A 10 anni dal suo ultimo ritorno sul ring, torna al cinema Rocky Balboa, e con lui il sangue, il sudore, il sacrificio che l’ambizione di essere il migliore hanno sempre richiesto. Ambientato in una Philadelphia tra fumo e nebbia, Creed – Nato per combattere è la storia di Adonis, un giovane cresciuto con una donna che non è sua madre ma che gli ha dato amore, agi e istruzione.
Un ragazzo con tanta rabbia dentro e una profonda, violenta voglia di riscattarsi da un nome impegnativo: Creed. Adonis infatti, che preferisce farsi chiamare Johnson, è il figlio del più grande pugile di tutti i tempi, Apollo, nemico/amico di Balboa. Così il giovane, Donny per gli amici, si rivolge a Rocky, che insieme a lui affronterà l’ultima grande sfida della sua vita.
Così come lo era stato il primo Rocky, anche Creed – Nato per combattere è una storia di rivalsa e di riscatto, un racconto in cui Davide sfida Golia. Alla regia Ryan Coogler, che torna a lavorare con Michael B. Jordan, protagonista al fianco di Sylvester Stallone nel ruolo che suggella il suo legame con la boxe, con il cinema e con l’amico immaginario migliore che possa esistere, Rocky Balboa.

Dopo Fruitvale Station, in cui dirigeva sempre Jordan, Coogler prova a cambiare registro, ma le difficoltà si palesano immediatamente e dopo un prologo enigmatico ed evocativo, il film si trasforma in un classico racconto di riscatto con il valore aggiunto di “giocare” con figure e personaggi che smuovono la passione dello spettatore cresciuto con la Stallone Italiano. Sly torna quindi ad essere Rocky, ma questa volta si ferma a bordo ring, come allenatore e mentore di un ragazzo che diventa la sua famiglia. L’interpretazione dell’attore italo americano è senza dubbio intensa e traspare l’affetto profondo che Stallone nutre per il personaggio che interpreta. A fargli da controparte c’è Jordan che fa un ottimo lavoro dal punto di vista fisico e mimico, senza però eccellere come aveva fatto in altre occasioni.
A parte due o tre momenti di notevole impatto, come il primo incontro di Donny, ripreso il tempo reale, o la sequenza in cui si comincia l’allenamento vero e proprio per l’incontro della vita, Coogler offre una performance piuttosto monotona, che fa leva giustamente sul meccanismo amarcord ma che non lo sfrutta per guardare avanti, regalandoci una pellicola senza ritmo, un grosso limite per un film sportivo. La storia tende a impantanarsi soprattutto nei momenti romantici, in cui il protagonista incontra l’affascinante Bianca (Tessa Thompson). La storia d’amore non diventa un incentivo, come lo era stata quella con Adriana per Rocky, ma orpello che appesantisce la narrazione.
Creed – Nato per combattere consegna intatto il fascino del passato della leggenda del ring, ma non riesce a dare slancio ai nuovi protagonisti, rimanendo poco più che un’operazione nostalgica.

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Il protagonista invece, Johann Radmann, interpretato dal bravissimo e convincente Alexander Felhing, è personaggio di fantasia ma che conferisce alla sceneggiatura quel lato umano e intimista che completa un film mai pedante o esclusivamente cronicistico. Reidmann ed i suoi tormenti interiori, il suo stupore sempre crescente nel realizzare quanto la società civile tedesca fosse coinvolta nelle atrocità del nazismo, sono esemplificative di una nuova generazione di tedeschi che si decide a chiedere conto ai propri padri delle loro responsabilità storiche. La Germania della fine degli anni ’50, gli anni del boom economico e dallo sguardo rivolto al futuro, non ha per nulla voglia di voltarsi ancora indietro ed affrontare il proprio terribile passato, nemmeno troppo lontano. Così Reidmann dovrà affrontare mille difficoltà frapposte fra lui e le sue indagini che un intera società, un intero sistema, vedono con antipatia. Solo il Procuratore Bauer, interpretato da uno straordinario Gert Voss, icona del teatro tedesco, lo spinge a perseverare e a proseguire nel suo lavoro; non sono i gerarchi che si vogliono perseguire, per loro c’è stata Norimeberga, ora tocca agli insegnati, ai falegnami o ai panettieri che meno di vent’anni prima indossavano le lugubri e nere divise delle SS.
Il film è il secondo di una trilogia sulla genitorialità iniziata con il corto Los elefantes nunca olvidan. Ha conquistato la giuria di Venezia 72, presieduta da Alfonso Cuarón, col suo realismo minimalista, con la recitazione complementare dei protagonisti: il naturalismo pasoliniano dell’esordiente Silva e l’abile lavoro di sottrazione di Castro (lanciato a livello internazionale dai film di Pablo Larraín e visto negli italiani È stato il figlio e Il mondo fino in fondo). L’esplorazione della sfera emotiva e sentimentale dei due uomini, che continuamente si mescola con altre spinte e bisogni – dal sesso al denaro, dalla vendetta alla gratitudine, alla necessità di trovare un proprio posto nel mondo, di essere accettati – è indubbiamente interessante. I protagonisti si muovono in un territorio a loro sconosciuto, in cui non sanno come comportarsi, commettono errori, scambiano qualcosa per ciò che non è, senza rendersene conto.



Secondo un report di
