, mentre Davide, incapace di
riprendersi dalle ferite della guerra, sprofonderà sempre di più
nella solitudine.
I Mille(Vincenzo Antonucci, Anna De Stefano, Rosaria Langellotto,
Arcangelo Iannace): famiglia mezza romana mezza
napoletana, scampata ai bombardamenti a tappeto di Napoli. Si
sono rifugiati nel ricovero per gli sfollati di Pietralata, guidati
dalla furbizia di Domenico(Vincenzo
Nemolato). Chiamati così perché numerosi, sono tutti
imparentati tra loro. Sono allegri, spregiudicati, ridono,
litigano, fanno la borsa nera. Tra loro si distingue la
sora Mercedes(Carmen Pommella),
matrona della famiglia, che nasconde sotto una coperta i beni
alimentari e li smercia anche all’interno del capannone; e
Carulina(Flora Gigliosetto),
chiamata da Useppe Ulì, una quindicenne già madre di due gemelline
di cui dice di non sapere chi è il padre. Affettuosa, allegra,
“canterina e piagnona”, resterà nei ricordi di Useppe per
sempre.
La famiglia
Marrocco: Ida e Useppe affittano una stanza nella loro
casa di Testaccio una volta abbandonata Pietralata. Sono
ciociari: in casa ci sono il nonno, un vecchio un po’ rimbambito
che vuole solo bere vino, il signor Tommaso
Marrocco (Enzo Casertano) che lavora come
portantino in ospedale, la signora Filomena
Marrocco(Antonella Attili), sarta in
casa, brutale e sboccata, sempre dietro al lavoro delle macchine da
cucire e circondata di clienti, e Annita(Ludovica Francesconi), la piccola sposina del
figlio Giovannino, disperso in Russia. L’attesa del ritorno di
Giovannino è il pensiero fisso della famiglia. Il suo nome e la sua
foto campeggiano nella casa e nei pensieri.
Santina(AsiaArgento) è una prostituta che
va a casa Marrocco a leggere i tarocchi, di cui è esperta,
interrogata come un oracolo da Filomena e Annita sulla sorte di
Giovannino. Lì conosce Davide Segre, con il quale intreccia una
relazione intima, anche di pensieri e conforto, che ingelosisce
Nello(Josafat Vagni) il suo
magnaccia violento e possessivo.
Blitz e Bella:
sono i cani della famiglia Ramundo-Mancuso. Blitz,
voluto da Nino quando è nato il fratellino, come una sorta di
risarcimento. Quando parte soldato, lo affida a Useppe, in segno
del loro legame speciale. Ma il cagnolino morirà sotto le macerie
del bombardamento di San Lorenzo, il primo trauma indelebile per
Useppe. Bella, invece, è una magnifica maremmana
enorme e bianca, di cui s’innamora Nino come fosse una ragazza e
che va a vivere con loro appena finita la guerra. Sarà compagna di
grandi avventure per Useppe e nelle sue scorribande romane starà
sempre appiccicata a lui, per proteggerlo da tutto. Quando Nino non
c’è, Bella veglia sulla famiglia e sulla malattia di Useppe come
una seconda mamma.
Patrizia(Romana Maggiora Vergano): è la fidanzata di Nino,
di cui si innamora anche Useppe, per la sua dolcezza e la sua
allegria. Fanno giri in moto in tre e, durante una scampagnata al
lago, Useppe li vede fare l’amore. Insieme trascorrono momenti
intensi di felicità. Da questa felicità resterà Ninetta, la pupetta
che Patrizia avrà da Nino.
Vilma(Giselda Volodi): è una strana donna, un po’ maga,
un po’ strega, che Ida incontra al ghetto. È considerata
dagli altri ebrei una che vaneggia, poiché riporta le notizie delle
radio straniere che ascolta dalla signora da cui lavora. Notizie
che sono prese con fastidio, come profezie squinternate di una
donna fuori di sé. C’è troppo orrore in quello che racconta, morte,
deportazione, nessuno le crede.
Signora Di Segni(Anna Ferruzzo): ha un negozio di tessuti nella
piazza principale del ghetto. È la più scettica sulle profezie di
Vilma, non vuole crederle. Ida la incontra di nuovo vicino alla
Stazione Tiburtina, dopo che tutta la sua famiglia è stata
rastrellata il 16 ottobre del ’43. Ida la segue fino al treno, e la
vede gridare ai fascisti e ai nazisti di fare partire anche lei con
i suoi cari, pensando che andranno in un campo di lavoro e non in
un campo di morte.
Rai Fiction ha
diffuso le prime immagini de La Storia di
Francesca Archibugi in anteprima alla Festa del
Cinema di Roma la serie tratta dal capolavoro di
Elsa Morante.
Roma, quartiere San Lorenzo. Alla
vigilia della Seconda guerra mondiale, Ida Ramundo, maestra
elementare rimasta vedova con un figlio adolescente di nome Nino,
decide di tenere nascoste le proprie origini ebraiche per paura
della deportazione. Dopo l’ingresso dell’Italia in guerra, un
giorno, rientrando a casa, viene violentata da un soldato
dell’esercito tedesco, un ragazzino ubriaco.
Si apre così “La
Storia”, la serie tv firmata da Francesca
Archibugi e tratta dall’omonimo romanzo di Elsa
Morante, edito da Giulio Einaudi Editore,
di cui sono ora disponibili le prime immagini. I primi due episodi
della serie, interpretata da
Jasmine Trinca,
Elio Germano, Asia Argento,
Lorenzo Zurzolo, Francesco Zenga e con Valerio Mastandrea, saranno presentati in
anteprima mondialevenerdì 20
ottobre alla Festa del
Cinema di Roma. “La Storia” – alla
cui sceneggiatura hanno lavorato Giulia Calenda, Ilaria
Macchia, Francesco Piccolo e Francesca
Archibugi – è una coproduzione tra
Picomedia e la società francese Thalie
Images in collaborazione con Rai
Fiction.
La trama di La Storia
Dopo lo sgomento, l’angoscia e la
vergogna, Ida scopre di essere incinta. Mentre Nino trascorre
l’estate al campeggio degli Avanguardisti, Ida partorisce in
segreto un bambino prematuro, piccolo e quieto, con gli stessi
occhioni azzurri del padre, quel soldato ragazzino tedesco già
morto in Africa. Quando Nino torna a casa e scopre il fratellino,
lo accetta di slancio e se ne innamora. Lo soprannominerà Useppe.
La piccola famiglia viene stravolta dagli eventi della guerra:
prima Nino, fascista convinto, decide di partire per il fronte
contro il parere di Ida, lasciandola sola con Useppe; poi, nel
bombardamento di San Lorenzo del luglio 1943, la loro casa viene
distrutta, Ida perde tutto ed è costretta a sfollare a Pietralata.
Da quel momento, ogni giorno diventerà una lotta per la propria
sopravvivenza e per quella del suo bambino. Intanto, Useppe cresce
aspettando il ritorno di suo fratello, al quale è legato da un
amore inossidabile, mentre una vitalità a tratti disperata spinge
Nino verso la lotta armata nella Resistenza, verso l’amore, verso i
compagni. Nino è pieno di desideri:vuole più soldi, più
affari, più avventura. Dopo la guerra si darà al contrabbando,
prima di sigarette e poi in quello delle armi. Vuole una vita
migliore per sé, per Ida e per Useppe.
La ormai totale diffusione delle
piattaforme streaming quali Netflix,Prime
Video e Disney+,
ha portato a sempre un maggiore accantonamento della televisione
nazionale, almeno per le fascie più giovani. Il grande pubblico in
cerca di qualcosa di nuovo da guardare, lo cerca sempre meno spesso
sulla Rai, nonostante qui si possano ritrovare
diverse serie degne di nota. Un esempio ne è La
Storia, diretta e co-scritta da Francesca
Archibugi (Il
colibrì). La serie, formata da una stagione di otto
episodi, ognuno di circa 50 minuti, è la trasposizione
cinematografica del noto omonimo romanzo di Elsa Morante. Nel cast ritroviamo
Jasmine Trinca (La dea fortuna,
La scuola cattolica) nel ruolo della protagonista Ida,
mentre
Valerio Mastandrea interpreta Remo. Altre figure
importanti del cinema italiano presenti sono
Elio Germano (L’incredibile
storia dell’isola delle rose, Palazzina
Laf) e Asia Argento. I primi due episodi de
La Storia, inoltre, erano già stati
proiettati in anteprima alla Festa del Cinema di Roma.
La Storia: la guerra
attraverso gli occhi di una donna
La Storia
racconta le vicende di Ida, una vedova con un
figlio, Nino, che vive a Roma. Le vicende del
secondo conflitto mondiale fanno da sfondo alla vita di Ida,
influenzandola abbondantemente: con l’arrivo in città la donna
viene violentata in casa sua da un giovane soldato tedesco. Da
questo stupro Ida scoprirà di essere rimasta incinta. Nel
frattempo, nel quartiere ebraico di Roma iniziano a circolare delle
voci sui rastrellamenti degli ebrei negli altri stati europei da
parte delle forze naziste.
I mesi passano e Ida, preoccupata
del giudizio altrui, cerca di nascondere il più possibile la
propria gravidanza, anche allo stesso Nino. Il ragazzo, un giovane
di 16 anni esaltato dalla cultura fascista, non si accorge dello
stato della madre fino al ritorno dal campo estivo. La guerra
entrerà a quel punto prepotentemente nei quartieri romani, portando
i giovani lontani da casa e sostituendoli con le bombe nelle
strade.
Ida: il dramma e la vergogna dello
stupro
Uno dei primi elementi che salta
all’occhio ne La Storia è proprio
l’evento iniziale dello stupro. Nel momento in cui le si presenta
davanti alla porta di casa il soldato tedesco, Ida non fa alcuna
resistenza, lo accoglie nel proprio appartamento. Un tale
comportamento è probabilmente dovuto alla paura stessa della figura
del soldato tedesco. Dall’altro lato invece il giovane sembra non
comprendere l’importanza o la gravità del proprio gesto, che
tormenterà il sonno di Ida per tante notti. Il tedesco porta con sé
un piccolo fiore in ricordo del momento passato insieme, trattando
la donna con gentilezza dopo l’atto in sé.
Ida continua però a sentire vergogna
anche della propria gravidanza: non essendo più sposata, ha timore
della reazione della gente del quartiere. Per questo motivo decide
di partorire in segreto e di nascondere il bimbo, chiamato Useppe,
il più possibile.
Nino e la cultura fascista
Il giovane Nino è invece la
rappresentazione perfetta di un giovane fascista: forte, fedele ad
un ideale che ancora non comprende fino in fondo e disposto a
sacrificare la propria vita per la patria. O almeno, questo è ciò
che emerge dalle sue parole: ben presto però si comprende che Nino
è in realtà un ragazzo dolce, e molto amorevole nei confronti del
piccolo fratellino. Il giovane si limita quindi a ripetere ciò che
gli è stato indottrinato dopo anni di scuola fascista, non sapendo
realmente in cosa consiste il regime totalitario. Ciò si può notare
specialmente nella scena in cui Nino viene deriso dagli adulti nel
rifugio antiaereo per le sue farneticazioni fasciste.
Ed è proprio in quella scena di
La Storia, come da altre affermazioni
fatte da Remo, che si comprende come il popolo non appoggi
nettamente il regime, ma semplicemente si tenga lontano dalla
politica. Il fascismo è ben noto per essere definito nella
filosofia politica come un Totalitarismo imperfetto: oltre al
mantenimento di poteri paralleli a Mussolini, quali la monarchia e
la Chiesa, qui ci viene mostrato come, nonostante la forte
propaganda, i cittadini italiani non abbiano sviluppato in massa un
sentimento di forte patriottismo e devozione al regime.
Un dramma con un’interpretazione
monotona
Per quanto possa essere discutibile
la lentezza ed eccessiva drammaticità de La
Storia, questa è più propriamente attribuibile alla
Morante più che alla serie in sé e certamente dipende dal gusto
personale. Ciononostante, qui è riscontrabile una certa mancanza di
pathos e espressività da parte dell’attrice protagonista. La
tragicità delle vicende non viene percepita adeguatamente dalla
performance di Jasmine Trinca, o almeno questo è
ciò che emerge dai primi due episodi: si può solo attendere le
prossime settimane per vedere come si evolverà la serie e
l’espressività della protagonista.
Continua su Rai 1La Storia, fiction firmata Francesca Archibugi e adattamento
dell’omonimo romanzo di Elsa Morante, che con gli
ultimi episodi del 22 e 23 gennaio vince per share e
telespettatori, consolidando il proprio successo e decretandosi
vincitrice della serata sulle reti generaliste. Negli
episodi finali (quinto, sesto, settimo e ottavo)
subentrano nuovi personaggi, uno fra questi la prostituta Santina
di Asia Argento e il nuovo amore di Nino,
Patrizia, interpretata da Romana Maggiora Vergano
(la Marcella di C’è
ancora domani), e si completano gli archi narrativi dei
protagonisti, in particolare quelli di Ida, Useppe e Nino.
Ricordiamo, inoltre, che per chi non avesse avuto modo di seguirla
in diretta, La Storia può essere
recuperata sulla piattaforma Rai Play.
La Storia, trama degli
ultimi episodi
Nella puntata andata in onda il 15
gennaio, avevamo visto Ida e
Useppe abbandonare il caseificio di Pietralata
dove hanno trascorso diverso tempo con i Mille. La donna è riuscita
a trovare una camera in affitto dalla famiglia Marocco, in zona
Testaccio, ma la condizione di povertà in cui riversa le fa patire
la fame. Nel mentre, Useppe inizia a manifestare delle assenze,
seguite da alcune convulsioni, che portano alla diagnosi di
epilessia infantile, stessa patologia che aveva afflitto Ida da
piccola. Nel frattempo, lontano da Roma, Nino è
impegnato nel contrabbando e inizia a guadagnare soldi sporchi,
potendo così permettere alla sua famiglia di trovarsi una casa
tutta propria. Sfortuna vorrà che, in un viaggio per trasportare la
merce, sarà coinvolto in un incidente e morirà. Intanto, la
patologia di Useppe sembra non migliorare…
I difetti delle ultime due
puntate
In questi ultimi episodi andati in
onda di La Storia, si riscontra quasi
nell’immediato una maggiore falla all’interno della sceneggiatura e
dei piani temporali,
qualcosa che avevamo già accennato nella recensione del terzo e
quarto episodio, che qui però diventano più evidenti. Alcuni si
presentano come dei veri e propri buchi di trama, in cui a essere
compromessa è anche un po’ la linearità del racconto. Altri invece
sembrano delle disattenzioni in fase di montaggio, con alcune
sequenze narrative in cui non si distingue bene il cambiamento in
corso e che possono confondere gli spettatori.
Fra queste incrinature a essere più
evidente è in primis il tempo che passa su tutti i personaggi
tranne che sul piccolo Useppe, un comunque bravissimo
Mattia Basciani, che sembra essere graziato dalla
giovinezza eterna. Nei volti e nei corpi di Ida e degli altri
comprimari è invece ben rappresentato con un considerevole lavoro
su trucco e parrucco, il quale chiarisce gli anni che scorrono, e
dà un’idea di quanto gli orrori della guerra abbiano segnato e
stravolto. Inoltre, gli ultimi episodi appaiono ingolfati di
inserti tragici, provocando una reazione a catena che non permette
di prendere un respiro e dare la dovuta importanza a quanto sta
accadendo, pur riuscendo comunque ad essere emotivamente
impattanti. La regia, invece, risulta sempre raffinata ed
elegante, improntata a mettere in risalto ogni minimo
dettaglio di uno spazio scenografico curato minuziosamente.
Jasmine Trinca in stato di
grazia
Al netto di qualche problema
strutturale, non si può non lodare ancora una volta la performance
di Jasmine Trinca, che raggiunge lo stato
di grazia in questi ultimi episodi in cui il livello drammatico si
alza enormemente, riempiendo la scena e sorreggendo il
racconto, sempre più pesante e complesso, sulle proprie spalle.
Trinca ingloba alla perfezione dentro di sé rabbia, preoccupazione,
terrore, timori e coraggio di una madre che, se prima doveva
proteggere il figlio dai nazifascisti, ora si ritrova a doverne
affrontare gli strascichi.
La fame, la povertà e la malattia
galoppante di Useppe, traumatizzato e scosso dalla guerra, si fanno
sempre più presenti nella narrazione, diventando primari, e servono
a risaltare le capacità recitative di Trinca, la quale esprime con
il solo uso dello sguardo lo stato d’animo di una donna in
frantumi, spezzata dagli agghiaccianti eventi, che cerca in ogni
modo possibile di non soccombere al dolore e sollevarsi. Apparsi i
titoli di coda dell’ultima puntata, quello che resta da dire è:
Jasmine Trinca è stata davvero meravigliosa.
Prosegue in prima serata su
Rai UnoLa Storia, adattamento per la televisione del romanzo
omonimo di Elsa Morante, i cui
primi due episodi sono stati presentati alla
18esima edizione della Festa del Cinema di Roma. Il debutto
ufficiale per il pubblico è però avvenuto l’8 gennaio scorso, il
cui successo è stato registrato nell’immediato con il 23.5
% di share, che si è tradotto in 4.5 milioni di
telespettatori. Un risultato che, per la tematica portata sullo
schermo non sorprende affatto, soprattutto se si considera anche il
fenomeno C’è ancora domani di
Paola Cortellesi, il quale, a ben rifletterci, si avvicina
molto alla serie firmata da Francesca Archibugi, sia per gli
argomenti trattati e intenti, sia per la figura femminile scelta
per rappresentarli.
Tra l’altro, La
Storia, pur mettendo in scena il passato, sembra non
essere troppo distante dal nostro presente. Oltre alle guerre che
si consumano oggi, è recente la notizia del saluto romano espletato
da un gruppo fascista durante la manifestazione a Roma per
commemorare i morti di Acca Larentia, un gesto che oltre ad aver
turbato e toccato la sensibilità di molti, è stato oggetto di
discussione in molti programmi tv, fra cui Tv Talk, dove a
essere intervenuta è stata proprio Jasmine Trinca, che presta il volto alla
protagonista della serie, Ida. La seconda puntata de La
Storia, come vedremo nella recensione dei nuovi due episodi,
entra ora nel vivo della narrazione, dopo i primi due preparatori,
e segna anche l’ingresso di nuovi personaggi, come Giuseppe
Cucchiarelli, il marmista partigiano interpretato da
Elio Germano.
La Storia, la trama degli
episodi 3 e 4
Dopo aver perso la propria casa per
via di un bombardamento Ida, insieme a Useppe, sfolla a Pietralata.
Lungo la strada fa la conoscenza di Giuseppe Cucchiarelli, un
comunista dall’animo buono, con cui stringe un’amicizia solida.
Arrivati a destinazione, entrambi trovano riparo in un caseificio,
dove al suo interno c’è una numerosa famiglia napoletana pronta ad
accoglierli. Useppe si sente subito a suo agio in quell’ambiente, e
passa spesso le giornate insieme a Cucchiarelli, iniziandolo a
chiamare teneramente “Eppetondo”. Nel frattempo, Ida è preoccupata
per il figlio Nino, che non vede da almeno due mesi e mezzo e non
sa se stia bene o addirittura se sia ancora vivo.
Una sera, però, il ragazzo si
presenta al portone del casale, in vesti completamente diverse: ha
abbandonato gli abiti da fascista per indossare quelli da
partigiano. Nell’insurrezione del movimento Nino trascina con se
anche Cucchiarelli desideroso di combattere per il suo credo e un
altro sfollato, Carlo Vivaldi, un anarchico che da quanto si
apprende in seguito è stato testimone di alcune atrocità perpetrate
dai tedeschi nei confronti degli ebrei. Ida, intanto, si trova un
giorno di fronte a una scena straziante: alla Stazione Tiburtina
incontra il treno della morte… gli ebrei sono in partenza verso i
ghetti.
La Ida di Archibugi come la Delia
di Cortellesi
Come abbiamo detto in apertura, in
La Storia c’è molto di C’è ancora domani, come in Ida c’è molto da
rintracciare di Delia. Sullo sfondo, pur essendo periodi
diversi – il primo entra nel vivo della Seconda Guerra Mondiale, il
secondo mette in scena il Dopoguerra – c’è un’Italia oppressa,
affaticata, che a stento respira. Nella nuova puntata andata in
onda, le somiglianze fra Ida e Delia si fanno sempre più evidenti:
intanto emerge la stessa determinazione a lottare per sé stesse,
per la loro identità e per i loro figli, per un mondo migliore da
lasciar loro, nonostante debbano fare di tutto per nasconderlo.
Entrambe sempre vigili e mai sopra le righe, per non rischiare di
rimetterci la vita e dover abbandonare una missione in cui credono
con corpo, anima e cuore.
Vittime, ma al tempo stesso
guerriere silenziose. Mai realmente assoggettate, pur
essendo etichettate come sbagliate – nel caso di Ida grava su di
lei l’essere ebrea – e facente parte di una minoranza. Messe al
margine dalla società, dai pregiudizi, da uno Stato fondato su
un’ideologia terrificante e totalitaria, alla cui base c’è un
sistema patriarcale, ma che pur camminando ai bordi trovano
ugualmente il coraggio resistere, scoprendo di non essere sole.
Avvicinarsi empaticamente a Ida, legarsi saldamente a lei, è sempre
più naturale man mano che le vicende si fanno più decisive e
incisive, e il trasporto emotivo diventa più forte, andando di pari
passo con il dramma che si compie e si intensifica.
Jasmine Trinca, la sua Ida è
spiazzante
Se il momento storico raffigurato
stringe in una morsa tutti i personaggi di La Storia, a
incarnare a pieno una delle ideologie del periodo arriva Giuseppe
Cucchiarelli, personaggio più politico, che
racconta in particolare il comunismo, o meglio il movimento dei
partigiani, con le sue convinzioni, regole e modus operandi.
Attraverso le sue parole e il suo animo battaglierlo si concretizza
la guerra vissuta, rendendola ancora più presente e percepita nella
narrazione. Elio Germano è ben calato nel ruolo, un comprimario di
assoluto valore, e le sue scene con il piccolo Useppe, da cui si
evince una bella complicità, sono fra i migliori inserti di questi
episodi. Ma a splendere, ancora, è
Jasmine Trinca, la cui performance drammatica
restituisce a pieno l’affresco di una donna provata dal dolore ma
che, nonostante la paura, reagisce e si spinge in avanti,
attaccandosi alla speranza per non lasciarsi sopraffare.
Volto segnato, sguardo deciso,
espressioni accorate che al tempo stesso trasmettono attaccamento
alla vita, l’attrice recita in sottrazione e dà il meglio
di sé per farci dono di una protagonista integra nell’animo e
corazzata, la cui bravura buca lo schermo. Brilla, Jasmine
Trinca, come la sua Ida di cui ha colto tutte le sfumature emotive
e caratteriali, tanto da poter considerare questa una delle sue
migliori interpretazioni. L’unica pecca della nuova serie targata
Rai risiede in alcune poco chiare e deboli sezioni di
sceneggiatura, che si tramutano in passaggi narrativi a volte
frettolosi, i quali si evincono nello specifico nella crescita di
Useppe e nel cambio di bandiera di Nino, da fascista a partigiano.
Al netto di qualche difetto di scrittura, La
Storia si conferma con il terzo e quarto episodio un
prodotto valido, che si erge sulle solide basi del romanzo di Elsa
Morante, non porgendo il fianco a sentimentalismi o retorica, ma
rimanendo lucido nel fotografare, gradualmente, un popolo
resistente, una donna resiliente e un’Italia ferita.
Braveheart è un
film emozionante, ma è uno dei film meno accurati dal punto di
vista storico mai realizzati. “Potranno toglierci la vita, ma
non ci toglieranno mai la libertà!“. Il discorso di William
Wallace è uno dei più famosi della storia del cinema. Per una
generazione di spettatori, il film Braveheart di
Mel Gibson ha cementato il posto di William Wallace come uno
dei più grandi leader militari di tutti i tempi. Il film
di Gibson ritrae William Wallace come un eroe riluttante che
sfodera la spada per vendicarsi dopo l’assassinio dell’amata
moglie. Il film racconta la storia della sua vita, esplorando
alcune delle sue battaglie più importanti, e alla fine si conclude
con una nota tragica: Wallace viene tradito e messo a morte dagli
inglesi. La conclusione di Braveheart è tuttavia ottimista, in
quanto presenta il protagonista come l’ispiratore di Robert the
Bruce, che alla fine avrebbe condotto la Scozia alla libertà.
Purtroppo, per quanto il
film possa essere emozionante, in realtà è generalmente
considerato uno dei film meno accurati dal punto di vista storico.
Ciò è dovuto in gran parte al fatto che il regista e protagonista
di Braveheart, Mel Gibson, si è basato sul racconto di un
bardo di nome Blind Harry, un narratore che sosteneva di aver
utilizzato fonti primarie per scrivere il suo resoconto su Wallace,
ma probabilmente non lo fece. Blind Harry scrisse di William
Wallace circa 100 anni dopo che gli eventi della sua vita si erano
verificati, e non si sa quanto dei suoi resoconti fosse reale.
Tutto ciò significa che Braveheartdeve essere visto come un film basato su un racconto di
fantasia liberamente ispirato a eventi storici, e non
sorprende che il film sia storicamente inaccurato.
Braveheart si rallegra
delle sue imprecisioni, e le possiede fin dall’inizio, perché
persino il titolo è sbagliato. La maggior parte degli
spettatori penserà naturalmente che
“Braveheart” si
riferisca a William Wallace, ma in realtà il nome è associato a
Robert the Bruce. Secondo lo scrittore del XIV secolo John
Barbour, Robert the Bruce si pentì sempre di non aver partecipato a
una crociata. Fece giurare a uno dei suoi cavalieri di portare il
suo cuore in Spagna in un astuccio d’argento dopo la sua morte, in
modo da trovare un modo per partecipare a una crociata. Nella foga
della battaglia, questo cavaliere lanciò l’urna contenente il cuore
contro l’esercito avversario, gridando: “Avanti cuore
coraggioso, ti seguirò!”. Il titolo di Braveheart non
ha nulla a che fare con William Wallace, né il motivo del nome
viene mai mostrato nel film (per fortuna).
È interessante notare che anche
altre scene che coinvolgono Robert the Bruce nel film sono
storicamente inaccurate. Robert the Bruce viene ritratto come un
nobile che tradisce William Wallace più di una volta nelle sue
battaglie contro gli inglesi, ma ciò non accadde. Questo è dovuto
soprattutto al fatto che Robert the Bruce inizialmente non era
affatto coinvolto nella ribellione scozzese contro gli inglesi. Il
clan Bruce aveva una legittima pretesa al trono scozzese, ma il
Paese era talmente in subbuglio che non fece pressioni per
rivendicare il trono, ma attese fino a quando non ci fu un
sufficiente sostegno scozzese per la ribellione. Per questo si dice
che Robert the Bruce sia stato “ispirato” da Wallace e che abbia
sposato la causa dopo la morte di quest’ultimo.
La storia di William Wallace in
Braveheart è completamente inventata
Mel Gibson interpreta bene il ruolo
di William Wallace, aprendo con un racconto degli anni formativi di
Wallace pensato per renderlo simpatico. Purtroppo, si tratta di un
racconto in gran parte astorico, perché in realtà Wallace
era un nobile minore; suo padre e suo fratello non sono
certo morti in battaglia contro gli inglesi. Infatti, quando il
conflitto con gli inglesi giunse al culmine, William Wallace era
già adulto, non un bambino che guardava i suoi familiari più
anziani andare in battaglia.
Sebbene Blind Harry racconti della
morte della moglie di Wallace in circostanze simili a quelle del
film, la sua versione di Wallace è già un leader sanguinario. È
interessante notare che Blind Harry non sembra aver mai nominato la
moglie di Wallace: il nome “Miranda” è stato aggiunto da
studiosi successivi che hanno copiato i suoi manoscritti e
“Marion” è stato usato da altri, ma non viene utilizzato
nel film per non sembrare simile alla leggenda di Robin Hood.
Braveheart sceglie un nome più tradizionale: Murron.
Braveheart inventa il motivo
della guerra di William Wallace contro gli inglesi
La guerra di William Wallace contro
gli inglesi non aveva nulla a che fare con la vendetta nel mondo
reale e di certo non aveva a che fare con il “diritto
nobiliare” dello Jus Primae Noctis, il diritto di un
nobile di andare a letto con una sposa locale durante la prima
notte di nozze. Sebbene le testimonianze sullo Jus Primae Noctis
risalgano all’Epopea di Gilgamesh di circa 4.000 anni fa,
in realtà non ci sono prove storiche che sia mai stato praticato in
nessuna parte del mondo, compresa la Scozia medievale. Il motivo di
Wallace era infatti politico: si opponeva all’invasione della
Scozia da parte di Edoardo I dopo la morte del re scozzese
Alessandro III. Il primo atto di ribellione noto di Wallace
fu l’assassinio di un alto sceriffo inglese nel 1297, ben
prima della leggendaria morte della moglie.
Braveheart ignora
l’abbigliamento e le armi dell’epoca di William Wallace
Braveheart non è più
storicamente accurato quando si tratta di rappresentare
l’abbigliamento e le armi degli scozzesi o degli inglesi. I soldati
inglesi non avrebbero indossato per secoli il tipo di uniformi
standardizzate che si vedono in Braveheart di Mel Gibson,
mentre i kilt degli scozzesi sono altrettanto antistorici. I tartan
di famiglia sarebbero stati stabiliti, ma i kilt con cintura non
sarebbero stati usati in battaglia per altre centinaia di anni.
Wallace non avrebbe mai indossato una vernice blu per il viso; è
associata ai Picti. “Picti” è il nome che i soldati romani davano
ai soldati tribali scozzesi con cui si scontravano quando cercavano
di invadere la Scozia. La pittura facciale blu sarebbe passata di
moda circa 1.000 anni prima del suo tempo.
Anche la leggendaria lama di
William Wallace è sbagliata, sebbene ispirata alla Wallace Sword
esposta nel National Wallace Monument di Stirling. Come ha
dichiarato lo storico David Caldwell alla
BBC:
La cosiddetta Spada di Wallace è
in realtà un tipo di spada scozzese che risale alla fine del XVI
secolo.Questa spada fu vista al Castello di Dumbarton dal
famoso poeta William Wordsworth e da sua sorella Dorothy quando
visitarono la Scozia nel 1803.Uno dei soldati della
guarnigione disse loro che era quella di Wallace.È la prima
volta che la spada viene associata all’eroe scozzese: il soldato
stava deliberatamente raccontando una storia ai visitatori
inglesi?
In realtà, però, questo particolare
elemento di imprecisione storica è del tutto comprensibile. La
Spada di Wallace può anche non essere autentica, ma ha un’enorme
importanza simbolica.
Il film Braveheart di Mel
Gibson sbaglia persino le sue battaglie
Braveheartsbaglia persino le
battaglie. La più eclatante è la battaglia di Stirling
Bridge; per prima cosa, nel film non c’è traccia di un ponte. Nel
mondo reale, la genialità delle tattiche di William Wallace non
risiedeva nell’uso di lunghe lance – una tattica comune – ma
piuttosto nella scelta del campo di battaglia. L’esercito di
Wallace era posizionato su un lato di un ponte e gli inglesi erano
costretti ad attraversarlo. Il ponte fungeva da imbuto,
neutralizzando la superiorità numerica. Ironia della sorte, questa
non fu la strategia di Wallace, ma è accreditata ad Andrew de
Moray, un altro capo militare scozzese che morì poco dopo la
battaglia di Stirling Bridge a causa delle ferite riportate sul
posto. Questa figura non compare mai in Braveheart, ma il
suo contributo alla ribellione scozzese contro gli inglesi fu
altrettanto importante di quello di Wallace.
La battaglia di Falkirk è invece
più interessante, con alcuni dettagli che corrispondono a quelli di
Braveheart. La cavalleria scozzese ha effettivamente
disertato durante questo conflitto inaspettato, ma non ci sono
prove che i nobili siano stati corrotti; piuttosto, è probabile che
siano stati demoralizzati e abbiano semplicemente abbandonato la
battaglia piuttosto che affrontare l’inevitabile sconfitta.
La morte di William
Wallace
La morte di William Wallace è una
delle parti più storicamente accurate di Braveheart, anche
se resa molto meno macabra. Gibson sceglie di accennare soltanto
agli orrori che Wallace subisce: viene impiccato, poi sventrato
fuori campo, prima di essere decapitato. Alcuni aspetti più
raccapriccianti della tortura, come l’intestino di Wallace che
viene bruciato davanti a lui, sono comprensibilmente tagliati.
Tuttavia, è strano che un film come
Braveheart, che non è particolarmente
apprezzato per la sua accuratezza storica, gestisca le scene di
morte in modo abbastanza accurato.