Il teatro e il cinema sono da
sempre rimasti legati da un rapporto di grande tensione reciproca,
una spietata guerra fredda che nel corso dei decenni non ha mancato
di lasciare sul capo una miriade di morte e feriti da ambo le
parti. Il legame di incontro-scontro che sembra connettere in
maniera alquanto paradossale e ossimorica l’Arte Nobile e la
Settima Arte ha potuto ben rivelarsi fin dal transito – tutt’altro
che indolore – dal Positivismo ottocentesco alla nuova modernità
novecentesca, momento cruciale durante il quale il cinema iniziò a
perdere parte della propria natura “baracconesca” originaria per
iniziare un lento ma inesorabile (e necessario) processo di
legittimazione culturale e identitaria che l’avrebbe condotto a un
definitivo riconoscimento istituzionale e mediale, giunto non prima
del decennio successivo. Ed proprio durante questo delicato
passaggio storiografico che il teatro, consacratosi orami dal XVII
secolo in Europa come più alta forma di rappresentazione e
comunicazione artistica, iniziò a storcere il naso nei confronti di
questa nuova piccola forma di mostrazione, rivendicando a gran
voce, con toni enfatici e borgheseggianti, la propria centralità in
quanto summa maxima delle arti della meraviglia e della
visione.
Malgrado schiere di intellettuali e
critici provenienti dal vasto campo dello scibile (letteratura,
pittura, danza, musica ecc.) continuarono a lungo – almeno fino
alla metà degli anni ’10 – a rifiutare l’idea che il cinema potesse
essere considerato niente più che uno dei tanti “spettacoli della
visione” al pari dei teatri ottici e delle lanterne magiche, molti
dei primi “cinematografari” (come venivano all’epoca chiamate
quelle figure ibride invischiate nelle varie fasi del lavorazione
filmica) decisero di chiedere aiuto proprio agli uomini di cultura
e di spettacolo, i special modo a scrittori e commediografi, per
realizzare i loro primi racconti di finzione, tant’è che già a
partire dal periodo 1905-1908 il coinvolgimento dei registi
teatrali e degli scenografi all’interno della produzione filmica fu
alquanto intenso e fruttuoso.
A partire dal 1911 i cineasti
iniziarono un sostanzioso processo di adattamento di testi
teatrali, più o meno famosi, appartenente alla tradizione colta e
popolare ormai ben consolidata, coinvolgendo nel frattempo una
serie di autori come Pirandello, D’Annunzio Verga nella
realizzazione di sceneggiature originali destinate direttamente al
grande schermo, nel mentre in cui i discorsi riguardo la presunta
specificità del teatro e della forma filmica iniziavano a
farsi sempre più agguerrite. A partire dal 1910, infine, si mise in
moto un esodo di massa che, dai palcoscenici teatrali di tutta
Europa, condusse moltissimi attori e attrici nella condizione di
farsi immortale dall’obiettivo della macchina da presa, in ruoli
che li avevano già resi celebri e che ora potevano essere
riproposti per un pubblico immensamente più vasto e dichiaratemene
interculturale. Ben presto nomi celebri nomi come quelli di
Asta Nielsen (prima grande donna di teatro
approdata sullo schermo), Francesca Bertini,
Lyda Borelli, Pina Menichelli,
Leda Gys, Ermete Zacconi,
Max Linder e Emilio Ghione
iniziarono a popolare l’immaginario visivo delle platee di tutto il
mondo, uscendo dall’anonimato tipico dei primi volti di celluloide
e dando vita a un processo di riconoscibilità duraturo – ed
economicamente fruttuoso – che avrebbe condotto, nel periodo
1913-1920, all’esplosione del fenomeno divistico.
In realtà, ancor prima che al
cinema, la tendenza divistica aveva già iniziato a dare i suoi
frutti proprio nel teatro, grazie ad alcune celebri interpreti come
Sarah Bernhardt e Emma Gramatica,
le quali seppero conquistare elogi nazionali e internazionali
attraverso performance memorabili capaci di dare vita a vere e
proprie fazioni di ammiratori e sostenitori. Se però il destino
cinematografico della maggior parte di questi soggetti ha finito
per replicare e rafforzare – con esiti a volte eccezionali ma anche
disastrosi – la propria precedente fama, vi è, in mezzo a tutto
questo marasma recitativo, una figura fra le più grandi in assoluto
del teatro del XIX secolo, una donna di straordinaria capacità e
bellezza tanto da far perdere la testa al grande Vate D’Annunzio,
una stella fiammante dell’arte italica che decise però di rimanere
a lungo lontano dagli angusti spazi fittizi degli studi
cinematografici e che fece il suo primo e unico debutto filmico in
tarda età, regalando uno straordinario e commosso testamento
artistico su celluloide destinato purtroppo a cadere quasi subito
nell’oblio e a eclissarsi nelle inesorabili spire del tempo.
Nel 1909, a quasi sessant’anni di
età e con una folgorante carriera durata oltre un quarantennio, la
grande attrice pavese Eleonora Duse decise, a
sorpresa, di ritirarsi definitivamente da quelle scene che, fin dal
lontano 1878, l’avevano consacrata nell’Olimpo dei grandi grazie ad
alcune celebri interpretazioni appartenenti a un campionario ricco
e variegato che da Ibsen passava con disinvoltura attraverso Verga,
Boito, Zola, fino a giungere direttamente a Shakespeare. Avendo
costruito la sua intera carriera su una forte naturalezza
espressiva e un invidiabile dosaggio di espressioni e gestualità
controllate, la Duse si era sentita sempre più scontenta di sé
stessa incapace di arrestare l’avanzare inesorabile del tempo,
dovendo nel frattempo convivere con un principio di depressione che
le causò un progressivo allontanamento anche dalla società.
Alle soglie del 1915, in
una maniera assolutamente inaspettata, ecco che dagli Stati Uniti
giunse un’insolita e inimmaginabile proposta di collaborazione da
parte di un ormai celebre e competente regista cinematografico di
nome David W. Griffith, impiegato presso la
Triangle Film Corporation (germe della futura MGM) e forte del
recentissimo successo del kolossal storico Nascita di
una nazione, grazie al quale aveva contribuito al
fondamentale processo di istituzionalizzazione del linguaggio
cinematografico. Griffith, esperto direttore di attori e già
mentore di una grande star come Lillian Gish, dopo
aver ammirato la recitazione della Duse durante uno dei suoi tour
americani, aveva per l’appunto deciso di convocarla nell’ancora
giovane Hollywood per impiegarla all’interno di un ambizioso
progetto del quale, però, mai nulla di chiaro e certo è trapelato
sino a noi, forse una nuova epopea storico-moraleggiante sul
modello dei già collaudati successi del passato. Ciò che pare certo
comunque è che la Duse, dopo un attimo di titubanza e un sano
spavento che ben traspare dalla animose e poetiche lettere inviate
di frequente alla figlia Enrichetta, fosse proprio sul punto di
accettare l’offerta, quand’ecco che, proprio come nel più classico
dei colpi di scena cinematografici, le pervenne – in perfetto
tempismo – un’ennesima e altrettanto inaspettata offerta di lavoro,
questa volta da una casa di produzione italiana, la torinese
Ambrosio Film, la quale interpellava direttamente la celebre
artista per proporle di partecipare a una piccola ma ambiziosa
produzione tutta nazionale.
Il progetto, capitanato dal
produttore Arturo Ambrosio e dall’attore
Febo Mari – qui impiegato anche come soggettista,
attore protagonista e regista –, avrebbe dovuto riguardare un
fedele adattamento del romanzo Cenere
della scrittrice Grazia Deledda, un cupo e
tormentato melodramma popolare di ispirazione verista incentrato
sulle vicessitudini di Rosalia, una povera donna sarda che, dopo
aver dato alla luce un figlio e averlo abbandonato al proprio
destino, a distanza di anni si vede visitata proprio dal giovane,
ormai diventato adulto e deciso a riallacciare i rapporti con la
genitrice mai conosciuta. Dopo un epilogo pieno di pathos
e sani abbracci consolatori, l’anziana donna muore sola e
abbandonata dal figlio Anania, ormai caduto nelle grinfie di una
gelida e spietata donna senza scrupoli del tutto insensibile
all’amore del giovane per l’unica sua parente.
Dopo molti notti insonni e
un’interminabile corrispondenza privata segnata da dubbi e umori
discordanti, l’anziana attrice italiana decise di optare alla fine
per la proposta proveniente da Torino, un pò sicuramente seguendo
un certo patriottismo artistico e un pò anche allettata dalla
promessa, avanzatale dai vertici della casa torinese, di poter
collaborare assieme alla Deledda e al regista Mari alla stesura del
soggetto e della sceneggiatura, una promessa di piena libertà
creativa che raramente aveva avuto modo di sperimentare durante la
propria carriera teatrale.
Recatasi a Torino e messasi subito
al lavoro, la Duse – così come ci testimoniano ancora una volta i
carteggi privati e alcuni documenti di lavorazione –, si immerse
anima e corpo nel progetto, cercando di elaborare un adattamento
del racconto che potesse mediare fra una certa integrità con la
narrazione orinale e una forte valorizzazione della componente
drammatica, cercando nel frattempo di allenare nuovamente le
proprie qualità attoriali per plasmare su di sé uno stile
recitativo estremamente contenuto ed essenziale, che potesse
risultare comunicativo senza apparire eccessivo o plateale. Al
momento di recarsi sul set per dare inizio al primo giro di
manovella, alcuni aneddoti riportano che la diva si sentisse a tal
punto intimorita dall’obiettivo della macchina da presa da volersi
mantenere il più possibile sullo sfondo della scena,
involontariamente regalando un’inconsueta dignità e umiltà “fisica”
al suo personaggio di madre Rosalia. Riguardando oggi, a distanza
di oltre un secolo, quelle cupe e sbiadite immagini su pellicola,
non può non risaltare subito una grande naturalezza e veridicità
nei piccoli gesti di questo fragile corpicino di vecchia, avvolta
da capo a piedi in uno scialle nero che pare un sudario d’ombra, un
povero vestiario capace di imbrigliare un decrepito cadavere umano
segnato dalle cicatrici della propria vita passata e dal dolore
presente per un figlio circuito e ammaliato da una terribile
femme fatale sarda, interpretata dalla collega di teatro
Misa Mordeglia Mari (all’epoca compagna del
regista Febo Mari). La cruda e tagliente fotografia di
Eugenio Bava – poco noto padre del futuro maestro
e artigiano dell’horror nostrano Mario Bava –
riesce perfettamente a ritrarre tanto gli spigolosi ambienti in
esterni delle alture di Ala di Stura e Valli di Lanzo (scelte dalla
produzione al posto dei veri esterni sardi per pure ragioni legate
al contenimento dei costi) quanto gli opprimenti e spogli interni
della modesta e bucolica abitazione della protagonista, la quale
appare per tutto il film come una piccola presenza sul fondo della
narrazione e della scena, quasi come in una ossimorica collimazione
fra il kammerspiel e la durezza scenografica
dell’espressionismo.
Dopo una lavorazione
estremamente lunga e travagliata, soprattutto dovuta alla maniacale
cura voluta dalla Duse nella preparazione della propria
impostazione recitativa, attraverso un lavoro di asciugatura e
sottrazione che mal si sposava con l’istrionismo di Mari, alla fine
la produzione riuscì a portare a casa un prodotto della durata di
poco più di mezz’ora, di fatto un cortometraggio che fu infine
l’unica scelta obbligata a causa dell’eccessivo affaticamento
dell’attrice e dell’effettiva incapacità del regista di condurre in
porto un progetto nato dalle più nobili intenzioni ma caduto ben
presto sotto l’influsso di una cattiva stella. Pare inoltre che,
prima ancora di essere distribuito nella sua versione attuale, al
cortometraggio mancassero numerose sequenze che non furono
possibili da girare (dunque avvalorando la tesi di una
pianificazione iniziale molto più articolata), mentre altre fonti
riportano esattamente la versione contraria, ovvero che l’intera
produzione fosse già stata elaborata in vista di un’opera “breve”
alla portata di un’attrice anziana come al Duse. Nell’impossibilità
fisiologica di verificare l’una o l’altra versione e dovendoci
dunque attenere al prodotto a noi attualmente pervenuto, quello che
possiamo constatare è sicuramente la chiara sensazione di un’opera
“a metà”, un racconto sicuramente suggestivo a livello visivo –
così come prevedeva il proto-genere del dramma popolare del tempo –
ma “azzoppato” e manchevole nella sua struttura drammaturgica.
Una volta ultimato, il film faticò
moltissimo a trovare una regolare distribuzione a causa del suo
insolito formato, e una volta lasciato libero di circolare non
riscosse alcun successo, né di pubblico né tantomeno da parte della
critica, la quale non mancò di sottolineare una certa natura
melensa dell’intera narrazione unita a performance attoriali non
certo esaltanti. Il film, con grande rammarico dei suoi produttori
– e soprattutto della povera Duse che tanto vi aveva investivo
emotivamente e professionalmente – venne ben presto mandato fuori
dal normale circolo di visione dell’esercizio nelle sale i venne
lasciato in giacenza nei bui scantinati dei magazzini dell’Ambrosio
Film, mentre le pallide ombre contenute sulla fragile pellicola di
celluloide iniziarono ben presto a sbiadire sotto i colpi
inesorabili della polvere e dell’umidità.
In seguito a quest’unica e
deludente esperienza col cinematografo, vissuta purtroppo fra ansie
e nervi tesi, la Duse decise di non prestare mai più il proprio
volto e il proprio corpo alla macchina da presa, poiché essa stessa
non mancò di erigersi a spietata detrattrice e critica nei
confronti della propria recitazione, considerata in quella
specifica occasione ben poso all’altezza e per nulla soddisfacente.
Fu la stessa Duse a pronunciare una lapidaria e insieme perfetta
sentenza a riguardo, affermando semplicemente che «…il
cinematografo mi fa paura!». Un grosso peccato, poiché la
settima arte si è privata – forse troppo precocemente e in maniera
eccessivamente brusca – di una delle sue potenziali glorie,
sbocciata e appassita nell’arco di poco meno di 800 metri di
pellicola.
Ma forse fu proprio
questa esperienza estremamente negativa vissuta col cinematografo a
rinnovare, seppur per poco ancora, la forza d’animo di questa
straordinaria interprete, la quale, rinsavita da un eccesso di
autocritica grazie a un corroborante soggiorno a Viareggio ospite
dell’armatore Riccardo Garré, decise di ritornare nuovamente sul
palcoscenico, vero habitat naturale che fu sua culla e che
divenne infine anche la sua tomba. Il 21 aprile 1924, infatti,
durante l’ultima (imprevista) turnée americana a Pitzburg – nella
terra di colui che avrebbe forse potuto essere un mentore migliore
rispetto a Febo Mari –, Eleonora Duse si spense all’età di
sessantasei anni, dopo una lunghissima e folgorante carriera e
forse con l’unico vero rimpianto di non essere riuscita, a
differenza di altre sue colleghe, a trasportare il proprio talento
attoriale anche negli angusti e desaturati spazi dello schermo
cinematografico.
Fortunatamente per noi,
contrariamente alle performance in diretta eseguite su un proscenio
teatrale, le immagini impresse su pellicola, per quanto sbiadite e
tremolanti possano essere, rimangono come segno tangibile nel
tempo, ed è grazie al preziosissimo e provvidenziale lavoro di
restauro operato dalla Fondazione Cineteca Italiana di Milano
nel 2011 che oggi è ancora possibile visionare su supporto digitale
e in DVD l’unica e irripetibile apparizione della celebre diva
nostrana dinnanzi all’obiettivo filmico, a dimostrazione di come,
ancora a distanza di oltre un secolo, il personaggio della madre
Rosalia e la sua interprete possono rivivere fulgidamente in un
piccolo (grande) pezzo della nostra storia del cinema (non
più) dimenticato.