Scott Cooper, con i
suoi attori Rosamund Pike e Wes
Studi, hanno aperto la Festa di Roma
2017, dodicesima edizione, con Hostiles,
nuovo western del regista americano che racconta una storia di
bene, male, vendetta e redenzione ambientato nelle pianure del
centro america, nel 1892, quando i nativi erano quasi tutti
sterminati e i restanti prigionieri o predoni.
Una storia che racconta quindi il
rapporto con il diverso, in un’attualità che sembra pericolosamente
ricordare quel periodo. Cooper almeno non può fare a meno di
sottolineare come, dallo scorso novembre (dall’elezione di
Trump), gli USA siano diventati
sempre di più simbolo di una separazione razziale, che cresce di
continuo.
Ma il punto di vista “interno”,
ovvero di un attore come Wes Studi, che, nativo
americano, ha lasciato il segno a Hollywood, interpretando grandi
film nel corso degli anni, tra cui L’Ultimo dei
Moicani, fino ad Avatar, è leggermente
diverso: “Per noi è la continuazione di un processo di
adattamento che continua a procedere. Il film parla alla
contemporaneità e al passato, ma spero sarà che non così anche per
il futuro.”
Protagonista femminile è
Rosamund Pike, resa celebre dallo straordinario
ruolo di Amy Dunne in L’Amore Bugiardo. L’attrice
inglese interpreta una donna che ha perso tutta la sua famiglia a
causa dei Comanche e che intreccia il suo cammino e il suo
destino con quello per personaggio di Christian
Bale, capitano Joseph J.
Blocker.
“Quello che Scott ha scritto era
reale – ha cominciato Rosamund – quindi mi sono basata
solo sulla vita. Il mio personaggio si trova ad intraprendere un
viaggio tremendo, perdite incolmabili. Quando la incontra il
capitano Blocker, non ha più voglia di vivere. E quindi la cosa
interessante è stata trovare per lei una nuova ragione per vivere,
che potesse essere la fede, la connessione con la sofferenza di un
altro, scoprire quanto puoi sopportare quando scopri che la
vendetta non è soddisfacente. Il mio personaggio vede e capisce,
testimonia e cresce molto.”
In quest’ottica, secondo la Pike, la
sua donna non è solo forte quando imbraccia un fucile, ma
soprattutto quando si fa carico di essere colei che ricorda al
protagonista che è un uomo buono, quando è lei a mandare via
l’oscurità dalla sua vita.
E sul potere che le donne hanno sul
futuro e sulla società? La Pike è lapidaria e
terribilmente attuale: “Abbiamo visto cosa possono causare
le donne, quando collaborano.”
Nel secondo giorno della
Festa del Cinema di Roma, la regista e
sceneggiatrice inglese Sally Potter è arrivata
all’Auditorium Parco della Musica per presentare il suo film
The Party, un dramma comico in bianco e nero, che
ha per protagonisti Kristin Scott Thomas, Timothy Spall,
Bruno Ganz, Patricia Clarkson, Emily Mortimer, Cherry
Jones e Cillian Murphy.
Come mai ha deciso di fare
questo film in bianco e nero? In un certo senso il bianco e nero è coloratissimo, perché
forza l’immaginazione a perdersi nelle ombre e nelle luci e
riempirle con sentimenti. Il bianco e nero è alle radici del cinema
e inoltre non è vero che la gente non guarderebbe le cose in bianco
e nero, perché sempre più registi giovani creano video musicali in
bianco e nero perché pensano sia più eccitante.
Una delle cose più
interessanti del film è questo delicato equilibrio tra il dramma e
la commedia, quanto è difficile a livello di scrittura e quanto
invece magari influisce l’armonia sul set e complicità tra gli
attori nel trovare il tono giusto? Il 95% della commedia è nella scrittura e tutti gli attori
possono confermare: se non hanno il testo è un altro tipo di
commedia. Il testo ti da il senso, il sub-testo, il ritmo e il
significato e solo allora gli attori possono, attraverso il corpo,
portare in scena il tempismo comico. Si può dire che questa sia una
commedia fisica, con il cuore di una tragedia. Tecnicamente è stata
una sfida a livello di scrittura, perché devi immaginare come
reagirà il pubblico a questi tempi comici, ma devo ammettere che
lavorare con gli attori su questo testo è stata una vera gioia,
abbiamo riso tantissimo insieme.
Ha filmato in ordine
cronologico, come ha lavorato con gli attori? Ho lavorato individualmente con ogni attore. Sono andata da
loro e abbiamo iniziato insieme a lavorare lentamente e nei
dettagli sul testo, sull’aspetto, sulla scena, sulla voce, sui
movimenti, su tutto… Quindi quando è arrivato il momento di
incontrarli tutti insieme, erano già molto sicuri a livello
individuale sulla loro parte. Abbiamo fatto solo due o tre giorni
di prove e poi due settimane di riprese: una cosa davvero veloce e
intensa.
Il tema centrale della
storia è sembrato “la verità”, è corretto? Sì, esatto. La verità è al centro e tutto gli gira intorno e
anche quando le persone pensano di dire la verità, gradualmente
realizzano che stanno omettendo qualcosa oppure scoprono qualcosa
che non sanno, perché si trovano in situazioni di crisi e si
comportano in maniera diversa rispetto alla loro precedente
immagine di loro stessi. In questa storia si tratta di capire quale
sia il divario tra chi penso di essere e quello che effettivamente
faccio in un momento di crisi.
Nonostante sia stato scritto
molto prima, questo film riflette anche sulla situazione Brexit
rispetto alla politica e la società: secondo lei quanto di quegli
aspetti ci sono nel film? Il referendum sul Brexit in realtà è avvenuto proprio a metà
delle nostre due settimane di riprese e posso dirle che erano tutti
molto tristi la mattina dopo sul set perché il cast e la crew erano
estremamente internazionali, l’esempio vivente di una vita senza
confini. Designer argentini, troupe del suono francesi,
cinematografi russi, un editor danese, direttore delle luci
irlandese… e potrei andare avanti con la lista. Per noi quello era
il modo giusto di essere e di lavorare, mentre con la Brexit si va
esattamente nella direzione opposta. Isolazione invece che
cooperazione. Quando ho iniziato a scrivere non c’era discussione a
riguardo, è tutto uscito dal niente, come un terremoto. Quindi
forse mentre scrivevo sentivo inconsciamente questa sensazione di
imminente divisione nella cultura che nella storia si è tradotta in
divisione tra gli individui.
Il film è molto attuale e
tratta anche l’argomento delle donne e il potere: qual’è il suo
commento a riguardo, anche alla luce dei fatti di cronaca
recenti? Intende il caso Harvey Weinstein? Quello che è accaduto è
qualcosa che è diventato visibile ma prima era semplicemente
nascosto, ma accade ovunque, non solo nel mondo del cinema. Non
solo tra un potente produttore e un attore che ha bisogno di un
lavoro, ma ovunque ci sia uno squilibrio di potere. Tra uomini e
donne, ma anche tra uomo e uomo. Ad esempio lui aveva anche la
reputazione di essere molto severo con altri uomini nella compagnia
ed anche questo non veniva raccontato molto. Anche questo fa parte
di quella cultura che salva spesso i bulli, ma anche quello è solo
un microcosmo di un più grande situazione politica dovuta ad uno
squilibrio di potere in uno sistema patriarcale e capitalista, dove
la gente viene bullizzata per fare soldi o altro. Questa situazione
di Harvey Weinstein probabilmente sta però portando al pubblico a
capire la nozione che non è ok umiliare o molestare qualcuno, non è
assolutamente un modo giusto di comportarsi e questa è una cosa
buona.
Rosamund Pike, con
Scott Cooper e Wes Studi, ha
calcato il tappeto rosso della Festa del Cinema di Roma 2017,
durante la serata inaugurale della kermesse romana, per presentare,
nella selezione ufficiale, Hostiles, film
con protagonista Christian Bale.
Film di chiusura della Festa
del Cinema di Roma 2017, tra le pellicole italiane più
attese della stagione, The Place di Paolo
Genovese ha fatto il suo debutto nelle sale
dell’Auditorium per la curiosità di accreditati e addetti ai
lavori. Il regista, con tutto il cast al seguito, ha presenziato
poi l’incontro con la stampa che ha visto protagoniste, come sempre
in questi casi, battute e risate, grazie soprattutto alla verve
comica di alcuni degli ospiti sul palco (su tutti Marco
Giallini e Rocco Papaleo).
Per quanto riguarda la scelta del
cast, Genovese si è affidato a un cast molto
numeroso, dichiarando: “Ognuno ha lavorato un giorno o due,
tranne Valerio che per tredici giorni è stato seduto immobile su
quella sedia. Quest’anno se vince il David sarà quello per la
scenografia, è l’unico che gli manca. Amo la coralità, per la
possibilità che regala di raccontare da più punti di vista, che in
questo caso era nella natura stessa della storia. Dove possiamo
arrivare per avere ciò che desideriamo? Questo ci viene chiesto,
declinandolo per dieci personaggi, con dieci esigenze diverse. In
questo periodo giudichiamo molto e in fretta, specie sui social,
dove tutti commentano ed esprimono giudizi.”
Genovese poi diventa molto schietto
in merito alle possibilità che lo hanno portato a The
Place. Poteva dirigere qualsiasi cosa, grazie al successo
di Perfetti Sconosciuti, ma ha scelto questa storia: “L’ho
fatto perché mi sono imbattuto casualmente in quest’idea, una
piccola serie. C’è sicuramente un filo rosso che lega Perfetti
sconosciuti e The Place: uno ci mostra quanto poco conosciamo le
persone intorno a noi, quest’ultimo quanto poco conosciamo noi
stessi.”
A differenza degli altri personaggi,
tutti che portano la loro storia nel film, il misterioso uomo
interpretato da Valerio Mastandrea non ha una
storia, non ha un passato, apparentemente, ma aiuta gli altri ad
andare avanti con la propria, di storia: “Il mio personaggio
non ha una storia da raccontare, ma aiuta gli altri, in questo
riguarda me come tutti. Mi ha portato a riflettere su alcune
sfumature nascoste nell’idea di aiutare gli altri, come la
necessità talvolta di non mettere toppe nella loro vita, aiutandoli
invece ad autodeterminarsi. Non l’ho mai vista come un’entità
demoniaca, magica o angelica, ma come uno specchio.” Insomma,
per Mastandrea il personaggio è ancora peggiore di
coloro che sono disposti a commettere anche i peggiori crimini per
ottenere ciò che vogliono.
The Place uscirà in
sala il 9 novembre, distribuito da Medusa in circa
500 copie.
Anche Orlando Bloom
ha partecipato alla Festa del Cinema di Roma 2017
dove ha presentato Romans, opera seconda dei
fratelli britannici Ludwig e Paul Shammasian,
evento speciale di Alice nella
Città.
Michael Shannon è
stato il protagonista della serata del 2 novembre alla Festa del
Cinema di Roma 2017. L’attore americano è arrivato presentando il
suo ultimo film, Trouble no
more, un omaggio a Bob Dylan nel
periodo della sua conversione cristiana.
Ecco le foto dell’attore sul tappeto
rosso dell’Auditorium:
Diretto da Jennifer Lebeau, è stato presentato
alla Festa del Cinema di Roma 2017Trouble
no more, il documentario su Bob Dylan,
che si concentra sul concerto gospel del tour del 1980. I filmati
di repertorio sono alternati a letture/sermoni recitate da
Michael Shannon, anche lui presente alla
manifestazione.
Il documentario è un viaggio
musicale concepito in maniera particolare, come dichiara la stessa
regista: “Il film è nato principalmente dal ritrovamento di
questo materiale che pensavamo fosse andato perduto. C’erano alcune
performance girate in modo non pulito, ma volevamo che il film non
fosse patinato. Ci siamo allontanati dall’originale, evitando le
parti in cui Bob parlava al pubblico con enfasi. Volevamo
concentrarci sulla musica, il resto è venuto da solo.”
“Sapevamo che cercavamo un
attore incredibile, che trasmettesse tensione ma avesse anche una
capacità di trasmettere empatia in modo unico. E Michael è la prima
persona che ci è venuta in mente.”
Michael Shannon,
reduce da una bellissima nomination agli Oscar per il suo ruolo in
Animali
Notturni di Tom Ford, è il
Predicatore, nel film, che si alterna ai momenti musicali,
recitando sermoni, con fermezza e ispirazione.
L’attore ha così raccontato il suo
rapporto con Dylan e la sua musica: “Sono
stato da sempre un fan di Bob Dylan. Era suo il primo concerto a
cui sono stato. Ero un bimbo e ci sono andato con mia madre. Da
subito ho capito che sarebbe stato un uomo speciale per me. Nel
corso degli anni, Dylan è stato una grande ispirazione per me.
Quando faccio teatro mi piace ascoltare la sua musica prima di
andare in scena. Sono sempre stato un suo grande fan.”
Nei sermoni recitati da
Shannon, si parla di ricchi e poveri, e dei primi
che tendono a prevaricare i secondi. C’era qualcuno a cui ha
pensato: “Vorrei che fosse una sola persona, ma non è così.
Sembra che sia una forma archetipica di comportamento. Recentemente
ho interpretato George Westinghouse in The
Current War. È stato un grande onore per me, perché è stato un uomo
che con la sua ricchezza ha costruito un grande impero, senza però
fottere nessuno. Era un uomo onesto e generoso, una grande
eccezione. Era circondato da industriali e banchieri che non
volevano trattare le persone in modo equo. Penso che ci siano
tantissime persone che invece non lo fanno.”
“Da attore, sono consapevole che
il mio lavoro è ben poca cosa – conclude
Shannon – Ma cerco di scegliere cose che
possano piantare un seme nella coscienza delle persone. Non che
loro non sappiano quali sono i problemi dei nostri giorni, ma a
volte questi film possono offrire una forma di conforto, di pace,
ed è questa una delle cose migliori che io possa fare.”
A 45 anni dall’esordio, arriva su
grande schermo Mazinga Z Infinity, il nuovo film
della Toei Animation
con protagonista il capostipite dei mech nato dalla mente di
Go Nagai.
In un mondo futuristico e pacifico,
la tecnologia dell’energia fotonica ha rivoluzionato il modo di
vivere, l’eroe di guerra Koji Kabuto si è ritirato
dalla prima linea, trasformandosi in un ricercatore, mentre
Tetsuya continua a combattere a bordo del suo
robot. Ma quando alle falde del Fuji viene fatta una misteriosa e
minacciosa scoperta, gli eroi di ieri e di oggi dovranno far fronte
comune per arginare una nuova minaccia che mira a distruggere la
Terra.
Tecnicamente, la scelta vincente di
Mazinga Z Infinity consiste nell’utilizzo armonico
di CGI e animazione tradizionale, tecniche che si
fondono alla perfezione specialmente nelle concitate scene di
battaglia.
Con una efficace operazione
nostalgia, il nuovo lungometraggio d’animazione della Toei mette i
fan storici del robot gigante di fronte a una realtà tragica: il
tempo passa inesorabile, e se l’affetto verso il ricordo del fan
bambino resta immutato, l’approccio degli adulti verso un
linguaggio così buonista risulta adesso difficile da digerire, con
tanto di tirate paternaliste su quanto sia importante avere una
famiglia e dei figli.
#RomaFF12: Go Nagai racconta il
suo Mazinga Z Infinity
La scelta di Mazinga Z
Infinity è quella di accorpare generazioni e personaggi
(Koji e Tetsuya), costruendo un film proiettato verso il futuro,
magari il primo tassello di un nuovo franchise, un nuovo inizio.
L’ecosostenibilità, l’importanza dei valori della famiglia e
dell’eredità regalano un quadro ottimista per quanto didascalico
che riesce a dare coesione al film, rimanendo fedele alle tematiche
più care all’originale.
Nell’Era cinematografica
post-Pacific Rim, quando Godzilla e King Kong
stanno finalmente congiungendosi ufficialmente sul grande schermo
in quello che promette di essere un nuovo universo condiviso,
l’ennesimo, il ritorno di Mazinga, il primo dei mech, sul grande
schermo nella sua indissolubile connessione con il Paese in cui è
nato, riappropria la cultura giapponese di uno dei fenomeni più
caratterizzanti dell’anime e della cultura del Sol levante.
Mazinga Z
Infinity rientra a pieno nel fenomeno delle
operazioni nostalgia che non prova a parlare al pubblico di oggi,
ma ai fan storici, ormai adulti ma ancora amanti del mecha.
Ad aprire questa seconda giornata
della Festa del Cinema di Roma sono i fratelli
Paolo e Vittorio Taviani con la loro ultima fatica
cinematografica, Una Questione Privata, melodramma
ambientato nell’Italia fascista con Luca
Marinelli, Lorenzo Richelmy e
Valentina Bellé.
Tratto dall’omonimo romanzo di
Beppe Fenoglio,
scrittore e partigiano morto nel 1963, quello dei Taviani è il
primo film italiano della selezione ufficiale del festival,
un’opera assai complessa e piena di elementi contrastanti.
In Una Questione Privata va
in scena il tipico dramma da triangolo amoroso, una storia vista
centinaia di volte al cinema, all’epoca però della Seconda Guerra
Mondiale. Si parla infatti di amore, gelosia, tradimento e follia
ma in contesto assai ingombrante. Uno dei registi, Paolo
Taviani, ha spiegato perché la scelta del soggetto del
film è ricaduta proprio sulla storia di Fenoglio.
“Io e mio fratello abbiamo
sempre amato Beppe Fenoglio ma non eravamo mai riusciti a fare un
film utilizzando una delle sue storie. Ogni volta che leggevamo
qualcosa di suo e provavamo ad acquistarne i diritti, scoprivamo
che qualcuno ci aveva già preceduto.
Siamo sempre arrivati tardi
[ride] Anni più tardi poi mi è capitato di leggere Una Questione
Privata e quelle pagine mi hanno commosso profondamente […] Così ho
telefonato per cercare di acquistare subito i diritti per un film e
dall’altro capo del telefono qualcuno mi ha detto che mio fratello
Vittorio aveva già telefonato per lo stesso motivo“.
Questa è la genesi di Una
Questione Privata raccontata dal regista che ha anche
fatto qualche precisazione riguardo l’importanza del contesto
storico.
“Nel film si parla di una
semplice storia d’amore, un classico triangolo amoroso visto e
rivisto […] ma raccontato da un altro punto di vista […] Questa è
una storia che il pubblico può amare perché più o meno l’ha
vissuta. Il protagonista per colpa dell’amore per un attimo si
dimentica della guerra e della sua missione di partigiano […]
Quanto al fascismo, beh, non è un tema così antico e dimenticato
[…] “
Parlando di fascismo come concetto
astratto e confinato solo ai libri di scuola, Paolo
Taviani ha commentato il recente episodio che ha visto
coinvolti alcuni tifosi della Lazio che hanno utilizzato l’immagine
di Anna Frank in
un fotomontaggio per degli striscioni poi esposti allo stadio
durante il derby contro la Roma.
“I fascisti sono tornati ma non
sono come li conoscevamo […] L’episodio della Lazio mi ha
indignato. Non è ammissibile che al giorno d’oggi ci siano persone
capaci di commettere simili indecenze […] E’ tutta colpa della
scuola che non insegna ai giovani d’oggi l’importanza del
passato.
In un certo senso questi ‘nuovi
fascisti’ sono incolpevoli perché non sanno, non conoscono la
storia dell’Italia […] Gli adulti sono quello che sono, ormai, nel
bene e nel male ma adesso è sui bambini che bisogna lavorare per
cambiare il mondo. Conoscere la storia a scuola dovrebbe essere una
priorità come oggi lo è l’insegnamento dell’inglese. Bisogna fare
qualcosa, mettere un argine […] “
Parole dure ma giuste quelle di
Paolo Taviani condivise anche dagli attori, soprattutto dal
protagonista Luca Marinelli che ha raccontato
della sua esperienza sul set.
“Ovviamente non ho mai vissuto
la guerra né tantomeno l’epoca del fascismo ma questo film mi ha
aiutato a vedere le cosa da un inedito punto di vista. Per me un
film è principalmente un’esperienza fisica e vedere sessanta
persone sul set, ragazzi di vent’anni prendere parte alle riprese
fingendo di essere dei partigiani accampati nelle tende, è stato
molto forte e traumatico […] Tutti dicono che i giovani d’oggi non
hanno ideali in cui credere e non hanno più valori ma non credo che
sia così.
Grazie al rapido accesso ai
socila media, vengono costantemente bombardati dalla verità che li
circonda, possono leggere il tempo reale notizie da tutto il mondo
quindi sono convinto che sappiano riconoscere quali sono i valori
che contano e che ci sono persone disposte a morire per i propri
ideali. I valori non si sono perduti ma sono soltanto meno
chiari”.
Il fascismo è un tema tutt’oggi
molto scottante e difficile da trattare che, nel film dei Taviani,
ha un ruolo decisamente marginale. La guerra è infatti solo la
cornice della storia d’amore tra Fulvia, Milton e Giorgio, tema che
è tuttavia impossibile da ignorare.
Ma se realizzare un film come
Una Questione Privata crea dibattito ora, che
reazione avrebbe suscitato dieci o anche venti anni fa? Per
rispondere a questa domanda, Paolo Taviani ha raccontato un piccolo
aneddoto legato all’uscita del primo film diretti con suo fratello
Vittorio e con Valentino Orsini.
Il film in questione è Un Uomo Da Bruciare,
datato 1962, liberamente tratto dalla vita di Salvatore Carnevale,
sindacalista socialista di origini siciliane.
“Io e Vittoria abbiamo sempre
fatto parte del Partito Comunita e quando abbiamo presentato il
film al partito non abbiamo ricevuto pareri entusiastici. Ricordo
che Mario Alicata
[parlamentare comunista, partigiano nonché critico letterario] si
alzò dopo la proiezione e ci disse che avevamo oltraggiato con il
nostro film la memoria di Carnevale […]
Quello stesso anno presentammo
il film alla Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia dove fu
accolto molto bene da pubblico e critica […] Il giorno dopo andammo
a leggere ansiosi le recensioni sui giornali e ci accorgemmo che
alcune di loro non erano esattamente positive […]
Quello stesso pomeriggio
incontrammo Amendola [si riferisce a Ferruccio Amendola] sulla
spiaggia e fu proprio lui a farci ragionare sul fatto che le
recensione negative non sono poi così importanti poiché i giornali
non sono organismi autonomi ma vengono sempre influenzati dalle
linee di partito”.
Luca Marinelli,
Lorenzo Richelmy e Valentina
Bellé hanno sfilato sul red carpet della Festa del
Cinema di Roma 2017 per presentare, in Selezione Ufficiale,
Una Questione
Privata, film basato sul romanzo di Beppe
Fenoglio e diretto dai fratelli Taviani.
Sul tappeto rosso anche uno dei due registi, Paolo:
Love Means Zero è
un ritratto esaustivo e particolareggiato su Nick Bollettieri, uno
dei più grandi allenatori di Tennis di tutti i tempi. Il
documentario è stato presentato alla Festa del Cinema di Roma in
abbinamento con Ferrari: race to Immortality,
quasi a sottolineare un’abitudine domenicale, giornata notoriamente
dedicata allo sport. Forse non avrebbe guastato invece proiettarlo
come contrappunto documentaristico all’atteso film Borg vs
McEnroe, i due famosissimi tennisti interpretati
rispettivamente da Sverrir Gudnason e Shia
LaBeouf.
Figlio di immigrati italiani,
Nick Bollettieri ha
oggi ottantacinque anni, è un’autentica leggenda vivente, visto che
nelle sue mani sono passati i più grandi campioni di tennis, come
Agassi, Courier, Becker, Rios, Sampras, e
anche campionesse donne come Capriati, Janković, Hingis,
Seles, Šarapova, Venus e Serena Williams.
All’inizio del film Bollettieri fa i conti e con sana presunzione
afferma che i suoi campioni sono stati ben 186, aggiungendo che se
qualcuno non ci crede può controllare sulle statistiche e sui
documenti ufficiali.
Bollettieri, guidato nelle
interviste da Jason Kohn, si mette a nudo,
affrontando temi che riguardano anche la sua vita privata, le sue
scelte personali, gli otto matrimoni, il dissesto finanziario e la
rottura con suo figlio. A fargli da contrappunto o da sostenitori
ci sono molti dei suoi collaboratori e alcuni dei suoi campioni,
come Courier. Manca però la testimonianza di
Andre Agassi, continuamente citato nella maggior
parte del film, ma che ha deciso di non rilasciare dichiarazioni e
non farsi filmare. Il rapporto conflittuale tra Bollettieri e
Agassi è comunque ampiamente descritto nel libro Open, scritto
dallo stesso tennista.
Love Means Zero, la recensione
Jason Kohn,
autore di altri documentari come Manda Bala (Send a
Bullet) e di un episodio della serie tv
Signal, alterna saggiamente e con grande
mestiere le testimonianze con il materiali di repertorio, con molte
sequenze inedite che riprendono gli atleti giovanissimi, agli
albori della propria carriera. Ricostruisce quanto avvenuto nella
famosa “Nick Bollettieri Tennis Academy” in Florida,
dove le promesse del tennis venivano ospitate e addestrate quasi
come in un accademia militare, condividendo vita, studi e
allenamenti; condizione ideale per la nascita di grandi amicizie,
di gelosie, di delusioni e attriti, che poi si sarebbero trascinati
e trasformati nel corso di impegnative carriere sportive.
Kohn cerca di sottolineare nel suo
percorso di inchiesta soprattutto quanto il prezzo del successo
possa condizionare la propria vita e anche quella altrui.
Love Means Zero è
un ottimo documentario, che rispetta perfettamente le regole
narrative del reportage, senza però mai inventare, andare oltre, o
provare a differenziarsi da un prodotto che sembra confezionato
esclusivamente per appassionati di tennis.
Jake Gyllenhaal è
la grande star del tappeto rosso della Festa del Cinema di
Roma 2017 di questa terza giornata.
L’attore ha calcato il red carpet
dell’Auditorium per presentare Stronger, film
che racconta la straordinaria parabola umana di Jeff
Bauman, che ha scritto l’omonimo romanzo biografico che
racconta i fatti della Maratona di Boston del 2013, a causa dei
quali Bauman ha perso le gambe.
Anche il protagonista della storia e
scrittore del romanzo era presente alla Festa. Ecco le foto:
Jake Gyllenhaal e
Jeff Bauman hanno presentato alla Festa
del Cinema di Roma il film di David Gordon
Green, Stronger, concedendosi alla stampa
con una piacevolissima chiacchierata a metà tra vita, esperienze e
ciò che un film del genere può insegnarci.
Bauman perse le gambe nell’attentato
alla maratona di Boston nel 2013 e la sua
esperienza e la sua vita sono state riportate sullo schermo da
Gyllenhaal, che per l’occasione ha anche prodotto il film.
“Quando la storia è arrivata tra
le mie mani era ancora in una prima bozza e mi sono ritrovato a
ridere verso la quarta pagina, che non era assolutamente la mia
aspettativa, sapendo di cosa avrebbe trattato la storia e avendo
conosciuto Jeff solo attraverso la famosa foto”, ha raccontato
l’attore, “Penso che la cosa che mi ha spinto a voler far parte
di questa storia così intensamente è stato che probabilmente avevo
tanto da imparare da essa. La storia parla di resilienza e
difficoltà ma alla fine anche dell’opportunità che abbiamo di
riemergere dai momenti più duri della nostra vita. E’ un tipo di
storia che ha avuto un grande impatto sulla mia vita e avevo una
grande voglia di raccontarla.”
Complici, molto in confidenza,
amici, Jeff e Jake si scambiano sguardi e battutine durante le
domande e così ricordano il loro primo incontro, “E’ divertente
ripensarci ora, perché eccoci qui ad avere la nostra conversazione
tradotta in un altra lingua e non avrei mai pensato di ritrovarmi
qui seduto” racconta Jake Gyllenhaal e Bauman aggiunge,
“Il nostro primo incontro è avvenuto proprio in un ristorante
italiano a North Boston, quindi è come se si fosse chiuso il
cerchio così!”.
“Incontrare Jeff mi metteva
paura: lo vedete per come è, come si comporta, lui è una luce. Ha
certe qualità che non avevo mai visto in nessun’altro e mi era
stato dato il compito di interpretarlo. Mentre camminavo verso il
ristorante ricordo di aver pensato ‘Non ce la faccio, non posso
fare questa parte, non ho la sua forza, non c’è in me, non ci posso
riuscire, non ho assolutamente quello che ha lui e che lo ha fatto
sopravvivere’ e poi invece sono entrato e gli ho stretto la mano ed
era la più dolce e gentile persona che avessi mai conosciuto e
allora ho pensato che forse ce l’avrei potuta fare.” spiega
l’attore, “Ed è proprio quello che fa lui, la sua presenza, la
sua storia, fa pensare alle persone che magari ce la potrebbero
fare anche loro, gli fa credere. Ed è esattamente così che mi sono
sentito e da quel momento siamo diventati amici”.
Jeff Bauman è
diventato un simbolo della maratona ma non si sente e non vuole
essere chiamato eroe, “Non mi piace il termine eroe, sono altri
gli eroi nella mia vita, persone a cui mi rivolgo e che mi ispirano
per andare avanti. Ero alla maratona per amore, amore per mia
moglie e madre di mia figlia, anche se ancora non era nata. Ero lì
per essere presente nella vita di una persona, era la mia prima
maratona e avevo creato un cartellone davvero bello, che mi
piacerebbe avere ancora. Non sarei potuto essere altrove,
semplicemente volevo esserci e non sono quindi un eroe, ma sono un
ragazzo normale”.
Il film è focalizzato molto sullo
stress post traumatico di Jeff Bauman e Jake
Gyllenhaal si è preparato lavorando con amici che ne hanno
sofferto, militari o persone che hanno avuto situazioni drammatiche
nella loro vita e parlando con loro ha potuto capire una parte di
quello che avevano provato.
“La parte che ho apprezzato di
più del film è proprio questa, non il dolore fisico, le cose che
puoi vedere, ma le cose che non puoi vedere, cose che io non ho
raccontato.” ha confessato Bauman,“Penso che Jake le abbia
capite attraverso il mio viso, cosa potevo aver provato. Il film
mostra situazioni anche molto cupe, come ad esempio la scena della
doccia: quel momento racconta davvero tanto di come possa essere
soffrire di PTSD. Quando succede qualcosa di traumatico la tendenza
è l’isolamento e per i primi due anni e mezzo circa ho iniziato a
bere per scappare dalla realtà, da quello che stava succedendo
nella mia mente e al mio fisico. Il modo in cui Jake è riuscito ad
interpretare quei momenti è stato molto potente e mi ha fatto
piangere. Ho fatto tantissimi errori e il film me li ha mostrati,
ma oggi finalmente sto bene mentalmente, sono un bravo padre e
marito.”
“Sia quando scrivevo il libro
che durante la produzione del film il mio pensiero era mostrare
alle persone che si può sopravvivere, andare avanti e sopratutto
non sono soli nella lotta, non è capitato solo a loro. Ed era anche
importante fargli capire che devono chiedere aiuto alle persone che
gli sono intorno, che è stata la parte più difficile per me nella
mia convalescenza, cercare di riconnettermi con le altre persone.
Spero quindi che arrivi un messaggio positivo dalla mia
storia” riflette Bauman sul messaggio del film, e Gyllenhaal
continua, “Quello che mi è parso di capire dalla storia di Jeff
è che in quei momenti lui cercava di ricalibrare il suo mondo
fisico, il suo mondo emotivo e psicologico, che gli era stato
spazzato via letteralmente in un minuto. C’era una grande
confusione intorno a lui e quella confusione l’ha anche portato a
diventare un simbolo, che in realtà lo ha rallentato ancora di più
perché sopraffatto da questa enorme responsabilità. La cosa
affascinante della storia di Jeff era che doveva contemporaneamente
essere un simbolo e cercare di capire cosa gli era successo
fisicamente e penso che le intenzioni di tutti erano buone ma era
diventato molto difficile per lui… E questo perché lui è
semplicemente un essere umano. E questo è il tipo di combinazione
per cui facciamo film, per mostrare a tutti che non è tutto così
semplice come sembra e la parte più bella della sua storia è che
ora è riuscito ad incarnare questo simbolo e se hai l’onore di
parlare con lui, sai certo che ti renderà felice. Fa sentire tutti
meglio intorno a lui e mi ha insegnato qualcosa grazie a quasi
tutte le interazioni che ha avuto davanti a me.”
Infine Jake ha reso omaggio
alle scelte della sorella Maggie Gyllenhaal,
quando gli è stato chiesto come ma sia lui che la sorella facevano
scelte artistiche e di carriera molto interessanti e di qualità:
“Siamo stati cresciuti proprio come è stato cresciuto Jeff: da
due genitori incredibilmente complicati. Quello che è sempre stato
importante per loro è stato insegnarci a credere che c’è sempre
qualcosa da dire che è più importante di noi stessi e ancora oggi
agiamo pensando a questo… Facendo cose belle, ma facendo anche
qualche casino. Anche se crediamo magari in cose diverse, mia
sorella mi ha insegnato tantissime cose. Essere una donna in questa
industria è molto diverso rispetto ad essere un uomo e penso che
lei stia facendo un lavoro incredibile con la sua carriera, in
particolare ora che si sta affermando come filmmaker, sta facendo
parte della parte produttiva nella narrazione delle storie e
affronta tantissime sfide da attrice. Per lei la cosa più
importante è sempre stata essere onesta con se stessa come donna,
in particolare riguardo a cosa significa per lei il femminismo e
penso che lei sia bellissima. Essendo la mia sorella più grande, mi
ha ispirato in talmente tanti modi, che è per questo che ho cercato
di essere anche io così ma darei il merito anche ai miei genitori.
A volte abbiamo successo, a volte arriva il fallimento, ma questo è
quello in cui crediamo.”
Dopo aver presentato sabato il suo
ultimo film Stronger, accompagnato dall’uomo da
lui interpretato nel film Jeff Bauman,
Jake Gyllenhaal è nuovamente tornato alla
Festa del Cinema di Roma per essere protagonista
di un Incontro Ravvicinato con il pubblico.
Pantaloni grigi, maglia bordeaux e
capelli pettinati indietro, Jake è stato accolto da una
Sala Sinopoli stracolma e da grandi applausi ad
ogni clip mostrata, sul suo percorso artistico molto interessante.
Tra smorfie, sorrisi al pubblico e gesti dolcissimi verso
l’interprete Olga Fernando, a cui ha porto un
bicchiere d’acqua mentre traduceva le sue parole con la gola secca,
Jake è stato al centro di un incontro molto interessante e che ha
soddisfatto i tantissimi fan accorsi per lui.
Unica nota dolente: il red carpet
annunciato dagli organizzatori della Festa e poi annullato poco
prima dell’incontro, che ha lasciato molti fan delusi (ma chi era
in sala per l’incontro probabilmente ha guadagnato un autografo sul
finale).
Jake Gyllenhaal si racconta al
pubblico al #Romaff12
Sei le clip scelte dall’attore per
raccontare la sua carriera e non si poteva non iniziare se non con
il film del 2001 di Richard KellyDonnie
Darko, ormai diventato di culto e che ha definito il suo
successo: “Rivedendomi non riesco a credere alla dimensione
delle mie guance enormi in questo film! Per quanto riguarda il
fatto che sia diventato un film di culto, penso sia dovuto al fatto
che esistono più livelli, c’è sicuramente l’aspetto
fanta-scentifico, c’è anche una storia umana che va al di là delle
convenzioni, un aspetto un pò fuori dalle righe. E questo penso che
riesca veramente a toccare profondamente le persone: quando uno
riesce a provare una emozione, un empatia, sicuramente colpisce. Il
lavoro di Richard Kelly è stato sicuramente antesignano, ma a volte
succede pure che quando un film non va bene commercialmente, alla
fine viene definito un cult movie!”
“Metto il cuore in tutto quello
che faccio e io credevo molto in quella storia, anche se ero
giovanissimo e non conoscevo molto del cinema a quell’epoca”
continua Jake, “Per me la storia aveva un valore universale e
trattava del passaggio dall’adolescenza all’età adulta in un modo
totalmente diverso dai soliti film, tra feste o ragazze. Questo
film invece corrispondeva a quello che provavo in quel momento, ai
miei sentimenti ed ero sicuro che la stessa cosa sarebbe potuta
succedere a tanti altri ragazzi, che si sarebbero rivisti nel mio
personaggio”.
La seconda clip invece è tratta da
Jarhead, film di Sam Mendes del
2005: “Sam Mendes essendo anche un regista teatrale ci ha fatto
fare prove per un mese, prima di iniziare a girare e questa, oltre
alla mia preparazione con amici dei Marines e nella marina, era un
esperienza che non avevo mai fatto ed è stato utilissimo e mi ha
permesso di entrare nel personaggio e capirlo”.
“Non c’è un genere
cinematografico in particolare che mi piace,” racconta Jake,
“Sono affascinato dall’esperienza umana e dall’inconscio, così
come quando uno sogna, si sognano sempre cose diverse, a volte si
ripetono ma non sono mai le stesse. Per questo mi piace molto
sperimentare sempre cose nuove”.
Il film forse più famoso di
Jake Gyllenhaal arriva alla terza clip, quando
appare sullo schermo insieme al caro amico Heat
Ledger in Brokeback Mountain, film del
2005 di Ang Lee e per cui vinse anche un BAFTA.
“Lavorare con Ang Lee penso che sia il sogno di ogni attore,
così quando ho sentito che stava facendo un altro film ho subito
detto che ne volevo far parte. Appena ho letto il copione mi sono
davvero commosso. C’erano diverse combinazioni di attori, alcuni
erano magari spaventati o non volevano farlo, e lui voleva solo
certe combinazioni di attori insieme: così io sarei stato preso
solo in coppia con Heat. La decisione fu totalmente sua alla fine:
ci incontrammo, ero un po’ a disagio, lui era seduto in un angolo,
parlammo un po’ e poi mi chiese di andarmene. Poi ebbi la
parte.”
“Mi hanno chiesto se avessi un
po’ di remore nell’accettare una parte del genere, ma io non
ragiono in questo modo. Per me questo ruolo non era correre un
rischio: per me dall’inizio questa era solamente una storia d’amore
e così l’ho valutata senza giudicare e senza pregiudizi”
confessa Jake riguardo all’aver interpretato un omosessuale nel
film, “I tempi sono cambiati oggi, vediamo storie tra persone
dello stesso sesso ovunque nel mondo dello spettacolo, dalla tv al
cinema, è accettata la cosa. Ma a quel tempo non era così, almeno
parlando a livello di cultura popolare. Ora sono momenti davvero
confusi: cosa sta succedendo in America adesso? Davvero non lo so,
l’attualità è caratterizzata da degrado culturale e tante paure ma
questo non fa che confermare le mie posizioni e quello in cui credo
e quello che ritengo sia giusto nel profondo del cuore. Non so se
questo film ha cambiato le cose ma sicuramente sono cambiate tante
cose dal 2005 e siamo pronti ad accettare meglio quello che è
giusto. E per giusto intendo semplicemente di amore tra due
persone.”
Il film di David
Fincher, Zodiac
del 2007 è la quarta scena mostrata al pubblico e a riguardo
l’attore ci ha svelato un aneddoto: “Abbiamo rigirato la scena
con Mark Ruffalo per tre volte e quella che poi è
andata nel montaggio finale è stata l’ultimo tentativo e a quel
punto non sapevo nemmeno più cosa stavo dicendo. A volte le battute
cambiavano però, non sono proprio capace di ripetere la stessa cosa
per due volte di seguito!”.
Monda allora gli fa notare che
invece, l’ospite del primo giorno Christoph Waltz,
non lascia nulla all’improvvisazione: “Uh, sarebbe bellissimo
lavorare con lui! Io non credo nelle regole, credo nel rispettare
il testo ma credo anche nel rispettare il momento, il partner nella
scena e il regista. Ho fatto dei film nei quali non ho dimenticato
nemmeno una virgola della sceneggiatura ed altri invece nei quali
il testo è stato abbandonato ed è stata tenuta solo l’essenza. Si
parla di improvvisazione, a volte si gira una scena e viene
perfetta ma magari poi di rigira e si cerca di improvvisare
ricostruendo tutto quello fatto. Per me l’unica parola d’ordine è
la preparazione: è l’unica struttura alla quale punto. La libertà
sta dall’altra parte della disciplina.”
Per descrivere gli ultimi due
registi, Jake dice “Ang Lee non è possibile descriverlo
solo con una parola, ma è un cuore con le gambe. Mentre per David
Fincher la parola è precisione”.
La quinta clip è tratta da
Nightcrawler, film di Dan Gilroy
che è anche stato in Selezione Ufficiale alla Festa nel 2014, in
cui interpreta l’inquietante Louis Bloom: “Avevo nella mia
testa un idea precisa di chi fosse questa persona e sapevo cosa lo
spingeva a comportarsi in quel modo e lo avevo capito dai suoi
discorsi nel copione, scritto brillantemente da Gilroy. Era
evidente che questi discorsi dovevano essere pronunciati con un
certo ritmo e che dovevano essere detti in modo che si capisse che
non fossero improvvisati ma frutto di una riflessione molto attenta
di Luois. Inconsapevolmente quindi quando li pronunciavo avevo un
po’ lo sguardo fisso verso la persona davanti a me, un po’ come fa
un animale quando punta la preda.”
L’ultima clip scelta per descrivere
la carriera di Jake Gyllenhaal è tratta da
Nocturnal Animals di Tom Ford del
2016, “Si può parlare di un dolore straziante, per me questo
film è come una metafora di ciò che ti accade quando ti si spezza
il cuore”
A conclusione dell’incontro, la
clip scelta dall’attore come “Film della vita” era tratta da
La Strada di Federico Fellini:“Questo è un film che ho nel cuore perché ancora prima che
capissi cosa fossero i film, mio padre mi disse che il film che lo
aveva convinto a voler lavorare nel cinema fu questo. Quindi dovrei
ringraziare questo film per essere qui oggi, perché se lui non
si fosse innamorato di questo film io probabilmente non sarei stato
qui e non mi sarei innamorato anche io del cinema.”
Ed è proprio il regista italiano,
il regista del passato con cui gli sarebbe piaciuto lavorare,
mentre interrogato su un regista del presente, sorprendentemente
nomina Pedro Almodovar: sarebbe una combinazione
davvero interessante!
Con il suo inconfondibile ciuffo,
David Lynch, uno dei registi più visionari della
storia del cinema, è stato protagonista di un incontro ravvicinato
con il pubblico alla Festa del cinema di Roma 2017. In questa
occasione ha ricevuto anche il Premio alla Carriera consegnatogli,
a fine incontro, da Paolo Sorrentino.
Raffiguro lo spazio unificato
dove spazio e tempo non esistono. Ci sono una serie di forze,
energia, amore e questo flusso è presente in ognuno di noi. Non va
compresso ma lasciato fluire. Questo si raggiunge con la
meditazione ma anche la musica è molto evocativa.
Formula consueta per gli
Incontri Ravvicinati alla Festa di Roma, il
pubblico ha avuto modo di guardare clip dai film dell’ospite,
seguiti poi da commenti e domande in merito.
Eraserhead- La mente che
cancella (1982)
Lei ha studiato arte. Prima di
intraprendere gli studi per diventare pittore, cosa che peraltro è,
era interessato al cinema?
Non ero per niente interessato
al cinema. Non andavo a vedere film. Frequentavo Philadelphia e ne
conoscevo le caratteristiche più negative: era sporca, degradata e
sempre in preda al terrore. E amavo anche la sua architettura
,questi interni dai colori improbabili, i mattoni coperti da
fuliggine. Il mio amore per le fabbriche è nato da Philadelphia ed
è il mondo che raffiguro in Eraserhead.
Velluto blu(1986)
Il film è una collaborazione con
Dino de Laurentis che gli ha prodotto anche Dune
(1984) anche se non aveva l’ultima parola. Con Velluto
Blu ha avuto l’ultima parola?
Per Dune, pur non avendo
l’ultima parola, ho firmato lo stesso. Era la cosa giusta da fare.
Velluto blu l’avrei fatto solo se avessi avuto l’ultima
parola.
Come si svolge il processo di
sceneggiatura? Si può parlare di improvvisazione?
Non parlerei di
improvvisazione. Parlerei di idee che nascono. Le vediamo sul
nostro schermo mentale, le sentiamo. Quando riemerge vengono
restituite come frammenti. Le immagino come un rompicapo. Dai
frammenti si costruisce la sceneggiatura e bisogna assicurarsi che
sia rispettosa dell’idea originale.
Strade perdute(1997)
Personalmente vede un collegamento
tra i vari film?
Strade perdute, Mulholland
Drive, Inland Empire parlano di Los Angeles.
Mulholland Drive(2001)
Cosa la affascina di Los
Angeles?
Io sono andato a vivere a Los
Angeles nel 1970. Arrivai in città durante la notte e alla
mattina vidi il sole e la sua luce meravigliosa. Inoltre la città
non sembra avere limiti e questo significa libertà. Ho come
l’impressione che quest’atmosfera ritorni quando fioriscono i
gelsomini.
Mulholland Drive nasce come
progetto televisivo. C’è differenza tra cinema e televisione?
Creare per il cinema e per la
televisione è esattamente la stessa cosa. Inoltre la qualità
delle immagini e suono in televisione è molto
migliorata.
Inland Empire(2006)
Differenza tra celluloide e
digitale
La celluloide è una tecnica
bellissima ma si sporca, si rompe e pesa. Il digitale ha una
qualità migliore e si possono fare milioni di cose dopo aver
girato. Si schiude un mondo meraviglioso.
In un incontro con Bernardo
Bertolucci ha parlato dell’alta definizione e ha affermato che
mostra troppo. Non si può avere mistero. La pensa ancora così?
Amo molto Bertolucci. Molti la
pensano che il digitale sia troppo plastico. Oggi ci sono tecniche
che permettono di ottenere effetti più reali e di avvicinarsi alla
realtà organica.
In seguito si parla degli artisti
che hanno ispirato David Lynch. Uno di questi è Francis
Bacon.
Amo moltissimo Francis Bacon.
Uno dei più grandi. Il modo in cui esplora l’organico, distruzione
dei corpi organici e mostra la fenomenologia organica. Le idee
possono nascere dal cinema ma anche da altre moltissime cose. A
volte riesci a coglierle.
Nel primo giorno della dodicesima
edizione della Festa del Cinema di Roma iniziano anche gli incontri
con personaggi del mondo dello spettacolo e della cultura. Nella
sezione denominata “Incontri Ravvicinati” si
avvicenderanno attori, musicisti, registi, scrittori e stranamente
anche uno sportivo.
Il primo ospite è stato
l’austriaco Christoph Waltz
Con la sua faccia da irresistibile
canaglia, incorniciata dal suo originale sorriso sardonico,
divenuto, film dopo film, un vero e proprio inconfondibile stilema
anatomico. Waltz è amatissimo dal pubblico e a dimostrazione di
questo si è formata per i corridoi dell’Auditorium una fila
interminabile e paziente, che per ore ha atteso di poter incontrare
il protagonista di tanti personaggi memorabili, entrati
prepotentemente e giustamente nel panorama del cinema
contemporaneo.
Prima dell’incontro, come una
sommessa, ma neanche troppo, benedizione tarantiniana, sono passate
sul grande schermo le immagini della notissima scena della gara di
ballo di Pulp Fiction, con John Travolta e
Uma Thurman, quasi a voler sottolineare la paternità di
una clamorosa scoperta attoriale.
Waltz nasce a Vienna nel 1956 da
genitori scenografi e con i nonni attori. Dopo aver studiato
recitazione al Max Reinhardt Seminar di Vienna e al Lee Strasberg
Theatre and Film Institute di New York, negli anni Novanta inizia
la sua carriera cinematografica lavorando con Krzysztof
Zanussi in Vita per vita – Padre Kolbe e in
Fratello del nostro Dio. Nel 2009, avviene la svolta
fondamentale della sua carriera e Quentin Tarantino gli
affida il ruolo che lo renderà celebre, ovvero quello dello
spietato istrionico nazista Hans Landa in Bastardi
senza gloria, che gli frutta numerosi premi dal Golden Globe
al BAFTA, fino all’Oscar® come Miglior attore non protagonista. Da
quel momento tutti i più grandi registi faranno a gara per averlo
nei loro film: Michel Gondry, Roman Polanski, Terry Gilliam,
Tim Burton, Sam Mendes.
Il suo personaggio è quasi sempre
un cattivo, o meglio un antagonista caratterizzato da un sarcasmo
tanto istrionico quanto crudele, che si bea nel giocare, con ardite
disquisizioni, con le sue vittime di turno.
Durante l’incontro, condotto da
Antonio Monda, si sono alternati spezzoni di film con momenti di
puntuale chiacchierata, spigliata.
Si inizia chiaramente con
Bastardi senza gloria. E Waltz ci tiene a sottolineare che
non è solito improvvisare ma che segue in maniera ubbidiente tutte
le indicazioni e i suggerimenti che provengono dal regista, in quel
caso Tarantino. Racconta di come nei suoi film tutto sia scritto
sul copione e come ogni particolare sia pensato e progettato in
precedenza alle riprese, anche cose che potrebbero sembrare
fortuite o frutto di fortunate intuizioni di set, come ad esempio
la felice trovata della parola “Bingo!” . Waltz sostiene di essere
un estimatore fedele dello script e di considerare importate ogni
parola, ogni annotazione, ogni virgola. E nonostante per lui
Tarantino sia un grande fabbricatore di immagini, dall’indiscusso
talento visivo, è però prima di tutto un geniale e sapiente
sceneggiatore.
E’ poi la volta di
Carnage di Roman Polanski.
Waltz accenna alle differenze di
due forti personalità autoriali come quella di Polanski e
Tarantino, ribadendo per entrambi la totale mancanza di
improvvisazione e di rispetto quasi religioso dello script.
Dopo una sequenza di The legend
of Tarzan di David Yates gli viene chiesto perché
interpreti sempre il ruolo del cattivo. Lui risponde che nella sua
carriera non è stato sempre cattivo, ma che il sistema
hollywoodiano porta a ripetere fino all’eccesso quello che va bene,
quindi dopo i primi ruoli azzeccati è risultato normale vederlo in
situazioni similari, garanzia di successo al botteghino. E comunque
fare il cattivo, o meglio l’antagonista, permette di divertirsi di
più; ruoli del genere, a detta di Waltz, sono pieni di sfumature e
offrono a un interprete la possibilità di costruire con vivacità e
un’infinità di colori la propria interpretazione.
Non crede nell’immedesimazione,
troppe volte mitizzata e sopravvalutata.
Dice che per fare un nazista non
c’è bisogno di costruire un campo di concentramento e nemmeno
essere internati in manicomio per interpretare un folle.
L’importante è scatenare l’immaginazione, seguendo le indicazioni
che lo script contiene.
Accenna poi ai suoi punti di
riferimento, ammettendo però di non dargli troppo peso, perché le
suggestioni e le infatuazioni variano nel tempo, in base alle
proprie esperienze e agli stati d’animo. E poi sostiene che ogni
attore, per quanto grande possa essere stato, ha fatto buoni film,
ma anche film mediocri e a volte decisamente brutti. Cita come
esempio Marlon Brando e Humprey Bogart.
Afferma con convinzione che
l’ammirazione non deve mai diventare ideologia.
Scorrono altre sequenze, tratte da
Downsizing di Alexander Payne, film di apertura
alla recente Mostra di Venezia, poi Django di Quentin
Tarantino e infine tre momenti tratti dai suoi film preferiti:
Il Momento della Verità di Francesco Rosi,
Vivere di Akira Kurosawa e I Vitelloni
di Federico Fellini. Cita il suo scrittore preferito
Jorge Louis Borges e Pierpaolo Pasolini. Racconta
della sua infatuazione per l’opera lirica.
Conclude dicendo che la cosa
fondamentale è vivere e non valutare.
Paolo Genovese ha
chiuso la Festa del Cinema di Roma 2017 presentando il suo ultimo
film, The Place. Il regista, insieme al cast, ha
sfilato sul tappeto rosso di chiusura della dodicesima edizione
dell’evento.
Presenti sul red carpet:
Rocco Papaleo, Vittoria Puccini, il regista
Paolo Genovese, Marco Giallini, Sabrina Ferilli, Silvio
Muccino, Silvia D’Amico, Alessandro Borghi, Valerio Mastandrea,
Vinicio Marchioni.
Un racconto torrenziale e vivace,
accompagnato da un gesto da un sorriso. L’irrequietezza del grande
interprete, il calore dello showman, la bellezza di una vita
vissuta per l’arte, gli amici e la fedeltà alla propria identità:
Ian McKellen, per il grande pubblico Gandalf e
Magneto, ha letteralmente incantato il pubblico della Festa
del Cinema di Roma.
Vita privata, carriera, figli non
voluti e ruoli ricercati, in poche battute e tanta energia, ecco
l’Incontro Ravvicinato con lo straordinario e
vitale interprete.
Il coming out
“Qualunque persona gay abbia
fatto coming out, vi dirà che è la cosa migliore mai fatta. Perché
tutto migliora, si diventa più sicuri e per me, per esempio, il
lavoro è diventato migliore, sono diventato un attore più bravo a
detta di tutti. Non dovevo più fingere. Ma capisco che non è
semplice per tutti. Ho incontrato ragazzini nelle scuole che a 13 o
14 anni conoscono e parlano della propria sessualità, e hanno fatto
una cosa che io ho impiegato 40 anni per fare.”
Gli inizi
“Il passaggio al cinema è stato
difficile. Ho fatto un provino per Barbarella con Jane Fonda, da
giovane, e una volta a Cinecittà un altro provino per un bandito
siciliano. Mi vestirono di tutto punto ma dissero che ero troppo
meravigliosamente inglese per quella parte. Non ce l’ho fatta.
Soltanto quando ho lavorato con Judi Dench in un piccolo teatro ha
cominciato a pensare che recitare poteva significare anche
comunicare a un pubblico piccolo e vicino. Così mi sono preparato
per quando avrei avuto la mia grande opportunità sul grande
schermo, ed è arrivata a 60 anni. Per questo dico sempre ai giovani
attori ‘non aspettate che la vostra carriera decolli. Dovete essere
pronti a cogliere l’occasione quando arriverà.’ Bisogna pensare ad
avere una carriera, non all’essere ricco e famoso, questo non
c’entra niente con l’essere attore. Tutto avviene al momento
giusto, se avessi interpretato quel bamndito siciliano a 24 anni
forse non avreste più sentito parlare di me.”
I figli
“Fino a quando ho avuto 29
anni, per me era illegale fare sesso, era reato, figuriamoci l’idea
di avere figli o adottarli. Ma non ho mai pensato ad avere figli,
sono troppo egoista. Ma ho comunque tanti giovani fan. L’altro
giorno è venuto da me un bimbo di 5 anni, era con i genitori, e mi
ha detto ‘voglio fare una foto con Gandalf’. Non è una cosa
dolcissima? E non devo nemmeno occuparmi della sua istruzione o di
dirgli che è ora di andare a letto!”.
Eduardo De Filippo
“Eduardo De Filippo, non è
proprio italiano, vero? È napoletano. Non l’ho mai visto sul
palcoscenico, anche se la sua compagnia venne a Londra negli anni
’60. Conoscevo le sue opere e alcune le ho recitate. Una volta
venne la sua vedova a trovarmi e in lacrime mi disse che
assomigliavo moltissimo a lui quando recitavo quel ruolo. Una volta
ero a Milano, mi aveva invitato Giorgio Strehler, e lui mi aveva
organizzato una lettura di Shakespeare, dalla Tempesta, l’ultima
sua opera. Io l’ho recitata in inglese e lui in italiano. E solo
dopo De Filippo si alzò e fece lo stesso in napoletano. Quindi ho
lavorato con lui. E amo molto l’idea della creazione di opere per
un luogo specifico, una società specifica, per persone che conosci,
per chi vive vicino a te. E lui l’ha fatto con la famiglia, con gli
studenti, con una Compagnia. E questo è l’ideale. Avrei voluto far
parte di una compagnia come quella, lui è una parte importante del
mio cuore.”
Shakespeare – Riccardo III
“Mi commuove molto che il più
grande inglese che sia mai vissuto non sia un militare, un
politico, non un re o un industriale, ma un attore che ha scritto
delle opere teatrali. La sua grandezza ha molte caratteristiche, ma
essenzialmente lui conosceva la natura umana meglio di tutti gli
altri scrittori. Era affascinato da un servo e allo stesso modo da
un re. In un senso, lui è il padre di tutti noi, perché ci capiva e
ci capisce meglio di chiunque altro. Per me lui è ancora vivo e
ancora oggi le sue opere hanno un signifito contemporaneo, perché
la natura umana non è cambiata in questi 450 anni. Questo può
rassicurare, o forse no. Quindi sì, Shakespeare appartiene al
teatro e da giovanissimo mi piaceva pensare che potevo riempire i
grandi teatri, ne ero molto orgoglioso. Ma poi mi sono trovato a
interpretare il Re Lear in un teatro con appena 300 posti. Per il
fatto che Shakespeare rimane uno scrittore moderno, credo sia
giusto che venga rappresentato anche in modi moderni. La tv e il
cinema. Ed è per questo che dopo aver portato in giro per il mondo
Riccardo III, ho deciso che si poteva portare a un pubblico più
ampio con il cinema.”
Cinema, teatro e televisione –
Vicious
“Ho fatto tv in Vicious, una
sit com con Derek Jacobi, con cui
studiavo. Ero innamorato di lui, e lui di me forse, ma all’epoca
era proibito per legge amarci. E adesso è troppo tardi perché lui è
sposato. Ognuno dei media che conosciamo ha i propri meriti. In tv
per esempio raggiungi milioni di persone nello stesso momento. Nel
caso del cinema lo fai nel corso degli anni. Ma devo confessare che
sono affascinato sopra ogni cosa dal teatro dal vivo, perché è
vita. Tu sei qui, io sono qui adesso. Non è per domani o per ieri,
è per noi adesso. Il teatro dal vivo è la vita (life theatre is
life). Qualcuno mi chiede ‘perché fai le sitcom in tv?’. Perché non
cogliere l’occasione di intrattenere le persone? Ho anche
partecipato alla soap opera più lunga della storia della tv
inglese, Coronation Street. Faccio anche improvvisazione con
Ricky Gervais, e non lo trovo affatto al di sotto
di me. Anzi penso che se posso fare questo sono un vero attore. Non
ho ancora fatto musical, ma da grande vorrei farlo.”
Il legame con i personaggi
– L’allievo
“Chiunque abbia la mia età
conosce bene il nazismo e i nazisti. Quando ero ragazzino, dormivo
sotto una tavola di metallo, in attesa dei bombardamenti tedeschi.
La guerra era parte quotidiana delle nostre vite ed ero un
ragazzino durante la guerra. Ma se fossi stato un uomo? Cosa avrei
fatto in circostanza estreme? Se il governo del mio Paese sarebbe
marcito, io sarei marcito con lui? Fare l’attore vuol dire essere
in grado di fare qualunque cosa, decidere di diventare un nazista o
no, di amare, di non amare più. Tutti siamo capaci di fare
qualunque cosa, di odiarci, di uccidere. E fare l’attore ci
permette di fare le cose per finta.”
Gli X-Men come Shakespeare
“Non ho mai letto i fumetti
degli X-Men, ma Bryan Singer mi disse che si trattava di mutanti
con qualità speciali che venivano temuti e ignorati dalle persone
normali. Mi disse anche che nelle statistiche demografiche di
vendita della Marvel, i fumetti e in particolare
quelli degli X-Men erano i più venduti soprattutto per i lettori
che rappresentavano delle minoranze, come neri, gay ed ebrei. In
pratica X-Men parla di diritti civili e nella storia ci sono due
posizioni, quella conciliante del professor X e quella violenta di
Magneto. X-Men potrà anche avere una radice a fumetti, ma ha la
stessa importanza dei temi trattati da Shakespeare.”
La Compagnia – Signore degli
Anelli e Lo Hobbit
“Abbiamo fatto tanti film
insieme. Eravamo come una compagnia di giro e abbiamo girato tutta
la Nuova Zelanda (intanto si spoglia, togliendosi la giacca e la
camicia, arrivando a mostrare la spalla nuda e il tatuaggio che ha
fatto insieme agli altri membri del cast del film di Peter Jackson,
un numero 9, in caratteri elfici, come i 9 compagni della Compagnia
dell’Anello). È un posto bellissimo, le donne hanno posizioni di
potere, è stato il primo Paese a dare il voto alle donne, trai
primi a concedere la possibilità di sposarsi ai gay. E sono molto
orgoglioso del fatto che per un anno la faccia di Gandalf è stata
scelta per comparire su un francobollo. Abbiamo girato tutto il
Paese anche se molte scene erano comunque in studio.”
Essere gay a
Hollywood – Demoni e Dei
Quando fu nominato agli Oscar per
l’interpretazione di James
Whale (regista di Frankenstein) disse che non
avrebbe vinto perché era inglese e gay. “Ricordate chi vinse
quell’anno? Roberto Benigni. Non è sicuramente inglese né gay. Quel
film però fu un punto di svolta perché interpretavo il protagonista
in un film di Hollywood che ha ricevuto enormi consensi da parte
della critica. All’epoca vivevo a Hollywood. James Whale, negli
anni ’30, era il regista più pagato di Hollywood, viveva
apertamente la sua omosessualità e a nessuno importava. Quindi
quando qualcuno mi dice che la sua omosessualità va nascosta perché
potrebbe avere difficoltà al lavoro, nella vita, io rispondo
sempre, guardate la storia di Whale in Demoni e Dei e capirete come
vi sbagliate.”
Tra gli ospiti più attesi in
assoluto della Festa del Cinema di Roma 2017,
Sir Ian
McKellen ha sfilato sul tappeto rosso dell’Auditorium
subito dopo aver partecipato all’incontro ravvicinato con il
pubblico e poco prima della presentazione di McKellen:
Playing the part, documentario sulla sua vita e carriera
diretto da Joe Stephenson.
Hostages – E’ il 1983 quando un gruppo di
ragazzi, tutti studenti della scuola di belle arti, decide di
abbandonare il regime oppressivo sovietico fuggendo dalla
Georgia verso la vicina
Turchia.
Assuefatti alle sigarette americane e ispirati
dalla musica trascinante dei Beatles, i ragazzi decidono
di prendere con la forza il controllo di un aereo regionale e di
dirottarlo verso la Turchia, un posto dove cominciare una nuova
vita. Ma la paura e soprattutto l’inesperienza dei giovani
dirottatori ha la meglio e, in pochi minuti, quello che doveva
essere un semplice volo, si trasforma in
tragedia.
Il sesto giorno della Festa del Cinema
di Roma si apre con Hostages, il nuovo film di
Rezo Gigineishvili ispirato a fatti realmente accaduti. Si
parla della Georgia della fine degli anni ottanta del novecento, un
paese completamente assoggettato al governo sovietico dove i
cittadini erano costretti a vivere rinchiusi quasi come degli
animali in gabbia.
I confini dello stato, infatti, erano chiusi e
chiunque osasse ribellarsi alle leggi russe, andava incontro a pene
severe e spesso anche alla morte. Il cosiddetto ‘caso dei ragazzi
dell’aereo’ è un fatto di cronaca venuto alla luce soltanto alla
fine della Perestrojka nel 1991, anno che ha di fatto
sancito l’indipendenza dello stato dopo lo scioglimento
dell’Unione Sovietica.
Hostages di Rezo
Gigineishvili è di fatto un thriller che punta i
riflettori su di un periodo storico assai travagliato per la
Georgia, richiamando alla memoria uno dei peggiori dirottamenti
aerei degli anni ottanta.
Si parla di giovani culturalmente evoluti, di
buona famiglia, appartenenti alla classe medio borghese dell’epoca,
studenti modello con una grande passione per l’arte. Ad un occhio
disattento le loro vite possono sembrare quasi perfette ma c’è
qualcosa che questi ragazzi bramano e che purtroppo non riescono ad
ottenere: la libertà.
Sin dai primi minuti di film, si avverte un
senso di profonda inquietudine pervadere ogni scena che ci
accompagna per mano fino alla conclusione. Ad una prima parte però
molto lenta, fatta di tempi eccessivamente dilatati e inutili scene
filler, nel film segue una seconda parte invece assai più
dinamica.
Nel momento in cui i protagonisti mettono
piede sull’aereo, l’atmosfera si fa più pesante e l’incertezza
iniziale lascia il posto a paura e paranoia. Ma proprio quando sul
velivolo si scatena l’inferno e Hostages inizia a
diventare un film davvero interessante e coinvolgente, di colpo
l’azione si interrompe lasciando di nuovo il posto alla staticità
iniziale. A non convincere inoltre, oltre all’approssimativa
sceneggiatura, sono i personaggi che non riescono, nemmeno nelle
scene più drammatiche, a suscitare empatia nello
spettatore.
La Festa del Cinema di Roma
2017, in collaborazione con Alice nella
città, presenta in anteprima mondiale Mazinga Z
Infinity, il nuovo film del robot gigante creato da Go
Nagai 45 anni fa e ancora amatissimo.
Proprio il maestro Nagai è arrivato
a Roma per raccontare il nuovo film e il futuro del
personaggio.
Qual è il rapporto di
Mazinga Z e di Go Nagai con l’Italia?
“Quando l’ho pensato, ho
indirizzato la mia creatura ai bambini giapponesi. Non immaginavo
assolutamente che avrebbe attraversato l’oceano e il mondo, quindi
il fatto che i temi scelti, questo robot, abbiano superato il mare
e siano arrivati fino a qui, mi rende molto felice.”
I temi del manga sono sempre
stati più duri e crudi di quelli dell’animazione, ma adesso questa
differenza è stata appianata. Oggi, Mazinga Z parla sempre ai
bambini o a un pubblico di adulti?
“Gli stessi protagonisti della
storia sono cresciuti e affrontano temi più complicati adesso, ma
l’assunto di base è sempre lo stesso, si combatte contro il male.
Resta completamente attuale.”
Il film racconta di un nuovo
inizio di Mazinga Z. È corretto interpretarlo in questi
termini?
“Per la prima volta una storia
di Mazinga Z non parte da un’ambientazione giapponese, quindi, sì,
c’è un’apertura, un nuovo inizio che speriamo possa dare nuovi
frutti. Sicuramente ci saranno nuove strade. Io ho sempre puntato
sul futuro e lo stile nuovo del nuovo personaggio preannuncia nuove
battaglie.
Il futuro sarà quello che porta
in direzione di un universo condiviso in cui si riuniscono le sue
creazioni e che dovrebbe ricalcare quello realizzato da Marvel al cinema.”
Il Dottor Inferno dice di
essere tornato perché gli umani, i politici sono stati incapaci di
gestire la pace. Il nuovo Mazinga Z riflette su questo
aspetto?
“Era importante che si parlasse
di valori condivisi. I protagonisti si riuniscono per avere uno
scopo, un obbiettivo comune. Era importante anche che i temi
trattati venissero attualizzati. Nella società moderna, la
diversità di pensiero può essere qualcosa di pericoloso, nel senso
che se non si ha uno scopo comune è difficile affrontare le
difficoltà.”
Come sta vivendo il nuovo
conservatorismo in Giappone?
“La situazione politica
giapponese va verso la chiusura, certo io non mi andrò ad esporre
per quello che penso in merito. Ma da persona sono preoccupato per
quelle che possono essere le relazioni con i Paesi che ci stanno
intorno, e vorrei che venisse data la priorità alla coesistenza
pacifica.”
Borg
McEnroe di Janus Metz Pedersen si è
aggiudicato il “Premio del Pubblico BNL” alla dodicesima edizione
della Festa del Cinema di Roma.
Borg McEnroe
arriverà nelle sale italiane giovedì 9 novembre, distribuito da
Lucky Red.
SINOSSI
Da una parte l’algido e composto
Bjorn Borg, dall’altra l’irascibile e sanguigno
John McEnroe. Il primo desideroso di confermarsi
re incontrastato del tennis, il secondo determinato a spodestarlo.
Svelando la loro vita fuori e dentro il campo, Borg
McEnroe è il ritratto avvincente, intimo ed emozionante di
due indiscussi protagonisti della storia del tennis e il racconto,
epico, di una finale diventata leggenda: quella di
Wimbledon 1980.
Borg McEnroe, recensione del film con Shia
LaBeouf
Il “Premio del Pubblico BNL”, in
collaborazione con il Main Partner della Festa del Cinema, BNL
Gruppo BNP Paribas, è stato assegnato dagli spettatori: utilizzando
myCicero, l’app ufficiale della Festa del Cinema “RomeFilmFest”
(realizzata da Pluservice), e attraverso il sito www.romacinemafest.org, il
pubblico ha espresso il proprio voto sui film in programma nella
Selezione Ufficiale.
Enrico Brignano e
Serena Rossi hanno sfilato sul tappeto rosso della
Festa del Cinema di Roma 2017 per presentare il nuovo
cortometraggio Disney, Frozen – Le Avventure di
Olaf, in cui tornano a prestare la voce ai personaggi
del pupazzo di neve Olaf e della Principessa Anna, ruoli già
interpretati per Frozen – Il Regno di
Ghiaccio.
Il cortometraggio arriverà al cinema
in testa a Coco, nuovo film Disney Pixar. Di
seguito le foto dal red carpet:
Con una giacca rossa come il logo
dell’Edicola Fiore, Fiorello è stato protagonista
di un incontro ravvicinato con il pubblico all’interno della Festa
del cinema di Roma 2017. Lo showman siciliano è stato il mattatore
indiscusso di grandi show di successo come Stasera Pago Io,
Stasera Pago Io – Revolution, Fiorello Show, Il
più grande spettacolo dopo il week-end.
In teatro l’abbiamo visto
recentemente in tour con lo spettacolo L’ora del Rosario. Da alcuni
anni sfrutta i social e i nuovi dispositivi ne la rassegna stampa
quotidiana L’Edicola Fiore e nel suo nuovo programma
nato per Facebook: Il socialista.
In occasione di questo incontro
ravvicinato tenuto in presenza del direttore della Festa del cinema
di Roma Antonio Monda, Fiorello ha parlato di
cinema senza risparmiare momenti di show.
Non guardo i film coreani che di
solito vincono a Venezia, tipo Il volo del calabrone. Io ho
iniziato con i film di Maciste che guardavo da bambino al cinema
Musmeci di Augusta vicino alla caserma in cui lavorava mio padre.
Mio padre, appuntato della Guardia di Finanza, mi portava al cinema
alle 16 e mi veniva a prendere alle 20.
foto di Aurora Leone
Monda, per
cominciare, ha chiesto a Fiorello di elencare i
suoi film preferiti. Si comincia con appunto un film di Maciste
intitolato Maciste Gladiatore di Sparta (1965)
diretto da Mario Caiano. Viene mostrata una
sequenza di un combattimento tra Maciste e una scimmia. Davanti
alla palese finzione Fiorello dichiara
Da bambino credi a tutto. Io
restavo affascinato anche dalla verosimiglianza dei massi di
polistirolo. Ero innamorato di tutto questo. C’era un grado di
recitazione pazzesco.
La sua classifica comprende poi
E Dio disse a Caino (1970) diretto da
Antonio Margheriti, Cinque dita di violenza (1972)
di Jeong Chang–hwa, La febbre del sabato
sera (1978) di John Bodham,
Incontri ravvicinati del terzo tipo (1978) di
Steven Spielberg e Che vita
da cani (1991) di Mel Brooks.
La seconda parte dell’incontro si è
incentrata sui film interpretati da Fiorello. Si
parte da Cartoni animati, film diretto dai
fratelli Citti.
Nel film si parla di barboni che
vivono appunto in cartoni. L’abbiamo girato a Fiumicino e
inevitabilmente passava un aereo ogni sette secondi. Gli attori
erano tutte persone prese dalla strada che dopo le riprese erano
irreperibili e per questo quando si è trattato di montare il film
ho dovuto doppiare quasi tutti i personaggi.
Si continua con il film Il
talento di Mr. Ripley, film del 1999 diretto da
Anthony Minghella. Di questo film è celebre la
scena in cui canta Tu vo’ fa l’americano con
Jude
Law e Matt
Damon.
In questo film mi chiamo Fausto
e questa scena in cui canto il grande successo di Renato Carosone è
stata scritta per me. Inoltre ho girato anche un’altra scena in cui
emerge il corpo senza vita di Stefania Rocca e io mi butto in acqua
in preda alla disperazione. Questa scena l’ho dovuta ripetere
trentasei volte perché dovevo arrivare perpendicolare a una barca
ma è stata tagliata in fase di montaggio.
Fiorello conclude con il film
Passione di e con John Turturro,
film del 2010 e con la rivelazione che in passato ha ricevuto una
proposta per il film del 2009 Nine, diretto da
Rob Marshall.
Quando mi hanno proposto il
ruolo mi hanno detto che la mia battuta era a pagina 121 del
copione. La cerco ma non vedo il mio nome scritto. Richiamo e mi
dicono di guardare meglio. Leggo la didascalia e scopro che io
facevo parte dell’arredamento. Ho rifiutato il ruolo. Mi avrebbe
solo rovinato le vacanze.
Il grande regista
visionario David Lynch ha partecipato alla
serata di chiusura della Festa del Cinema di Roma 2017,
protagonista di uno degli ultimi Incontri
Ravvicinati con il pubblico della kermesse romana.
Di seguito le foto dal tappeto
rosso del grande regista statunitense:
I grandi del cinema continuano
ad arrivare sul tappeto rosso del Festival di Roma
e oggi è stata la volta dell’attrice premio Oscar, Vanessa
Redgrave che ha presentato il suo primo lavoro da
regista.
Dopo aver conquistato il
pubblico dell’ultima edizione del Festival di
Cannes, il documentario Sea Sorrow arriva
anche in Italia e a presentarlo è la stessa regista, una Redgrave
particolarmente agguerrita. La sua opera prima tratta la difficile
questione dei migranti che ormai affligge non solo l’Europa ma il
mondo intero.
Ormai da anni migliaia di
persone, in fuga dalla guerra, hanno deciso di tentare il tutto per
tutto mettendosi nelle mani di scafisti senza scrupoli e di
attraversare le acque internazionali per cercare rifugio
altrove.
Il documentario di Vanessa
Redgrave, girato in più location in giro per il mondo, ci fornisce
un quadro molto ampio della questione migranti e degli aiuti
concreti forniti a queste popolazioni in fuga. Si parla di uomini,
donne, bambini, famiglie intere costrette ad affrontare l’ignoto e
a contare solo sulle proprie forze.
La Redgrave, oltre a mostrare
il grande lavoro dei volontari delle onlus, che offrono assistenza
a persone meno fortunate, accusa i governi di tutti i paesi
coinvolti, compresi quello italiano e inglese, di non fare
abbastanza per garantire a queste persone i naturali diritti
umani.
“Non voglio essere sgarbata ma
chiamare queste persone ‘migrante’ pare sia diventata una malattia,
soprattutto per i media. Chi muore nel mare inseguendo la vita e
non la guerra non può essere chiamato migrante. Queste non sono
persone che migrano, interessate a cambiare paese, a lasciare la
propria terra per andare a raccogliere uva o pomodori lontani da
casa […] E’ una parola che viene dalla destra, usata soprattutto
dai politici di destra ma i diritti umani sono sia della destra che
della sinistra […]
Ci sono persone comuni che
raccolgono fondi per i profughi e il governo invece non fa nulla
[…] Ricordo che Benedict Cumberbatch stava facendo Amleto e a fine
spettacolo chiese al pubblico di fare delle donazioni […] C’è chi
dice che il nostro sia un governo senza speranza ma questa
definizione è troppo gentile: i nostri politici sono ‘less than
nothing’ (meno di niente)”.
Fare della sua prima opera da
regista un documentario di denuncia politico-sociale, è stata per
Vanessa Redgrave una decisione tutto sommato molto
semplice. L’attrice ha raccontato infatti di aver vissuto sulla sua
stessa pelle, quando era appena una bambina, gli orrori della
guerra.
“Quando avevo quattro anni,
durante la guerra, ho iniziato a recitare non perché desiderassi
fare l’attrice ma perché volevo raccogliere soldi per le persone
meno fortunate di me. Il primo spettacolo l’ho fatto insieme a mio
fratello quando ero appena una bambina e gli spettatori erano solo
dodici […] ricordo che dimenticai le battute e dovemmo ricominciare
tutto daccapo […] Volevo a tutti i costi raccogliere soldi per
darli ai Marinai che ci portavano il cibo attraverso l’Atlantico
[…]”
Ma la Vanessa
Redgrave regista di Sea Sorrow non ha
dimenticato i suoi anni da attrice. Negli anni sessanta e settanta
infatti si ricordano alcune delle sue interpretazione più belle
come quella in Morgan, matto da
legare (1966), Giulia (1977) – film
grazie a cui ha vinto l’Oscar nel 1978 – e ovviamente in Blow-Up (1966) del
grande Michelangelo Antonioni.
“I sessanta sono stati per me
anni molto fortunati perché ho avuto l’onore di lavorare con grandi
registi ed attori ma il periodo storico non era dei migliori […]
Erano gli anni della guerra del Vietnam, delle rivolte studentesche
[…] anni di repressione e censura […] Ricordo che il governo
inglese in quegli anni vietò la pubblicazione del libro L’amante di Lady
Chatterley […] i gay era ritenuti dei fuorilegge e
venivano perseguitati […] Molto spesso mi sono unita ai soldati per
manifestare contro la guerra […] E’ giusto ricordare le cose belle
di quell’epoca ma bisogna ricordare anche quelle brutte: abbiamo
tutti bisogno di un promemoria al giorno d’oggi.
Quanto a Michelangelo
Antonioni, beh, lui per me era un Dio del cinema. Quando
ho saputo che lui mi voleva in un suo film ho subito pensato: ‘Oh
mio Dio, avrò un ruolo come quello di Monica Vitti’ […] Io volevo
essere proprio come lei, volevo diventare come Monica, bellissima e
bionda […] e invece Antonioni mi volle nera [ride]. Quando mi prese
per Blow-Up ricordo che venne a Londra e mi fece
andare in dieci diversi saloni perché nessuno dei parrucchieri
inglesi riusciva a capire lo styling che aveva scelto per me […]
Voleva dei capelli neri con delle strisce bianche ma nessun
parrucchiere riuscì ad accontentarlo così ci ha
rinunciato”.
Il successo li ha travolti con
Quasi Amici, ma
loro, Éric Toledano e Olivier
Nakache, non si sono montati la testa e, dopo una
breve incursione nel dramma, con Samba, nel
2014, hanno sfornato un nuovo film, vivace, divertentissimo, a
briglia sciolta: C’est la vie – Prendila come
viene, dal 1° Febbraio nei nostri cinema.
Max è un wedding
planner con una grande esperienza e una squadra variegata e
multietnica che però non sembra essere troppo all’altezza di un
ultimo, grande ricevimento. Un po’ per manifesta cialtroneria, un
po’ perché chiunque ha dei momenti difficili e non sempre riesce a
separare lavoro e vita privata, tutto il team saboterà
involontariamente la cerimonia di nozze, con grande amarezza del
protagonista. Tra gag e situazioni comiche intelligenti, la festa
volgerà a un finale inaspettato.
Toledano e Nakache
confermano un grande talento comico, arricchendo una storia
semplice con preziose gag, avvenimenti e dettagli che vivono
soprattutto grazie all’ottimo casting e ai personaggi messi in
scena in questa commedia pura.
Il più grande pregio di
C’est la vie – Prendila come viene è la completa
libertà della storia e dello sviluppo degli eventi: non siamo di
fronte a un finale educativo e socialmente impegnato come in
Quasi Amici, ma pur percorrendo la struttura
canonica in tre atti, il film trova il suo modo di rimanere
sovversivo e brioso.
E alla fine i protagonisti la
prenderanno davvero come viene, abbracciando le proprie
imperfezioni e difficoltà, con buona pace di Pier e Helena, sposi
ignari dei disastri che si consumano dietro le quinte della loro
festa di nozze.
Pur mantenendosi su binari
convenzionali, con molte trovate classiche, il film mantiene un
punto di vista originale, completamente comico nell’intreccio dei
rapporti tra persone e vicende: dalla madre dello sposo che si dà
alla pazza gioia, al cameriere che faceva il professore, fino
all’amante finta segreta del protagonista, passando per l’erede
dell’attività, la fumantina Adele.
C’est la vie – Prendila come
viene non ha una morale, una conclusione edificante, una
soluzione romantica: è esattamente come la vita, forse un po’ più
surreale, ma assolutamente in grado di spiegare il segreto di
un’esistenza serena, vero motto di Max. Se qualcosa non va come
dovrebbe, ci adeguiamo.
In una sala semi deserta è stato
presentato alla Festa del Cinema di Roma
Cuernacava di Alejandro Andrade, apprezzato
regista messicano di serie tv e documentari. Un film che forse
sarebbe stato più adatto ad Alice nella Città, piuttosto che nella
selezione ufficiale.
Andy è un ragazzo introverso che
vive solo con la madre. Non ha amici, il padre è lontano e fa
fatica a inserirsi nel contesto scolastico, a rapportarsi con
i suoi coetanei. Un giorno sua madre viene uccisa durante una
rapina e il ragazzo viene mandato temporaneamente dalla nonna, a
Cuernacava, una cittadina nel cuore del Messico,
tanto bella, quanto pericolosa.
Trovando un vecchio cellulare
comincia a cercare di contattare di nascosto il padre, visto che la
severa nonna sembra non volergli rivelare la verità su di lui.
Durante la sua permanenza forzata stringerà amicizia con la figlia
della donna, una ragazza down che alleva e cura ossessivamente
gatti. Stringe anche amicizia con un giovane giardiniere, che lo
porterà a perdersi nel suo stile di vita balordo.
Il film si apre con una
sequenza folgorante, dove un frutto polposo cade da un albero e
viene divorato dalle formiche. La ripresa al rallentatore
esasperato, di tipo scientifico, e l’utilizzo del macro per
riprendere i famelici insetti rendono questa introduzione la giusta
metafora di quanto poi verrà narrato nel corso della storia. Si
ritrovano poi altri momenti simili il più punti della pellicola,
che fanno da contrappunto di morte a quell’apparente bellezza, che
è in realtà solo una patina di superfice.
Alejandro Andrade
costruisce un impalcatura solida e funzionale, ma eccessivamente
fredda, che non riesce mai a coinvolgere e permettere di
empatizzare con il ragazzo protagonista, sicuramente molto bravo,
ma non abbastanza libero di giocare con quella gamma di sentimenti
che il suo personaggio richiederebbe. Anche la nonna, interpretata
da Carmen Maura, soffre dello stesso
limite. È sempre severa, trattenuta, senza lasciar trasparire
quel briciolo di fragilità di cui è invece carica. Sono scelte,
certo, e non si può dire che Cuernavaca non sia un
film ben scritto e ben diretto, ma si ha l’impressione che il
fattore estetico abbia preso il sopravvento sulle emozioni,
lasciando una straniante sensazione di distacco.
Le immagini, appunto,
sono bellissime, soprattutto quando descrivono la villa lussuosa
della nonna di Andy, la cucina nella serra dove viene preparata la
marmellata di frutti tropicali, o il giardino tropicale dove è
proibito andare e dove il ragazzo e il giardiniere si rifugiano,
entrando da una porticina nascosta tra la vegetazione. Viene
chiaramente in mente Il Giardino Segreto e con
tutta probabilità è un riferimento voluto. Anche quando il regista
esplora il lato degradato del luogo, fatto di baracche, luna park,
popolato di ladri, rapinatori e balordi, lo fa con eleganza e con
grandissimo gusto visivo.
Una classica storia di passaggio
dall’infanzia all’età adulta, attraverso il trauma della morte
violenta e improvvisa di una persona cara, ambientata in un
microcosmo apparentemente paradisiaco, che cela però dolori e
segreti. Un film costruito con eleganza, ma affetto da un eccessiva
freddezza che ne limita le grandi potenzialità.
Christoph Waltz è
il primo ospite internazionale della Festa di Roma
2017 a calcare il tappeto rosso dell’auditorium. Con
Antonio Monda, Waltz sarà il protagonista di un
incontro con il pubblico.