Precisamente vent’anni fa veniva
presentata al Sundance Film Festival la pellicola di un anonimo
regista del Tennessee con alle spalle una lunga gavetta come
correttore di bozze e sceneggiatore. Dopotutto, non è da
sottovalutare un quasi-trentenne che vanta già nel suo curriculum
una collaborazione con Tony Scott e un’altra con
Oliver Stone, due grandi nomi di Hollywood.
Il film presentato ha un nome
particolare: Reservoir Dogs, titolo probabilmente
ispirato dalla difficoltà del regista- dovuta a dislessia- nel
pronunciare il titolo della pellicola francese Au revoir, les
enfants, che aveva ribattezzato The Reservoir film.
Dopo una prima visione, il pubblico è sconvolto, spiazzato: c’è chi
sghignazza e chi grida allo scandalo, perché il film presenta delle
scene di una violenza inaudita. Non è, infatti, un successo al
botteghino ma la critica osanna il nuovo genio che è nato,
presentando al prestigioso Festival di Cannes non tanto l’opera
quanto il regista, che finalmente ha un nome e un cognome e che, a
partire da quell’anno, si ritaglia la propria nicchia di lusso nel
dorato mondo della celluloide:
Quentin Tarantino.
E proprio lui dichiara durante la
celebre “Proiezione Faye Dunaway” all’Egyptian theater: “Non so
voi, ma io adoro la violenza al cinema. Quello che mi sconvolge è
tutta quella merda alla Merchant/Ivory!” dove l’accusa non era
rivolta tanto contro i singoli tirati in ballo, bensì contro un
certo tipo di cinema dall’impianto stantio e datato.
Il suo background non è quello
delle scuole di cinema, ma quello delle videoteche e della
cinefilia compulsiva, che lo spinge a “saccheggiare” letteralmente
più elementi stilistici e registici che può dalle pellicole più
disparate, spaziando dai film d’azione e wuxia di Honh Kong ai film
francesi della Nouvelle Vague firmati da Godard o Melville, senza
tralasciare i sottogeneri italiani anni ’70-’80 come il
poliziottesco, lo spaghetti western e l’horror splatter d’autore.
Cita tra i suoi maestri gli italiani Leone, Argento, Fulci,
Soavi, Lenzi, Di Leo, Bava, G. Castellari ma non disdegna
nemmeno Howard Hawks, figura paterna e nume tutelare per il
cineasta. Tarantino arriva comunque in un momento particolare per
il cinema e per la cultura in generale. Assistiamo, infatti, alle
soglie degli anni ’90 ad una vera e propria “crisi dei valori” e
della cultura monolitica: se le pellicole degli anni ’80 vedono
protagonisti eroi fissi, senza sfaccettature, e personaggi manichei
che si muovono in una dimensione divisa tra bene e male, alle
soglie invece dei ’90 si assiste ad un cambiamento; nelle pellicole
i ruoli si confondono, si assiste ad un gioco continuo delle parti
e si perdono i punti fissi di riferimento: gli eroi non sono poi
così buoni e i cattivi non sono esclusivamente perfidi e malvagi
fino al midollo. Il cinema comincia a popolarsi di antieroi,
personaggi ambigui portatori di valori relativi e di una loro
sinistra morale. Ed è proprio in questo solco che si innesta il
germe del pulp, iperrealistico e pop, specchio dell’assurda
violenza grottesca che popola il quotidiano.
Le uniche scuole di formazione
professionale che frequenta il giovane cineasta americano sono
quelle di recitazione (dove comincia a farsi conoscere per i suoi
fitti dialoghi logorroici, costante dei suoi futuri film) e Il
Sundance Institute, tappa fondamentale perché è proprio qui che
presenta la sua opera, il suo primo prodotto definitivo:
Reservoir Dogs, da noi Le Iene.
La pellicola crea
scandalo, divide la critica, scuote gli animi e dà lo slancio alla
nascita di un nuovo genere (o forse alla sua rinascita in chiave
pop): il Pulp, quel “pasticcio” di cui già aveva parlato Charles
Bukowski nel 1995 con il suo romanzo omonimo. Secondo il
dizionario, il termine “pulp” può avere un duplice
significato: può indicare sia un “pasticcio”, ovvero una massa
informe di materia, quanto una serie di riviste di basso costo e
scarsa qualità, diffuse prevalentemente nell’America degli anni
’50, costituite da una serie di racconti brevi (spesso scritti da
nomi noti della letteratura “di genere” come Cornell Woolrich o
Raymond Chandler) a base di sesso, violenza e azione. Le pellicole
di Tarantino probabilmente si avvicinano ad entrambe le definizioni
e, cavalcando l’onda del successo dei suoi film, si crea così un
fenomeno “pulp” globale che riporta in auge anche il già citato
capolavoro di Bukowski scritto nel 1964 e dedicato alla “cattiva
scrittura” ma edito da Feltrinelli solo nel 1995, ovvero un anno
dopo il successo di Pulp Fiction e la morte dello
scrittore.
Alcuni Paesi impongono pesanti
tagli al film (come gli Stati Uniti, con il discorso sulla censura
e il divieto per i minori di 18 anni o l’Italia, dove tutt’ora
viene trasmesso dalle tv “epurato” da alcune scene), addirittura la
Gran Bretagna arriva a ritirare le copie disponibili in vhs. Ma di
lì a breve nascerà un vero e proprio fenomeno mondiale che lancerà
il film nell’empireo della cinematografia mondiale facendolo
assurge a “cult”.
Tarantino cominciò a girare nel
1990, con a disposizione un budget esiguo di 30.000 dollari,
“prestati” dal produttore Lawrence Bender che avrebbe dovuto
ricoprire, inizialmente, il ruolo di Eddie il Bello. Ma tutto
cambiò quando una copia della sceneggiatura originale venne fornita
dalla moglie del suo insegnante di recitazione direttamente al noto
attore Harvey Keitel (che proprio nel 1992 fu presente a
Cannes con due film: Le Iene e Il cattivo
tenente di Abel Ferrara). L’attore non solo rimase
colpito dal copione, ma decise addirittura di co-produrlo: così il
budget lievitò fino a 1.200.000 dollari, investiti quasi tutti per
gli abiti di scena. Tarantino abbandonò definitivamente l’idea di
girare il film con pellicola da 16mm, ma decise di mantenere lo
stesso alcuni elementi della sceneggiatura originale, come
l’integrità spaziale (il film, infatti, è girato principalmente in
un garage, in realtà un’impresa di pompe funebri in costruzione)
riducendo al minimo perfino le inquadrature elaborate, lasciando
libero spazio ai piani sequenza senza apparentemente nessuno stacco
(il che ricorda da vicino l’Alfred Hitchcock di Nodo
alla Gola) liberamente ispirati al capolavoro di Godard
Fino all’ultimo respiro (citato apertamente nella
celebre sequenza dove Mr. Orange e Mr. White ripassano i dettagli
del colpo in auto).
La storia è semplice e
lineare: una banda composta da sei uomini viene formata da Joe
Cabot (Lawrence Tierney) per realizzare un colpo in una
gioielleria di Los Angeles. Gli uomini, senza nome ma
contraddistinti da nomignoli (che richiamano il film Il colpo
della metropolitana di Joseph Sargent) sono Mr. Blue
(Edward Bunker), Mr. Brown (Quentin Tarantino), Mr.
White (Harvey Keitel), Mr. Orange (Tim Roth), Mr.
Blonde (Michael Madsen) e Mr. Pink (Steve Buscemi),
tutti avanzi di galera e fidati sgherri di Cabot. Ma il giorno del
colpo qualcosa va storto: la polizia è già sul posto, Mr. Blonde
apre il fuoco e si scatena una carneficina. Brown e Blue muoiono
sul colpo, Orange viene ferito durante la fuga e ha i minuti
contati. I superstiti si ritrovano in un garage abbandonato, il
luogo dove Joe ha detto di aspettare sue indicazioni… Mr. White
vorrebbe aiutare Orange, suo pupillo; Mr. Pink è riuscito a
scappare con i diamanti e Mr. Blonde (ruolo per il quale, in un
primo momento, si era pensato a nomi del calibro di Edward
Norton, James Woods e George Clooney) mostra tutto il suo
sadismo e la lucida follia nel momento in cui sequestra un
poliziotto legandolo nel portabagagli della sua auto. Ma il dubbio
si insinua nelle loro menti, un atroce sospetto che li porta a
diffidare l’uno dell’altro: c’è una talpa nel gruppo, un infiltrato
della polizia, ma chi?
Su questa trama lineare che ricorda
da vicino la tradizione del noir-gangsteristico americano della
migliore tradizione, Tarantino compone la propria personale
sinfonia giocando con la cultura pop, l’American Way, il teatro
dell’assurdo pinteriano e addirittura quello shakespeariano. I
protagonisti sono davvero “cani da rapina”, iene, animali
sanguinari, sadici e individualisti pronti a sacrificare il loro
prossimo pur di salvarsi la pelle. Non è un caso, forse, che
l’unico dei sei a salvarsi, alla fine (anche se arrestato dalla
polizia) sia proprio Mr. Pink, il più individualista del gruppo,
colui che fin dall’inizio dichiara le sue vere intenzioni nel
momento in cui rifiuta di dare la mancia alla cameriera.
Il film può essere inteso come una
cinica apologia della nostra società contemporanea: siamo animali
pronti a sbranare il nostro prossimo pur di preservarci, come
recitava il vecchio motto del filosofo Hobbes “Homo Homini
Lupus”. I sei uomini sono spietati e pronti a tutto, ma a
loro modo ognuno ha un’etica, una sorta di “codice morale dei
ladri” che li porta a seguire un determinato modello di
comportamento: Mr. Blonde non tradirebbe mai Joe ed Eddie, è solo
un pazzo sadico che vuole divertirsi, un “cane pazzo”; Mr. White si
lascia letteralmente “fregare” dal sentimento di amicizia e
protezione che lo spinge verso Mr. Orange, tant’è che arriva
addirittura a soppiantare la propria etica, anche se nel finale
viene punito cinicamente dagli eventi (o dal Destino?) che gli
mostrano inesorabilmente l’errore di valutazione compiuto
quando ormai è troppo tardi.
Da molti critici il film è stato
paragonato (o comunque confrontato) con l’opera di Stanley
Kubrick Rapina a Mano Armata, ma le diversità tra
le due pellicole sono profonde e significative: prima fra tutte, la
frammentazione del tempo della storia, di cui Tarantino è un
esperto, totalmente assente nel film di Kubrick che invece sceglie
di raccontare cronologicamente la preparazione di un colpo in un
ippodromo, destinato a finire tragicamente; inoltre, un’altra
particolarità che distingue Le Iene è l’assenza della
pianificazione, lo spettatore viene coinvolto fin dalle prime
inquadrature nella banale quotidianità di un gruppo di uomini
rozzi, nevrotici, sboccati che discutono di donne, sesso, canzoni
di Madonna, mance e cameriere. Improvvisamente, dopo i titoli di
testa (rigorosamente in giallo su fondo nero) ci troviamo a rapina
compiuta: non vediamo cosa accade nella gioielleria, il massacro,
possiamo solo intuirlo e ricostruirlo dai racconti dei
sopravvissuti e dai flashback che ricostruiscono i frenetici eventi
e le personalità complesse di questi loschi individui.
Proprio come in un
dramma del Bardo, è la parola ad avere la meglio su complesse
scenografie e perfino sul potere immaginifico del cinema stesso; la
parola, i dialoghi costruiscono la struttura della narrazione
proprio dove i personaggi “fanno”, letteralmente, la storia. Fin
dalla carrellata iniziale, con il dolly che gira intorno ai
personaggi prima prendendone le distanze poi avvicinandosi
cautamente, dai loro dialoghi intrisi di cultura popolare e
apparentemente senza senso capiamo in realtà la loro psicologia:
Mr. Pink è un egoista, individualista che si rifiuta di dare un
dollaro di mancia alla cameriera; Mr. Orange è pronto a fare la
spia a Joe, svelando subito il suo gioco pericoloso su due fronti;
Mr. Blonde è ciecamente fedele al capo Joe, pronto ad ubbidire a
qualunque ordine; Mr. White tiene testa al capo, lo conosce bene e
ha grinta da vendere, ma il suo lato debole è proprio l’istinto di
protezione paterna verso Orange, che siede al suo fianco perfino a
tavola;
Mr. Blue è schivo e taciturno; Mr.
Brown è assurdo e logorroico come Tarantino stesso, che realizza
con questo film il suo sogno di scrivere, dirigere e interpretare
una sua opera. Un’ultima attenta analisi riguarda il personaggio di
Mr. Orange e il suo aspetto meta- cinematografico: il personaggio
interpretato magistralmente da Tim Roth è la quintessenza
dell’attore, poiché in realtà il poliziotto Freddy Newandyke è
costretto ad interpretare un ruolo, si cala in esso, lo studia
attentamente vivisezionandolo al microscopio e finisce non solo per
crederci totalmente, per abbandonarsi ad esso, ma per modellarlo su
sé stesso e per viverlo fino in fondo, perdendo il labile confine
tra finzione e realtà: si sente un gangster, acquisisce il loro
linguaggio e il loro modo di pensare; uccide una donna a sangue
freddo, e quando l’atto è ormai compiuto lo spettatore non si sente
nemmeno più in grado di giudicarlo in alcun modo.
Il gusto di Tarantino per la
citazione cinefila si vede già a partire da quest’opera prima: per
esempio, l’uso del cosiddetto “Mexican Standoff” nel finale
del film, ovvero un “triello” (duello a tre) dove i personaggi di
Eddie il bello, suo padre Joe e Mr. White si tengono sotto tiro
contemporaneamente; il cineasta usa una tipica inquadratura cara
allo spaghetti western italiano e in particolare a Sergio
Leone, che ne introduce uno ormai famosissimo nel finale del
cult Il buono, il brutto e il cattivo dove i tre
protagonisti si affrontano, faccia a faccia, in un cimitero. Allo
stesso modo, un’altra scena ad alto tasso di cinefilia può essere
considerata la memorabile sequenza della tortura, una delle più
censurate della storia del cinema, dove il sadico Mr. Blonde si
diverte a torture e tagliuzzare il povero poliziotto sequestrato.
La scena ha un gusto fortemente grottesco, e la violenza che la
pervade scivola in un’assurda atmosfera ironica ed eccessiva
riconfermando quelle tesi che leggono il mondo descritto da
Tarantino come chiuso in sé stesso, autistico insomma, fumettistico
ed eccessivo quindi per questo totalmente avulso e lontano dalla
realtà stessa. L’azione di Mr. Blonde è sottolineata dal sapiente
uso di un pezzo rock degli anni ’70, “Stuck In The Middle With
You” dei Stealers Wheel, una scelta particolare che ricorda da
vicino quella compiuta da Lucio Fulci nel lontano 1972 nel
film Non si sevizia un Paperino.

Eppure, nemmeno il genio di
Tarantino è riuscito ad evitare le accuse di plagio che sono state
rivolte al film, e a nulla è servito il suo intervento con la
famosa frase “i grandi artisti non copiano: rubano” a sua
volta “rubata” dal compositore Igor’ Stravinskij. Un fan lo accusò
di aver copiato in modo imbarazzante un film di Ringo Lam
datato 1987 ed intitolato City on Fire. Le analogie
più evidenti sono nella sinossi, nella sparatoria finale (il
“triello”) e nella scelta stilistica in base alla quale la scuola
di Hong Kong mette in scena un mix letale di realismo, pessimismo,
crudeltà, durezza nelle immagini e perdita di qualunque distinzione
tra buoni e cattivi, ma alla fine anche queste critiche accese
decadono, nel momento in cui Tarantino dichiara di essere un fan
del regista Lam e di avere un poster del suo film in casa; ma molti
altri sono i film che il regista cita e saccheggia, a partire da
Il mucchio selvaggio di Sam Peckinpah fino al
cultissimo The Blues Brothers di John Landis.
Ma forse è proprio questa una delle abilità maggiori del cineasta
del Tennessee: saper rielaborare, secondo una sensibilità e un
gusto assolutamente personali, elementi disparati tratti dalla
cultura e dall’immaginario pop.
Tarantino modella i suoi personaggi
giocando sul labile confine del bene e del male; essi non subiscono
un giudizio manicheo da parte del loro demiurgo “creatore”, vivono
indipendentemente cogliendo tutte le infinite sfumature della
realtà. E la loro forza è proprio in questo: nel riuscire ad essere
assurdamente normali, pur essendo calati in un contesto di genere
che rafforza l’aspetto fittizio della messinscena cinematografica;
i dialoghi riproducono fedelmente il linguaggio della quotidianità,
come nel teatro di Harold Pinter o nelle sceneggiature di David
Mamet: il linguaggio forte, decisamente “politicamente scorretto”,
serve per riprodurre l’alienazione umana nella realtà
contemporanea, ormai svuotata di significato. Il cinema di
Quentin Tarantino è un’overdose cinefila per gli occhi e per
i palati degli spettatori più attenti, un tripudio di immagini e
citazioni che celano, però, un significato molto più profondo e
stratificato di quanto può apparire, semplicemente, in
superficie.