In The Dressmaker – Il
diavolo è tornato dopo aver passato gran parte della
propria giovinezza a Parigi e aver appreso gli affascinanti segreti
della sartoria d’alta moda, al principio degli anni ’50 Tilly
Dunnage fa ritorno a Dungatar, piccola cittadella sperduta nel
mezzo di un deserto australiano che ricorda molto il west
americano. Tornata all’ovile con l’apparente intenzione di accudire
una stramba e claudicante madre che pare non riconoscerla neppure,
la giovane in realtà medita ben altri piani nei confronti dei
loschi ex-compaesani, responsabili del suo allontanamento forzato a
causa di un oscuro fatto di sangue avvenuto durante l’infanzia, del
quale però la ragazza non serba alcun ricordo. Affilate le forbici.
Puntante gli spilli. Tilly è tornata, e non sembra avere per nulla
buone intenzioni!
Sergio Leone
incontra J.P. Gaultier, mentre sullo sfondo
Tarantino osserva e se la ride di gran gusto. Basta solo questa
delirante e grottesca immagine, degna del più astruso quadro
surrealista, a farci assaporare la struttura programmatica su cui
si regge The Dressmaker – Il diavolo è tornato,
pellicola ad alto tasso di contaminazione intergenere tratta dal
romanzo anonimo di Rosalie Ham e impeccabilmente
diretta da Jocelyn Moorthouse, regista
notoriamente a sua agio con soggetti drammatici chiamato a dare
corpo a un racconto alquanto atipico che fa del glamour e
del gusto citazionistico le proprie ruote motrici.
The Dressmaker – Il diavolo è tornato, il
film

Dispiegando un vasto campionario di
registri narrativi che spaziano dal pulp al
western classico – con grande attenzione al filone
return and revenge sul modello de Il cavaliere
della valle solitaria, intercettando persino i rossi
schizzi dello splatter e culminando con atmosfere da
thriller di provincia, la sceneggiatura dello stesso
regista si dimostra ben solida per la tutta la parte iniziale,
plasmando un racconto ricco di spunti tematici ad alto concertato
eccitatorio e dalla messa in scena esteticamente debordante,
risultando alquanto sbilanciato e claudicante nel suo mezzo –
complice un secondo twist narrativo troppo stiracchiato –
e capace di risollevarsi con uno scoppiettante finale.
La Dungatar di Tilly, sperduta nel
mezzo dell’Old Wild Australia, è popolata da un perfetto
microcosmo di bastards tarantiniani ipercaratterizzati,
fra i quali spicca un irriverente
Hugo Weaving nei panni di un dandy
cop segretamente en-travestì, una Judy
Devis sdentata mad mother e un
Liam Hemsworth belloccio e zoticone.
Kate Winslet, coadiuvata dai baroccheggianti
costumi di Margot Wilson e dalla fotografia ultra
satura di Donald McAlpine, si trasforma in un
femminino vendicatore solitario in tacchi a spillo, esplodendo
nella procace giunonica bellezza da femme fatale e
immergendosi con grande convinzione e maestria nei panni
(rigorosamente alla moda) di una novella Crudelia De Mon.
Avendo la spregiudicatezza – e
l’intelligenza – non prendersi mai troppo sul serio, The
Dressmaker – Il diavolo è tornato si lascia
cullare dalle sinfonie morriconeggianti di David
Hirschfelder, mentre lustrini e paillettes
divengono le nuove pallottole kitch di una vendetta da
consumarsi rigorosamente gelata.