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Wasp Network: recensione del film di Olivier Assayas #Venezia76

Wasp Network venezia 76

Il veterano della mostra Olivier Assayas, dopo  Doubles Vies  dello scorso anno, porta in concorso a Venezia il suo nuovo film Wasp Network, storia ambientata a Cuba negli anni novanta e interpretata tra i tanti attori da Gael García Bernal e Penélope Cruz.

Nel film, basato su una storia realmente accaduta, è raccontata la storia dei cosiddetti “Cinque Cubani”, ovvero cinque prigionieri politici (in realtà erano molti di più), accusati di spionaggio, omicidio, traffico di droga e altri crimini e condannati a molti anni di carcere dal governo Americano. Tra loro c’è René González, un pilota cubano, che rubò un aereo e fuggì da Cuba, abbandonando la moglie e  la figlia. González, una volta arrivato in Florida si costruì  una nuova vita a Miami, entrando in contatto con altri dissidenti, tutti impegnati nella destabilizzazione del regime di Castro, ma in realtà si trattava di agenti che dovevano raccogliere informazioni per sventare atti terroristici a Cuba a danno dei turisti stranieri. Il gruppo di infiltrati venne chiamato Wasp Network. La vicenda narrata nel film inizia nel 1990, proprio con la fuga di René González, per intrecciarsi poi con altre fughe ed espatri, in una ragnatela di intrighi, bugie e continui voltafaccia.

Olivier Assayas pensa che i fatti accaduti durante tutto il periodo della Guerra Fredda abbiano influenzato il pensiero della sua generazione e delineato i contorni del presente. Le ceneri di quei conflitti ardono ancora, anche se poco visibili, ma possono riprendere facilmente vigore e bruciare nuovamente. Per questo motivo ha scelto di raccontare in Wasp Network la storia di uno di questi avvenimenti, nella convinzione che la distanza storica sia ormai tale da poterne discutere. Sicuramente non distaccandosene, ma potendo “fruire di libertà e rigore in un’analisi magnanima, seppur prudente. Senza farsi ingannare dalle maschere dell’ideologia.Assayas si dichiara interessato alla storia moderna vista attraverso la lente della sua umanità e chiamando in causa Shakespeare dice: “La politica, come la vita, è un racconto narrato da uno stolto, pieno di rumore e furore, che non significa nulla. Ma è di questa passione che gli uomini vivono. E muoiono.”

Wasp Network è ben costruito e descrive esaurientemente tutte le figure, gli intrecci e le motivazioni che spinsero i personaggi reali fare scelte così difficili. Tutto il cast è centrato e credibile. Su tutti spicca l’interpretazione di Penélope Cruz, nel ruolo della moglie del pilota, abbandonata a cuba con la figlia piccola. Ma il film di Assayas manca di ritmo, in molte sequenze la narrazione diviene didascalica e mera illustrazione di una descrizione necessaria alla comprensione dello svolgimento dei complessi fatti. Lo svolgimento della vicenda, che si dipana su oltre un decennio, non aiuta certo ad alleggerire.

 
 

The New Pope, recensione degli episodi 2 e 7 della serie di Paolo Sorrentino #Venezia76

the new pope venezia 76

Dopo la prima stagione di The young Pope , che era stata proiettata in anteprima a Venezia nel 2016, Paolo Sorrentino presenta un goloso assaggio della nuova serie. Il titolo cambia in The new Pope  per assecondare  l’andamento narrativo della storia. Sono stati presentati il secondo e il settimo episodio, puntellati da un riassunto della prima serie e di uno di collegamento tra le due puntate. Il cast è ricchissimo, composto da nomi internazionali: Jude Law, John Malkovich, Silvio Orlando, Cécile de France, Javier Cámara, Ludivine Sagnier.

La storia riprende dopo l’infarto del giovane Papa nel finale della prima stagione. Ora Pio XIII è in coma e sembra destinato a non riprendersi. Passati alcuni mesi viene proclamato un nuovo pontefice che però muore in circostanze sospette. Il Cardinale Voiello si opera allora, con tutto il suo potere politico, a far salire al soglio pontificio Sir John Brannox, un aristocratico inglese, affascinante e sofisticato, che prende il nome di Giovanni Paolo III. Il nuovo papa sembra perfetto, ma cela debolezza e segreti. Pio XIII sembra ormai destinato a essere solamente ricordato e venerato, ma  forse i miracoli sono sempre possibili.

The new Pope conferma in pieno lo stile inconfondibile di Paolo Sorrentino. Bastano pochi fotogrammi per riconoscere il suo modo di raccontare, fatto di simmetrie geometriche innaturali, di scene al rallentatore esasperate, di musica pop e tecno, di nudi femminili e maschili, di colori acidi e luci al neon. E’ uno stile che film dopo film si evolve, o meglio lievita, come un impasto impazzito che potrebbe anche rischiare di esplodere, imbrattando tutto. Gli stilemi si fanno reiterati e insieme a grande bellezza e  fascino visivo si ha la sensazione di patinatura, di estrema impalcatura estetica che spesso vorrebbe soffocare i contenuti. E’ un male? Certamente no. Tanti autori, dai quali Sorrentino sembra attingere a piene mani, hanno fatto lo stesso, costruendo la propria poetica espressiva sull’eccesso e sulla costruzione barocca e provocatoria.

Nel vedere The new Pope come si fa a non pensare a Peter Greenaway, a Derek Jarman, a Federico Fellini, a Ken Russell, solo per citarne alcuni. Forse è citazionismo, o forse è uno studio accurato di riferimenti importanti per la costruzione di uno stile personale, che si nutre di arti figurative con golosità. Per Sorrentino il volgare si sposa con l’eleganza, la trivialità si eleva a stile, il sacro abbraccia il profano e la blasfemia è così ruffiana da apparire ammaliante. Vedendo The new Pope si avvertono sensazioni simili a quelle che si provano nell’ammirare una fotografia di David La Chapelle, o una scultura di Jeff Koons, o anche un opera di Damien Hirst. Si può rimanere stupefatti, indignati, affascinati, o magari anche schifati, o offesi. E questo è bello. Vuol dire che sta succedendo qualcosa di positivo nella serialità televisiva, che stiamo parlando di una serie che strappa i confini dello schermo, cinematografico o televisivo che sia, e che pone l’opera in territori di sperimentazione che sembravano persi a favore della speculazione.

La capacità di narrazione di Sorrentino è notevole e la descrizione dei tanti personaggi risulta perfettamente calibrata, scritta in punta di pennino da un abile affabulatore moderno, con calligrafia elegante e mai ovvia. Gli interpreti sono tutti azzeccati, nella loro caratterizzazione forzata che li rende pupazzi, burattini alla mercé di un estroso burattinaio. Spiccano Jude Law e John Malkovich, per aver dato spessore e sfumature a due uomini misteriosi, apparentemente impenetrabili, con dubbi e tormenti profondi, ma che rappresentano il più alto punto di riferimento per gran parte dell’umanità.

The New Pope di Paolo Sorrentino conferma l’originalità e la fascinazione di The Young Pope e si conferma una serie che rompe violentemente gli schemi e allarga lo sguardo verso progetti di grande respiro espressivo, uscendo finalmente dalla mera commercialità.

 
 

Il Sindaco del Rione Sanità: recensione del film

Il Sindaco del Rione Sanità

Adattamento dell’omonimo testo teatrale di Eduardo De Filippo, Il Sindaco del Rione Sanità è il nuovo film di Mario Martone, in Concorso a Venezia 76. Modificando alcuni elementi dell’originale, il regista tenta di dare una nuova attualità all’opera, avvalendosi di giovani attori del panorama teatrale partenopeo e di alcuni volti molto noti del cinema, trai quali spicca Massimiliano Gallo, sempre in grande forma.

Antonio Barracano, “uomo d’onore” che sa distinguere tra “gente per bene e gente carogna”, è “Il Sindaco” del rione Sanità. Con la sua carismatica influenza e l’aiuto dell’amico medico amministra la giustizia secondo suoi personali criteri, al di fuori dello Stato e al di sopra delle parti. Chi “tiene santi” va in Paradiso e chi non ne tiene va da Don Antonio, questa è la regola. Quando gli si presenta disperato Rafiluccio Santaniello, il figlio del fornaio, deciso a uccidere il padre, Don Antonio, riconosce nel giovane lo stesso sentimento di vendetta che da ragazzo lo aveva ossessionato e poi cambiato per sempre. Il Sindaco decide di intervenire per riconciliare padre e figlio e salvarli entrambi. Nei panni di Antonio Barracano c’è Francesco Di Leva, di trent’anni più giovane di Eduardo, quando mise in scena la prima volta il testo nello stesso ruolo. Uno spostamento, e soprattutto un cambiamento di look, laddove l’incarnazione anziana era elegante e quella giovane è appariscente, che sono sintomatiche del lavoro di spostamento verso una contemporaneità in cui i boss non diventano vecchi, oppure lo sono già a 40 anni.

Il Sindaco del Rione Sanità, il film

Il testo di Eduardo al cinema è inizialmente forzato, ostico, teatrale nel senso negativo del termine perché sembra non sposarsi con i ritmi di un racconto filmato, ma man mano che entriamo nella vicenda, ci abituiamo all’enfasi e scopriamo cosa qual è il racconto principale, dove va a parare e soprattutto che razza d’uomo è questo signorotto un po’ sgradevole nei modi autoritari, con un fine nobile però, tanto che arriva a sacrificare la sua vita, più o meno volontariamente, per la pace nel suo rione. Martone trasla i tre atti su grande schermo, e si avvale di interpreti efficaci e dedicati, così che la sua messa in scena de Il Sindaco del Rione Sanità, al netto dello spostamento del testo originale, riesce comunque a restituire il contenuto altissimo che Eduardo aveva dato alle parole di Barracano. Certo, l’effetto straniante rimane, ma la potenza delle parole travalica il tempo.

 
 

Venezia 76: Meryl Streep e Gary Oldman presentano The Laundromat

The Laundromat Meryl Streep Gary Oldman Venezia 76
Foto di Luigi de Pompeis © Cinefilos.it

Meryl Streep, trai protagonisti di The Laundromat, in concorso a Venezia 76, descrive così il film diretto da Steven Soderberg: “Il film racconta di un messicano e un tedesco che prendono dei soldi dai cinesi, dai presidenti di Islanda e Malta, da Bruce Lee”. “Ma anche Kubrick…” le fa eco Gary Oldman, altro protagonista, insieme ad Antonio Banderas assente, del film che racconta dello scandalo dei Panama Papers.

Il film si apre e si chiude con due piano sequenza, lunghe inquadrature senza stacchi che vedono protagonisti in apertura Oldman e in chiusura la Streep, che offre un altro saggio, l’ennesimo, della sua grande bravura.

Gary Oldman: “Nel mio caso è stato più semplice, perché io rimango nel mio personaggio per tutta la scena, un unico piano sequenza senza tagli. L’unica difficoltà di una scena così è il testo, da attori il minimo da fare è imparare le battute, e in film come questi ci sono intere pagine di battute da imparare a memoria. Il regista chiede sempre cose diverse, rigirando la stessa scena, e quindi è importante sapere tutto a memoria.”

Meryl Streep: “Il mio piano sequenza finale è stata una delle scene più difficili del film. Non lo sapevo fino alla sera prima: le mie scene erano tutte concentrate in un unico blocco e solo la sera prima ho scoperto che avremmo fatto questa parte in questo modo. L’aspetto più difficile è stato il fatto che ho recitato la lettera John Doe: è la vera lettera, scritta dalla gola profonda dei Panama Papers, ed è scritta nel linguaggio scritto, che non è colloquiale. Mi sono dovuta impegnare a renderlo tale ma sforzandomi di non cambiare nulla, e nel frattempo dovevo trasformarmi. Non è stato affatto semplice. L’abbiamo rigirata tantissime volte, volevo che fosse perfetta, che non ci fosse nemmeno una parola fuori posto, perché erano le parole di una persona coraggiosissima che ha cambiato il mondo.”

Il personaggio della Streep ricorda tutte le persone comuni che, colpite da un fatto personale, cercano di fare qualcosa per cambiare il mondo. “Penso che tutti noi quando vediamo persone appassionate tendiamo a fidarci – ha detto Meryl StreepIo stessa beneficio delle leggi che hanno dato la possibilità a queste persone di perpetrare questi crimini, ma non mi interessa conservare questo diritto. Spesso, le persone che alimentano e sostengono questo sistema sono le più povere, e c’è dell’ironia in questo. Il mio personaggio non è diverso da mia madre, o dalla gente del posto in cui sono nata: persone che vivono la loro vita, vanno in chiesa, pensano ci sia giustizia, e quando vedono che non c’è, non si sa con quale forza cercano di cambiare il mondo. Ma il mio è un personaggio creato da Soderbergh e Scott Z. Burns.”

Entrambi gli attori si sono distinti per le trasformazioni nei loro ruoli. Ed entrambi hanno dei canoni molto precisi in base ai quali scelgono i copioni che vengono loro proposti.

Meryl Streep: “Non vedo il mio lavoro come un compito a casa o una prescrizione medica. Ovviamente amo la sfida, amo mantenere la mente aperta e imparare a pensarla diversamente. Invecchiando qualcuno pensa di aver imparato tutto, di sapere tutto, e invece a me piace aprire la mia mente.”

Gary Oldman: “Vi rendete conto che avete davanti due primi ministri inglesi! Il punto è che nell’interpretazione l’elemento fisico è uno degli aspetti più difficili. Quando mi trovo davanti a un rischio, quello che penso è: se cadrò, precipiterò e sarà una caduta lunghissima e quando arriverò al suolo mi farò molto male. Ma questo fa parte del rischio che ci prendiamo quando accettiamo un ruolo difficile.”

 
 

Venezia 76: Olivier Assayas presenta Wasp Network

Olivier Assayas
di Luigi De Pompeis

Per Olivier Assayas, Cuba è il cuore pulsante di Wasp Network. Oggi il regista francese, presente in conferenza stampa con i protagonisti del suo ultimo thriller politico, ha raccontato di quanto sia stato complicato conoscere le molteplici sfaccettature de La Havana. Certamente è stato un processo di scoperta lungo e complicato, ma fondamentale per arricchire e perfezionare la sceneggiatura e lo spessore dei personaggi. All’inizio erano tutti sospettosi nei confronti di un regista francese che voleva parlare di quello che era successo ai Cinque eroi di Cuba, di qualcosa che non apparteneva alla sua storia.

Superate le prime ritrosie la troupe non ha mai incontrato grossi ostacoli, il lavoro è stati monitorato ma mai compromesso e la pellicola è quella che Assayas voleva realizzare fin dall’inizio. Durante la lavorazione di Wasp, i rapporti tra USA e Cuba si sono fatti ancora più turbolenti e oggi non sarebbe possibile avere accesso a quei luoghi per effettuare delle riprese. Assayas non ha mai incontrato Fernando Morais, autore de Los ultimos soldados de la guerra fria da cui il film è tratto, ma ha usato il materiale riservato che il giornalista ha raccolto nel corso degli anni e ciò gli ha permesso di approfondire gli aspetti più controversi della vicenda e sottolineare la posizione ambivalente degli Stati Uniti.

Penélope Cruz ha scelto di lavorare con Assayas per la passione e l’onestà che il regista mette nel raccontare una storia. Ha parlato con molti cubani per identificarsi meglio con il personaggio di Olga, fare propri i suoi valori e comprendere il suo estremismo. È stato difficile ricevere informazioni concrete e condividere il loro punto di vista sugli avvenimenti degli ultimi decenni. Trova assurdo che nel 2019 non si possa esprimere liberamente il proprio pensiero. Una delle paure più grandi dell’attrice è vedere il mondo sempre più diviso e mosso da un cieco individualismo, in balia della tecnologia che toglie tempo alla comunicazione vera, ai rapporti personali.

Per Edgar Ramírez non esiste più l’idea romantica del patriottismo. Le spie compiono un vero e proprio sdoppiamento di personalità. Si calano nei panni di qualcun altro come fanno gli attori, con la differenza che gli attori lo fanno per finzione, mentre le spie azionando dei meccanismi reali, rischiano di pagare i loro sbagli con la vita. Nascondersi e ingannare le persone che ami è devastante, questo è l’aspetto che lo ha commosso maggiormente. Gael García Bernal allontana ancora di più dal film il concetto di patriottismo, che secondo lui potrebbe risultare semplicistico e riduttivo. Quello che fanno i personaggi non è spionaggio; con il loro operato cercano di fermare la violenza. Il loro atto d’amore li porta a lasciare le loro famiglie, a sacrificarsi e paradossalmente vengono puniti al posto dei terroristi.

 
 

Venezia 76: intervista a Pablo Larraín per Ema

Il regista cileno, Pablo Larraín, ha presentato in Concorso a Venezia 76 il suo ultimo film, Ema, con protagonisti Mariana Di Girolamo e Gael Garcia Bernal. Ecco la nostra intervista:

 

 
 

Venezia 76: Paolo Sorrentino presenta The New Pope

Venezia 76 paolo sorrentino
di Luigi De Pompeis

Dopo la proiezione di due episodi di The New Pope, il secondo è il settimo, Paolo Sorrentino incontra la stampa insieme ai tanti produttori e agli attori Jude Law, John Malkovich, Silvio Orlando, Cécile de France, Javier Cámara, Ludivine Sagnier.

I produttori sottolineano la grandezza e l’importanza del progetto internazionale di questa serie, che travalica i confini territoriali, sia per i contenuti e la ricerca espressiva che per le professionalità che vi hanno partecipato e anche per il cast. Volevano creare una serie televisiva rilevante, che riunisse altissima qualità e popolarità. Sono fieri di esserci riusciti grazie all’estro di Paolo Sorrentino. E sono anche orgogliosi di aver spostato il linguaggio cinematografico sulla televisione, usufruendo di grandi star del cinema e di essere oggi a Venezia per mostrare in ambito cinematografico il frutto di tale lavoro.

Ludivine Sagnier crede che nella prima stagione della serie il suo personaggio fosse più innocente, fatto di purezza e fede. Ma ora si è trasformato in qualcosa di più cupo e misterioso. Javier Cámara, è grato a Sorrentino per averlo voluto nel progetto e si sente ancora eccitato di aver girato a Roma, a poca distanza deal Vaticano e soprattutto di essere stato a Cinecittà nel Teatro 5, dove era ricostruita la Cappella Sistina e dove aveva girato i suoi film Federico Fellini ; per lui era come essere in cielo, in paradiso. Cécile de France invece descrive il suo personaggio e la sua evoluzione. Prima era una figura semplice, poco sviluppata, anche se fondamentale per la storia, ma ora è diventata certamente più complessa e intricato, con una vita amorosa, una sessualità che lo caratterizza e con un entusiasmo che piace molto al Vaticano.

Orfeo Orlando scherza sul fatto di sentirsi un intruso entrato clandestinamente in un cast internazionale. Anche lui ritiene che il suo Cardinale Voiello abbia avuto una grande evoluzione e che sia sbocciato, con le sue corde che vanno dal drammatico al comico. Si è sentito come uno Stradivari del 700 nelle mani del più virtuoso dei violinisti.

Jude Law trova che l’ambientare parte della serie a Venezia sia stata un’idea geniale, che arricchisce e vela di mistero e malinconia la complessità della situazione del suo personaggio. Dice di essere stato diretto magnificamente, anche quando la difficoltà di capire le sfumature si palesava e per questo ringrazia Paolo Sorrentino. Scherza sull’aver indossato in alcune scene degli slip microscopici e di averne girata una dove nascondeva le parti intime con un tovagliolo.

John Malkovich , elemento nuovo al progetto, entrato in questa seconda stagione, racconta di aver visto e studiato con grande attenzione la prima parte e anche tutti i film di Sorrentino. Gli piace il suo modo di raccontare, di girare di come inserisce i personaggi nell’ambiente con grande meticolosità. Si è sentito stimolato di interrogarsi sulla religione e su tematiche profonde e trovato a proprio agio nel lavorare per il formato televisivo.

Paolo Sorrentino infine, sottolinea l’importanza del lavoro collettivo e di uno sforzo produttivo enorme. È soddisfatto e onorato di avere un cast di attori buoni, docili e anche bravi. Cita Carmelo Bene con una sua frase “Non servono attori bravi, ma fuori di sé.”

 
 

Venezia 76, red carpet: bagno di folla per Joaquin Phoenix

joaquin phoenix venezia 76
di Luigi De Pompeis

Joaquin Phoenix ha conquistato tutti a Venezia 76. Forte già di uno status di attore molto amato e apprezzato, Phoenix ha regalato al Festival una delle sue migliori interpretazioni in Joker, di Todd Phillips.

L’attore è stato il protagonista del tappeto rosso della serata di sabato alla Mostra del Lido e con lui, oltre al regista e a Zazie Beetz, che nel film interpreta un personaggio di contorno, c’era anche Rooney Mara, sua collega e compagna. Di seguito le foto:

 
 

Cate Blanchett ospite a sorpresa sul red carpet di Venezia 76

Cate Blanchett
Foto di Luigi De Pompeis - © Cinefilos.it

Il red carpet di Joker di Venezia 76 ha visto splendere una stella in più. L’attrice due volte premio Oscar, Cate Blanchett, ha sfilato per i fotografi in un magnifico Armani Privé.

 
 

Venezia 76: Meryl Streep e il New Pope di Paolo Sorrentino

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Dopo il delirio portato al Lido dal Joker di Joaquin Phoenix, arriva a Venezia 76 Olivier Assayas che, dopo il delizioso Non Fiction, uscito nelle nostre sale con il titolo di Il Gioco delle Coppie (!), torna nel concorso principale con Wasp Network, con protagonisti Penelope Cruz e Edgar Ramirez.

Grandi star in arrivo dalla parte anglofona del globo, con Meryl Streep e Gary Oldman protagonisti di The Laundromat, il progetto che era nato con il titolo di Panama Paper e che racconta proprio l’omonimo scandalo, ovvero la raccolta di oltre 11 milioni di documenti confidenziali dello studio legale di Panama Mossack Fonseca, che contiene informazioni dettagliate su oltre 214.000 società offshore, fatta arrivare nel 2015 prima alla Süddeutsche Zeitung e poi al Consorzio Internazionale dei Giornalisti Investigativi. Alla regia il geniale Steven Soderberg.

Il Fuori Concorso, invece, presenta l’evento speciale legato a Paolo Sorrentino. Il regista premio Oscar che due anni fa portò al Lido The Young Pope, torna con due episodi di The New Pope, serie sequel. Nel cast Jude Law e John Malkovich.

 
 

Joker, recensione del film con Joaquin Phoenix #Venezia76

Joker recensione film

È stato proiettato in concorso uno dei film più attesi della 76° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Joker di Todd Phillip, interpretato da un superlativo Joaquin Phoenix, nei panni del noto, quanto ilare, acerrimo nemico di Batman.

Nei film di supereroi, ma anche nei fumetti o nella letteratura, i nemici e i cattivi destano da sempre empatia e fascino, tanto da surclassare spesso le meste figure, che bardandosi con la bandiera del bene e dell’ordine pubblico, si prodigano per combatterli. Joker è di certo uno dei più popolari di questi antieroi e il ritratto che ne costruisce Todd Phillips contribuisce a donargli spessore, umanità e motivazioni. Il suo oscuro affresco metropolitano fa comprendere che il male non è sempre dalla stessa parte e che molte volte i paladini della giustizia combattono contro chi ha invece ragione da vendere. Joker è intriso di tanta disperazione e forse avrebbe anche più diritti rispetto a chi lo combatte e deve mantenere il controllo della legalità.

La storia si sposta indietro nel tempo, a cavallo tra gli anni settanta e ottanta, quando Bruce Wayne/Batman era ancora un bambino, in una fatiscente Gotham City , molto simile a NY, afflitta da sporcizia e invasioni di ratti, regno sudicio di violenza e disperazione e dove la lotta della sopravvivenza è all’ordine del giorno, soprattutto per i deboli e i derelitti. Il giovane Arthur Fleck racimola i pochi soldi per sopravvivere esibendosi come clown in strada o negli ospedali pediatrici, ma è continuamente vittima di aggressioni e scherno che minano il suo già fragile equilibrio psichico. Soffre di un disturbo emotivo che lo costringe a fare continuo uso di psicofarmaci e a essere monitorato dai servizi sociali. Quando è colto dall’emozione scoppia in un riso incontrollabile, isterico e forzato,  che non riesce a reprimere. Il sogno di Arthur è quello di diventare un comico e di esibirsi nei locali, ma viene deriso ed emarginato in modo crudele.  Un giorno, durante l’ennesima aggressione, al culmine della sopportazione, ha una reazione che cambierà per sempre il corso della sua vita.

Joker recensione

Joker va oltre le tante storie che i film di supereroi ci hanno raccontato, è un viaggio nel profondo della psiche di un uomo al quale tutto è negato, non è permesso essere normale, nato in un posto sbagliato, in un momento sbagliato, tra persone sbagliate. Non ha colpe, non ha mai fatto nulla di male, non è cattivo, non pretende nulla di più del condurre una vita ordinaria, di amare e di essere amato. La madre gli ha imposto fin da bambino di sorridere e lui lo fa, si sforza di farlo, si allarga la bocca con le dita per apparire sorridente, si dipinge con i colori del pagliaccio. Ma è tutta apparenza, la gioia non si esprime semplicemente con il sorriso. Per lui le fondamenta della felicità sono marce dal profondo e al suo orizzonte si stagliano solamente i cancelli del tetro Arkham Asylum, il manicomio di Gotham City.

Todd Phillips racconta con piglio energico e concitato una storia tragica e rivela l’inizio di una vicenda fin troppo conosciuta. La mostra da un’angolazione completamente diversa, così differente da farci sperare che da grande quel piccolo, mesto insignificante rampollo viziato che si chiama Bruce Wayne, abbia sorte differente. Costruisce una Gotham City lontana dai fumetti e dall’immaginario comune, tradendo ogni aspettativa. La città è più affine ai contesti urbani della saga de La notte del giudizio, piuttosto che alle architetture gotiche Bartoniane o alla maestosità degli edifici esibiti da Nolan. La fotografia, il suono e la musica contribuiscono nella costruzione di un mondo credibile, che si avverte essere fuori dalla porta di casa e non allocato nei meandri dell’immaginazione, come troppo spesso avviene in questo genere di film. Non ci sono effetti speciali o elementi prodigiosi, ma solo lacrime, sudore, sangue, che sciolgono in continuazione il cerone bianco da pagliaccio e si confondono col rosso sbafato del sorriso sforzato di Joker. E poi c’è dolore, tanto dolore. Todd Phillips sembra sussurrarci all’orecchio che anche noi potremmo essere Arthur Fleck. E noi dovremmo preoccuparcene.

Il regista racconta di essere stato sempre attratto dalla complessità del personaggio di Joker, pensando che sarebbe stato appassionante esplorarne le origini, oltretutto nessuno lo aveva ancora fatto, salvo sporadiche narrazioni inserite nei vari film che lo vedevano presente. Ragione fondamentale del suo fascino, risiede proprio nel mistero oscuro del non avere un’origine precisa. Phillips sostiene che in fase di scrittura ha voluto conservare gli elementi di riconoscibilità e ha pensato sempre a Joaquin Phoenix, perché è un attore che quando recita è capace di trasformazioni sorprendenti, andando oltre i limiti. E non si può dare torto a questa felice intuizione, perché il film si regge tutto sulle spalle scheletriche di Joaquin Phoenix, sul suo volto capace di espressioni furastiche che tradiscono celata tenerezza, di smorfie crudeli e di profonde esternazioni di sofferenza. E’ in grado di esibirsi in balli squinternati, di raggomitolarsi su se stesso come un randagio impaurito, di esplodere in improvvisi lampi di cieca violenza, di cadere come un sacco di stracci e di rialzarsi come se tutte le ossa del suo scheletro siano frantumate. Joaquin Phoenix non interpreta Joker, è Joker.

Joker di Todd Phillips è un film oscuro, convincente, tagliente, raccontato con la minuzia di uno psichiatra. Scandaglia le origini profonde di un personaggio diventato mito, supera i canoni e gli stereotipi del genere e regala una delle più toccanti interpretazioni di Joaquin Phoenix. Joker è però altamente sconsigliato agli ammiratori irriducibili dell’uomo pipistrello.

 
 

Venezia 76: Joaquin Phoenix è il nuovo Joker

Joaquin Phoenix Venezia 76
Joaquin Phoenix Venezia 76 - Foto di Luigi De Pompeis - © Cinefilos.it

Dopo la proiezione di Joker, la giornata dedicata al villain della DC è proseguita in sala stampa. Erano presenti Todd Phillips, Joaquin Phoenix, Zazie Beetz e la produttrice Emma Tillinger Koskoff.  Le fonti di ispirazione per Phillips e Silver durante la stesura della storia sono stati gli anni Settanta e i film di quel periodo, ma Joker rimane una pellicola a sé, con un approccio del tutto diverso e libero.

L’aspetto che più interessava Todd era approfondire la storia di un personaggio così complesso e interessante come quello di Arthur Fleck, partendo da pochissimi riferimenti e contando sulla presenza di un attore fantastico. Seppur ispirati da The man who laughs, Todd Phillips e Joaquin Phoenix tengono a precisare che il lungo percorso di costruzione del personaggio è stato unico e non dettato da alcuna regola. Hanno dato vita ad Arthur senza appigliarsi a elementi precisi, partendo da zero, affinché potessero imprimere alla smorfia del comico fallito un passato e un presente, e un’aura di mistero senza intaccarlo con elementi già visti.

La mutazione continua di Arthur ha il suo fulcro nella ricerca di identità, si distorce nel susseguirsi delle vicende in un impatto devastante con la malattia. Il personaggio è stato modificato fino all’ultimo giorno delle riprese. Regista e attore hanno lavorato moltissimo sugli aspetti fisici e psichici: la voce, i vestiti, i capelli, e tutti quei dettagli che potevano arricchire il personaggio. Avrebbero persino rigirato alcune scene per continuare ad approfondire la loro ricerca. Joaquin Phoenix ha detto di aver studiato a lungo il tema della perdita e letto, su consiglio di Todd Phillips, un libro che classificava le malattie mentali ma che non ha voluto legare ad Arthur nessun disturbo preciso per non confinarlo in qualcosa di già esistente. Non era sicuro che sarebbe riuscito a creare la famigerata risata. Dopo vari tentativi fallimentari però, con la supervisione di Phillips, è riuscito a incanalare il dolore di Arthur in quattro tipologie di risata: ciascuna è attribuibile a una particolare scena e a uno stato d’animo. Quella finale è uno scoppio di felicità.

La versatilità di Zazie Beetz ha fatto in modo di rendere reale e indefinito allo stesso tempo il personaggio di Sophie Dumond. Anche lei ha subito modifiche continue per catalizzare, amplificare e sostenere le azioni deflagranti di Arthur e ciò ha permesso all’attrice di sfruttare tutta la sua capacità di improvvisazione. La pellicola oltre a contenere colori e atmosfere degli anni Settanta/Ottanta, racchiude ovviamente molti aspetti contemporanei, ma non è un film politico. Nel suo personalissimo approccio al personaggio Joaquin Phoenix non ha scorto in Arthur solo un personaggio tormentato e negativo ma ha visto in lui un uomo pieno di luce, alla ricerca della propria identità e della propria realizzazione: far ridere la gente. Arthur vuole essere apprezzato, non veder bruciare la città. Ma alcune scelte sbagliate lo porteranno a diventare un simbolo sovversivo.

New York è stata la città dove si sono svolte la maggior parte delle riprese: grazie alla produttrice Emma Tillinger Koskoff è stato possibile per la troupe sfruttare tutti quei luoghi simbolo, come la metropolitana ad esempio, che imprimono alla mappatura del film un’identità precisa e dove si svolgono le azioni più sanguinose. Todd Phillips pensa che il suo Joker non sia un film violento, al contrario di John Wick che lo è sicuramente di più. La violenza del suo film è realistica e per questo colpisce spiazzando. Anche la musica ha avuto un ruolo decisivo: subito dopo le prime riprese sono state inviate a Hildur Guðnadóttir  le immagini realizzate, affinché musica e film potessero crescere insieme. Il ballo e la musica sanciscono in Arthur il cambiamento e fanno defluire con le sue movenze tutta la follia del Joker nelle arterie di Gotham City.

 
 

Venezia 76: Pablo Larrain presenta la sua Ema

Ema Pablo Larrain Venezia 76
di Luigi De Pompeis

“Se vuoi fare un film sulle persone di oggi, devi fare un film con il reggaeton, mi hanno consigliato, e io ho fatto così, ma non perché mi piaccia questo tipo di musica.” A parlare è Pablo Larrain, regista cileno di Ema, in concorso a Venezia 76, che ha realizzato il suo ultimo film fotografando la generazione cilena successiva alla sua, proprio immersa in questo panorama musicale.

Nel film dirige Gael Garcia Bernal, che aveva già diretto in Neruda, e Mariana Di Girolamo, che interpreta proprio la protagonista, Ema: “Non mi piace ascoltare il reggaeton, ma mi piace molto ballarlo, lo trovo sensuale, vitale e contagioso, e il mio personaggio ha avuto il suo primo incontro con la musical con il reggaeton. È un ritmo atavico e primitivo, ed Ema lo usa per sedurre ma anche per liberarsi. Sento che è un ritmo proprio di questa generazione.”

Per Larrain, che spesso ambienta le sue storie in Cile, questa è la prima volta in cui guarda il Paese nella sua contemporaneità. “Questo film è ambientato nel presente, ma è comunque realizzato dalla generazione passata, la mia, che comunque proviene dal secolo scorso. E raccontare quest’altra generazione è stato davvero un processo interessante, ho imparato molto. La loro generazione ha un codice molto preciso, sono rispettosi e capiscono la realtà in un modo che a noi è precluso, sono responsabili di ciò che fanno e di ciò che desiderano.”

“Quando lavori sul passato cerchi di ricostruire il ritmo di una mondanità che non c’è più, e non hai questa necessità quando lavori nel presente. In questo caso abbiamo cercato di capire situazioni che sono diverse dal passato e diverse da quello che saranno. Viviamo in un mondo che ha bisogno di nuovi modi per costruirsi il futuro, il passato non ha più posto in questo mondo.” Ha dichiarato Gael Garcia Bernal, protagonista della pellicola.

 
 

Carnival Row: recensione della serie con Orlando Bloom e Cara Delevingne

Carnival Row recensione serie tv

Si apre con una vera  e propria caccia alle fate Carnival Row, la nuova serie targata Prime Video disponibile a partire dal 30 agosto. Una caccia che si riproporrà più volte nel corso delle otto puntate, sotto varie forme e con sempre nuovi significati, per affrontare in chiave fantasy tematiche oggi più che mai tristemente attuali. Ideata da René Echevarria e Travis Beacham, la serie ha per protagonisti Orlando Bloom e Cara Delevingne, amanti costretti alla clandestinità perché appartenenti a specie diverse, costretti a muoversi in una città più claustrofobica che mai.

Con un serial killer in libertà, e il governo che chiude un occhio sulle morti dei cittadini delle classi più basse, Rycroft Philostrate (Orlando Bloom), un investigatore indurito dalla guerra, è l’unica persona che vuole fermare gli omicidi e mantenere la flebile pace. Ma quando Vignette Stonemoss (Cara Delevingne), una fata rifugiata, arriva a The Burgue, l’uomo dovrà fare i conti con un passato che cercava di dimenticare.

In Carnival Row Due protagonisti appartenenti a fazioni opposte

Concentra al suo interno numerose referenze culturali la serie Carnival Row, dall’immagine della Londra d’epoca vittoriana ad una serie di omicidi ispirati alla figura di Jack Lo Squartatore, dall’elemento fiabesco al racconto d’amore. Ma c’è una cosa che più delle altre preme per essere raccontata, e non sono le indagini circa i brutali omicidi. Bensì la vita in una società dove le creature fantastiche sono viste come il diverso da emarginare, fino alla reclusione in veri e propri ghetti. Scena questa, che quando arriva colpisce non poco per il suo inconfondibile richiamo ad altri tristemente noti ghetti della storia umana.

Carnival Row mira dunque a proporre questo doppio punto di vista, incarnato dai due protagonisti appartenenti a fazioni opposte. Attraverso i loro occhi soffriamo la discriminazione, la separazione e l’ingiustizia. Le tre principali linee narrative ripropongono costantemente la dualità tra chi si fregia dei propri privilegi e chi invece vorrebbe che tali forme di razzismo sparissero per sempre.

Tanti elementi dunque declinati attraverso molteplici sotto trame, a tal punto che non stupisce se la narrazione generale ne risente in più momenti. La sensazione, guardando le prime puntate della stagione, è quella di un leggero disorientamento generale. Seguiamo le molteplici linee narrative, che in apparenza risultano scollegate le une dalle altre, e alcune delle quali portano avanti forse con eccessiva retorica il tema della serie. È inoltre un peccato che alcuni dei principali enigmi vengano risolti attraverso stratagemmi facili e furbi, piuttosto che trovando rivelazione attraverso il racconto per immagini.

Tuttavia, è solo addentrandosi nella seconda metà della stagione che la narrazione sembra sempre più convergere verso un’unica direzione, e con il mistero dei brutali omicidi che si infittisce la serie svela finalmente il suo potenziale. L’elemento crime trova soddisfazione, così come quello romantico. Carnival Row riesce così, dopo un’impostazione iniziale piuttosto faticosa, a trovare la propria strada appassionando per la sua molteplicità di chiavi di lettura e per la sua ricostruzione minuziosa di un mondo tanto sporco quanto fatato.

 
 

Ant-Man and the Wasp: Hannah John-Kamen garantisce il ritorno di Ghost

ant-man and the wasp

Dopo la sua apparizione nel film Ant-Man and the Wasp, non si è più saputo nulla del personaggio Ghost, interpretato dall’attrice Hannah John-Kamen, che in quell’occasione ricopriva il ruolo di villain, salvo poi scoprire le sue reali intenzioni.

Intervistata da Yahoo Movies UK, l’attrice è tornata a parlare di quell’esperienza, affermando che molto probabilmente tornerà a ricoprire il ruolo. “Nel Marvel Cinematic Universe ti fanno firmare il contratto con il sangue. – ha dichiarato l’attrice – Tutto quello che posso dire è che Ghost non è morta.”

Il personaggio di Ghost è celebre per la sua capacità di smaterializzarsi e passare attraverso gli oggetti, divenendo un vero e proprio fantasma. Il potere le deriva da un esperimento quantico del padre, il quale rimase ucciso e causo l’instabilità molecolare della figlia.

Nel film il personaggio, aiutato poi da Ant-Man e Wasp, cercherà una cura alla propria malattia utilizzando l’energia quantica.

Ad oggi, tuttavia, la Marvel non ha ancora annunciato un terzo film dedicato ad Ant-Man, ma dopo il suo ruolo chiave in Avengers: Endgame, e le numerose richieste dei fan, c’è da aspettarsi che venga realizzato un nuovo capitolo che possa chiudere anche questa trilogia.

Ant-Man and the Wasp, nuovo capitolo del Marvel Cinematic Universe che vede Paul Rudd tornare protagonista di un suo film, nei panni di Scott Lang/Ant-Man, dopo la prima pellicola del 2016. Questa volta, da pari e co-protagonista, è affiancato da Evangeline Lilly che pure avevamo già visto nei panni di Hope Van Dyne e che questa volta indossa il costume e il titolo di Wasp ufficialmente.

Ant-Man and the Wasp vede inoltre il ritorno nel cast anche di Michael Peña e il premio Oscar Michael Douglas, insieme a Bobby CannavaleJudy GreerAbby Ryder FortsonTip T.I. Harris e David Dastmalchian. A loro si uniscono i candidati all’Oscar Michelle Pfeiffer  e Laurence Fishbourne, insieme con Hannah John-Kamen, Walton Goggins e Randall Park.

Fonte: ComicBookResource

 
 

Star Wars IX: il finale sarà meno controverso di quello del Trono di Spade, parola di Daisy Ridley

Star Wars: l'Ascesa di Skywalker

La star della nuova trilogia di Star Wars, Daisy Ridley, ha dichiarato che il finale del nuovo e conclusivo capitolo in arrivo, Star Wars IX – L’Ascesa di Skywalker, risulterà meno controverso del finale della serie Il Trono di Spade.

Giunta alla sua ottava stagione, la serie HBO si è trovata coinvolta in mezzo a numerose polemiche da parte dei fan, i quali criticavano le scelte artistiche di David Benioff e D. B. Weiss, i quali sono stati accusati di aver realizzato una frettolosa e incongrua conclusione a quanto fino a quel momento costruito.

Tra le varie proteste, si è fatta sentire una petizione lanciata dai fan per chiedere alla HBO di rigirare l’intera stagione, senza il coinvolgimento dei due autori. Richiesta ovviamente mai presa seriamente in considerazione.

Anche i nuovi episodi della saga di Star Wars non sono nuovi alle controversie, con il precedente film, Gli ultimi Jedi, diretto da Rian Johnson, che ha completamente diviso il pubblico di affezionati. Nonostante ciò, il regista J.J. Abrams ha dichiarato che onorerà con l’episodio IX quanto fatto da Johnson, citandolo anche come fonte d’ispirazione per essere meno rigido sulla struttura della saga.

Queste dichiarazioni potrebbero portare con sé numerose proteste, ma l’attrice del personaggio Rey dice che non c’è da preoccuparsi. Durante l’Expo D23, all’attrice è stato chiesto di porre a confronto il finale di Star Wars IX con quello di Il Trono di Spade, e l’attrice ha potuto solo dichiarare che “credo che sarà meno controverso”.

Conoscendo i fan di Star Wars appare difficile immaginare che non nascano vere e proprie controversie riguardo il finale, in quanto ognuno sembra avere la propria personale idea di come la saga dovrebbe concludersi. Questo non dovrebbe sorprendere, considerando che data l’importanza culturale di Star Wars è pressoché impossibile non scontentare qualcuno.

Si ricorda che Star Wars IX – L’Ascesa di Skywalker arriverà nei cinema il 19 dicembre 2019. Alla regia ci sarà J.J. Abrams, già regista dell’episodio VII, mentre faranno parte del cast gli attori Daisy Ridley, John Boyega, Adam Driver, Oscar Isaac, Domhnall Gleeson, Mark Hamill, Richard E. Grant, Anthony Daniels, Billy Dee Williams, Carrie Fischer e Ian McDiarmid.

Fonte: ScreenRant

 
 

The Trial of the Chicago 7: la Paramount acquista il film di Aaron Sorkin

Dopo una lunga gestazione, il film The Trial of the Chicago 7 è stato acquistato dalla Paramount Picture. Il film, scritto e diretto dal premio Oscar Aaron Sorkin, doveva inizialmente essere realizzato con la Amblin Partners di Steven Spielberg, ma dopo divergenze riguardo al budget il progetto fu messo da parte.

Inizialmente doveva essere proprio Spielberg il regista del film, ma i continui ritardi spinsero a cercare un nuovo regista e per il ruolo furono considerati anche Paul Greengrass e Ben Stiller. Dopo il suo debutto alla regia con Molly’s Game, fu proprio Sorkin ad ottenere la regia della sua sceneggiatura, scritta nel 2007.

Ora con la nuova acquisizione, tutto sembra pronto per l’inizio della produzione, per una data di distribuzione ancora da definire. È già definito anche il cast principale, che vedrà tra i protagonisti Eddie Redmayne, Sacha Baron Cohen, Seth Rogen, Joseph Gordon-Levitt, Mark Rylance, Frank Langella e Jonathan Majors.

La storia si concentrerà su un gruppo di attivisti, i quali vennero incriminati per cospirazione dal governo americano in seguito ai disordini avvenuti alla Convention democratica a Chicago, nel 1968.

Il regista Aaron Sorkis si è dichiarato entusiasta all’idea di poter realizzare un film su una delle più divertenti, intense e tragiche storie dell’America. Secondo il regista, nonostante The Trial of the Chicago 7 avrà luogo negli anni ’60, non c’è miglior momento di questo per raccontare questa vicenda.

Fonte: ComingSoon.net

 
 

Aladdin 2: il film non sarà un adattamento dei sequel animati

Aladdin

Nonostante lo scettiscismo generale riguardo la trasposizione live action di Aladdin, scetticismo in particolare legato al genio interpretato da Will Smith, il film diretto da Guy Ritchie ha guadagnato in tutto il mondo oltre un miliardo di dollari, diventando il re del box office estivo.

Ora la Disney sembra star valutando la possibilità di uno o più sequel cinematografici, i quali potrebbero essere influenzati dai sequel animati intitolati Il ritorno di Jafar e Aladdin e il re dei ladri.

Durante un’intervista, il produttore del film ha confermato che si sta considerando l’idea di realizzare un sequel al film campione di incassi, ma viene inoltre riportato che qualora questo dovesse prendere vita sarà basato su una storia originale, e non una trasposizione diretta dei sequel animati, i quali potrebbero tutt’al più essere un influenza narrativa.

“Eravamo concentrati sul realizzare il miglior film possibile. Se ci sarà un sequel, non sarà un diretto remake dei sequel animati, allo stesso modo di come questo nuovo Aladdin non è un diretto remake dell’originale. Abbiamo studiato il film animato inizialmente, cercando di capire cosa funzionasse e cosa dovesse essere riadattato, e se dovessimo realizzare un nuovo film adotteremo lo stesso processo. Ma prima di tutto sarebbe una storia nuova”.

Queste le parole con cui è stato descritto l’eventuale progetto, che per ora non è stato ancora confermato. Considerando inoltre che i due sequel animati non ebbero lo stesso successo del primo film, potrebbe essere un bene ricercare una storia nuova piuttosto che affidarsi ad una non completamente riuscita. Per questo è probabile che la Disney darà luce verde al progetto solo nel caso in cui venga presentata una storia davvero convincente, che possa replicare il successo del primo film.

In attesa di sapere quale sarà il futuro di Aladdin 2, vi ricordiamo che il film sarà prossimamente disponibile per l’home movie. Diretto da Guy Ritchie il film ha nel suo cast Navid Negahban, Billy Magnussen, Alan Tudyk, Naomi scott, Numar Acar e Will Smith nel ruolo del Genio.

Fonte: ScreenRant

 
 

Iron Man: Tom Cruise sostituisce Robert Downey Jr. in un video deepfake

iron man avengers: engame

È difficile immaginare Toni Stark, alias Iron Man, con un volto diverso da quello dell’attore Robert Downey Jr. Eppure inizialmente la prima scelta dei produttori per dar vita al celebre supereroe Marvel era Tom Cruise.

Per cercare di immaginare come sarebbe stato se quest’ultimo avesse davvero ottenuto il ruolo, un un nuovo video deep fake diffuso da Collider, ha sostituito il volto di Downey Jr. proprio con quello di Cruise, ottenendo nuovamente un risultato tanto realistico quanto straniante.

Nel video è possibile ritrovare spezzoni presi dal primo film dedicato ad Iron Man, che inaugurò l’MCU, fino al suo eroico sacrificio avvenuto nel film Avengers: Endgame. Ciò che colpisce di più del video non è tanto rivedere alcuni dei momenti più iconici del personaggio con un volto diverso da quello a cui si è abituati, quanto sentir pronunciare le più celebri frasi dalla bocca di Tom Cruise.

Sin dal 2008 Robert Downey Jr. non è stato solo il volto di Toni Stark, ma anche quello di questi primi dieci anni di Marvel Cinematic Universe. Impossibile immaginare qualcuno più adatto per questo ruolo, in grado di affermarsi a tal punto da diventare un icona.

Numerosi sono i tributi celebrati all’eroe, tra cui un recente poster che racchiude il suo percorso nell’MCU. Come accennato, la sua ultima apparizione avviene in Avengers: Endgame, dove l’eroe riesce a sconfiggere Thanos e la sua armata, sacrificandosi così per riportare la stabilità nell’Universo.

Fonte: ComicBookResource

 
 

WandaVision: secondo i due protagonisti sarà come un film di sei ore

wandavision

Dopo essere apparsi insieme nei recenti film Marvel, fino ad Avengers: Infinity War, Wanda e Vision avranno ora una propria serie su Disney+, intitolata appunto WandaVision. Gli attori Paul Bettany e Elizabeth Olsen hanno dichiarato il loro entusiasmo a riguardo, annunciando che la serie sarà strutturata come fosse un film di sei ore.

In un’intervista, Bettany si è dichiarato molto interessato al progetto, convinto che data la sua morte in Infinity War la direzione lo avrebbe messo da parte.  L’attore ha poi descritto la serie come un prodotto particolarmente all’avanguardia, strano e folle.

Elizabeth Olsen sembra essere dello stesso parere del collega, aggiungendo che la serie si baserà su di un genere totalmente differente rispetto a quanto visto fino ad ora, lasciando intuire che, come riportato fino ad ora nella descrizione ufficiale del progetto, la serie avrà molto a che fare con la sitcom.  Tale caratteristica sembra essere confermata anche dallo stile della locandina diffusa di recente.

La Olsen ha inoltre accennato al prossimo Doctor Strange and the Multiverse of Madness, il quale stando alle parole dell’attrice sarebbe ancora in fase di scrittura, e che non ci sono novità riguardo il suo ruolo in esso.

La serie WandaVision è stata annunciata dai Marvel Studios insieme a serie come Loki, The Falcon and the Winter Soldier, Hawkeye e la serie animata What If, e vedranno tutte la luce sulla piattaforma streaming Disney+ di prossima diffusione.  

Fonte: ComicBookResource

 
 

Joker: il regista ha impiegato un anno ad ottenere l’R-Rated dalla Warner Bros.

joker

Il sempre più imminente arrivo del film Joker nelle sale non fa che aumentare la curiosità dei fans. Il personaggio ideato da Todd Phillips sembra essere diverso da qualunque cosa vista nei fumetti o nei precedenti film dove aveva un ruolo.

Parte dell’interesse del pubblico nasce certamente da quel divieto ai minori non accompagnati ottenuto dal film, un divieto che stando alle parole del regista ci è voluto un anno per ottenere. Sembra infatti che per convincere la Warner Bros. a realizzare un film su una versione decisamente violenta del Joker, con tematiche più forti rispetto ai consueti film DC, il regista abbia dovuto affidarsi ad un lungo lavoro di mediazione.

“E’ stato un processo lungo un anno, da quando abbiamo finito di scrivere la sceneggiatura presentandola ad un team completamente diverso da quello che lo aveva realizzato. – ha dichiarato Todd Phillips – Ci sono stati un milione di ostacoli, e quello che ho dovuto fare è stato superarli uno alla volta. Se ripenso a quel periodo, credo di averli maledetti ogni santo giorno. Ora, mettendo tutto in prospettiva, devo dire che sono stati davvero coraggiosi ad accettare di produrre questo film.”

Non resta che attendere il prossimo 3 ottobre, per poter finalmente ammirare il film in sala e scoprire se le insistenze del regista hanno avuto i suoi frutti. Il film verrà però prima presentato in concorso alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.

Diretto da Todd Phillips, il cast comprende Joaquin Phoenix, Robert De Niro, Zazie Beetz, Bill Camp, Frances Conroy, Brett Cullen e Dante Pereira-Olson.

Fonte: ComicBookResource

 
 

Storia di un Matrimonio, recensione del film di Noah Baumbach #Venezia76

storia di un matrimonio venezia 76

Andare a vedere un film di Noah Baumbach presuppone una certa dose di certezze, come con tutti gli autori che mostrano sempre con grande chiarezza quali sono i loro punti di forza e il loro modo di affrontare le storie. Il regista di Brooklyn, presentando Storia di un Matrimonio a Venezia 76, in Concorso, conferma questo assunto, offrendo al pubblico un quadro realistico, attento e prepotentemente emozionante di una storia d’amore che viene fotografata sul suo concludersi.

Nicole e Charlie sono una giovane coppia che dopo anni di matrimonio, un figlio, e progetti comuni importanti (sono regista e attrice principale di una compagnia di teatro di New York), si separano, affrontando così il dolore, ma anche le dinamiche pratiche, i compromessi, le assurdità, che la separazione e il divorzio comportano.

Baumbach scava con la sua penna affilata dentro al cuore della storia, restituisce non solo la sofferenza, ma le reali problematiche logistiche legate al fatto che i due genitori vivranno in città diverse e dovranno condividere comunque una famiglia, un figlio. E questo è insolito dal momento che il divorzio cinematografico (e non) è classicamente inteso come litigioso ed ostile. Storia di un Matrimonio invece racconta la fine dell’unione di fronte alla consapevolezza che l’amore non finirà mai, ma che si trasformerà per il bene di una famiglia che non si sgretola ma che si trasforma.

Non solo. Il fuoco si sposta dalle stanze dei consulenti di coppia a quelle degli avvocati, così che la storia cambia a sua volta e si traveste da procedural, con tutti gli elementi del caso e con la parola agli avvocati, che non hanno affatto la stessa cura nell’altra parte come nel caso dei due ex. E ancora, il film diventa dramma assoluto di fronte alla difficoltà di poter rimanere uniti, di poter continuare entrambi a fare i genitori. E infine persino commedia, amara e buffa, nelle magnifiche e autentiche interpretazioni di Adam Driver e Scarlett Johansson.

Noah Baumbach analizza e scandaglia ogni aspetto di una separazione, ma quello che più ammalia di Storia di un Matrimonio è l’autenticità dei dialoghi, delle situazione, la consapevolezza che di fronte a ostacoli e sofferenza, quello che resta davvero è un terribile vuoto di chi, credendo fosse “per sempre”, ha perso la sua scommessa, il suo investimento sulla vita, e nonostante questo prova a trovare un modo per andare avanti.

Storia di un matrimonio è l’ineluttabile tragicità della fine di un amore al cospetto di una famiglia che tenta e spera, nonostante tutto, di rimanere unita.

 
 

Venezia 76: è il giorno del Joker di Joaquin Phoenix

Joker

Dopo tanta attesa, aspettative, congetture e domande, è arrivato a Venezia 76 il giorno di Joker. Una storia di origine, un dramma metropolitano, l’ascesa di uno dei più grandi cattivi della cultura pop e del fumetto, si sono sprecate le definizioni intorno a questo progetto, nato nella tempesta degli studi della Warner Bros, e adesso Todd Phillips e il suo protagonista, Joaquin Phoenix, hanno la possibilità di mostrarlo al mondo.

Ma non è solo la giornata di Joker, perché oggi, il Concorso ufficiale prevede anche la presentazione di Ema, di Pablo Larrian, il regista cileno che aveva presentato al Lido, appena due anni fa, Jackie.

Il Fuori Concorso prevede invece la presentazione di Adults in the room, il nuovo film di Costa-Gavras, al quale verrà assegnato il premio Jaeger-LeCoultre Glory to the Filmmaker.

 
 

Venezia 76, red carpet: Kristen Stewart e tutti gli altri ospiti del 30 agosto

Kristen Stewart

Kristen Stewart, ma anche Jean Dujardin e Luis Garrel, hanno affollato il tappeto rosso di Venezia 76 nella serata che ha visto presentare in concorso il film di Roman Polanski, L’ufficiale e la Spia, e quello di Benedict Andrews, Seberg, con Kristen Stewart nei panni dell’attrice iconica.

 
 

L’ufficiale e la spia: recensione del film di Roman Polanski #Venezia76

L'ufficiale e la spia César 2020

In un clima ostile e denso di polemiche, che esulano purtroppo dalla libera espressione cinematografica, arriva al Lido l’opera di uno dei più grandi autori contemporanei, L’ufficiale e la spia di Roman Polanski, un grido potente e determinato contro l’ingiustizia, l’abuso di potere, la persecuzione e la discriminazione.

L’ufficiale e la spia racconta in maniera originale, personale e appassionata, ma al tempo stesso con un’estrema fedeltà storica, una storia che coinvolse e divise l’opinione pubblica in Francia alla fine del diciannovesimo secolo, ovvero quella di Alfred Dreyfus, un giovane ufficiale dell’esercito francese, che il 5 gennaio del 1895, venne condannato, pubblicamente degradato con disonore École militaire di Parigi e deportato a vita nella colonia penale sull’Isola del Diavolo, uno scoglio inospitale nell’oceano atlantico, al largo delle coste della Guyana Francese.

Dreyfus fu accusato di spionaggio e di essere un informatore dei servizi segreti tedeschi. Dopo la sua condanna, George Picquart venne nominato capo dei servizi segreti e del controspionaggio, avendo modo di accedere a tutti i documenti del caso Dreyfus,  scoprendo così casualmente che le informazioni continuavano a passare in mano nemica e che il giovane ufficiale era solo il capro espiatorio di una perversa rete di inganni, fatta di bugie, omertà, razzismo e classismo. Picquart si rese conto che  dietro la limpida ed effimera bandiera dell’onore, venivano commesse ingiustizie e sacrificati innocenti. Iniziò a indagare e a opporsi, mettendo a repentaglio la posizione, la brillante carriera militare e anche la sua stessa vita.

Polanski afferma che “in questo scandalo di vaste proporzioni, forse il più clamoroso del diciannovesimo secolo, si intrecciano l’errore giudiziario, il fallimento della giustizia e l’antisemitismo. Il caso Dreyfus divise la Francia per dodici anni, causando una vera e propria sollevazione in tutto il mondo, e rimane ancora oggi un simbolo dell’iniquità di cui sono capaci le autorità politiche, nel nome degli interessi nazionali.”

L’ufficiale e la spia, il film

Il titolo originale J’accuse giunge da quello che Émile Zola decise di dare al suo famoso articolo che pubblicò per denunciare il caso Dreyfus e sostenere Picquart e che gli costò un anno di prigione e tremila franchi di multa.

L’ufficiale e la spia di Roman Polanski è un film poderoso, elegante, spiazzante, che racconta con chiarezza e dovizia di dettagli una storia che tutti hanno sentito nominare o che magari hanno studiato a scuola superficialmente, ma che in realtà non conoscono affatto. Polanski imbastisce l’ennesimo complotto della sua smisurata vena creativa e, lasciando da parte fantasie, visioni e allucinazioni, lo fa appoggiandosi a fatti reali ormai sperduti nelle paludi della storia. Come aveva già fatto ne Il pianista, racconta le sue paure, tradisce le sue ossessioni, denuncia le iniquità, le prepotenze e le sopraffazioni e invoca giustizia e libertà. È emozionante scoprire come la claustrofobia, la reclusione forzata, la profanazione della propria casa e del proprio intimo, l’osservare il mondo esterno attraverso finestre sempre più anguste, l’impossibilità di tenere sotto chiave segreti e pensieri, irrompano prepotentemente in ogni fotogramma, riportando le emozioni indietro alle tante opere che hanno dettato gli stilemi della sua complessa poetica cinematografica. Si avvertono le pulsioni emotive che i tanti accadimenti tragici hanno fatto emergere nel corso della sua vita e soprattutto in questo ultimo periodo. Complice del fido scenografo Jean Rabasse, Polanski gioca abilmente con gli spazi chiusi, con i cassetti, le casseforti, le chiavi e le serrature. Il suo occhio si muove come uno scarafaggio kafkiano alla disperata ricerca di un piccolo spazio intimo e sicuro dove poter essere al riparo dai giudizi e dall’iniquità, dove non sentirsi accusati o dileggiati per una presunta diversità.

Non è la prima volta che la dolorosa vicenda di Alfred Dreyfus viene trasposta sullo schermo. Iniziò addirittura George Melies, nel 1899, con un cortometraggio muto intitolato L’Affaire Dreyfus. Il primo lungometraggio venne realizzato invece nel 1958, da José Ferrer e poi, dopo altre versioni per il cinema e per la televisione, si arrivò a Prigionieri dell’onore, diretto da Ken Russell nel 1991 e interpretato per caso dal quasi omonimo Richard Dreyfuss.

Alfred Dreyfus è interpretato da un sorprendente  Louis Garrel, smagrito e privato della sua folta chioma, per restituire al meglio il patimento del suo personaggio. George Picquart invece ha il volto di Jean Dujardin, perfetto e misurato nel restituire il temporale di emozioni che lo investì una volta invischiato nello sconvolgente caso. Il personaggio vestito da Emmanuelle Seigner, l’amante di Picquart, merita un plauso, per la delicatezza e l’eleganza che l’attrice ha saputo regalare all’unico personaggio femminile della vicenda. E infine, come non ammirare e gustare il criminologo ed esperto calligrafico, dipinto da Mathieu Amalric, che tra scheletri e compassi craniometrici si esibisce tronfio della sua scienza in una riuscita caricatura lombrosiana di un pioniere della nascente investigazione criminologica.

L’ufficiale e la spia di Roman Polanski è un film prezioso, che permette di comprendere dettagliatamente un fatto increscioso della storia europea e che sottolinea come l’intolleranza e la discriminazione siano sempre incombenti. Sicuramente è un opera di non facile fruibilità, che richiede concentrazione e approfondimento, ma che non nega emozioni e descrizioni intime che restituiscono umanità a personaggi divenuti ormai fredde pagine di storia.

 
 

Venezia 76: 5 è il numero perfetto, incontro con il regista e l’autore Igort

venezia 76 5 è il numero perfetto

Per il suo esordio al cinema, la trasposizione del suo stesso fumetto 5 è il numero perfetto, Igort ha scelto la Mostra di Venezia 76 e Le Giornate degli Autori, dove ha parlato della sua esperienza dietro alla macchina da presa.

“È stato un film di lunghissima gestazione, soprattutto perché avevo molte richieste da ogni parte, non solo dall’Italia. Evidentemente si tratta di un fumetto molto cinematografico. Sono un autore che ha avuto abbastanza fortuna, per cui la mia attività si è svolta a cavallo tra Italia e Giappone, sono stato il primo autore occidentale a lavorare con il manga, e quindi forse nel film troverete delle assonanze con la cultura asiatica e con un certo modo di raccontare.” Ha spiegato alla stampa il fumettista.

Sulla realizzazione del film e sulle sue ispirazioni: “È stato un lavoro corale in cui sono stato aiutato molto per la costruzione del racconto che è da un punto di vista visivo che evocava un lavoro sul colore e sulla costruzione delle scene che deve molto anche alla pittura e alla cultura visiva del nostro Paese. Ho cercato anche di rendere omaggio al cinema italiano, che è per me la quintessenza del cinema moderno, inventato da Fellini e Antonioni e Leone. Questa visione è rimbalzata in Asia, dove Wong Kar Wai o Zhang Yi Mu hanno studiato e hanno assimilato l’idea che l’immagine sia racconto, che sento mia. Sono un narratore che costruisce la parola vignetta per vignetta, e questa cosa cercavamo di reinventarla nel film, partendo dall’assioma che non era un cinefumetto, ma un film.”

Sul fatto che ha scelto lui stesso di dirigere il film: “Se ho diretto il film è tutta colpa di Toni Servillo. Da quando ci siamo conosciuti, io e lui ci siamo riconosciuti, era chiaro che avevamo dei riferimenti culturali comuni che hanno cementato la nostra amicizia, e questa cosa ritornava anche nel pensiero del film. È stato come un lungo work in progress.”

 
 

Venezia 76: presentato L’ufficiale e la spia, ma senza Roman Polanski

roman polanski venezia 76
Foto di Luigi De Pompeis © Cinefilos.it

Peccato che in una conferenza stampa affollata ed entusiasta non sia stato presente Roman Polanski, autore del riuscito e toccante L’ufficiale e la spia, trasposizione del caso Dreyfus, una vicenda di spionaggio militare avvenuta negli ultimi anni del diciannovesimo secolo. Parlare del film senza l’autore presente diviene riduttivo e fa perdere importanza a un incontro che poteva rappresentare un prezioso momento di confronto e di approfondimento.

Ma i fatti ben noti e le polemiche di questi giorni hanno reso impossibile la sua presenza, si è così chiesto di concentrarsi sul film e di evitare discussioni e domande che esulassero da questo.

Erano presenti gli attori Louis Garrel, Jean Dujardin, Emmanuelle Seigner, il musicista Alexandre Desplat, il produttore francese Alain Goldman e i produttori italiani Luca Barbareschi e Paolo Del Brocco.

Sono stati i produttori a rompere il ghiaccio, chiedendo di non alimentare polemiche e parlando della genesi del film, raccontando che era un progetto difficile e fortemente attuale a cui Polanski lavorava da tanti anni.

Jean Dujardin dice di aver sempre sentito parlare di questa storia e di averne dei ricordi confusi. Poi leggendo lo script e facendo ricerche si è appassionato, arrivando a provare pudore nell’interpretare il suo personaggio e capendo che la vera star era la storia. Dopo aver girato il film gli rimane dentro la fierezza del personaggio che ha interpretato.

Ha poi raccontato del lavoro sul set e di come Polanski dirige gli attori. Di come sia pignolo e meticoloso nella composizione della scena e riveda sempre tutto nei minimi dettagli. Pone la verità sempre davanti a ogni cosa, ti scava dentro, fin nel profondo, rendendo molto difficile il rapporto regista-attore. E alla fine, quando ti ostini e non capisci, lui ti ripete all’infinito “Non fare il coglione e segui quello che dico!”

Emmanuelle Seigner ammette anche lei che conosceva molto poco della storia, ma che la lettura della sceneggiatura è stata illuminante rivelando che non è un film storico ma un thriller politico, intricato e avvincente. Non ha fatto nessuna ricerca particolare, ma ha affrontato il ruolo in maniera onesta e precisa.

Ha ricordato che oggi è il trentesimo anniversario di matrimonio con Roman Polanski e che è felice di essergli accanto da tanti anni, nella vita e sul set. Confessa che è sempre difficile capire cosa veramente vuole e di affidarsi a lui, sapendo che poi tutto andrà nel migliore dei modi.

Louis Garrel, in perfetto italiano, oltre a ribadire che anche per lui è stato un modo per conoscere la vera storia di Dreyfus, ha raccontato di aver conosciuto una sua discendente e di aver appreso con dolore che la sua famiglia fu deportata e trucidata durante le persecuzioni contro gli ebrei, nel corso della seconda guerra mondiale.

Poi per dare una vena d’ironia scherza sul aver recitato con i capelli rasati, cosa che per lui è stato un grande trauma durante tutto il corso delle riprese.

I produttori Goldman e Barbareschi hanno sottolineato l’importanza di mostrare al cinema storie come questa, perché i film sono anche uno strumento importante per conoscere e riflettere e permettono di combattere l’ignoranza. L’arte deve permettere agli uomini di fare del bene.

 
 

Venezia 76: Kristen Stewart super star di Seberg

Kristen Stewart
Foto di Luigi De Pompeis © Cinefilos.it

Kristen Stewart è stata la star della conferenza stampa di Seberg, il film Fuori Concorso, diretto da Benedict Andrews, presentato oggi a Venezia 76. Il film si ispira alla vita reale dell’attrice Jean Seberg, divenuta icona della Nuovelle Vague come protagonista di Fino all’ultimo respiro di Jean-Luc Godard, presa di mira dal FBI, alla fine degli anni ’60, per il suo simpatizzare per le Pantere Nere, oltre che per il suo coinvolgimento romantico con l’attivista per i diritti civili Hakim Jamal.

Arrivata alla fama internazionale molto giovane, la Stewart ha subito un cambiamento davvero radicale sotto gli occhi del mondo, da quando, protagonista di Twilight, era l’idolo delle teenager, fino a trasformarsi in una donna e un’attrice molto più completa, amatissima dal cinema francese.

Tuttavia la sua maturazione personale e professionale le ha regalato una sicurezza che traspare anche dal fatto che ora la Stewart dice che “è fantastico avere questa posizione di privilegio in cui posso essere totalmente aperta nel comunicare con le persone”. Cosa che non si è verificata con la Seberg, che invece ha pagato la sua posizione così schierata nella vita sociale e politica del suo Paese nel suo tempo.

“Facendo l’attrice quello che cerchi è una sorta di legame con la gente e la sfida sta nel mantenere la propria onestà. Jean Seberg aveva una fame diversa, però, quella di connettersi più di altri, più a fondo, con le persone. Era anche spinta da una forte vocazione umanitaria, in un momento in cui le persone non volevano vedere, capire. Quella che racconta il film è una storia molto importante, e lo è soprattutto oggi. Perché sacrificarsi per un’idea, per gli altri, è raro. Ed è giusto che Jean Seberg non venga ricordata solamente per il suo taglio di capelli”. 

Continua la Stewart“C’era qualcosa di naturalistico nella sua recitazione, emergeva qualcosa di splendente. Il fatto che fosse bene accolta nel suo paese e anche in Francia le ha consentito di correre dei rischi, sicuramente è stata identificata in questo modo. Ho lavorato su questa cosa, ho cercato di essere me stessa, ho percepito questo desiderio da parte sua, di essere accettata lavorando in questo modo, quasi gridando ‘guardatemi, sono vera!’. E proprio per questo ha trovato terreno fertile in Francia, immagino”.

 
 

Venezia 76: Mario Martone porta Eduardo De Filippo al cinema con Il Sindaco del Rione Sanità

il sindaco del rione sanità venezia 76
di Luigi De Pompeis

Dopo Capri Revolution dello scorso anno, Mario Martone torna in Concorso a Venezia 76 con Il Sindaco del Rione Sanità, adattamento per il cinema dell’omonimo testo teatrale di Eduardo De Filippo. Il testo, scritto a cavallo tra i ’50 e i ’60, aveva naturalmente necessità di un adattamento che lo rendesse contemporaneo, nelle scelte di Martone, e da questo il regista è partito. “La prima intuizione per riproporre al cinema il testo di Eduardo De Filippo è stata quella di abbassare drasticamente l’età del protagonista. Nel testo originale, Antonio Barracano ha oltre 70 anni e noi abbiamo scelto Francesco Di Leva, un attore di 38 anni. Da questa decisione ne sono scaturite altre che ci hanno portati a misurarci con il testo di Eduardo con una grande fedeltà, anche drammaturgica, ma con una profonda reinvenzione in chiave contemporanea.”

Proprio sull’attualizzazione dei personaggi, Francesco Di Leva, interprete del protagonista, ha raccontato di come ha cercato di cambiare il personaggio a partire dal look, eliminando la vestaglia in cui si presentava nelle rappresentazioni originali e optando per un abbigliamento da pugile, tanto che ha inserito, di sua volontà, anche una panca per addominali, che effettivamente usa nel film. “Nel testo è molto importante la separazione tra la Napoli per bene e quella criminale. La zona grigia che accomuna le due zone è abitata da due personaggi, il dottore, che è un professore che non si sa come vive con Barracano, in un rapporto pinteriano di prigionia e amore, e dall’altra parte Santaniello, il vero antagonista che gli getta in faccia la sua onestà, come a volerlo umiliare. Peccato che da questo gesto deriveranno conseguenze pericolose.” Ha spiegato Martone.

L’attualizzazione del testo è stata semplice, secondo Massimiliano Gallo, interprete di Santaniello, perché come i grandi testi parla di cose universali. Questi temi ci hanno aiutati nel percorso attoriale in quanto appartenenti all’essere umano in ogni suo momento. L’indicazione agli attori di Mario Martone per Il Sindaco del Rione Sanità è stata quella di tenersi in una via di mezzo tra Cassavetes e Mario Merola, per ottenere un risultato teatrale ma allo stesso tempo di grande intimità trai personaggi nelle loro interazioni.

 
 

Terminator: Destino Oscuro potrebbe essere il primo film di una nuova trilogia

Terminator 6

Con Terminator: Destino Oscuro pronto ad arrivare in sala, gli autori si stanno già interrogando sul futuro del iconico franchise sci-fi.

L’ideatore James Cameron, che è produttore e co-sceneggiatore del nuovo film, ha dichiarato che mentre sviluppavano la storia, che segna il ritorno di Linda Hamilton, si sono ritrovati ad avere progetti per un’intera nuova trilogia, di cui Destino Oscuro sarebbe solo il primo capitolo.

“Abbiamo passato diverse settimane per cercare di capire che tipo di storia volessimo raccontare, – ha dichiarato Cameron in un’intervista con Deadline – e ben presto ci siamo ritrovati con abbastanza materiale per un arco narrativo di tre film. C’è ancora molto da raccontare, e se saremo abbastanza fortunati da fare gli incassi necessari con Destino Oscuro, sappiamo perfettamente come far evolvere la storia.”

Terminator: Destino Oscuro è il sesto film del franchise, il quale però ignora gli eventi dei precedenti film ad eccezione dell’originale del 1984 e del suo sequel diretto Terminator 2: Judgment Day, entrambi diretti da Cameron stesso.

Il nuovo film è ambientato ventisette anni dopo la distruzione della Cyberdyne Systems. Un nuovo Terminator modificato in metallo liquido, il Rev 9, viene inviato dal futuro da Skynet per eliminare la giovane Dani Ramos. Sarah Connor e un vecchio T-800 si impegneranno a salvarla, in una lotta per la tutela del futuro.

Terminator: Destino Oscuro è diretto da Tim Miller e prodotto da James Cameron. Il cast comprende Arnold Schwarzenegger, Linda Hamilton, Mackenzie Davis, Gabriel Luna, Natalia Reyes e Diego Boneta. Il filma sarà nelle sale cinematografiche italiane dal 31 ottobre.

Fonte: ComicBookResource