È senza dubbio l’uomo che ha
trasformato l’impossibile in possibile, sfidando non solo “una
decina di leggi municipali” ma anche la forza di gravità e
ogni umano senso del pericolo e istinto di sopravvivenza. Stiamo
parlando di Philippe Petit, l’uomo che ha appeso
un cavo tra le Torri Gemelle e lo ha attraversato, rimanendo
sospeso, tra un’acrobazia e l’altra, per circa 45 minuti nel vuoto
a 415 metri d’altezza. Era il 6 agosto del 1974 e le imponenti
costruzioni di New York erano appena state erette. Lui,
con pochi e incoscienti amici, ha compiuto l’impresa che gli
ha regalato l’imperitura memoria, e non è ancora stanco. Vivace,
profondo, felice, così si è presentato alla stampa della Festa di
Roma per presentare The Walk 3D, film di
Robert Zemeckis che racconta la sua avventura più
grande, la realizzazione del suo sogno.
Ma cosa ha pensato Petit
quando le Torri, in quel funesto giorno del 2001, sono state
abbattute?
“Sono felice che me l’abbiate
chiesto subito, perché per me è molto doloroso pensarci. Non
solo per i palazzi, che chiaramente ho vissuto in maniera del tutto
particolare, ma soprattutto pensando che in quell’attentato sono
morte così tante persone”.
Il suo sogno l’ha realizzato nel
’74, ma non per questo è soddisfatto. Guarda ancora la futuro con
grande energia, facendo progetti e cercando di tagliare altri
traguardi impossibili: “Sotto al letto ho una scatola rossa con
scritto ‘progetti’ – ha detto – È piena di fotografie
che rappresentano i miei sogni. Sarebbe molto bello camminare tra
due Mohai dell’Isola di Pasqua”.
Quanto c’è di vero nel film
e quanto di spettacolarizzato?
“Il film è tratto dal mio libro
‘Toccare le nuvole’. Diciamo che è abbastanza
fedele a come sono andate le cose veramente, giusto un paio sono
state aggiunte, per rendere il film più adatto a Hollywood. Del
resto, l’intento è portare gli spettatori con me sulla
fune”.
Ha incontrato Joseph
Gordon-Levitt?
“Ho insistito per allenarlo,
anche se avevamo a disposizione solo otto giorni. Gli ho detto:
‘bene, in otto giorni camminerai su un cavo’, e ho tracciato una
linea sul pavimento. Camminare su una linea morta è forse anche più
difficile cha farlo su un cavo. Lui era pieno di dubbi, ma io non
volevo certo che camminasse tra le Torri Gemelle, mi bastava
comprendesse l’anima, lo spirito, la maestà, la nobiltà,
l’eleganza, il senso di sfida che ho nel camminare. Alla fine ha
fatto 10 metri. Zemeckis non credeva ai suoi occhi. Sul set c’erano
anche degli stunt-man ma per gran parte del tempo sono i suoi piedi
che vedete nel film”.
E la paura? È qualcosa
che si sente mai a quelle altezze?
“Quando faccio il primo passo so
che arriverò a fare l’ultimo. Sia chiara una cosa: non lo faccio
per disprezzo della vita. Io la vita la amo”.
Ci sono delle scene che le
sono piaciute particolarmente del film?
“Direi, sicuramente la scena del
‘visitatore misterioso’. Una cosa che mi è accaduta realmente,
mentre stavo fissando i cavi, e ovviamente avevo paura di essere
scoperto perché stavo facendo una cosa illegale, prima dell’alba,
sul tetto delle Torri Gemelle arriva questo tizio. Per un attimo ho
temuto che il mio sogno si schiantasse. Ma non era un poliziotto e
nemmeno un operaio. Non ho idea di chi fosse. Magari voleva solo
starsene lì a rimirare il panorama dall’alto. E nel film c’è questa
scena carica di tensione in cui io tengo stretto in mano un pezzo
di tubo. Non lo minaccio, ce l’ho solo lì. E ci guardiamo, ed è
chiaro che lui pensa di avere a che fare con un pazzo. E poi amo la
scena in cui sto per partire con la camminata. Un piede poggiato
sul filo e uno sul cornicione. Ed è la mia gamba, non io, a capire
quando il cavo è pronto, e a dare inizio allo show”.
Su quello che invece non gli è
piaciuto, Petit è decisamente più morbido e indulgente. “Il
film mi piace molto, altrimenti non sarei qui a parlarne, chiaro.
C’è una cosa che non risponde a verità. Ad esempio è vero che mi
sono ferito il piede poco prima dell’evento, ma non perdevo sangue,
come nel film. Comunque questo non mi dà fastidio. Due cose avrei
fatto diversamente. La prima è che a un certo punto si vede che
inciampo. Vi assicuro che se fossi inciampato oggi questo incontro
non si potrebbe fare. L’ho detto a Zemeckis: ‘Bob, dai, non si può
fare’, ma lui ha insistito, perché il cinema è anche questo, ìè la
magia del cinema’ ha detto. La seconda è il modo in cui fisso i
cavi, con delle chiavi mobili che se fossero cadute avrebbero
potuto uccidere qualcuno. Io invece ho fatto un allestimento
meraviglioso, se mi posso permettere, stando attentissimo a non
danneggiare le persone né i palazzi, con degli strumenti del
mestiere antichi e collaudati. Ecco, queste due cose le avrei
cambiate, ma non mi danno fastidio al punto di rovinarmi la visione
del film”.
Dopo la prima traversata lei
decide di tornare sul cavo e compiere anche il percorso inverso.
Cosa l’ha spinta?
“È che, vede, io
stavo lì, seduto, ed ero come un re sul suo trono. Non me la
sentivo di dire ‘Ok, è fatta, festeggiamo’. Non ero soddisfatto
della prima camminata, era stata una specie di prova, avevo provato
il cavo. Poi avevo controllato la mia seconda estremità e, beh, ho
sentito qualcosa che ancora mi chiamava. La bellezza del vuoto,
delle Torri, di New York. E la gente che sotto cominciava ad
accalcarsi. Ormai conoscevo il cavo. Non era un gran cavo, però
sapevo come gestirlo. Mi sono alzato e ho ricominciato a camminare,
avanti e indietro. Quando sono sceso, i miei amici hanno detto
che sono stato sul filo per 45 minuti, compiendo 8 traversate, ho
improvvisato, come fanno gli artisti”.
Cosa rappresenta per lei
quel cavo?
“In francese noi diciamo ‘fil’,
che è molto più raffinata di ‘cable’. Beh, è il filo della vita,
come dirlo diversamente. Mi porto sempre dietro una cordicella, che
vedete anche nel film. E la uso quando vedo dei luoghi per
immaginarmi quanto sarebbe bello metterci un cavo in mezzo. Il cavo
non è mai una linea retta, è una curva catenaria, gira su se
stesso, si muove in orizzontale e in verticale. È come un animale e
io lo devo gestire. E quando l’ho installato tra le Torri, anche se
non avevo tempo, mi sono fermato comunque un momento a guardare
quella curva. Era bellissima, come un sorriso. Il funambolo collega
i posti e le persone. Magari da un lato e dall’altro ci sono dei
nemici, e quando mi vedono e mi ammirano sono un tutt’uno ad
applaudire. Non credo in un unico Dio ma in molte forze, e da dove
viene il termine religione? Dal latino ‘religare’, cioè legare
insieme. La verità è che non ho ancora imparato del tutto come si
fa. Ho 66 anni e ancora mi alleno, 3 ore al giorno”.
La vedremo mai sospeso da qualche
parte qui in Italia?
“Ci sono venuto tante volte ma è la prima volta che vengo a
Roma. Non potrò certo scoprirla in due giorni. Cercherò di
coglierne lo spirito, poi ci devo tornare un paio di settimane e
fare dei sopralluoghi, magari mettere su un progetto e presentarlo
alle autorità competenti per ricevere un invito, e un assegno. Non
mi serve molto, non sono un milionario. Sono un semplice artista
che vive di questo. Il mio sogno inizia così. Sono venuto a Carrara
per un festival letterario e mi ha affascinato la cultura del
marmo. C’era un tipo che suonava un pianoforte tutto di marmo. Mi
piacerebbe attraversare sul filo la cava dei marmi, da una parte
all’altra, illuminando tutto di candele come Milos
Forman che per Amadeus ne ha usate 30mila. Ma ancora non
sono riuscito a parlarne con nessuno”.
Un uomo così vivo, appassionato e estroverso
ha un rapporto complicato con la tecnologia, sul 3D ad esempio, ha
detto: “Generalmente a me il 3D non piace, penso che il cinema
debba basarsi sul talento del regista, del montatore eccetera. Però
questo film è un’eccezione, se lo vedi in 3D e in IMAX è come un
volo sul Grand Canyon, porto veramente il pubblico con me sul cavo
e gli faccio avere paura, ma una paura divertente. Ovviamente
funziona al meglio nella parte che riguarda la camminata, ma se
potete consigliate alla gente di vederlo così. Anch’io l’ho fatto,
con quegli stupidi occhialini. Però questo film è bello anche
senza, nel 2D tradizionale”. Sulle tecnologie invece è stato
molto severo: “Le tecnologie però secondo me attutiscono i
sensi. Tutti questi gadget, il pc, il cellulare, le cuffie. Vedo
questi teenager completamente isolati e stanno dimenticando i
propri sensi. Io uso solo una penna, una bella penna a inchiostro,
e quando viaggio matita e taccuino, per disegnare.
Nemmeno la
macchina fotografica uso. Non ho l’orologio, sono un bravo
borseggiatore e giocoliere, per cui se mi dovesse servire lo rubo.
Non uso il PC, scrivo come Leonardo Da Vinci. Io vado nella
direzione opposta, cerco di combinare i miei sensi per crearne
altri, del resto nella preistoria lo facevamo, eravamo animali a
quattro zampe con enormi narici. Annusavamo, sentivamo tutto. Lo
faccio anche oggi, vivo nei boschi vicino Woodstock e se c’è un
orso in giro lo fiuto, anche se non lo vedo. I nostri sensi vanno
tenuti vivi”.
In merito alle differenze su questo
film e sul documentario premio Oscar che lo ha visto protagonista
nel 2008, Man on Wire: “Sì, ma sono
imparagonabili. Sono proprio due quadri diversi. Diciamo che
consiglierei prima di vedere il documentario per informarsi e poi
di passare al film”.