Se non fosse uno dei personaggi più
cool di Star
Wars Il risveglio della forza, Poe Dameron, il
più abile ed esperto pilota della Resistenza, sarebbe semplicemente
l’alter ego del suo interprete. Come lui, anche
Oscar Isaac, capelli scuri con qualche
venatura grigia e una faccia imperfetta, “sa guidare
tutto”: negli ultimi anni in cui Hollywood l’ha raccolto
dall’anonimato e trasformato in un attore di grandi aspettative e
risultati, è passato da un set all’altro con estrema naturalezza,
modellando profili e caratteri diametralmente opposti, lontani,
sfaccettati.
Sempre distinto, fiero di quel
potere invisibile che soltanto i primi della classe sfoggiano con
umiltà e che rendono Oscar Isaac un’icona del
cinema contemporaneo ancorato alla tradizione ma fortemente
proiettato al futuro.
Passato
e futuro sono la chiave di lettura di tutta la saga di
Guerre Stellari, l’epica di
George Lucas che ha tagliato in modo trasversale
quasi mezzo secolo di cinema rimanendo congelata nei cuori di padri
e figli. Oggi il passato si rispecchia nella memoria rimasta (e nei
volti di Harrison Ford e Carrie
Fisher), il futuro guarda alle giovani promesse
Daisy Ridley, John Boyega e,
ovviamente, Oscar Isaac. L’attore, nato in
Guatemala e naturalizzato statunitense, potrebbe diventare sul
serio il “pilota” di una generazione che avanza, tra tentativi di
emancipazione dall’industria blockbuster ed esempi di ottimo cinema
indipendente. Lo ha già dimostrato in varie occasioni.
Che Isaac appaia in un piccolo film
o in un capitolo di famosi franchise, poco importa. “Non puoi
pianificare una cosa del genere. Credo di avere avuto fortuna,
abbastanza da far piovere dal cielo queste occasioni. Amo recitare
e mi diverte provare stili diversi, rappresenta una bella sfida
professionale. L’importante è cambiare, io cerco di farlo
continuamente”.
Oscar Isaac Hernandez
Estrada, classe 1979. Sangue latino e temperamento
accademico, lascia la terra natia per migrare in Florida; da lì
inizia il percorso che lo porterà a diplomarsi alla prestigiosa
Julliard School di New York, la stessa dalla quale sono usciti
Robin Williams e Viola Davis ma anche i colleghi di set
Adam Driver e Jessica Chastain (con lei reciterà
in uno dei suoi film più belli e complessi, A most
violent year, con lui ha condiviso brevemente il set
dei fratelli Coen e, adesso, il franchise di Star
Wars). Curioso come la città che gli ha dato una
formazione drammatica rappresenti il luogo di eterno ritorno, di
numerosi incontri e rivelazioni: è nella Grande Mela che lo
scapestrato cantautore Llewyn Davis percorre una strada di miseria
e malinconia, nel meraviglioso lavoro di Joel ed Ethan
Coen; sempre ai margini di New York, nella contea di
Yonkers, è ambientata la miniserie targata HBO Show me
a hero, dove Isaac interpreta la passione e il
malessere di un giovane sindaco diviso tra responsabilità etica e
civile.
Dello show, scritto dal
David Simon di The Wire
e diretta da Paul Haggis, dice che “è stato
come girare un film di sei ore, con un carico di lavoro maggiore e
la stessa quantità di tempo che hai nel cinema. C’era una strana
energia all’inizio, nel personaggio di Nick, una leggerezza e un
ottimismo che permettevano alla storia di respirare per un po’, pur
sapendo che le cose sarebbero cambiate. Ed è questo che mi
affascinava del progetto”. Una simile purezza la si ritrova
nello sguardo di Abel Morales, neanche a dirlo, un immigrato che a
New York costruisce un piccolo impero d’affari e intraprende un
percorso quasi macbethiano verso la corruzione morale.
A most violent year è il terzo film di
J.C. Chandor, uno di quei tre registi
(insieme a Bennett Miller e Paul Thomas
Anderson) che sta riscrivendo la storia del cinema
americano con un linguaggio e una forma rinnovati dal grande
respiro contemporaneo. Per mostrare la parabola discendente del
sogno americano, il regista sceglie forse i due attori migliori in
circolazione.
Oscar Isaac e
Jessica Chastain si conoscono da tempo. Hanno
frequentato le stesse aule della Julliard e condiviso il
palcoscenico, “Ci conosciamo così bene da prevedere le nostre
mosse. E poi abbiamo un approccio alla recitazione molto simile,
fatto anche di fiducia reciproca. Spesso quando lavori con altri
attori, e mi capita spesso, hai paura di violare quel processo
recitativo, invece con Jessica ero libero di oltrepassare quei
confini senza mai offenderci l’uno con l’altra”. Racconto di
incredibile tensione e simbologia classica, da alcuni paragonato a
Il Padrino, A most violent
year distrugge la purezza del protagonista Abel,
piegato ma mai distrutto dagli ordini della sibillina moglie. E
tali sfumature, a tratti tragiche, non sarebbero state visibili
senza attori come Isaac e la Chastain, veri “fenomeni” e camaleonti
sulla scena.
A chiudere il legame che Oscar ha
stretto con New York, arriva quella pellicola che ha cambiato ogni
cosa, il suo miracoloso “turning point”, il punto di svolta di una
carriera che annovera collaborazioni con Ridley Scott, Zack
Snyder, Steven Soderberg,
Alejandro Amenabar: nel 2013 i fratelli
Coen presentano sulla croisette di Cannes Inside
Llewyn Davis, un capolavoro di poesia che passa fra le
mani (e la voce) dell’attore. Negli anni Sessanta, il cantautore
Dave Van Ronk, che ha ispirato il film, vive nell’ombra di
squallidi locali e del successo di Bob Dylan; è un
periodo cruciale per lo sviluppo e la diffusione del folk
americano, espressione più pura di un disagio esistenziale, prima
che politico e sociale, che la fotografia di Bruno
Delbonnel rende opaco e fragile nei fumi della città e
negli occhi di Llewyn. Un Oscar Isaac
sensibilmente dimesso riempie ogni frame, ogni accordo spezzato,
ogni parola cantata di una malinconia consapevole. Il segno che
lasciano i grandi attori, ma anche quei ragazzi che all’improvviso
devono presentarsi al capezzale dei propri idoli di gioventù.
“Quando ho saputo del film mi sono detto che dovevo farne
parte. Ho visto tutti i film dei Coen due o tre volte, alcuni di
più. Il loro tono è radicato nella mia testa. Recitare la parte di
Llewyn è stato difficile, lui è un tipo così chiuso, un’isola
lontana dalla realtà. Per questo non si trattava di un semplice
musical ma di una finestra su me stesso. Dovevo andare a fondo,
capire la sua natura di perdente”.

Dal cemento delle strade battute al
cielo liquido di una galassia lontana lontana ci sono stati di
mezzo ruoli come il folle Nathan di
Ex-Machina, esordio di Alex
Garland, il Principe Giovanni, partecipazioni a
Che – L’Argentino e a I due
volti di Gennaio. Ma cosa è cambiato? Nulla, secondo
Isaac. “Scegliere un ruolo… è come innamorarsi. Non c’è logica
o criterio, è una sensazione innata. Leggi una sceneggiatura e ti
innamori del personaggio, non smetti di pensarci, è il tuo pensiero
fisso. E poi si aggiunge la voglia di lavorare con artisti che
hanno una visione particolare”.
Intanto, grazie al Nick Wasicsko di
Show me a hero, vince il primo Golden
Globe della carriera, ed è solo l’inizio. Signori, abbiamo trovato
il pilota che guiderà questa generazione di nuovi attori. Grandi
attori.