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Kraven – Il Cacciatore, recensione del film con Aaron Taylor-Johnson

Ultimo chiodo sulla bara del SSU (il Sony Spider-Man Universe) è stato affidato a Kraven – Il Cacciatore, in sala dall’11 dicembre e che vede protagonista Aaron Taylor-Johnson nell’antieroe/protagonista/villain/paladino della giustizia del titolo, un ruolo non meglio definito per un personaggio che nei fumetti è inequivocabilmente e splendidamente cattivo. Tra azione sanguinaria, performance altalenanti e una sceneggiatura che definire lacunosa è dire poco, il cacciatore perfetto arriva in sala ma finisce per essere l’unica vittima di un progetto perdente a monte. Perché se si vuole raccontare la nascita di un villain e se pure si vogliono trovare le ragioni della sua cattiveria nella sua Origin story, bisogna pur prendere una posizione e andare fino in fondo con la discesa nel lato oscuro del personaggio. Niente in tutto Kraven – Il Cacciatore ci fa pensare che Sergei possa mai diventare cattivo.

La storia di Kraven – Il Cacciatore

Il film si concentra sulla storia di Sergei Kravinoff, alias Kraven, interpretato da Aaron Taylor-Johnson, un uomo segnato dalla complessa e tormentata relazione con il padre spietato e ambizioso, Nikolai Kravinoff (Russell Crowe). Cresciuto sotto questa influenza, Sergei intraprende un cammino di vendetta che lo porterà a diventare il più grande cacciatore del mondo. La sua trasformazione in un predatore implacabile è scandita da eventi brutali e azioni che mettono in luce la sua natura bestiale. Almeno nelle intenzioni e nella (quella sì) splendida messa in scena dei movimenti ferini del personaggio.

Purtroppo, il film soffre di una scrittura goffa, talmente scombinata da risultare sorprendente per le svolte illogiche che prende la storia. Un peccato per Taylor-Johnson che offre una performance fisica notevole, nonostante sia sottoposto costantemente allo sguardo concupiscente della macchina da presa che non fa altro che inquadrarlo come un oggetto sexy, cosa che risulta oltremodo imbarazzante. Una cosa del genere, nel mondo dei cinecomics, non è mai avvenuta per una donna, con buona pace delle femministe che millantano film di supereroi con personaggi femminili oggettificati: il cinema di genere ha sempre reso i corpi maschili oggetti esposti allo sguardo (la schiera dei Chris della Marvel ne è un perfetto esempio).

Aaron Taylor-Johnson si difende come può

Certo Aaron Taylor-Johnson si difende come può, offrendo davvero una performance fisica accattivante, il che rende ancora più acuto il rammarico di averlo visto “sprecato” in un film in cui non può combattere contro il suo nemico naturale: Spider-Man. Non ci sono riferimenti diretti all’eroe anche se non si è resistito all’inserire nella storia una sequenza onirica in cui il più grande cacciatore di tutti i tempi fronteggia le sue paure, che, guarda caso, sono proprio dei ragnetti. L’attore è protagonista di un paio di sequenze d’azione ben congenite, segno che il regista J. C. Chandor non ha lasciato sempre guidar Neil pilota automatico ma che ogni tanto ha buttato un occhio in campo. Queste sequenze, insieme al citato protagonista e a Fred Hechinger, che nel film interpreta Dimitri, fratello minore di Sergei, costituiscono gli unici elementi di interesse in un film che sembra essere stato buttato via, senza interesse da parte di alcuno a realizzarlo con dignità.

Al disastro di Kraven – Il Cacciatore contribuisce anche, purtroppo, un doppiaggio italiano che trova nell’accento russo maccheronico di Russell Crowe il suo punto di maggiore imbarazzo, per non parlare del personaggio di Calipso, del premio Oscar Ariana De Bose, il cui irresistibile carisma sembra completamente sparire dietro a un personaggio insulso.

Non si può fare un film su un villain di Spider-Man senza Spider-Man

Non è possibile realizzare dei progetti convincenti se non si parte dalla storia, a maggior ragione se questa storia, di base, prevede uno scontro tra bene e male. Se si elimina una delle due componenti dall’equazione, la storia non sta in piedi ed è davvero complicato, a meno che non si opti per una soluzione à la Venom (un Buddy movie di serie B con un certo fascino), mettere insieme un film credibile. I villain di Spider-Man senza Spider-Man non sembrano avere senso di esistere, e così i film a loro dedicati. E no, non basta un divieto ai minori per rendere buono un film mediocre.

Cent’anni di solitudine è basata su una storia vera? Ecco tutto quello che sappiamo sulla serie Netflix

Netflix sta andando alla grande con i suoi adattamenti di fanzione. Certo, ha avuto la sua parte di successi e insuccessi quando si tratta di live-action, ma il catalogo continua a espandersi e a far crescere l’hype. Hanno trovato la salsa segreta per il successo, anche con qualche intoppo lungo la strada, e ora si stanno tuffando in uno degli adattamenti più interessanti di Cent’anni di solitudine. I topi di biblioteca potrebbero non aver bisogno di queste presentazioni, poiché il titolo è sufficiente a far salire l’attesa. 

Dolly Parton ha festeggiato il suo anniversario di matrimonio da McDonald’s

Per i non addetti ai lavori che si chiedono se questa storia sia basata sulla vita reale, ecco tutto quello che c’è da sapere sulla serie, la trama e molto altro ancora.

Cent’anni di solitudine su Netflix: Realtà o finzione?

Cent’anni di solitudine è un romanzo del 1967 di Gabriel García Marquez che racconta l’epopea della famiglia Buendía attraverso più generazioni. Al centro di questa storia c’è il patriarca della famiglia, José Arcadio Buendía, che ha fondato la città immaginaria di Macondo. Se da un lato offre una lente metaforica e critica sulla storia colombiana, dalle sue origini ai tempi moderni, dall’altro il libro è un brillante esempio di realismo magico, che intreccia il mito in una narrazione fittizia per riflettere gli eventi storici.

La serie prevede un totale di 16 episodi, divisi in due parti da otto episodi ciascuna. Netflix ha appena annunciato la data della prima parte, che debutterà l’11 dicembre 2024. Il progetto è co-diretto da Alex García López e Laura Mora, con la produzione curata dalla società colombiana Dynamo. Il team di sceneggiatori comprende José Rivera, Natalia Santa, Camila Brugés, María Camila Arias e Albatrós González.

Sebbene non sia basato su una storia vera, attinge a una storia straordinaria, rendendo il progetto una sfida emozionante per i registi.

I registi di Cent’anni di solitudine di Netflix raccontano la loro esperienza

Pablo Arellano—Netflix

Netflix può anche fare passi coraggiosi per aumentare la qualità dei suoi contenuti, ma quando si impegna a fondo in un progetto, è difficile non rimanere a bocca aperta. Alex García López ha recentemente condiviso con Netflix la sua esperienza alla regia degli episodi 1, 2, 3, 7 e 8 di Cent’anni di solitudine, descrivendo il processo come una “sfida e un’avventura”. Il suo obiettivo, ha sottolineato, era quello di creare qualcosa di autentico che fosse all’altezza della grandezza di una produzione internazionale.

Laura Mora, che ha diretto i restanti episodi, ha espresso un immenso orgoglio sia come regista che come colombiana, sottolineando il loro sforzo di onorare il materiale originale. La serie sarebbe stata girata interamente in Colombia, con il sostegno della famiglia di Gabriel García Marquez. Il cast comprende Claudio Cataño, Jerónimo Barón, Marco González, Leonardo Soto, Susana Morales, Ella Becerra, Carlos Suárez, Moreno Borja e Santiago Vásquez.

Willem Dafoe: intervista a uno dei protagonisti di Nosferatu di Robert Eggers

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Ecco la nostra intervista a Willem Dafoe, l’attore che interpreta il Professor Albin Eberhart Von Franz in Nosferatu, di Robert Eggers, che racconta di nuovo la fiaba oscura del Conte Orlock, come aveva fatto Murnau prima di lui, nel 1922, e Werner Herzog dopo, nel 1979.

Tutto quello che sappiamo su Nosferatu

Nosferatu è interpretato da Bill Skarsgård, che sostituisce il trucco da clown di Pennywise con le zanne affilate del Conte Orlock, nonché da Nicholas HoultAaron Taylor-JohnsonEmma Corrin e Lily-Rose Depp. Il film riunisce inoltre Eggers con Willem Dafoe, che ha interpretato in modo memorabile un ex marinaio irascibile in The Lighthouse e che è apparso anche nel precedente film del regista, The Northman. L’epopea vichinga vedeva protagonista il fratello di Skarsgård, Alexander Skarsgård, nel ruolo di un guerriero norreno con una massa grassa impressionante e addominali formidabilmente cesellati.

Nosferatu è basato sul capolavoro espressionista tedesco del 1922 diretto da F. W. Murnau – la realizzazione di quel film ha ispirato il film del 2000, completamente fittizio, L’ombra del vampiro, che ha visto protagonista Dafoe, candidato all’Oscar, nel ruolo di un succhiasangue realmente esistito, arruolato per interpretare il ruolo di Orlock. Qui l’attore interpreta invece un assassino di vampiri. Nosferatu è stato anche rifatto nel 1979 da Werner Herzog come Nosferatu il vampiro, con il suo frequente collaboratore Klaus KinskiNosferatu arriverà al cinema a partire dal 1 gennaio.

Secret Level: recensione della serie di Tim Miller

Secret Level, la nuova serie antologica animata di Prime Video, debutta il 10 dicembre con l’ambizioso obiettivo di omaggiare alcuni tra i videogiochi più iconici di sempre. Creata da Tim Miller (qui la nostra intervista) e prodotta dal suo Blur Studio, la serie porta in scena quindici racconti brevi, ognuno ambientato negli universi di franchise videoludici differenti, e vanta un cast stellare che include Arnold Schwarzenegger, Keanu Reeves, Temuera Morrison, e molti altri.

Secret Level propone un format familiare e un approccio variegato

Le serie antologiche si distinguono per la loro natura episodica: ogni puntata rappresenta una storia autonoma con narrazione verticale. Secret Level segue questa formula, proponendo episodi che spaziano tra generi e atmosfere, da fantasy a fantascienza, da azione ad horror, offrendo una celebrazione della varietà del medium videoludico. Tra gli universi rappresentati, troviamo Dungeons & Dragons, Warhammer 40K, Unreal Tournament, e persino un’interpretazione sorprendente e inquietante di Pac-Man. Tutto sotto la guida di Tim Miller, che ha selezionato e scelto personalmente gli universi da visitare, e affidando ognuno di essi a un gruppo di lavoro diverso e ricco di voci e punti di vista differenti.

Ciascun episodio riflette lo spirito del gioco di riferimento, grazie alla capacità del team di Miller di adattarsi alle specificità di ogni IP. Tuttavia, questa varietà è talvolta limitata da narrazioni troppo semplici e talvolta ripetitive, nel caso in cui si dovesse scegliere di fruire la serie in binge watching. La durata breve degli episodi (tra 10 e 30 minuti) non sempre consente di sviluppare trame complesse, e molte puntate si limitano a esplorare un’idea centrale senza andare oltre. Tuttavia questa carenza drammaturgica viene spesso equilibrata da uno sforzo tecnico ulteriore che arricchisce l’episodio e lo rende un’esperienza visiva impareggiabile. L’esempio perfetto è il segmento dedicato a Sifu: la breve storia ricalca il gioco originale, senza aggiungere nuove prospettive, ma visivamente presenta delle animazioni mozzafiato e una regia ricercata che fa invidia a buona parte degli action in circolazione.

L’eccellenza visiva di Blur Studio

Sul piano tecnico, Secret Level mostra tutta l’expertise di Blur Studio nella CGI. La maggior parte degli episodi utilizza animazione 3D classica, optando per il fotorealismo in diversi casi, sempre a seconda del mondo che si mette in scena. La scelta stilistica appare più cauta rispetto al precedente lavoro di Blur, Love, Death & Robots, che si spingeva più in là dal punto di vista della sperimentazione. E infatti, nei casi in cui Secret Level osa, i risultati sono notevoli: il riferimento è agli episodi dedicati a Pac-Man e Spelunky, in cui drammaturgia e linguaggio fanno un passo avanti per sviluppare la PI di partenza.

La regia, comunque, è efficace nel catturare momenti spettacolari e coreografie di combattimento mozzafiato. Le puntate con una concezione dell’azione più classica, come quelle ispirate a Unreal Tournament e Warhammer 40K, offrono un’esperienza visivamente appagante, grazie a sequenze fluide e dinamiche.

Secret Level vanta un cast stellare

Uno degli aspetti più pubblicizzati di Secret Level è il suo cast di voci, che include nomi di grande richiamo. Arnold Schwarzenegger, Keanu Reeves, Gabriel Luna sono solo alcune delle star che contribuiscono a dare vita ai personaggi della serie. Le performance sono generalmente convincenti, con momenti di spicco come la recitazione intensa di Ricky Whittle e Claudia Doumit in Crossfire. Certo, si tratta pur sempre di ruoli piccoli, quasi comparse, ma ogni dettaglio contribuisce a rendere ogni episodio un piccolo gioiello, un viaggio in un mondo affascinante che, in ogni caso, ci sembra di conoscere e che poi si rivela anche altro.

Un mosaico di proprietà intellettuali di diverso “livello”

Un aspetto molto interessante del progetto è come si è lavorato sulle diverse proprietà intellettuali a cui Miller ha avuto accesso. Secret Level sfrutta non solo titoli leggendari come Dungeons & Dragons e Warhammer 40K, ma anche franchise meno noti o che necessitano di promozione, come New World di Amazon Gaming o il cancellato Concord. Questa scelta da una parte potrebbe generare meno interesse verso gli episodi di universi più “deboli”, dall’altro però permette una maggiore libertà e creatività laddove i franchise scomodati sono meno canonizzati nelle menti degli spettatori. Il risultato è un’esperienza sempre stimolante e fresca.

Un atto d’amore verso i videogiochi

Secret Level è una serie ambiziosa che celebra il mondo dei videogiochi, e che si ingegna per sfruttare sempre al massimo il potenziale di quello che si sceglie di raccontare. Una seconda stagione potrebbe senza dubbio però spingere di più l’acceleratore sui limiti narrativi dei singoli episodi, rendendo lo show un’esperienza ancora più stimolante per lo spettatore. La serie rappresenta un punto di partenza solido, in cui si manifesta una forte volontà di sperimentazione che in questo periodo di ripetitività tecnica è un’oasi preziosa e da valorizzare.

L’Amica Geniale – Storia della bambina perduta: recensione del finale di stagione e di serie

Volge al termine, con due episodi dolorosi e liberatori, la quarta e ultima stagione dell’adattamento della tetralogia scritta da Elena Ferrante e lette (e guardata) in tutto il mondo, L’Amica Geniale: Storia della bambina perduta. Gli ultimi due episodi”La Scomparsa” e “La Restituzione”, chiudono chiudono un quarto ciclo che, pur mantenendo alcuni dei temi centrali del romanzo, si discosta significativamente nella narrazione e nello sviluppo dei personaggi. Questo distacco, se da un lato apre nuove possibilità interpretative, dall’altro mina la coerenza emotiva e stilistica che ha caratterizzato l’opera letteraria, lasciando spesso un senso di incompiutezza.

La Scomparsa, il punto di non ritorno

Il titolo di questo quarto romanzo (e della rispettiva serie) dovrebbe aver messo gli spettatori condizione di non rimanere troppo sorpresi di fronte alla svolta drammatica che questo episodio porta al finale della serie. “La Scomparsa” si concentra su un evento tragico: la sparizione di Tina, la figlia di Lila e Enzo, che segna un punto di non ritorno per tutti i protagonisti. L’episodio inizia con una serie di tensioni familiari: la piccola Emma comincia a sentire con forza l’esigenza di avere anche lei una figura paterna, e Nino come da aspettativa non eccelle nell’essere presente per la figlia. Tuttavia, riesce a trovare il tempo di fare visita alla bambina al rione, in occasione del mercato domenicale. Mentre Lila tiene Imma in braccio e conversa rapita con Nino, Tina scompare. La bimba non si trova più: le ricerche si intensificano, ma si rivelano vane, lasciando un vuoto devastante. Che fine ha fatto la piccola e brillante Tina? 

L’episodio è così devastante per tutti i personaggi coinvolti che sembra che da quel momento le tragedie e i dolori non possano fare altro che aumentare. Gennaro, il fratello di Lila, viene trovato morto, sopraffatto dalla droga; Generino, il primogenito di Lila, anche lui preda della dipendenza, ripudia suo padre Stefano, ridotto all’ombra di se stesso, e rende complicatissima la vita della madre e di Enzo, ormai vero e proprio padre adottivo del giovane. Intanto Lila è quello che più di tutti subisce le devastanti conseguenze della scomparsa della bimba: convinta che Tina sia ancora viva, cede in una spirale di follia. Il monologo immaginato da Lenù, che tenta di ricostruire il pensiero di un’amica ormai irraggiungibile, è un tocco narrativo interessante ma poco incisivo. La serie sembra più interessata a raccontare il lento disfacimento della comunità che a soffermarsi sulle implicazioni psicologiche che non siano teatrali.

La vicinanza di Elena diventa salvifica per Lila, la mantiene ancorata alla realtà, ma l’omicidio dei fratelli Solara renderà l’ambiente del rione sempre più pericoloso e tossico per la donna che, con tre figlie, cercherà di mettersi al riparo da quella violenza, una volta per tutte.

La Restituzione (di Tina e Nu)

Arrivati all’ultimo episodio di L’Amica Geniale: Storia della bambina perduta, ci troviamo di fronte a una serie di scelte narrative che movimentano l’addio alla storia e allo stesso tempo ne viziano l’elegante fissità che aveva fatto dell’ultimo romanzo della tetralogia un piccolo capolavoro di riflessione sull’esistenza, sui dolori e le perdite, soprattutto sul tempo che passa e sui sentimenti, gli affetti che restano, pur nelle loro storture. Ebbene, per l’adattamento di un romanzo così potente si è pensato bene di abbassare il tono e di aggiungere alla storia svolte da soap opera che confondono le acque e il racconto dei personaggi. Nel decimo episodio torna alla ribalta Pasquale, che viene arrestato per aver assassinato Michele e Marcello Solara.

Parte dell’episodio è dedicato ai tentativi di Lenù di intercedere per lui tramite le conoscenze politiche di Nino, il quale, neanche a dirlo, si rivela poco utile. Più avanti nella storia, sembra che Generino e Dede, primogenita di Elena, si innamorino, tuttavia scopriamo poi che il figlio di Lila scapperà di casa con Elsa, la secondogenita di Lenù, una svolta del tutto inaspettata, sia per la madre in pena, che per gli spettatori a dir poco sorpresi. Elena parte allora con Enzo per recuperare i ragazzi a Bologna, ma scopre che sono dalla nonna. Questa importante deviazione rispetto al materiale originale da una parte genera perplessità, soprattutto per la superficialità con cui viene trattata sia la vicenda di Pasquale (lui, a differenza degli altri interpreti, non è “cresciuto” avendo sempre il volto di Eduardo Scarpetta) che quella di Gennarino e Elsa, dall’altra dà finalmente la possibilità a Enzo di emergere, con un toccante monologo che Pio Stellaccio ci regala con una grande autenticità e commozione.

L’addio al rione, che segue queste sgangherate vicende, è un momento cruciale per Lenù, come si può ben intuire, tuttavia anch’esso è poco valorizzato. Addirittura l’ultimo saluto tra lei e Lila appare freddo e convenzionale, due caratteristiche che non hanno niente a che vedere con nessuno dei due personaggi. Elena parte quindi per Torino, mentre le sue figlie maggiori prendono strade diverse: Dede va a New York dal padre, seguita anni dopo da Elsa, mentre Enzo, che capisce che non ha più un posto accanto a Lila, si trasferisce a Milano. Nino, nel frattempo, viene arrestato, per lui un epilogo che appare affrettato, ma che comunque ci regala una certa soddisfazione, qualunque siano le ragioni dell’arresto, che non vengono condivise.

L’ultima sequenza, ci riporta lì dove tutto era cominciato: un’anziana Elena viene svegliata dalla telefonata di Gennarino, spaventato perché da 48 ore “mammà non s’ trov’”. Lila decide così di sparire, disfarsi nel nulla, portando con sé tutte le fotografie, gli oggetti personali, tutto ciò che testimonia il suo passaggio nel mondo, sparisce per unirsi alla sua Tina, mai dimenticata, lasciando dietro di sé soltanto un figlio smarrito, e una vaga perplessità nella mente della sua amica. Alla quale però dedica il suo ultimo pensiero, prima di dissolversi: rientrando a casa, un giorno, Elena trova nella cassetta della posta Tina e Nu, le bambole di pezza che avevano perso da bambine.

L’Amica Geniale – Storia della bambina perduta perduta rinuncia alla poesia in favore della televisione

Con un adattamento poco fedele principalmente nello spirito del racconto, la quarta stagione de L’Amica Geniale chiude in anti-climax una delle serie che a ragione verranno ricordate come uno dei migliori prodotti televisivi della produzione italiana. E nonostante questo, la quarta stagione è senza dubbio il momento più basso di questa trasposizione quasi sempre elegante e preziosa. La tendenza constante di questo quarto ciclo è stata quella di operare un abbassamento di tono costante, una trivializzazione del materiale di partenza che, come dote principale aveva quella di rendere alti e poetici anche i discorsi più volgari e carnali. Probabilmente perché la scrittura consente l’utilizzo di metafore e sottintesi che la serie, come linguaggio di comunicazione, pretende di mostrare con le immagini. La serie perde quella capacità di Ferrante di rendere sublimi anche gli eventi più violenti, sporchi e quotidiani, scadendo talvolta in una rappresentazione ruvida che suscita più ilarità che empatia.

Ma non è solo un “problema” di tono: i personaggi secondari, in particolare Generino, le figlie di Elena e Alfonso, sono trattati con superficialità, preferendo il cliché all’approfondimento psicologico, un difetto che si riscontra esclusivamente nelle scelte di scrittura, e non nelle interpretazioni degli attori che rimangono uno dei punti forti della serie, con la sola eccezione di Alba Rohrwacher, quasi condannata a una Elena che proprio non le calza. Nonostante questa forzatura, è lei la vera protagonista della serie, non solo voce narrante ma anche punto di vista dal quale percepiamo tutto e tutti, mentre il personaggio di Lila, interpretato splendidamente da Irene Maiorino, rimane un personaggio secondario, letto attraverso il filtro dell’amica e mai (più) centro vivo, selvaggio e propulsivo dell’azione.

Il potenziale emotivo dell’opera viene solo parzialmente sfruttato, rendendo questi ultimi episodi un’occasione mancata per onorare appieno il capolavoro letterario da cui traggono origine.

Scissione: trailer della seconda stagione dal 17 gennaio 2025 su Apple TV+

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Ieri dal Thunder Stage del CCXP24 di San Paolo, Brasile, Apple TV+ ha presentato il trailer dell’attesissima seconda stagione di Scissione, con il creatore, scrittore e produttore esecutivo della serie Dan Erickson, il protagonista e produttore esecutivo Adam Scott e le star Britt Lower e Tramell Tillman che si sono uniti ai fan per condividere un’esclusiva anticipazione di ciò che ci aspetta per gli innies e gli outies delle Lumon Industries. La seconda stagione di Scissione, composta da 10 episodi, farà il suo debutto su Apple TV+ il 17 gennaio 2025 con il primo episodio seguito da nuove puntate ogni venerdì fino al 21 marzo.

Il thriller ambientato sul posto di lavoro acclamato dalla critica e vincitrice di un Emmy e di un Peabody Award, è ideato dal produttore esecutivo e regista Ben Stiller ed è interpretato dal candidato all’Emmy Adam Scott, Britt Lower, Tramell Tillman, Zach Cherry, Jen Tullock, Michael Chernus, Dichen Lachman, il vincitore dell’Emmy John Turturro, il premio Oscar Christopher Walken e la vincitrice dell’Oscar e dell’Emmy Patricia Arquette e dà il benvenuto nella seconda stagione ai nuovi series regular Sarah Bock e Ólafur Darri Ólafsson.

La trama della seconda stagione di Scissione

In Scissione Mark Scout (Adam Scott) guida un team di lavoro della Lumon Industries i cui dipendenti sono stati sottoposti a una procedura di scissione, che divide chirurgicamente i loro ricordi professionali da quelli personali. Questo audace esperimento di “equilibrio tra lavoro e vita privata” viene messo in discussione quando Mark si ritrova al centro di un mistero da svelare che lo costringerà a confrontarsi con la vera natura del suo lavoro… e di se stesso. Nella seconda stagione, Mark e i suoi amici scoprono le terribili conseguenze derivanti dall’aver giocato con la barriera della separazione, che li trascinerà ulteriormente lungo un percorso di guai e dolore.

“Scissione” è prodotta esecutivamente da Ben Stiller, che dirige anche cinque episodi della nuova stagione, alternandosi alla regia con Uta Bresiewitz, Sam Donovan e Jessica Lee Gagné. La serie è scritta, creata e prodotta esecutivamente da Dan Erickson. La seconda stagione è prodotta anche da John Lesher, Jackie Cohn, Mark Friedman, Beau Willimon, Jordan Tappis, Sam Donovan, Caroline Baron, Richard Schwartz, Nicholas Weinstock. Oltre a essere protagonisti, Adam Scott e Patricia Arquette sono anche produttori esecutivi. Fifth Season è lo studio.

La prima stagione completa di Scissione, disponibile in streaming su Apple TV+, è stata acclamata dal pubblico e dalla critica internazionale e, oltre a vincere gli AFI Awards, ha ottenuto 14 nomination agli Emmy, tra cui Outstanding Drama Series, Outstanding Directing for a Drama Series (Ben Stiller), Outstanding Lead Actor in a Drama Series (Adam Scott) e Outstanding Writing for a Drama Series, aggiudicandosi i premi nelle categorie Outstanding Music Composition for a Series e Outstanding Main Title Design. La serie ha ottenuto anche due Writers Guild of America Awards come Miglior nuova serie e Miglior serie drammatica, oltre a due nomination agli Screen Actors Guild Awards e una nomination ai Producers Guild e ai Directors Guild Awards.

Il treno dei bambini, la spiegazione del finale: Cosa succede al violino di Amerigo?

Il treno dei bambini (la nostra recensione) di Netflix è il film italiano emotivamente avvincente che racconta una storia fondamentale dell’Unità d’Italia negli anni ’40. Il bambino Amerigo cresce a Napoli dopo la seconda guerra mondiale, mentre la città soffre la povertà e la fame. Amerigo, otto anni, cresce a Napoli dopo la Seconda Guerra Mondiale, mentre la città soffre di povertà e fame. Tuttavia, una prospettiva brillante si presenta quando ai genitori viene offerta l’opportunità di mandare i figli a Modena, dove una nuova famiglia si prenderà cura di loro per alcuni mesi. Per questo, nonostante la difficoltà di dire addio a suo figlio, Antonietta fa salire Amerigo sui Treni della Felicità per condurlo verso un futuro più luminoso.

Amerigo passa così sotto le cure di Derna e della sua famiglia, scoprendo una nuova prospettiva di vita. Alla fine, quando si avvicina il momento di lasciare il Nord e tornare a Napoli, Amerigo si trova di fronte a una scelta impossibile. L’avventura che Amerigo intraprende può sembrare sottovalutata, ma definisce la traiettoria della sua vita in modi sfumati e sottili! SPOILER IN ARRIVO.

La trama del film Il treno dei bambini

Con la fine della Seconda Guerra Mondiale si conclude anche il bombardamento di Napoli. Tuttavia, ciò non pone fine alla povertà che affligge molte città del Sud Italia. Di conseguenza, Antonietta, una madre single in difficoltà, pensa di iscrivere suo figlio, Amerigo, all’iniziativa del Partito Comunista “Treni della felicità”. Tuttavia, molti dei suoi vicini credono che i comunisti del Nord vogliano sfruttare i loro figli – o peggio, mangiarli vivi. Tuttavia, lei – e molti altri genitori come lei – riconoscono che i loro figli possono trovare un futuro migliore lontano dalle loro fatiscenti città d’origine. Per questo motivo, Amerigo e molti dei suoi coetanei salgono sul treno che parte da Napoli quando è il momento.

Sul treno, i ragazzi ricevono vestiti caldi e molti gettano i loro cappotti alle famiglie sulla banchina, sapendo che ne hanno più bisogno. Il viaggio dura tutta la notte prima di arrivare finalmente a Modena. All’arrivo, i bambini sono inizialmente scettici nei confronti del cibo della mensa, perché non conoscono molti dei ricchi sapori disponibili. Tuttavia, la loro stanchezza svanisce presto. In seguito, Amerigo osserva che tutti vengono adottati dall’ufficio, uno dopo l’altro, ciascuno da una coppia o da una famiglia. Quando rimane solo, uno dei membri del gruppo, Derna Benvenuti, che non ha intenzione di adottare un bambino, accetta a malincuore di portarlo con sé.

Derna è una donna gentile che offre ad Amerigo una stanza, del buon cibo e dei vestiti di seconda mano. Tuttavia, non crede di avere un istinto genitoriale naturale. Il ragazzo è cresciuto con una madre che faticava a mostrare affetto, il che lo fa stare perfettamente al fianco della sua nuova tutrice. Allo stesso modo, quando incontra la famiglia allargata di lei – il fratello Alcide e i nipoti Revu, Lution e Nary – col tempo riesce a legare con loro. Il primo, che di mestiere fa il falegname, gli dà persino lezioni di violino quando il ragazzo dimostra una certa inclinazione per questa forma d’arte. Riesce anche a frequentare la scuola, un’opportunità che in precedenza gli era stata negata a causa della situazione della sua famiglia. Sebbene all’inizio abbia difficoltà a inserirsi, con il passare del tempo impara a destreggiarsi nella sua nuova vita.

Il rapporto genitori-figli tra Amerigo e Derna migliora e i due si avvicinano. In poco tempo, Amerigo diventa una presenza costante nella famiglia Benvenuti. Tuttavia, troppo presto, l’inverno passa e i raccolti ingialliscono, segnalando il momento in cui Amerigo e gli altri bambini devono tornare alle loro case. Derna prepara le valigie del ragazzo con cibo e vestiti e il violino che Alcide gli ha regalato per il suo compleanno. È un addio amaro, ma si promettono di incontrarsi di nuovo in futuro e di scambiarsi lettere. Tuttavia, una volta che Amerigo torna a casa da Antonietta, non arrivano lettere indirizzate a suo nome. Peggio ancora, i modi pessimistici della madre sembrano essere uno shock dopo il periodo trascorso al Nord.

Antonietta si aspetta che Amerigo dimentichi il periodo trascorso con i Benvenutis, compresa la sua educazione e i suoi sogni musicali. Vuole invece che il figlio impari un mestiere per mantenere la famiglia a galla. Passano mesi prima che il ragazzo si rechi personalmente all’ufficio del Partito Comunista, per poi rendersi conto che Derna gli ha inviato lettere e pacchi per tutto questo tempo. Di conseguenza, scopre che la madre gli ha mentito per un po’ per tenerlo lontano dalla sua nuova famiglia del Nord.

Il finale de Il treno dei bambini: Perché la madre di Amerigo mente sulle lettere di Derna?

Il ritorno a casa di Amerigo è destinato ad essere triste. I mesi che il ragazzo trascorre a Modena con Derna lo introducono in un mondo di nuove possibilità. Dalle opportunità educative alla scoperta della sua passione per la musica, si rende conto che il suo futuro ha molte più potenzialità di quanto avesse immaginato. Tuttavia, se la separazione dai Benvenutis è difficile, il ricongiungimento di Amerigo con la madre lo è ancora di più. Fin dall’inizio, Antonietta sembra quasi fredda e distaccata nei confronti delle esperienze del figlio nella città del Nord. Si allontana quando lui cerca di condividere il cibo confezionato di Derna e gli proibisce di perseguire i suoi sogni musicali. Anzi, gli sottrae il violino di Amerigo e lo ripone sotto il letto singolo del loro appartamento fatiscente.

In seguito, Antonietta spinge Amerigo a imparare il mestiere di calzolaio per iniziare a guadagnare e portare soldi a casa. Inizialmente, il ragazzo si arrabbia con la madre che lo tratta male. Tuttavia, l’anziana vicina cerca di fargli capire che la madre non ha mai imparato a dimostrare affetto perché non l’ha mai ricevuto da bambina. Tuttavia, Amerigo non può fare a meno di sentirsi soffocato dal suo perenne pessimismo. La sua situazione è aggravata dalla continua ignoranza di Derna e della sua famiglia sul suo benessere. Mentre gli altri ragazzi del Treno della Felicità ricevono regali e lettere dalle loro famiglie del Nord, Amerigo rimane privo di tali gesti. Per lo stesso motivo, crede che Derna si sia già dimenticata di lui.

Tuttavia, alla fine di Il treno dei bambini le cose si fermano. Anche se Amerigo resta lontano dalla musica per mesi, l’artista affamato che è in lui lo spinge a cercarla mesi dopo. Tuttavia, con sua grande sorpresa e orrore, il suo violino sembra essere scomparso dall’appartamento. Questo spinge il ragazzo a cercare il membro del partito comunitario che ha facilitato il suo viaggio a Modena. Di conseguenza, si rende conto che gli uffici hanno decine di lettere che i Benvenutis gli hanno inviato. Tuttavia, dopo che l’ufficio ha contattato Antonietta a questo proposito, lei ha scelto di tenerle nascoste al figlio.

Antonietta si è probabilmente sentita insicura del suo posto nella vita di Amerigo dopo il suo ritorno dal Nord. Sa di non poter dare al ragazzo le opportunità che avrebbe avuto con Derna e gli altri. La madre vuole nascondere l’intera vicenda sotto il tappeto nel tentativo di tornare alla loro vecchia vita. Per lo stesso motivo, mente ad Amerigo sulle lettere. Dopo la morte dell’altro figlio, Luigi, e l’abbandono del marito, Amerigo è l’unica persona cara che le è rimasta. Pertanto, teme di perderlo per affidarlo a un’altra famiglia che possa dargli una vita migliore. Pertanto, conclude che l’unico modo per evitare che ciò accada è tagliare i suoi legami con Derna.

Amerigo torna a Derna?

Le azioni di Antonietta derivano dalla sua situazione avversa, dalle sue esperienze passate e dalle sue insicurezze. Tuttavia, non per questo fanno meno male ad Amerigo. La vita del ragazzo è stata stravolta più volte negli ultimi mesi. Eppure, si affida sempre all’amore della madre. Anche quando è a Modena, si aggrappa alla singola mela che la madre gli ha dato alla stazione ferroviaria come eterna fonte di conforto. Per questo motivo, è ferito e confuso quando la madre lo maltratta al suo ritorno. Antonietta ama suo figlio, ma i mesi trascorsi lontani hanno creato un cuneo tra loro. Si è persa alcune parti fondamentali del suo sviluppo e si rifiuta di recuperare. Vuole costringere Amerigo a tornare al suo passato, senza curarsi del dolore che questo sentimento gli provoca.

Alla fine di Il treno dei bambini, la goccia che fa traboccare il vaso arriva quando Antonietta ammette di aver impegnato il violino di Amerigo per denaro. L’azione è un tradimento insormontabile per il ragazzo, che ha difficoltà a perdonare la madre per aver mentito sulle lettere di Derna. Mentendogli e agendo alle sue spalle, Antonietta rompe la fiducia di Amerigo in modi che non possono essere riparati. E fa un ulteriore passo avanti schiaffeggiando il ragazzo quando lui la accusa di essere una bugiarda. In precedenza, Amerigo aveva detto a Derna che non avrebbe mai accettato uno schiaffo e si rifiuta di farlo anche questa volta.

La notte seguente, mentre Antonietta dorme, Amerigo si mette i vestiti e le scarpe e si lascia alle spalle la sua vecchia vita. Il mattino dopo, sale su un treno per Modena e individua la casa di Derna attraverso l’indirizzo di ritorno delle sue lettere. Derna, che non ha notizie del ragazzo da mesi, è sorpresa di vederlo ma lo accoglie a braccia aperte. Anche se in passato non si era mai considerata una figura materna, la presenza di Amerigo nella sua vita le conferisce un nuovo senso di sé. Di conseguenza, il ragazzo abbandona la sua vita a Napoli e ne adotta una nuova con i Benvenutis, dove può inseguire i suoi veri sogni. Alla fine, con il passare degli anni, diventa un celebre violinista, che si esibisce in concerti per sale piene di fan.

Antonietta vende il violino di Amerigo?

Dopo aver lasciato Napoli, in Il treno dei bambini Amerigo conclude un capitolo particolare della sua vita. Ciò diventa evidente durante il viaggio in treno verso Modena, quando racconta a un compagno di viaggio che sua madre è morta e che ora andrà a vivere con sua zia. La decisione di lasciare la casa della sua infanzia è una decisione importante, soprattutto per un giovane come Amerigo. Per lo stesso motivo, deve compartimentare il suo dolore per affrontarlo senza soccombere. Tuttavia, mentre questo lo aiuta ad arrivare all’età adulta, il passato torna a bussare alla sua porta. Nel 1994, quando Amerigo è un violinista di successo sulla cinquantina, riceve una telefonata per la morte di Antonietta.

Anche se Amerigo va avanti con il suo concerto sulla scia di questa notizia, il ricordo di Antonietta si blocca nella sua testa da quel momento in poi. Di conseguenza, non ha altra scelta che tornare a Napoli, occuparsi degli affari della madre e trovare una sorta di chiusura per se stesso. Di conseguenza, trova la custodia del suo vecchio violino infilata sotto il letto della madre. Si scopre che, negli anni trascorsi dalla partenza di Amerigo, la madre ha saldato il debito del violino in modo che un giorno potesse ricongiungersi al suo proprietario. Inoltre, ha lasciato una lettera nella custodia.

Nella lettera, Antonietta dice ad Amerigo che sapeva che era scappato a Modena quel fatidico giorno. Dopo il suo arrivo, Derna scrisse ad Antonietta per informarla della sorte del figlio. A sua volta, la madre disse all’altra donna di tenere Amerigo se lo voleva. Antonietta avrebbe potuto tentare di riavere il figlio, ma ha scelto di non farlo, rispettando la sua decisione. La lettera chiarisce che sapeva che Amerigo preferiva una vita lontana dal suo dolore e che non poteva dargli una vita ideale. Quindi, nonostante il dolore che le ha causato, è evidente che la madre di Amerigo lo amava abbastanza da lasciarlo andare.

Il treno dei bambini, la storia vera dietro al film: Amerigo Benvenuti è un vero violinista?

Il film di Netflix Il treno dei bambini trasporta gli spettatori in un periodo di crisi della storia italiana e racconta una storia edificante sull’unità di fronte alle avversità. Originariamente noto come Il treno dei bambini (la nostra recensione), il film storico ruota attorno ad Amerigo, un bambino di 8 anni che vive con la sua povera madre, Antonietta, nelle strade piene di conflitti della Napoli del dopoguerra. Per questo motivo, la madre lo iscrive al programma congiunto dell’Unione Donne Italiane e del Partito Comunista Italiano, che prevede il riaccoglimento momentaneo dei bambini del Sud presso le famiglie più ricche del Nord. Di conseguenza, Amerigo sale sul Treno della Felicità e arriva alle porte di Derna.

Nel corso dell’inverno, i due formano una propria famiglia che finisce per cambiare le loro vite per sempre. Questo film diretto da Cristina Comencini, traccia una storia commovente sulla famiglia e allo stesso tempo condivide la verità di un periodo epocale della storia italiana del secondo dopoguerra. Naturalmente, l’ambientazione del film negli anni ’40 sottolinea il viaggio di Amerigo e suscita curiosità per le affascinanti radici della storia nella realtà.

Il treno dei bambini è tratto dal romanzo storico di Viola Ardone

Il treno dei bambini è un adattamento per lo schermo dell’omonimo libro di narrativa storica del 2019, scritto da Viola Ardone con Clarissa Botsford come traduttrice per la traduzione inglese. La narrazione sullo schermo mantiene una base significativa nel romanzo, in quanto adatta la narrazione centrale dell’opera letteraria intorno ad Amerigo e al suo viaggio in treno. Anche se una certa dose di romanzatura permane intorno alla storia sia nelle istanze letterarie che in quelle cinematografiche, la premessa di base rimane radicata nella realtà.

Nel suo libro, Ardone affronta la storia di un giovane napoletano che cresce nell’immediato dopoguerra. Di conseguenza, i Treni Della Felicità, un’iniziativa reale intrapresa dal Partito Comunista Italiano e dall’Unione Donne Italiane tra il 1945 e il 1952, diventano una parte strumentale dell’infanzia del protagonista. All’epoca, l’Italia appena liberata era concentrata sulla ricostruzione dei suoi problemi economici e sociali. Tuttavia, Teresa Noce, dirigente del Partito Comunista Italiano di Milano, riconobbe le difficoltà dei bambini del Sud Italia, dove i postumi della guerra si manifestavano con un aumento della fame.

Di conseguenza, Noce collaborò con le donne del Partito Comunista di Reggio Emilia, città del Nord Italia, per istituire un programma in cui le famiglie del Nord avrebbero accolto i bambini del Sud per ospitarli per alcuni mesi. Questo ha portato alla formazione dell’Unione Donne Italiane e del programma Treni della Felicità. Il romanzo di Ardone mette al centro del suo racconto questa stessa iniziativa reale del dopoguerra, raccontando la storia di un bambino partecipante. Sebbene i dettagli narrativi che seguono rimangano inventati, cementando il romanzo come un’opera di finzione storica, il nucleo della storia è immerso nella storia reale dell’Italia.

Il treno dei bambini esplora la realtà dei treni della felicità

Poiché Il treno dei bambini è incentrato sulle esperienze di Amerigo come partecipante al programma Treni della felicità nel 1946, la storia finisce inevitabilmente per presentare una rappresentazione realistica del paesaggio sociale dell’epoca. Dopo la guerra, persistevano alcune differenze tra il Nord e il Sud Italia. La mancanza di comprensione di queste differenze creò alcuni attriti durante le prime fasi del programma Treni della felicità. All’epoca, a causa della forte propaganda, gli italiani del Sud sentivano storie diaboliche sui comunisti del Nord. Per lo stesso motivo, molte famiglie che iscrivevano i loro figli al programma inizialmente credevano che i nordisti mangiassero i bambini.

Tuttavia, una volta avviato il programma, migliaia di bambini del Sud Italia provenienti da Napoli, Lazio, Calabria, Sicilia e altre città trovarono nel Nord Italia nuove famiglie che si prendevano cura di loro. Ai bambini veniva fornito tutto, dai vestiti all’istruzione. L’iniziativa ha portato alla formazione di innumerevoli legami che sono rimasti anche dopo la fine del soggiorno dei bambini presso le loro famiglie del Nord. Attraverso la storia di Amerigo, il libro – e, per estensione, il film – presenta una comprensione sfumata degli stessi legami. Per questo motivo, anche se Il treno dei bambini non è un racconto biografico, rimane storicamente rilevante.

Amerigo Benvenuti de Il treno dei ragazzi esiste solo nel mondo della finzione

Quando si parla di allontanamento dalla storia documentabile, le esperienze personali di Amerigo Benvenuti (ex Speranza) ne Il treno dei bambini rimangono il contributo più significativo. Poiché Viola Ardone ha voluto presentare un racconto intimo e sentito del programma Treni della felicità, ne racconta la storia attraverso gli occhi di Amerigo, un partecipante di 8 anni. La sua storia inizia come quella di un giovane povero di Napoli che scopre la sua passione per la musica durante il periodo trascorso a Modena con Derna e la sua famiglia. Alla fine, dopo una serie di lotte e scelte di vita impossibili, Amerigo diventa un celebre violinista le cui esibizioni da solista richiamano grandi fanfare.

Sebbene il viaggio di Amerigo sia profondamente risonante ed emotivamente toccante, rimane una storia di fantasia. Nella vita reale, non esiste un solista di violino identico ad Amerigo Benvenuti. Pertanto, il personaggio diventa un’opera dell’immaginazione di Ardone adattata per lo schermo dagli sceneggiatori Furio Andreotti, Giulia Calenda, Cristina Comencini e Camille Duguay. Attraverso la sua storia fittizia, il film presenta una comprensione stratificata della famiglia, sia biologica che non. Inoltre, mette in evidenza il significato storico del programma “I treni della felicità”, attribuendo a questo concetto una narrazione riferibile. Per questo motivo, anche se il personaggio di Amerigo è fondamentale per la rappresentazione degli eventi storici su cui si basa Il treno dei bambini, il personaggio stesso rimane privo di una controparte nella vita reale.

LEGGI ANCHE: Il treno dei bambini, la spiegazione del finale: Cosa succede al violino di Amerigo?

Black Doves, la spiegazione del finale: Chi ha ordinato l’omicidio di Jason?

Il thriller spionistico di NetflixBlack Doves (la nostra recensione), vede protagonista Keira Knightley nel ruolo di Helen Webb, la moglie del Segretario alla Difesa del Regno Unito che è segretamente una spia dell’omonima organizzazione. Lavora per loro da dieci anni ed è troppo radicata per essere ritirata. Per questo motivo, quando il funzionario pubblico con cui aveva una relazione viene ucciso, viene coinvolto un suo vecchio amico di nome Sam per tenerla al sicuro e capire chi ha ucciso il suo amante e ora sta cercando di ucciderla. Se da un lato Sam è felice di tornare per il bene dell’amico, dall’altro questo gli fa vivere momenti difficili. Alla fine di Black Doves, tutti i problemi si fondono insieme mentre Helen e Sam cercano di sopravvivere contro ogni previsione. Seguono SPOILER.

Chi ha ucciso l’ambasciatore cinese? Chi c’era dietro i colpi?

All’inizio di Black Doves, la morte dell’amante di Helen, Jason, sembra un incidente isolato. Ma poi si scopre che potrebbe avere a che fare con la morte dell’ambasciatore cinese, che si ritiene sia morto per overdose. Il governo cinese non crede a questa spiegazione e pensa che qualcuno abbia ucciso l’ambasciatore. Mentre Helen e Sam (Ben Whishaw) vanno a fondo della morte di Jason, scoprono che entrambi gli omicidi, compresi altri due, sono inestricabilmente collegati. Scoprono che esiste una famiglia criminale chiamata Clarks, che è diventata incredibilmente potente insinuandosi nel governo. Dopo essere diventati praticamente invincibili nel Regno Unito, hanno deciso di trasferirsi dall’altra parte dell’oceano, il che li ha portati sul radar dell’MI5. Ora, il giovane rampollo dei Clark, Trent, era amico di Kai Ming Chen, la figlia dell’ambasciatore cinese.

Non solo, ma era anche innamorato di lei. Tuttavia, poiché lei aveva già un fidanzato, Cole, che non sapeva lavorasse per la CIA, Trent non poteva fare una mossa. Invece, per stare vicino a Kai Ming, decise di portarle ciò che lei desiderava di più: la droga. L’idea di diventare il suo spacciatore poteva sembrare sana a Trent, ma il padre disapprovava. Un giorno affrontò Trent dicendogli di lasciare in pace sua figlia. Un Trent furioso spinse l’uomo così forte da fargli sbattere la testa su un tavolo, e fu la fine per lui. Se fosse stato chiunque altro, non avrebbe avuto importanza, ma Trent aveva ucciso l’ambasciatore cinese, il che significava che non poteva farla franca così facilmente. Così, chiese a sua madre di fare pulizia, la quale chiamò Stephen Yarrick, un ministro del governo britannico, per fare in modo che le cose venissero fatte.

In Black Doves Nessuno di loro sapeva che l’amica di Kai Ming, Maggie, la stava spiando. Aveva piazzato una telecamera nella stanza per ottenere informazioni sporche su Kai Ming, da vendere ai giornali scandalistici. Ma prima avrebbe dato le registrazioni all’MI5, nel caso in cui ci fosse stato qualcosa da sapere prima che gli altri avessero avuto tutti i pettegolezzi. La notte dell’omicidio, la telecamera era proprio lì e ha registrato tutto. Non si trattava solo dell’omicidio, ma di tutto ciò che era successo dopo, compreso Stephen Yarrick su nastro. Inoltre, la registrazione riportava anche una telefonata di Stephen al premier britannico per aggiornarlo sulla situazione, il che significava che anche il premier era coinvolto. Tutta questa storia era già enorme e la ragazza non sapeva se poteva condividerla con qualcuno. Per errore, però, la condivise con Phillip, il giornalista a cui si rivolgeva sempre per condividere uno scoop su Kai Ming.

Quando Phillip scoprì cosa c’era nella registrazione, la spinse a rendere pubblica l’intera faccenda, soprattutto dopo aver scoperto che il governo stava cercando di insabbiare l’intera faccenda. Allo stesso tempo, la donna ne parlò anche al suo contatto dell’MI5, che si dava il caso fosse Jason. Quando Trent scoprì i piani del trio, decise di toglierli di mezzo. Fu lui a ingaggiare Elmore Fitch per uccidere tutti e tre e Helen. Trent non aveva idea di chi fosse Helen e l’aveva scoperta solo seguendo Jason, che aveva incontrato Helen subito dopo l’incontro con Phillip e Maggie. Uccidendo Jason e mandando l’assassino a caccia di Helen, Trent non aveva idea dei problemi che si era creato.

Perché Sam spara a Trent? Chi lo chiama e lo minaccia?

Avendo lavorato a lungo come Colomba Nera, Helen sapeva bene che non avrebbe dovuto farsi coinvolgere da poteri che non erano alla sua portata. Tuttavia, si sentiva anche molto vicina alle persone che amava, per quanto poche fossero. Se qualcuno avesse fatto del male a chi amava, ne sarebbero seguite le conseguenze. Quando sua madre fu ferita dal patrigno, Helen lo uccise e andò avanti. Quando qualcuno uccise il suo amante e minacciò i suoi figli, non c’era modo che Helen li lasciasse andare così facilmente. Per questo motivo, fin dall’inizio, è completamente concentrata a trovare i responsabili della morte di Jason e a ucciderli con le sue mani.

Quando il coinvolgimento dei Clark entra in scena, Helen non si fa scrupoli a uccidere la loro testa perché sono già dei criminali e non deve lottare con la sua coscienza prima di ucciderli. Ma inaspettatamente si scopre che dietro i colpi c’è Trent, molto più giovane della persona che Helen pensava di uccidere; Helen rimane spiazzata per un attimo. Davanti a lei è solo un bambino, e una cosa è uccidere la madre, una mente criminale, e un’altra è uccidere lui, anche se ha già le mani sporche di sangue.

A peggiorare la situazione in Black Doves c’è il fatto che se Helen uccide Trent, sua madre e il resto della sua organizzazione la inseguiranno. Accecata dalla vendetta, non lo considera possibile, ma Sam sì. Cerca di dissuaderla dall’uccidere Trent, ma non ci riesce. Alla fine, vengono sparati dei proiettili ed è Sam a sparare a Trent. Lo fa per salvare il suo amico, sapendo esattamente cosa li aspetta. Ma uccidendo Trent, in un certo senso, si fa anche perdonare per non aver ucciso un giovane Hector tanti anni prima. Era stato perseguitato dall’immagine di quel ragazzo, che poi era tornato con un esercito per vendicarsi di lui. Questo ha fatto sentire Sam un po’ insufficiente nel suo lavoro di innescatore, soprattutto quando non è riuscito a uccidere Hector nemmeno quando non era più un ragazzo.

Helen è scioccata dal fatto che Sam le abbia tolto il sangue di Trent dalle mani, soprattutto quando sa quanto sia importante per lei uccidere il responsabile della morte di Jason. Prima che possano metabolizzare la cosa, ricevono una chiamata sul telefono della signora Clark. Una persona dall’altra parte dice che le loro azioni sono state registrate e che ci saranno delle conseguenze. Questo convalida le paure di Sam. Sapendo quanto sono potenti i Clark e quanti problemi possono causare ai loro nemici, Sam non voleva che Helen vivesse il resto della sua vita guardandosi le spalle. Ma ora lo stesso destino è toccato a lui, e deve prepararsi ad affrontarlo.

Cosa succede a Cole Atwood in Black Doves?

Prima che emergesse il video dal telefono di Maggie, gli investigatori privati inviati dal governo cinese si sono basati sulle telecamere a circuito chiuso dell’hotel per ricostruire l’ultima notte dell’ambasciatore cinese. Vedono il fidanzato della figlia, Cole, scappare dalla stanza poco dopo l’omicidio. Ciò che li insospettisce maggiormente è che si scopre che Cole lavorava per la CIA. Questo fa pensare ai cinesi che siano stati gli americani ad assassinare l’ambasciatore. Per ottenere giustizia, vogliono Cole.

Se da un lato gli americani negano completamente ogni coinvolgimento nella morte dell’ambasciatore, dall’altro non possono ignorare quanto sia delicata la situazione. Cercano di tenere Cole al sicuro nell’ambasciata, ma dietro le quinte lavorano altri poteri (come Helen e Sam) che sfuggono completamente al controllo della CIA. Alla fine, la registrazione è l’unico modo per dimostrare che gli americani non hanno assassinato nessuno e per evitare una potenziale guerra. Quando la parte relativa alla registrazione viene alla luce, si scopre anche il coinvolgimento dei Clark. Proprio quando Helen, Sam e i loro amici hanno finito di affrontare Trent, sua madre e la sua guardia del corpo, l’edificio viene circondato dalla CIA, portata lì da Cole, che vuole disperatamente dimostrare la sua innocenza.

Tuttavia, i Clark non sono contenti di vedere gli americani lì, e ha luogo una sparatoria in cui muoiono tutti gli uomini dei Clark e tutti gli uomini della CIA, tranne Cole. Alla fine, quando Helen esce dall’edificio e vede Cole, gli consegna la registrazione. Lui la ringrazia, ma accenna anche al fatto che sa chi è, perché sa che è una Colomba Nera. Si tratta solo di un riconoscimento e non di una minaccia, perché avendo visto tutto quello che è successo negli ultimi giorni, Cole sa bene che non deve mettersi contro Helen. Per ora ha la registrazione, che è una prova sufficiente per dimostrare che non ha ucciso nessuno e l’unico modo per evitare che i cinesi gli diano la caccia.

Jason era una spia? Perché Helen getta via le informazioni su Jason?

Pur essendo stata sposata con Wallace per dieci anni, Helen non lo amava veramente. Per lei, lui era il lavoro e non importava cosa provasse per lui. Con Jason le cose erano diverse. Nel corso della loro relazione, si innamorò di lui così tanto che finì per dirgli di essere una Colomba Nera. Era l’unica persona con cui poteva essere se stessa, ed è per questo che la sua perdita l’ha colpita così duramente. Era tutta una questione d’amore. O almeno così pensava. Una volta che il polverone si è diradato e Helen ha avuto la sua vendetta, incontra la signora Reed, che le dice che il legame tra Maggie e Jason era che entrambi lavoravano per l’MI5.

Jason sospettava già che Helen fosse una Colomba Nera ed era stato incaricato di attirarla nella sua trappola e di ottenere informazioni da lei. Lei era il suo lavoro. Questa rivelazione riscrive completamente il rapporto tra Helen e Jason, poiché sembra che tutto ciò che c’è tra loro sia una menzogna. Lui fingeva di essere innamorato di lei quando, in realtà, stava cercando di ottenere informazioni da lei. Reed avrebbe potuto lasciar correre e far credere a Helen che Jason non la amava. Ma non è così crudele come sembra. Rivela che quando Jason è venuto a consegnare il suo rapporto su Helen, l’ha scagionata dai sospetti. Anche quando era già sospettata, l’ha scagionata. Questo dimostra che lui amava davvero Helen e che, anche se all’inizio poteva essere una bugia, alla fine non lo era.

Per dare a Helen un’idea più precisa di chi fosse veramente Jason, Reed le consegna un disco con tutte le informazioni necessarie su Jason. Si tratta del background completo dell’uomo, che fornisce a Helen le cose che molto probabilmente le ha tenuto nascoste per mantenere la sua copertura. Il disco è l’unica possibilità per Helen di scoprire la vera identità di Jason. Invece di indagare immediatamente, la getta nel fiume. Potrebbe sembrare illogico per una persona curiosa, soprattutto se si considera che questo potrebbe essere l’unico legame che aveva con Jason ora che era morto. Tuttavia, Helen non era pronta per questo. Guardare nel disco e scoprire tutte le informazioni sul vero passato di Jason le avrebbe fatto pensare a tutte le bugie che lui aveva inventato su di sé per avvicinarsi a lei. Le avrebbe fatto mettere in dubbio ogni sua parola, intenzione e sentimento, e questo non era qualcosa con cui Helen voleva convivere. L’unica cosa che voleva di Jason nella sua mente erano i bei ricordi che avevano fatto e il fatto che, nonostante tutto, alla fine lui la amava e lei lo amava. Quello che c’è stato prima e dopo non ha più importanza.

Perché Sam non uccide Hector in Black Doves? Accetta l’offerta di Hector?

Sette anni prima della morte dell’ambasciatore cinese e dell’omicidio di Jason, Sam era stato ingaggiato per uccidere una banda di strada che si stava facendo strada molto rapidamente. Le altre bande volevano che questa banda di fratelli fosse eliminata, ed è per questo che Sam è stato assunto. Doveva uccidere tutti i fratelli, ma ne lasciò uno: Hector. Quando Sam accettò il lavoro, pensava che sarebbe stato solo un altro omicidio. Ma poi vide un ragazzo seduto sul sedile posteriore, coperto dal sangue del fratello a cui Sam aveva appena sparato, e non riuscì a premere il grilletto. È l’immagine di questo ragazzo che rimane con Sam nel corso degli anni, soprattutto quando questo ragazzo diventa il motivo per cui Sam scappa da Londra e si lascia alle spalle l’amore della sua vita.

L’immagine persiste quando Sam viene ingaggiato per uccidere nuovamente Hector. Non riesce a farlo, anche se Hector è ormai un uomo adulto rispetto al ragazzo di sette anni prima. È anche più criminale, assetato di sangue e spietato. Nonostante tutto questo, Sam non è ancora in grado di premere il grilletto. Anche Hector prova sentimenti contrastanti nei confronti di Sam. Se fosse stato un altro assassino, Hector sarebbe morto sette anni fa. Ma Sam lo ha lasciato vivere e questo ha reso Hector un po’ grato della sua esistenza. Tuttavia, allo stesso tempo, Sam aveva ucciso i suoi fratelli, ed era stata la cosa più traumatica che Hector avesse vissuto. Per questo motivo, Sam è stato sia l’angelo custode che il diavolo per Hector. Il ragazzo propende più per il primo quando Sam continua a non ucciderlo e, alla fine, l’intera banda di Hector è scomparsa e lui è l’unico rimasto.

Per quanto giovane, Hector è estremamente ambizioso. Quando scopre che i Clark hanno subito un duro colpo, vede il vuoto di potere che si crea nella malavita londinese. Potrebbe riempire quel vuoto, ma è un’impresa enorme che richiede muscoli, che Hector non ha più. A causa della sua organizzazione criminale, ha già molte persone che lo vogliono morto e, con tutti i suoi uomini morti, non sa di chi fidarsi. A questo punto pensa a Sam. Essendo sfuggito all’assassino più di due volte, Hector sa che Sam non lo ucciderà. Inoltre, trova un terreno comune tra loro quando scopre che è stato Sam a uccidere Trent Clark e sua madre. Ciò significa che gli altri Clark daranno la caccia a Sam e lui avrà bisogno di qualcuno che lo sostenga. Hector potrebbe essere questo per Sam, il che li mette entrambi sullo stesso piano.

L’offerta di Hector è un po’ strana, ma Sam ne comprende l’importanza. Ha perso la buona volontà delle Colombe Nere e, con i Clark alle calcagna, ha bisogno di tutto l’aiuto possibile. Tuttavia, questo significherebbe entrare ancora di più nell’attività che sperava di lasciare per sempre. Desidera tornare da Michael, che è pronto ad accettarlo, solo se riesce a lasciar andare completamente il suo passato. Anche se Sam fosse rimasto con lui, sapeva che un giorno il suo passato sarebbe tornato a chiamarlo, e questa volta la posta in gioco era molto più alta. L’ultima volta aveva salvato Michael per un pelo. Questa volta sarebbe stato in grado di farlo se i Clark avessero chiamato. Così, con il cuore spezzato, dice addio a Michael, che comprende la sua decisione, soprattutto ora che ha davanti a sé l’intero quadro.

Wallace diventa premier?

In Black Doves l’obiettivo di far sì che Helen rimanesse accanto a Wallace in tutti i momenti difficili era la consapevolezza che Wallace era destinato a cose più grandi. Quando Helen è stata mandata a sedurlo per la prima volta, doveva essere una cosa di una notte. Ma poi è tornata indietro e ha mantenuto vivo il legame. Poi, Wallace si è rivelato un pesce che è diventato sempre più grande. Nel giro di un paio d’anni, era chiaro che Wallace stava per arrivare al numero 10 di Buckingham Street. Quando ciò accadde, le Colombe Nere avevano bisogno di uno dei loro nella sua cerchia interna, e chi meglio di una moglie poteva ricoprire questo ruolo? Sebbene la sua organizzazione fosse contenta di avere Helen con Wallace, lei diventava sempre più sconfortata a ogni promozione che lui riceveva. Ma alla fine della prima stagione, le cose sono cambiate radicalmente.

Il fiasco della registrazione della morte dell’ambasciatore cinese porta l’attuale premier in una situazione molto difficile. A causa della sua colpevolezza nel coprire l’omicidio, sa che dovrà dimettersi presto. Per la gioia assoluta delle Colombe Nere, la persona che tutti concordano debba assumere il ruolo è Wallace. Il mandato è così chiaro che nessuno ha dubbi al riguardo. La possibilità diventa ancora più forte quando la corruzione del precedente premier mette in discussione anche la castità di altri ministri. Gli americani ritengono che Wallace possa essere l’unico uomo pulito del governo britannico e sono pronti a sostenerlo. Alla luce di tutto ciò, sembra che la strada di Wallace verso la carica di Primo Ministro sia spianata. Ma soprattutto, questo significa che le Colombe Nere hanno finalmente quello che volevano: una Colomba Nera al vertice del governo. Non c’è niente di meglio per loro. Ma questo significa anche che il vero compito di Helen inizia ora.

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Black Doves è una storia vera e un’organizzazione segreta reale? Helen Webb è basata su una vera spia?

Creata da Joe Barton, la serie thriller di spionaggio di Netflix Black Doves ha come protagonista Keira Knightley nel ruolo di Helen Webb, sposata con un parlamentare conservatore. All’esterno, il suo matrimonio sembra una storia di successo, ma solo poche persone sanno che il matrimonio è il suo lavoro. È una spia di un servizio di intelligence internazionale chiamato Black Doves e da un decennio fornisce loro segreti di Stato.

Le cose prendono una piega inaspettata quando un uomo con cui Helen aveva una relazione viene ucciso. Con il pericolo che incombe su di lei, viene coinvolto un vecchio amico, Sam, per tenerla al sicuro e aiutarla a scoprire chi ha ucciso il suo amante. La serie offre molti colpi di scena, mentre Helen scopre alcuni segreti sconvolgenti. Allo stesso tempo, deve affrontare problemi familiari realistici con cui molti spettatori possono entrare in contatto, rendendo la sua storia ancora più avvincente.

L’immaginario di Black Doves ha interessanti collegamenti con la realtà

Black Doves (la nostra recensione) è una storia interamente inventata, scritta da Joe Barton durante le vacanze di Natale del 2022. Era sempre stato affascinato dal genere spionistico e voleva scrivere una storia ambientata a Londra. In quel periodo, uno dei suoi amici aveva lavorato al film di Guy Pearce e Damian Lewis, “Una spia tra amici”, e questo ha incoraggiato Barton a esplorare il genere per conto suo. Parallelamente, lesse un articolo di giornale su una donna che non era in grado di condividere il proprio dolore con nessuno dopo la morte improvvisa del suo amante segreto.

Lo scrittore fu motivato a seguire questo filone di relazioni clandestine nella sua ricerca, rivelando di aver letto di un gruppo di spie che si erano infiltrate in un gruppo sposandosi con esso. Finirono per avere dei figli e rimasero nei loro ruoli inventati per anni, così quando la verità venne fuori, tutti intorno a loro rimasero scioccati. Ciò che colpì Barton del suo racconto fu la doppiezza di una persona che deve fingere di avere una relazione felice per tutti questi anni, anche se è estremamente infelice. Da qui è nata l’idea del personaggio di Helen e del suo ruolo di moglie di un deputato mentre ha una relazione con un altro uomo.

In realtà, non esiste un’organizzazione segreta chiamata Colombe Nere (che noi conosciamo!). Barton avrebbe preso il nome da un pub locale che frequenta. Per rendere le cose più interessanti, ha voluto ambientare la storia nel periodo natalizio. Gli piaceva l’idea di ambientare una storia cupa di omicidi, tradimenti e spargimenti di sangue in un periodo in cui tutto dovrebbe essere allegro e pieno di speranza. Questo contrasto non si limita a fare da sfondo, ma diventa più evidente nelle vite dei personaggi e nelle bugie che vivono nel corso della stagione.

La maternità ha aiutato Keira Knightley a relazionarsi con la finzione di Helen Webb

Keira Knightley era alla ricerca di un progetto interessante che la mettesse alla prova quando le è stato proposto Black Doves. Si è subito innamorata del personaggio di Helen e si è immedesimata nelle sfide che la spia immaginaria deve affrontare come madre. Riferendosi alla propria esperienza di madre, la Knightley ha parlato dei diversi volti che le persone hanno in diversi momenti della loro vita. Da un lato, si ha a che fare con tutto il caos dell’avere figli, ma quando si va al lavoro, si deve tirare fuori la propria “faccia da lavoro” e affrontare i problemi. Allo stesso modo, si può avere avuto una brutta giornata al lavoro, ma quando si torna a casa si deve essere una persona diversa per i propri figli e la propria famiglia.

Questo lato del carattere di Helen emerge in una scena in cui si trova nel mezzo di una situazione molto pericolosa e riceve una telefonata dalla figlia, che vuole sapere dove si trova. La Knightley ha sfruttato questa duplicità per far emergere diverse sfaccettature del carattere di Helen. Il fatto che fosse anche a bordo come produttrice esecutiva le ha permesso di apportare la sua prospettiva al personaggio durante la stesura della serie. Allo stesso tempo, ha dovuto lavorare sulla fisicità del personaggio. Per prepararsi al ruolo ha imparato il jiu-jitsu e il combattimento con i coltelli, oltre a saper maneggiare le armi. In fin dei conti, l’attrice vuole che Helen appaia come una persona che, con tutti i suoi difetti e le sue follie, sia comprensibile per il pubblico, pur rimanendo un personaggio di fantasia.

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Black Doves: gli eventi reali che hanno ispirato la serie di Netflix e Keira Knightley

Il creatore di Black Doves di Netflix spiega l’ispirazione reale alla base della serie. In uscita il 5 dicembre, Black Doves è una serie Netflix che racconta la storia di una donna di nome Helen che intraprende una relazione appassionata. L’unico problema è che Helen ha un’identità segreta che mette in grave pericolo il suo nuovo amante. Black Doves vanta un cast di tutto rispetto, tra cui Keira Knightley, Ben Whishaw, Andrew Koji, Tracey Ullman, Sarah Lancashire e Andrew Buchan. È stata creata da Joe Barton e avrà sei episodi nella sua prima stagione.

In un’intervista a RadioTimes, il creatore Barton spiega l’ispirazione reale dietro Black Doves. Il creatore racconta che stava “leggendo anche di quei poliziotti spia” che “si erano infiltrati in quel gruppo ambientalista.” Da lì ha tratto ispirazione per scrivere una storia su “quella doppiezza di avere un matrimonio finto che dura anni e anni e anni e poi scompare.” Sono stati questi eventi reali a diventare l’ispirazione per Black Doves. Ecco la citazione completa di Barton:

Stavo leggendo anche di quei poliziotti spia, quei tizi che si erano infiltrati in quel gruppo ambientalista e avevano finito per avere dei figli con loro. Insomma, una storia davvero orribile, molto più oscura di questa.

Ma ho pensato: OK, questa idea, questa doppiezza di un matrimonio finto che dura anni e anni e anni e poi scompare. Credo che anche questo abbia contribuito a ispirarmi.

Cosa significa questa ispirazione per Black Doves

In questa intervista, Barton fa riferimento allo scandalo dei “poliziotti spia”. Questo evento reale ha coinvolto membri della polizia britannica sotto copertura che hanno iniziato relazioni intime con gruppi di protesta. Questi scandali hanno avuto luogo principalmente nel 2010 e nel 2011 e hanno portato ad azioni legali contro questi agenti, alcuni dei quali hanno sposato o avuto figli con le persone che volevano ingannare. I principali gruppi presi di mira da questo scandalo dei poliziotti spia erano gruppi di difesa della giustizia sociale e ambientale.

Questo collegamento con la realtà potrebbe aiutare Black Doves a sembrare ancora più credibile agli occhi dei britannici o di chiunque sia a conoscenza della storia degli “spy cops”. Nella serie, la protagonista Helen è una spia nel vero senso della parola, poiché lavora per un’organizzazione di super spie chiamata Black Doves. Sarà affascinante vedere cosa succederà a Helen nella sua storia romanzata in Black Doves e come questa potrà rispecchiare o meno gli eventi reali.

Black Doves: recensione della serie tv con Keira Knightley

L’abbondanza di serie tv di stampo spy-action sulle piattaforme non è una cosa nuova: per definizione, la narrazioni che si muovono nel territorio dello spionaggio e contano su una marcata componente action sono tra i prodotti che più chiamano visualizzazioni. In un panorama ormai saturo all’inverosimile di queste proposte, è cosa rara incappare in un esperimento seriale che lasci, effettivamente, la sensazione di qualcosa di “fresco” allo spettatore. Per fortuna, questo è il caso di Black Doves, disponibile su Netflix dal 5 dicembre, sviluppata da Sister e Noisy Bear e con due noti attori britannici protagonisti: Keira Knightley e Ben Wishaw. 

Black Doves: mia moglie è una spia

Tutto ha inizio una notte in cui tre persone vengono assassinate quasi contemporaneamente mentre parlano al telefono: chi sono e cosa stavano progettando? La serie parte da questo interrogativo concentrandosi nello specifico sulla morte di uno di loro, un certo Jason (Andrew Koji), che era l’amante di Helen (Knightley), la moglie del Ministro della Difesa (Andrew Buchan). Apprendiamo subito che Helen è in realtà una spia di un’organizzazione chiamata “Black Doves”, che risponde agli ordini di Reed (Sarah Lancashire), per cui è una sorta di insider a cui rivela tutti i segreti del marito politico.

La donna continua a ribadire che la sua relazione con Jason non nascondeva alcun sotterfugio compromettente per il suo lavoro, tutt’altro: era veramente innamorata del ragazzo, ed è per questo che decide di mettersi a indagare sulla sua morte. Lo fa con l’aiuto di un vecchio amico dell’organizzazione, Sam (Whishaw), che torna in Gran Bretagna dopo sette anni di clandestinità a causa di una storia precedente che ha avuto un impatto sulle vite di tutti e che verrà raccontata in flashback. Queste tre morti saranno l’iniziale “innesco” di un complicato conflitto internazionale poiché, in concomitanza con questi eventi, l’ambasciatore cinese in Gran Bretagna viene trovato morto: non tarda troppo tempo per capire che tutti questi eventi potrebbero essere collegati tra loro.

In Black Doves c’è tutto quello che ci aspetteremmo di trovare in una serie del genere: un’investigazione dall’assoluto grado di segretezza; una donna che, dietro la facciata della moglie perfetta, nasconde un’indole decisamente più dinamica; l’ampio respiro internazionale, con le nostre superspie in continuo movimento e, nel caso del personaggio di Whishaw, che non sembrano appartenere davvero a nessun luogo.

Una serie che sorprende

Grazie soprattutto a interpreti decisamente calati nella parte e alla scelta di incorporare un po’ di sano humor british, Black Doves regala al pubblico un’esperienza di visione soddisfacente. La serie cerca di caratterizzare al meglio i suoi volti di punta, tanto che la vita privata di questi assume un ruolo di primo piano nello sviluppo degli eventi. Anche se potrebbe sembrare che aderiscano alla fredda regola del non portare sul lavoro i conflitti casalinghi, qui non c’è intrigo internazionale in cui questi aspetti emotivi non siano almeno in parte coinvolti.

L’aspetto più problematico di Black Doves emerge a partire dalla metà della serie: i suoi personaggi di contorno sono così tanti e così poco definiti, che è molto difficile mantenere il livello di credibilità di cui questo tipo di show ha bisogno. Fortunatamente, come dicevamo, i due personaggi principali colmano le lacune, dando corpo e anima alla serie.

Il connubio tra action e comedy

Knightley, che torna sulla piattaforma dopo il film Lo strangolatore di Boston (2023), si afferma come baricentro drammatico di tutto ciò che accade, gestendo molto bene il classico conflitto dell’infiltrata che vive una doppia vita al punto da non riuscire più a distinguere chi è e di chi deve veramente fidarsi. D’altra parte, Whishaw si mette alla prova portando in scena un forte dramma emotivo personale: Sam è gay, aveva un compagno che ha dovuto lasciare per motivi di lavoro, e di cui sente ancora la mancanza. Questo profondo conflitto interiore deve coesistere con una sottotrama che coinvolge una coppia di assassini professionisti e il loro capo, un’accoppiata che sembra uscita direttamente da un film di Guy Ritchie.

Tra battute taglienti e una spiccata ironia, Knightley non vi farà mai perdere di vista la sua Helen, mentre Whishaw conferisce al suo Sam una vulnerabilità irresistibile, che vi farà pensare di non avere mai incontrato un sicario del genere nell’audiovisivo. Tra di loro, la componente comedy funziona egregiamente, ma l’incantesimo non si applica a tutti i personaggi e alle storyline secondarie che incontriamo strada facendo. Effettivamente, forse questa dispersione tonale potrebbe respingere qualche spettatore ma, per chi saprà comprendere che è parte del gioco, Black Doves promette di riservare le giuste sorprese.

LEGGI ANCHE: Black Doves è una storia vera e un’organizzazione segreta reale? Helen Webb è basata su una vera spia?

L’orchestra stonata: recensione del film di Emmanuel Courcol

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Nel 2020, quando la pandemia paralizzò il mondo e indusse gli organizzatori a cancellare il Festival di Cannes, una selezione speciale permise ad alcuni film di uscire nelle sale con l’etichetta “Cannes 2020”. È il caso di Un triomphe, il precedente film di Emmanuel Courcol con Kad Mérad. Quattro anni dopo, il regista ha avuto l’onore di presentare in anteprima sulla Croisette il suo nuovo film, L’orchestra stonata, in passaggio alla Festa del Cinema di Roma 2024 nella sezione Best Of.

L’orchestra stonata: una scoperta che rivoluziona la vita

Tutto inizia con una brutta notizia: Thibault (Benjamin Lavernhe), rinomato direttore d’orchestra, crolla nel bel mezzo di una prova. Subito dopo, comunica alla sorella di essere affetto da leucemia e di aver bisogno di trovare un donatore di midollo osseo compatibile: la sua migliore possibilità è un parente stretto con cui condivide i geni. Proprio quando è costretto a mettere da parte la sua carriera, questa ricerca porta alla luce segreti sepolti: Thibault scopre di essere stato adottato e di avere un fratello minore, Jimmy (Pierre Lottin), da cui è stato separato quando era più giovane.

L’incontro con questo parente inaspettato, che ha vissuto una vita completamente diversa dalla sua, è un vero e proprio shock: Jimmy ha infatti avuto un’infanzia modesta ed è cresciuto nella loro città natale, accolto da una donna amorevole e umile. Forse condividono gli stessi geni, ma sulla carta non hanno nulla in comune. Così, quando il fratello minore viene a conoscenza delle ragioni del loro incontro, accetta di fargli da donatore, permettendogli di guarire e, nel giro di pochi mesi, di godere di una remissione inaspettata.

Il destino e la malattia li hanno fatti incontrare e Thibault attraversa una crisi esistenziale: vuole scoprire da dove viene e cercare di creare un legame con questo fratello che non ha avuto le sue stesse opportunità. Si sente quasi in debito, al di là del gesto altruistico di Jimmy, per il quale si sente in colpa. Perché non è cresciuto con loro? Perché lui ha potuto godere di un’infanzia comoda e agiata, studiare e vivere della sua passione e suo fratello no? In mezzo a tutte queste domande, si staglia un forte terreno comune: un amore innato per la musica. Thibault ne è convinto: suo fratello ha un orecchio perfetto. Così, quando il leader della banda di ottoni in cui Jimmy ha militato per anni si dimette, Thibault ne prende il posto, con l’obiettivo di aiutare il fratello minore a prendere il suo posto e a diventare il direttore della banda, anche se lui rimane timido e non ha fiducia in se stesso.

Un sapore alla “commedia degli equivoci”

Il cinema francese ha una lunga e illustre tradizione nel fondere la commedia con la riflessione sociale, combinando il riso per l’assurdità della vita con un tono più profondo e malinconico. Un genere, quello della commedia francese, che è fiorito negli ultimi tempi, basandosi sul concetto di “dramedy” per creare personaggi tanto fragili quanto divertenti. L’orchestra stonata si inserisce perfettamente in questo filone, offrendoci una sentita esplorazione dei legami familiari attraverso una narrazione carica di umorismo e ottimismo.

Nonostante la gravitas della sua premessa, il film di Emmanuel Courcol non cade mai nel sensazionalismo a buon mercato; in questo senso, la regia è estremamente abile nel sovrapporre momenti di leggerezza tonale ad altri di autentica emozione. La scoperta che rivoluziona la vita di Thibaut, quando il suo mondo si scontra con quello di Jimmy, ha il sapore di una vera e propria commedia degli equivoci.

Uno degli elementi più interessanti è proprio la dinamica che si instaura progressivamente tra Lavernhe e Lottin: il ritratto di Thibaut come uomo raffinato e perfezionista che ha affinato la sua arte ci appare piuttosto vivido e comprensibile. In contrapposizione, troviamo Lottin come un Jimmy che irradia un’energia mondana e imprevedibile. Un contrasto che crea un tempo comico che colpisce nel segno, dando vita a un umorismo che ricorda per certi versi, come dicevamo, la screwball comedy degli anni Quaranta, anche se qui la componente romantica viene sostituita dall’amore fraterno.

Unirsi nelle differenze

Dramma dall’innegabile fascino grazie alla coppia di attori protagonisti (Benjamin Lavernhe e Pierre Lottin), L’orchestra stonata ha tutti gli ingredienti di una commedia popolare nel senso più nobile del termine: tenerezza, umorismo e ritmo. Sullo sfondo di complessità di classe, fratelli ritrovati e solidarietà operaia, il film di Emmanuel Courcol evita una serie di trappole, tra cui il moralismo e un illusorio lieto fine, senza paura di scendere anche nel grotteso.

Nulla di ciò che ci viene raccontato è assolutamente plausibile, ma tutto funziona con grazia: checché se ne pensi, crescere in un ambiente benestante della regione parigina non fa presagire lo stesso destino di chi è cresciuto in un ambiente molto modesto, lontano dai luoghi di cultura. Emmanuel Courcol non ha intenzione di giudicare questa situazione sociologica di fatto: al contrario, dimostra che, quando si tratta di vita e di amore, le differenze sociali possono sempre annullarsi.

The Bad Guy 2: la recensione della serie Prime Video

È bene dirlo senza mezzi termini: la seconda stagione di The Bad Guy, disponibile su Prime Video dal 5 dicembre e ancora una volta diretta dal duo Giuseppe G. Stasi e Giancarlo Fontana, conferma e supera le aspettative, offrendo un’avvincente seguito della storia di Nino Scotellaro, ex magistrato diventato spietato malavitoso. Con il suo mix di riferimenti al cinema d’azione anni ’90 e un profondo radicamento nella realtà italiana, la serie si impone come uno dei prodotti più interessanti del panorama televisivo contemporaneo.

Un omaggio al grande cinema e alla cultura pop

Era chiaro dall’inizio che The Bad Guy fosse un prodotto creato da chi ama il cinema. La passione dei registi per maestri come Tony Scott, Michael Bay, John Woo e Quentin Tarantino permea ogni episodio, donando alla serie una dimensione cinematografica che la rende unica. A questi riferimenti si aggiungono influenze pop e più contemporanee che danno alla serie il suo tono così specifico: c’è dramma e emozioni forti, ma anche ironia, gusto per il grottesco e commedia. Nino Scotellaro è proprio un Walter White che affronta una sua discesa del suo personale inferno per trasformarsi in Balduccio Remora, senza via di ritorno.

Un protagonista sempre più complesso

La seconda stagione riparte esattamente dal punto in cui si era conclusa la prima: Nino (Luigi Lo Cascio) si trova faccia a faccia con il suo nemico giurato, Mariano Suro (Antonio Catania). Ma la vendetta deve attendere. L’archivio, una cassetta contenente prove scottanti di rapporti tra Stato e mafia, diventa il fulcro della trama. Nino è sempre più combattuto tra il richiamo della sua vita precedente, rappresentata principalmente da Lui e Leo, e la crescente attrazione per il potere e il controllo che il suo nuovo ruolo gli offre. Questa evoluzione è esplorata con grande attenzione e consapevolezza: vediamo un uomo che, nonostante tutto, sembra ancora lottare per qualcosa di giusto, anche quando le sue azioni raccontano il contrario.

The Bad Guy (s): Stefano Accorsi è la grande novità

Tra le tante sorprese di questa stagione, spicca Stefano Accorsi nel ruolo di Stefano Testanuda, agente segreto dalla moralità ambigua e dall’aspetto fuori dagli schemi. Con capelli biondi e un’aria glaciale, Accorsi si diverte e diverte, rendendo il suo personaggio una scheggia impazzita: la sua entrata in scena è già un momento iconico. Si è forse sempre detto troppo poco della bravura di Accorsi, relegato per chiari meriti estetici troppo spesso al “bello della storia”: Stefano Accorsi è versatile e talentoso e soprattutto ha dimostrato che quando non si prende troppo sul serio è in grado di regalare personaggi e interpretazioni memorabili.

the bad guy 2
_LugiLoCascio_ClaudiaPandolfi_TheBadGuy2_foto di Kimberley Ross

Un mondo di donne

Ma si sa che un personaggio, per quanto caratterizzato bene, non funziona mai da solo. Deve avere delle controparti all’altezza. Il cast di The Bad Guy 2 si arricchisce di nuovi volti che aggiungono dinamismo alla storia. Ma se Lo Cascio e Accorsi sono due pilastri di questa seconda stagione, sono le donne che fanno davvero il bello e il cattivo tempo. Claudia Pandolfi è ancora una volta convincente nel ruolo di Luvi Bray, moglie di Nino e avvocata divisa tra dovere e sentimenti contrastanti, la sua interpretazione è il cuore romantico della storia che mostra in quanti modi di possa amare un uomo totalmente. Selene Caramazza, nei panni della sorella di Nino e maresciallo dei carabinieri Leonarda Scotellaro, occupa un maggiore spazio narrativo, ed è il centro emotivo, viscerale, passionale della storia, perché è tutta istinto e non comprende l’aspetto calcolatore e compromissorio che invece appartiene a Luvi. Giulia Maenza (Teresa Suro) continua a sorprendere con un’interpretazione carismatica di una donna di potere che dribbla ogni cliché e offre un ritratto fresco e autentico. La passione dei registi per la cultura pop si svela anche nella scelta di alcuni precisi volti per comparse e piccoli ruoli: Aldo Baglio, in un’inedita parte drammatica, e Carolina Crescentini, che invece compare in un piccolo ruolo, sono veramente un regalo per lo spettatore.

Un racconto che non si concede distrazioni

Una delle caratteristiche distintive di The Bad Guy è la fiducia che i suoi creatori ripongono nello spettatore. Non c’è spazio per “spiegoni” o riassunti: tutto è lasciato all’azione e ai dettagli disseminati lungo la trama. Ogni inquadratura, ogni espressione e ogni oggetto di scena raccontano qualcosa, invitando chi guarda a non distrarsi nemmeno per un secondo. Questo approccio, in un’epoca dominata dal binge-watching bulimico, premia il pubblico con una narrazione densa e avvincente, che soprattutto basa la sua fidelizzazione sul tono specifico e inconfondibile che aveva già fatto la fortuna della prima stagione.

The Bad Guy 2 conferma i motivi del successo della prima stagione, riesce a tenere alta la tensione, approfondendo al contempo la psicologia dei personaggi e offrendo momenti di grande spettacolarità e divertimento. In attesa di un (inevitabile?) terzo capitolo che concluda la storia, questa seconda stagione è uno degli appuntamenti imperdibili di dicembre su Prime Video.

Uonderbois: recensione del primo episodio della serie Disney+

Il 6 dicembre debutta su Disney+ Uonderbois, la nuova serie originale italiana prodotta per la piattaforma che si prefigge di portare lo spettatore in un viaggio straordinario tra le strade e i sotterranei di Napoli. Ideata da Barbara Petronio e Gabriele Galli, e diretta da Andrea De Sica e Giorgio Romano, la serie si presenta come un mix avvincente di folklore, avventura e un pizzico di magia. La prima puntata, che apre le porte al mondo unico e vibrante di Uonderbois, è un’introduzione affascinante e ricca di spunti e influenze.

La trama di Uonderbois, tra leggenda e realtà

La storia segue cinque ragazzi di dodici anni che vivono nei vasci di Napoli, stretti da un legame d’amicizia e da una fervida immaginazione alimentata dalle leggende popolari. I protagonisti sono accomunati dalla convinzione che la loro città sia abitata da Uonderboi, una figura mitologica che unisce la tradizione del Munaciello a un moderno supereroe, un Robin Hood dei vicoli napoletani. Questo mito diventa il punto di partenza per un’avventura epica che intreccia realtà e fantasia.

La puntata introduce rapidamente il conflitto principale: la Vecchia, la proprietaria dei vasci, sta per vendere le case dei ragazzi in cambio di una statuetta di Maradona all’interno della quale, si dice, sia nascosta la mappa di un tesoro. Questo innesco scatena una serie di eventi che porteranno i protagonisti a immergersi nei misteri della Napoli sotterranea, alla ricerca di un tesoro leggendario. L’elemento magico si mescola a un toccante senso di comunità e appartenenza, offrendo uno spaccato emozionante della vita nei quartieri popolari napoletani, ma soprattutto di un’infanzia che non ha ancora ceduto il passo all’adolescenza e cavalca ancora l’immaginazione con spirito d’avventura.

Un cast brillante in una Napoli al suo meglio

La prima puntata di Uonderbois presenta da subito il suo cast corale che include giovani talenti e volti noti del panorama italiano. Serena Rossi (quasi irriconoscibile nel trucco della Vecchia), Massimiliano Caiazzo e Francesco Di Leva spiccano per notorietà e carisma, ma chi brilla davvero sono i giovani protagonisti: nonostante la giovinezza, offrono performance credibili e appassionate, incarnando con naturalezza lo spirito vivace e ingenuo dell’infanzia, la totalizzante dedizione all’amicizia e all’avventura.

Napoli, degradata eppure bellissima, è un personaggio a sé stante. La regia di Andrea De Sica e Giorgio Romano valorizza la città in tutta la sua complessità: dai vicoli affollati ai misteriosi cunicoli sotterranei, indugiando presso gli affacci ariosi sul golfo, ogni scena è un omaggio visivo alla cultura partenopea. L’attenta alternanza di spazi chiusi e vedute aperte permette alle immagini di alternate luci e ombre, sottolineando con equilibrio il segreto di questa storia: la magia e la realtà convivono nello stesso spazio.

Una scrittura traballante

Un equilibrio ricercato anche nella scrittura, dove però fa più fatica a emergere, nonostante le fonti di ispirazione della serie siano evidenti. La premessa di Uonderbois ricalca esattamente quella de I Goonies, affaticandosi a rintracciarne la stessa naturalezza e ingenuità. Quello che invece la serie riesce a incorporare nella sua narrazione con naturalezza e efficacia è tutto il magmatico universo di leggende e credenze della tradizione napoletana, uno scrigno ricco e vivo da cui attingere.

La colonna sonora, arricchita da due brani inediti di Geolier – Ferrari e Parl’ cu mme –, aggiunge un tocco contemporaneo al sapore tradizionale del folklore locale, e si sposa perfettamente con l’atmosfera della serie.

Un debutto promettente

Esperienza insolita nel nostro panorama ma consapevole di maneggiare dei tropi che hanno caratterizzato la struttura del cinema d’intrattenimento statunitense con una enorme influenza sulla cultura pop, Uonderbois parla principalmente a un pubblico giovane, godendo di un felice connubio tra specificità locale e linguaggio universale. La prima puntata dà effettivamente solo un’idea di quello che sarà la serie, ma gli elementi per una grande avventura ci sono tutti.

Piece by Piece: recensione della biografia musicale animata di Pharrell Williams

Piece by Piece è una biografia musicale narrata attraverso l’animazione LEGO, un’esperienza che sfida il cinismo e abbraccia una vibrante originalità. Presentato al Toronto Film Festival, il film, che nasce dalla collaborazione tra il regista Morgan Neville e il genio creativo di Pharrell Williams, reinventa il genere documentario mescolando vivacità visiva e narrativa pop.

Piece by Piece è un connubio inaspettato

L’idea di raccontare la vita di Pharrell tramite i LEGO è insolita, ma si rivela sorprendentemente azzeccata. La carriera del musicista e produttore si distingue per la capacità di mescolare elementi incongruenti in creazioni straordinarie. È facile immaginare un giovane Pharrell costruire mondi magici con pezzi presi da set LEGO diversi, proprio come mescolava hip-hop, disco e rock per creare il suo sound unico.

Neville sfrutta questo connubio per creare un’opera visiva che trasforma episodi della vita di Pharrell in scene animate piene di colori e fantasia. Non vediamo il progetto di edilizia popolare di Virginia Beach come un quartiere grigio e difficile, ma come una realtà solare e comunitaria. La scuola che Pharrell frequentava insieme a Timbaland e Missy Elliott diventa un’esplosione di luci e musica, una capsula di creatività pronta a scoppiare. Ogni nuovo beat prodotto dai Neptunes prende forma come sfere luminose e pulsanti, che sembrano emergere direttamente dalla sinestesia di Pharrell.

Una narrazione vivace

La scelta di un approccio LEGO permette a Piece by Piece di esprimere la gioia che è al centro della musica e della personalità di Pharrell. La sua ascesa da Virginia Beach al successo globale è una storia familiare, ma Neville la racconta con un tocco così giocoso che sembra nuova e insolita. I contributi di Pharrell a brani iconici come Superthug di NORE, Drop It Like It’s Hot di Snoop Dogg e l’inno Alright di Kendrick Lamar vengono visualizzati con un brio che rende giustizia alla loro importanza culturale.

Le interviste con Missy Elliott, Jay-Z, Gwen Stefani e Pusha T arricchiscono la narrazione, creando un ritratto collettivo che celebra l’impatto di Pharrell sul mondo della musica. Ma questa componente allegra e positiva è bilanciata da aspetti più emotivi che certo non mancano in un racconto biografico: le riflessioni su sua nonna, che lo ha incoraggiato fin dall’inizio, e le difficoltà creative che ha affrontato nel bilanciare l’arte con le pressioni del business, aggiungono profondità emotiva.

Un trionfo visivo con qualche limite

Visivamente, Piece by Piece è un trionfo. L’animazione LEGO non è solo un espediente, ma una scelta narrativa che amplifica la creatività del soggetto. Tuttavia, questo approccio ha i suoi limiti. La rappresentazione LEGO, per quanto brillante, manca della capacità di catturare le espressioni umane con la stessa profondità di un documentario tradizionale. Le teste di plastica e i sorrisi stampati non riescono sempre a trasmettere le sfumature delle emozioni reali.

Inoltre, la natura profondamente giocosa del film a volte riduce il dramma intrinseco della storia di Pharrell. Sebbene le sue sfide creative e personali vengano affrontate, il tono rimane ottimistico al punto che i conflitti sembrano appena accennati.

Il peso di un successo chiamato Happy

Un capitolo interessante e ambivalente è quello dedicato a Happy, la canzone che ha definito la carriera di Pharrell. Creata per un progetto commerciale, Happy ha avuto un impatto universale in un periodo segnato dall’ascesa del movimento Black Lives Matter e dalle proteste contro la brutalità della polizia. Il film esplora questo contrasto con delicatezza, mostrando come il successo della canzone sia stato allo stesso tempo una benedizione e una fonte di riflessione.

Un esercizio di branding che funziona

Piece by Piece è un esercizio di branding mascherato da biografia, con tutto ciò che questo implica. È un branding fatto bene. Pharrell Williams emerge come un artista che vede il mondo attraverso una lente di infinita creatività e positività. Il film, con la sua estetica giocosa e i suoi ritmi coinvolgenti, prova a essere una celebrazione di quella visione. Siamo quindi di fronte a un’agiografia, più che a una biografia. E se da un lato questo punto di vista risulta poco interessante, dall’altro nulla ci impedisce di godere del film anche solo per la sua positiva e giocosa esplosione di colori. Dopotutto il “trattamento LEGO” ha il potere di rendere tutto migliore.

Black Doves: recensione della serie tv con Keira Knightley

L’abbondanza di serie tv di stampo spy-action sulle piattaforme non è una cosa nuova: per definizione, la narrazioni che si muovono nel territorio dello spionaggio e contano su una marcata componente action sono tra i prodotti che più chiamano visualizzazioni. In un panorama ormai saturo all’inverosimile di queste proposte, è cosa rara incappare in un esperimento seriale che lasci, effettivamente, la sensazione di qualcosa di “fresco” allo spettatore. Per fortuna, questo è il caso di Black Doves, disponibile su Netflix dal 5 dicembre, sviluppata da Sister e Noisy Bear e con due noti attori britannici protagonisti: Keira Knightley e Ben Wishaw.

Black Doves: mia moglie è una spia

Tutto ha inizio una notte in cui tre persone vengono assassinate quasi contemporaneamente mentre parlano al telefono: chi sono e cosa stavano progettando? La serie parte da questo interrogativo concentrandosi nello specifico sulla morte di uno di loro, un certo Jason (Andrew Koji), che era l’amante di Helen (Knightley), la moglie del Ministro della Difesa (Andrew Buchan). Apprendiamo subito che Helen è in realtà una spia di un’organizzazione chiamata “Black Doves”, che risponde agli ordini di Reed (Sarah Lancashire), per cui è una sorta di insider a cui rivela tutti i segreti del marito politico.

La donna continua a ribadire che la sua relazione con Jason non nascondeva alcun sotterfugio compromettente per il suo lavoro, tutt’altro: era veramente innamorata del ragazzo, ed è per questo che decide di mettersi a indagare sulla sua morte. Lo fa con l’aiuto di un vecchio amico dell’organizzazione, Sam (Whishaw), che torna in Gran Bretagna dopo sette anni di clandestinità a causa di una storia precedente che ha avuto un impatto sulle vite di tutti e che verrà raccontata in flashback. Queste tre morti saranno l’iniziale “innesco” di un complicato conflitto internazionale poiché, in concomitanza con questi eventi, l’ambasciatore cinese in Gran Bretagna viene trovato morto: non tarda troppo tempo per capire che tutti questi eventi potrebbero essere collegati tra loro.

In Black Doves c’è tutto quello che ci aspetteremmo di trovare in una serie del genere: un’investigazione dall’assoluto grado di segretezza; una donna che, dietro la facciata della moglie perfetta, nasconde un’indole decisamente più dinamica; l’ampio respiro internazionale, con le nostre superspie in continuo movimento e, nel caso del personaggio di Whishaw, che non sembrano appartenere davvero a nessun luogo.

Una serie che sorprende

Grazie soprattutto a interpreti decisamente calati nella parte e alla scelta di incorporare un po’ di sano humor british, Black Doves regala al pubblico un’esperienza di visione soddisfacente. La serie cerca di caratterizzare al meglio i suoi volti di punta, tanto che la vita privata di questi assume un ruolo di primo piano nello sviluppo degli eventi. Anche se potrebbe sembrare che aderiscano alla fredda regola del non portare sul lavoro i conflitti casalinghi, qui non c’è intrigo internazionale in cui questi aspetti emotivi non siano almeno in parte coinvolti.

L’aspetto più problematico di Black Doves emerge a partire dalla metà della serie: i suoi personaggi di contorno sono così tanti e così poco definiti, che è molto difficile mantenere il livello di credibilità di cui questo tipo di show ha bisogno. Fortunatamente, come dicevamo, i due personaggi principali colmano le lacune, dando corpo e anima alla serie.

Il connubio tra action e comedy

Knightley, che torna sulla piattaforma dopo il film Lo strangolatore di Boston (2023), si afferma come baricentro drammatico di tutto ciò che accade, gestendo molto bene il classico conflitto dell’infiltrata che vive una doppia vita al punto da non riuscire più a distinguere chi è e di chi deve veramente fidarsi. D’altra parte, Whishaw si mette alla prova portando in scena un forte dramma emotivo personale: Sam è gay, aveva un compagno che ha dovuto lasciare per motivi di lavoro, e di cui sente ancora la mancanza. Questo profondo conflitto interiore deve coesistere con una sottotrama che coinvolge una coppia di assassini professionisti e il loro capo, un’accoppiata che sembra uscita direttamente da un film di Guy Ritchie.

Tra battute taglienti e una spiccata ironia, Knightley non vi farà mai perdere di vista la sua Helen, mentre Whishaw conferisce al suo Sam una vulnerabilità irresistibile, che vi farà pensare di non avere mai incontrato un sicario del genere nell’audiovisivo. Tra di loro, la componente comedy funziona egregiamente, ma l’incantesimo non si applica a tutti i personaggi e alle storyline secondarie che incontriamo strada facendo. Effettivamente, forse questa dispersione tonale potrebbe respingere qualche spettatore ma, per chi saprà comprendere che è parte del gioco, Black Doves promette di riservare le giuste sorprese.

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FBI – Stagione 7: data di uscita, cast, trama e tutto quello che sappiamo

Dal produttore Dick Wolf, FBI è stato uno dei più grandi successi della CBS negli ultimi tempi, e il procedurale di polizia ricco di azione tornerà per la settima stagione. Debuttata nel 2018, la serie segue gli agenti dell’ufficio dell’FBI di New York City mentre proteggono la città e il paese da varie minacce interne. Le impronte digitali di Dick Wolf sono presenti su FBI, che raggiunge un buon equilibrio tra la tipica formula del caso della settimana con il vantaggio di personaggi ben scritti e l’aggiunta della gravitas dell’FBI.

Non ci è voluto molto perché la serie ricevesse uno spinoff, e l’episodio della prima stagione “Most Wanted” è servito come episodio pilota per l’omonima serie. Negli anni successivi, il popolare procedurale della CBS è stato nuovamente scorporato e sta rapidamente diventando il prossimo franchise televisivo con più serie. Come altre creazioni di Dick Wolf, come Law and Order e la serie One ChicagoFBI funziona così bene grazie alle possibilità quasi illimitate che potrebbero facilmente vedere la serie principale estendersi per decenni. Anche con sei stagioni all’attivo, FBI non mostra segni di arresto.

Ultime notizie su FBI Stagione 7

Sebbene il cast della serie principale non sia cambiato molto in sei stagioni, le ultime notizie confermano che un membro del cast lascia l’FBI e un altro entra a farne parte. Katherine Renee Kane è entrata a far parte dello show nella terza stagione nel ruolo dell’agente speciale Tiffany Wallace, ma si prevede che se ne andrà nel corso della settima stagione. Al suo posto, Lisette Olivera si unirà al cast nel ruolo di Syd , membro dell’Unità di Analisi Comportamentale. Non è stata fornita alcuna ragione per l’uscita di scena della Kane, ma apparirà in almeno un episodio della stagione 7.

Data di uscita della stagione 7 di FBI

La stagione 7 debutterà a ottobre

La CBS ha debuttato con i suoi show sull ‘FBI nel febbraio 2024, e ci sono voluti solo pochi mesi perché la rete desse a tutti e tre gli ordini di stagioni aggiuntive. Il programma del martedì interamente dedicato all’FBI ha aiutato la CBS a dominare gli ascolti, e la rete continuerà questa tendenza quando la serie tornerà martedì 15 ottobre, a partire dalle 20:00 con FBI. Lo show di punta sarà seguito da FBI: International alle 21.00 e FBI: Most Wanted alle 22.00.

La stagione 6 di FBI si è conclusa il 21 maggio 2024.

FBI Stagione 7 Cast

Aspettatevi il ritorno dell’intero cast

I procedurali come FBI sono noti per mantenere i membri del cast per molto tempo, e non ci sono molti cambiamenti da una stagione all’altra. Anche se la sesta stagione ha visto la tragica morte del personaggio ricorrente Trevor Hobbs, interpretato da Roshawn Franklin, in genere i personaggi principali non cambiano spesso. Per questo motivo, ilcast della settima stagione dell‘FBI sarà probabilmente molto simile a quello della sesta, con il ritorno di Missy Peregrym nei panni dell’agente speciale Maggie Bell e del resto della sua squadra.

Katherine Renee Kane riprenderà il ruolo dell’agente speciale Tiffany Wallace nella stagione 7, ma lascerà il ruolo nel corso della stagione. Al suo posto ci sarà la nuova arrivata Lisette Olivera nel ruolo di Syd, un membro dell’Unità di Analisi Comportamentale. L’elenco dei ritorni previsti comprende:

  • Missy Peregrym – Agente speciale Maggie Bell
  • Zeeko Zaki -Agente speciale Omar Adom “OA” Zidan
  • John Boyd – Agente speciale Stuart Scola
  • Katherine Renee Kane – Agente speciale Tiffany Wallace
  • Alana de la Garza – SAC Isobel Castille
  • Jeremy Sisto – Assistente SAC Jubal Valentine
  • Lisette Olivera – Syd

FBI Stagione 7 – Storia

Previsto un formato caso per settimana

Il finale della stagione 6 dell’FBI non ha cambiato la traiettoria dello show, e la squadra ha eliminato con successo Hakim e ha anche dato a Wallace un po’ di chiusura emotiva dopo aver perso il suo partner sotto copertura nell’episodio 1. Detto questo, è difficile indovinare quale potrebbe essere la storia generale della prossima stagione, ammesso che ce ne sia una. Tuttavia, è quasi certo che la stagione 7 dell’FBI sarà come la maggior parte dei procedurali di successo e presenterà un formato di caso della settimana in cui gli agenti dovranno affrontare alcune delle più grandi minacce che la Grande Mela ha da offrire.

Euphoria: rivelata la data di uscita della terza stagione

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La serie teen drama di successo Euphoria, con protagonista Zendaya, ha finalmente una data di uscita per la tanto attesa terza stagione su HBO. La serie, creata e scritta da Sam Levinson, è basata sulla miniserie israeliana omonima e segue Rue Bennett, un’adolescente tossicodipendente che lotta per disintossicarsi e trovare il suo posto nel mondo. Euphoria è diventato un enorme successo per HBO, ma la terza stagione ha subito diversi ritardi a causa della riscrittura della sceneggiatura da parte di Levinson e dell’impegno del cast in altri progetti. Secondo le ultime notizie, le riprese della terza stagione di Euphoria inizieranno a gennaio.

Secondo Variety, HBO ha rivelato che Euphoria – stagione 3 uscirà nel 2026. La notizia è stata data da JB Perrette, dirigente della Warner Bros. Discovery, che ha condiviso la notizia durante una conferenza tecnologica e mediatica della Wells Fargo. La serie fa parte della prossima programmazione della HBO, che prevede il debutto e il ritorno di diverse serie nel 2025 e nel 2026, tra cui A Knight of the Seven Kingdoms, The White Lotus e la seconda stagione di The Last of Us.

Cosa significa questo per la terza stagione di Euphoria

Nel gennaio 2025 saranno passati tre anni dal debutto della seconda stagione della serie e molte delle star sono diventate famose in questo periodo, tra cui Zendaya e Sydney Sweeney. Il lasso di tempo suggerisce che la terza stagione di Euphoria cercherà di esplorare nuovi territori e affrontare trame diverse da quelle a cui gli spettatori sono abituati. Secondo quanto riferito, Levinson ha faticato a trovare una nuova strada creativa da seguire, e anche Zendaya ha suggerito alcune trame che alla fine sono state scartate. Ora, però, la serie è finalmente entrata in una fase di produzione regolare.

È probabile che la serie farà un salto temporale e seguirà i personaggi da giovani adulti.

La premiere nel 2026 è in linea con l’inizio delle riprese previsto per Euphoria; con la produzione della serie che inizierà il mese prossimo, il team creativo ha tutto il 2025 per mettere a punto i nuovi episodi. Supponendo che tutto vada liscio, Euphoria potrebbe debuttare all’inizio del 2026, proprio come la seconda stagione nel 2022.

Sembra che Levinson abbia in mente di dare alla terza stagione una direzione diversa rispetto agli episodi precedenti, dato che il cast di Euphoria è ormai troppo vecchio per continuare a interpretare dei liceali. È probabile che la serie faccia un salto temporale e segua i personaggi da giovani adulti.

Star Wars: Skeleton Crew, recensione dei primi tre episodi

Con Star Wars: Skeleton Crew, Lucasfilm propone un’interessante deviazione dal percorso tradizionale della saga stellare. Con le prime tre puntate (due delle quali disponibili su Disney+ dal 2 dicembre, mentre le altre una a settimana), questa nuova serie punta i riflettori su un gruppo di pre-adolescenti che si trovano coinvolti in un’avventura cosmica, attingendo al sentimento nostalgico di classici come I Goonies. Ma riesce davvero a essere Star Wars, o è il sintomo di un franchise che si sta adattando a un nuovo pubblico?

La trama di Star Wars: Skeleton Crew: uno spirito d’avventura senza confini

La premessa di Skeleton Crew è semplice e accattivante. Quattro ragazzi – rispettivamente interpretati da Ravi Cabot-Conyers, Ryan Kiera Armstrong, Kyriana Kratter e Robert Timothy Smith – scoprono qualcosa di misterioso sul loro apparentemente tranquillo pianeta natale. Quella che inizia come una ricerca di una semplice avventura per staccare dalla routine, si trasforma in un’odissea galattica, piena di incontri inaspettati, pericoli e scoperte. Guidati da un enigmatico Jude Law in un ruolo ancora avvolto dal mistero, i giovani protagonisti sono costretti a navigare una galassia pericolosa, in cui alleati e nemici si mescolano in modi imprevedibili.

L’aspetto che colpisce immediatamente è l’approccio visivo. Grazie alla regia alternata di Jon Watts, David Lowery, i Daniels e altri, Star Wars: Skeleton Crew offre un mix di atmosfere: dal fiabesco al surreale, con momenti che ricordano il fascino artigianale di The Mandalorian e l’intimità visiva di Andor. Tuttavia, è lo spirito da “film per ragazzi anni ‘80” che domina, regalando una sensazione di leggerezza e scoperta che si amalgama bene con la narrazione.

Un cast giovane e promettente

Il cuore della serie sono i suoi giovani protagonisti. I quattro ragazzi offrono performance genuine, catturando con autenticità lo stupore e il terrore di trovarsi in un mondo molto più grande e pericoloso di quanto avessero mai immaginato. Jude Law, nel ruolo del loro mentore (o forse qualcosa di più ambiguo?), riesce a mantenere alta la tensione drammatica senza rubare troppo spazio alla narrazione dei ragazzi, tenendo in equilibrio il mistero del suo personaggio con un sorriso sornione irresistibile. Il cast di supporto, che include Kerry Condon e Nick Frost, aggiunge profondità e tonalità variegate alla serie.

Regia e scrittura: una visione poliedrica

Uno dei punti di forza di Skeleton Crew è la sua regia diversificata. Ogni episodio ha una sua identità visiva e tonale, pur mantenendo una coerenza narrativa. I Daniels portano il loro caratteristico stile eccentrico, mentre David Lowery aggiunge una sensibilità più malinconica e poetica. Questo approccio rende ogni episodio un’esperienza unica, anche se potrebbe disorientare chi preferisce uno stile più uniforme.

Sul fronte della scrittura, Jon Watts e Christopher Ford riescono a bilanciare momenti di leggerezza con temi più profondi, come la paura dell’ignoto e il desiderio di appartenenza. Tuttavia, alcuni dialoghi rischiano di cadere nel cliché, soprattutto quando cercano di veicolare lezioni morali esplicite.

Il dilemma dell’identità: cos’è Star Wars oggi?

Le prime tre puntate di Star Wars: Skeleton Crew offrono un’esperienza fresca e originale, e la serie si presenta così come una storia di formazione travestita da avventura spaziale, strizzando l’occhio a chi cerca emozioni più intime e meno epiche. Non sarà lo Star Wars che tutti conosciamo, ma forse è quello di cui il franchise ha bisogno in questo momento.

Il fatto che Skeleton Crew sia effettivamente una serie fresca e interessante fa emergere una domanda fondamentale: questo è ancora Star Wars? I puristi della saga potrebbero storcere il naso. Non ci sono Jedi iconici o conflitti cosmici di proporzioni epiche. Non ci sono Sith che complottano né battaglie stellari mozzafiato. Piuttosto, la serie esplora un lato più intimo e personale della galassia lontana lontana. È come se Lucasfilm stesse sperimentando con il formato: cosa succede se mettiamo da parte la mitologia e lasciamo spazio a storie più piccole?

Questo spostamento potrebbe sembrare estraniante per chi associa Star Wars a un immaginario ben definito. Tuttavia, è anche un segnale di maturazione del franchise, che cerca di adattarsi a un pubblico più giovane senza rinunciare alla possibilità di raccontare qualcosa di nuovo. Lo spirito di Skeleton Crew non è quello di Una nuova speranza o L’Impero colpisce ancora, ma forse è proprio questo il punto: lo Star Wars del passato è morto, lunga vita al nuovo Star Wars.

Dune: Prophecy – Episodio 3: perché Valya fa visita a suo zio e cosa significa per il futuro?

Con l’episodio 3, Dune: Prophecy si tuffa nelle vite di Valya e Tula Harkonnen, e si conclude con una sequenza in cui Valya fa visita allo zio e al nipote. Le attrici Emily Watson e Jessica Barden interpretano Valya Harkonnen, la protagonista della serie, in momenti diversi nel tempo. L’episodio 3 ha utilizzato diversi flashback per mostrare una parte importante della vita di Valya mentre si allontanava dalla sua famiglia e legava la sua lealtà alla Madre Superiora Racquella e alla Sorellanza, preparandola a diventare in seguito il leader dell’organizzazione.

Valya Harkonnen è una figura ultra-potente a questo punto della linea temporale di Dune, poiché è la leader di un’organizzazione che ha le sue radici scavate in tutto l’Imperium. L’episodio 2 ha visto parte della sua influenza recisa, tuttavia, quando Desmond Hart ha convinto l’imperatore Javicco Corrino a estrometterla dal Palazzo Imperiale e ha anche resistito al potere della Voce. Valya ha fatto una mossa interessante nell’episodio 3, i flashback dimostrano la dualità del suo personaggio e perché tutto ciò è importante.

Valya in visita allo zio si allontana da “Sisterhood Above All”

“Sisterhood Above All” è il titolo dell’episodio 3 di Dune: Prophecy, che esamina il percorso di Valya Harkonnen da membro orgoglioso della sua casa, desiderosa di vendetta contro la Casa Atreides, a leader della Sorellanza. Una delle sue prove più significative è pronunciare la frase “Sisterhood Above All”, dichiarando che metterà sempre le esigenze dell’organizzazione al di sopra di quelle della sua persona e della sua famiglia. È destinata a lasciarsi alle spalle i legami familiari, cosa che sembra fare quando usa la Voce su Sonya e porta Tula con sé nella Sorellanza.

Questo rende il suo incontro con lo zio e il nipote nel finale dell’episodio 3 di Dune: Prophecy ancora più significativo, poiché sembra che stia tornando a tenere alla sua famiglia di provenienza. Il potere della Voce e l’influenza della Sorellanza non hanno funzionato per lei, quindi sta tornando ai suoi legami con gli Harkonnen per chiedere aiuto. Valya è disperata nell’episodio 3 e mostra quanto sia in conflitto, come personaggio. Può affermare di aver fatto sacrifici per la Sorellanza, ma è disposta a piegare le regole quando la sua posizione è minacciata.

In che modo lo zio di Valya aiutarla davvero?

La Casa Harkonnen ha sofferto negli anni precedenti agli eventi di Dune: Prophecy, poiché sono stati considerati codardi dalla Casa Atreides alla fine della Jihad Butleriana. Non hanno l’influenza che avranno durante i film di Dune, ma potrebbero comunque avere delle connessioni e un certo livello di influenza che può aiutare Valya in cambio del suo sostegno nell’aumentare la loro reputazione come casa. È difficile dire esattamente quale sia il suo gioco, ma la Casa Harkonnen non dovrebbe mai essere completamente esclusa dall’universo di Dune.

L’amica Geniale – Storia della bambina perduta: recensione degli episodi 7 e 8

Dopo un dittico che sicuramente ha fatto discutere, a tratti sgradevole e violento nei confronti delle sue protagoniste, L’amica geniale – Storia della Bambina Perduta torna su RaiUno con le puntate 7 e 8, Il ritorno e L’indagine. Dopo decenni che le due amiche erano separate, questi due episodi le vedono tornare insieme, confidenti e collaboratrici, di nuovo vicine, mentre la loro relazione assume dei contorni nuovi che fino a quel momento non si erano mai definiti così bene. Il loro rapporto di forze si evolve ulteriormente e se Lila continua a essere quella tra le due che tende a prevaricare l’altra, Elena si conferma una donna piena di risorse, soprattutto dopo la fine della storia con Nino.

L’addio a Nino e “Il ritorno” al rione

Con il settimo episodio, dal titolo Il ritorno, la storia si immerge di nuovo nel tumulto emotivo di Elena, che torna alle sue radici e al suo inizio, prendendo di nuovo casa al rione, proprio sotto all’appartamento di Lila. La rottura definitiva con Nino è un momento di liberazione e consapevolezza: un legame tossico che viene reciso, non senza amarezza, ma con grande decisione. La scena del loro confronto nella casa di Via Petrarca però non è il trionfo della volontà di Elena, quanto piuttosto un verboso e depotenziato colloquio tra due persone che, almeno da una parte, un tempo si erano amate. Nino confessa tutte le sue piccolezze e questa volta Lenù ha gli strumenti per allontanarlo, definitivamente. La scelta degli sceneggiatori di mostrare il tradimento di Nino con una donna sformata e anziana è stato un inciampo di scrittura davvero sgradevole, come se solo vedendosi tradire con una donna così poco attraente, Lenù avesse capito che quest’uomo, che ha amato per così tanto tempo, non merita quella devozione. Il tradimento perpetrato nel tempo da Nino, la sua ostinazione a coltivare se stesso al posto della sua storia con Elena, il continuo desiderio di affermazione e conferma, l’insicurezza che mortificava l’intelligenza della compagna erano ben più gravi di una sveltita con l’attempata domestica. Ma una scelta “grafica” rispetto agli eleganti non detti allusivi del romanzo, è sembrata più adeguata alla televisione. Non sarà l’unica volta in questa coda di serie, né sarà la più sgradevole.

Archiviato finalmente Nino dal suo cuore (ma non dalla sua vita, continuano a condividere una figlia, dopotutto) Elena torna al rione, dove riafferma la propria autonomia, nonostante la difficoltà di essere una donna sola con tre bimbe. Questo ritorno alle origini diventa un catalizzatore per la sua scrittura, che finalmente trova una nuova forza e autenticità. La pubblicazione del suo libro e il successo che ne deriva trasformano Elena in una figura di spicco, ma il prezzo del suo successo diventa evidente: la distanza crescente tra lei e un ambiente che implode su sé stesso. Elena è ormai un elemento estraneo al rione e tuttavia una componente importante per il suo ecosistema, una voce narrante.

L’evento che fa seguito al ritorno di Lenù al rione è il tanto atteso matrimonio di Marcello Solara con la sorella di Elena, Elisa, una delle sequenze più cariche di tensione dell’episodio. La scena mira a sottolineare un punto in particolare, che però non viene spiegato adeguatamente: Michele Solara è definitivamente libero dall’incantesimo di Lila, ormai la disprezza soltanto e con lei disprezza anche la sua “brutta copia”, Alfonso. Vestito da donna, l’uomo fa irruzione al matrimonio, creando agitazione e tensione. Verrà cacciato e allontanato, solo Lila e Lenù gli rimarranno accanto, fino a che Michele non lo picchierà a sangue per le strade del rione, davanti all’indifferenza di tutti (tranne del buon Enzo, al quale però Lila impedirà di intervenire). Edoardo Pesce, il Michele adulto, è superbo nella messa in scena della bruta e cieca cattiveria del Solara maggiore. Il pestaggio di Alfonso è uno dei momenti più crudi e disturbanti dell’intera serie, eppure il trattamento del personaggio appare forzato rispetto alla delicatezza con cui era stato tratteggiato nei romanzi.

Punto fermo rimane l’amicizia tra Lila e Lenù, sempre in bilico tra parità e abuso, onestà e inganno, in balia degli umori della prima che continuano a influenzare e travolgere la seconda che, dopo tutto questo tempo, appare finalmente più consapevole e capace di schermarsi dalle inevitabili cattiverie dell’amica.

La scrittura come strumento di attacco al potere: L’indagine

L’ottavo episodio tira le fila di molteplici tensioni, portando alla luce l’influenza opprimente dei Solara e l’ineluttabile disgregazione del rione. La morte di Alfonso segna un punto di non ritorno: non solo per la sua brutalità, ma per il modo in cui spezza definitivamente la già fragile speranza di una resistenza al potere dei Solara. La reazione di Lila, fredda e piena di disprezzo, è un elemento di distacco che evidenzia quanto la serie scelga di calcare la mano sull’aspetto più crudo e spietato della realtà narrata. La donna è spezzata dalla morte dell’amico, eppure sceglie di reagire in maniera fredda, senza lasciarsi attraversare da quel dolore che però, lo vedremo, avrà il tempo di esplodere per altre ragioni.

Il degrado del rione e la ritrovata ispirazione di Elena si fondono come un’arma nelle mani di Lila: la donna desidera che la compagna si faccia voce della protesta e del cambiamento, vuole utilizzare le parole per distruggere la violenza dei Solara, pensiero che ne rivela la fondamentale ingenuità, soprattutto di fronte a una violenza cieca e sorda che prende corpo in Michele. La ribellione delle due amiche le vede brevemente fiorire in un nuovo afflato collaborativo: scrivono, lavorano, si confrontano, tornano a essere le due bimbe piene di speranze nel mondo delle idee, per poi scontrarsi contro una realtà ben più cruda. Le parole che mettono insieme non servono ad altro che a mettere Elena in una posizione di difficoltà all’interno del rione, mentre Michele, sempre più violento e minaccioso, si erge come un simbolo di quella brutalità sistemica che soffoca ogni tentativo di cambiamento.

Elena si trova costretta ad affrontare una querela e i problemi economici che ne derivano, trovandosi a dover difendere la propria carriera e integrità. L’episodio riflette bene la spirale di compromessi e minacce che circondano entrambe le protagoniste, mostrando una Napoli senza speranza che divora i suoi figli. Ancora una volta L’amica geniale guarda oltre i confini del privato, affacciandosi con approccio problematico alla società, al pubblico, instaurando uno stretto legame trai due aspetti della narrazione.

L’amica geniale giunge alla svolta decisiva

Gli episodi 7 e 8 segnano un passaggio cruciale nella narrazione de L’amica geniale – Storia della Bambina Perduta, confermando il talento della serie nel coniugare il dramma personale con il contesto sociale. Tuttavia, alcune scelte narrative, come il trattamento del personaggio di Alfonso, potrebbero risultare discutibili per chi ha amato la delicatezza del romanzo. Resta potente, invece, il rapporto tra Elena e Lila, sempre più sfaccettato e complesso. Questi episodi ci ricordano che il rione non è solo un luogo fisico, ma un’entità viva, un microcosmo di potere e lotte, in cui i sogni di emancipazione si scontrano con la brutalità del sistema.

Dadapolis: recensione del docufilm di Carlo Luglio e Fabio Gargano

Dadapolis è stato presentato in anteprima durante la Mostra internazionale del cinema di Venezia nella Giornate degli Autori. Questo documentario di Carlo Luglio e Fabio Gargano è in grado di rappresentare quanto Napoli sia cambiata nel bene ma anche nel male. All’interno di questo docufilm si può notare volti noti di scrittori, cantanti, attori e registi napoletani che sono stati chiamati per raccontare, anche in modo differente attraverso l’arte e la musica, la loro città.

Cosa racconta Dadapolis

Questo documentario è liberamente ispirato all’omonima antologia Dadapolis: Caleidoscopio napoletano di Fabrizio Raimondino e Andreas Friedrich Muller del 1989. Dadapolis è diviso in precise parti che sono scandite da quattro macro temi fondamentali che si racchiudono nei quattro elementi naturali: fuoco, terra, acqua ed aria.

Napoli tra fuoco, terra, acqua ed aria

Il primo è il fuoco che viene associato alla creazione della città e le sue trasformazioni ovviamente anche accennando il Vesuvio. Una sagoma identificatoria di Napoli, fonte d’ispirazione come una presenza che inquieta e rassicura come un presagio da sempre per i napoletani. Qui però non ci sofferma tanto sul vulcano ma sulle rive, dove un gruppo di conoscenti composto d’artisti, di tutti i generi e provenienze culturali, si ritrova ed espone i pensieri liberi e non scanditi da un copione. Le spiagge di Napoli sono da sempre il confine permeabile ad ogni sorta di passaggio, dalla Sirena Partenope disperata per non aver ammaliato Ulisse fino alle portaerei degli alleati americani.

Il documentario nella seconda sezione, quella della terra, affronta la creatività e il mercato  nel mondo dell’arte. Si parla di quella contemporanea fatta d’installazione, ma anche dei giovani street artist che stanno cercando un loro posto, con opere che cadono subito all’occhio sui muri abbandonati della città ma anche su vecchi pescherecci al molo. In questa parte appare anche lo psicanalista Guelfo Margherita, che induce un gruppo di ragazzi e ragazze a riflettere sulla riconoscibilità di alcuni valori ad esempio come la libertà nella produzione artistica.

La terza è quella dedicata all’acqua che rappresenta morte e rinascita di Napoli. L’elemento acquatico però è in qualche modo il fil rouge del documentario stesso. Il mare è da sempre presente fin dalla prima scena c’è per i momenti a riva, nel porto, sulle barche e nelle sirene che vengono continuamente citate anche perché Partenope è la dea protettrice della città, come quella omonima del film di Paolo SorrentinoDadapolis si conclude con l’aria, con la mobilità, l’immigrazione e uno sguardo al futuro che come dicono tutti i vari interlocutori è molto incerto.

Dadapolis un docufilm non per tutti

Napoli in questo documentario viene raccontata in modo schietto, tante volte i vari artisti affrontano il problema, sottinteso, di quello che si sta trasformando nel cosiddetto luogo di turismo che pensa, come qualsiasi località in Italia, a guadagnare e perdendo la sua essenza. La città partenopea in questi anni sta vivendo una rinascita, basta solo pensare a quanti film o serie televisive sono ambientate lì, ma diventando però tutta stereotipata perché in qualche modo il visitatore, soprattutto quello straniero, vuole e cerca questo.

Dadapolis si rivela un documentario che è riuscito a metà se si vuole pensare ad un pubblico generalista anche perché la modalità si raccontare è molto sperimentale. Interessanti le vedute dall’alto per ammirare la parte più costiera ma non si va mai all’interno, questa si vede che è una scelta specifica per non togliere l’interesse a quello che dicono i vari artisti. Per concludere, visto anche il titolo che cita il movimento dadaista, forse i due registi avrebbero dovuto più concentrarsi sull’aspetto dell’arte che rimane quello più interessante nell’insieme dei vari discorsi.

Solo Leveling: ReAwakening – la recensione del film di Shunsuke Nakashige

Il mondo di Solo Leveling, nato dalla penna di Chugong e DUBU e poi trasposto su piccolo schermo nella prima stagione dell’omonimo anime, sta per prendere vita al cinema. Grazie alla sinergia tra CrunchyrollSony Pictures Italia e Eagle Pictures, l’atteso lungometraggio animato intitolato Solo Leveling: ReAwakening arriverà infatti nelle sale italiane per un evento speciale di tre giorni, dal 2 al 4 dicembre.

La pellicola, diretta da Shunsuke Nakashige (Sword Art Online), rappresenta un momento cruciale per i fan della serie: un’occasione unica per rivivere le avventure di Sung Jin-woo, il cacciatore più debole diventato il più forte, e immergersi nuovamente nell’affascinante universo dei dungeon e delle creature sovrannaturali.

Prodotto da due dei più importanti studi di animazione giapponesi, A-1 Pictures e Production I.GSolo Leveling: ReAwakening offrirà un riassunto dettagliato della prima stagione, permettendo a tutti i fan di rinfrescarsi la memoria e di prepararsi all’esaltante anteprima dei primi due episodi della seconda stagione. E, pur vantando una speciale colonna sonora, composta dal talentuoso Hiroyuki Sawano (Attack on Titan) e dal gruppo K-Pop Tomorrow X Together, ha il difficile compito di rendere giustizia alla dinamica e spettacolare narrazione del manhwa originale.

La trama di Solo Leveling: ReAwakening

Dieci anni fa il mondo è cambiato per sempre. All’improvviso, infatti, il pianeta ha conosciuto l’apertura dei “Gate”, portali verso dimensioni oscure abitate da mostri di ogni sorta. Alcuni componenti del genere umano hanno però risvegliato sopite capacità di combattimento con le quali poter affrontare la nuova minaccia. Sono denominati cacciatori, gli Hunters, e si dividono in diverse classi di forza che vanno dalla “S”, la più potente, alla “E”. Di quest’ultima, quella riservata agli hunters di minor valore, fa parte anche Sung Jin-woo, protagonista del racconto, considerato da tutti l’arma più debole del mondo.

Il destino, tuttavia, sembra avere in serbo per Jin-woo un percorso ben diverso. E Solo Leveling – ReAwakening racconta proprio la straordinaria ascesa del protagonista, dalla sua umile condizione di cacciatore di rango E fino a quello di leggenda. Entrato in un dungeon mortale, una missione rivelatasi ben più pericolosa del previsto, il giovane ragazzo ha infatti scoperto un sistema di livellamento unico, destinato a cambiarlo per sempre. E ora, dotato di una nuova consapevolezza e fiducia nei propri mezzi, Jin-woo è ansioso di affrontare nuove sfide e pericoli per divenire l’hunter più potente del mondo. In un’adrenalinica avventura action, che lo condurrà ben oltre i limiti imposti dalla sua classe.

Solo Leveling: ReAwakening: tra struttura e semantica

Solo Leveling: ReAwakening è senza dubbio un lungometraggio bizzarro. Se infatti la sua struttura narrativa, almeno da un punto di vista prettamente contenutistico, ricalca quella di un certo numero di anime – e fa leva sulla classica storia d’evoluzione di un outsider che, mescolata a pratiche tipiche del gaming e grazie a un’animazione di alto livello, regalano due ore di coinvolgente e crudo intrattenimento – è però necessario spendere almeno qualche parola per provare a carpire quella che è la natura semantica di questo prodotto. Di un film che, come accennavamo a inizio articolo, si compone di due differenti sezioni a cavallo tra piccolo e grande schermo.

Solo Leveling: ReAwakening propone infatti un montaggio dei momenti fondanti della prima stagione dell’anime, uscita a partire dal gennaio di quest’anno, unito a un piccolo assaggio della seconda, di cui ci vengono mostrate integralmente le prime due puntate. E, pur non trattandosi di un caso isolato all’interno del proprio universo di riferimento – visto e considerato il precedente dello scorso febbraio targato Demon Slayer – è pressoché innegabile che la scelta di questo formato di distribuzione sia da considerarsi quantomeno curiosa. Specie di fronte di un panorama audiovisivo che, pur avendoci ormai abituato alla dimensione intermediale dei suoi articoli, è però sempre stato dominato da lungometraggi chiamati più che altro a portare avanti o concludere l’arco narrativo della propria controparte seriale (si pensi a Downton Abbey). O, in alternativa, a raccontare storie o frangenti che, godendo del ruolo di spin off, potessero ampliare la nostra conoscenza orizzontale del franchise di turno.

Solo Leveling: ReAwakening: porte aperte sul futuro

Ecco perché il progetto Solo Leveling: ReAwakening (precedenti ed eredi inclusi) impone una serie di domande. Soprattutto in considerazione di un modello di fruizione cine-televisiva che di giorno in giorno continua ad evolversi.

Quali porte, quali gate potrà infatti aprire un’idea di prodotto basata sul concetto di riassuntone/highlights tipico di Youtube, sul “previously on” della serialità anni 2000 e sulla modalità della “sneak peek” figlia, almeno in parte, delle famigerate post credit marvelliane? E quali risposte potrà suggerire, in ottica futura, a case di produzione (Disney su tutte) già da tempo instradate lungo il viale della costante infiltrazione? Ma soprattutto, quali parole potremo utilizzare per descrivere un prodotto che, come Solo Leveling: ReAwakening disperde le proprie anime seriale e cinematografica per assestarsi come esperienza posta all’incrocio tra nostalgia del passato e voglia di futuro? Dovremo forse inventarci nuove parole?

Una cosa è certa: freebooting e rimontaggi sono esperienze già superate. Non resta che attendere la naturale evoluzione di un sistema autonomo ormai inarrestabile.

Dune: Prophecy – Episodio 3, la spiegazione del finale

Il finale dell’episodio 3 di Dune: Prophecy, dal titolo “Sisterhood Above All”, solleva diverse domande sul passato e sul futuro di Tula HarkonnenDune: Prophecy è una serie in sei parti basata sul romanzo del 2012 Sisterhood of Dune, scritto dal figlio dell’autore originale di Dune Frank HerbertBrian, e Kevin J. Anderson. La storia si svolge più di 10.000 anni prima dell’ascesa di Paul Atreidies, raccontata in Dune (2020) e Dune: Parte Due (2024) di Denis VillenueveDune: Prophecy rivela le origini della potente sorellanza ombra nota come Bene Gesserit e come hanno manipolato il destino dell’umanità.

L’episodio 1 di Dune: Prophecy “The Hidden Hand” ha presentato Valya Harkonnen (Emily Watson), una leader feroce e calcolatrice, e sua sorella biologica, Tula Harkonnen. L’episodio 2 di Dune: Prophecy rivela cosa è successo a Lila e a sua nonna, la Reverenda Madre Dorotea, dopo che Tula e Valya Harkoennen l’hanno incoraggiata a sopportare prematuramente un rituale pericoloso per la vita noto come The Agony. Nell’episodio 3 di Dune: Prophecy, Tula prende in mano la vita di Lila dopo che è apparentemente morta durante il rituale The Agony e cerca di resuscitarla tramite l’uso di Macchine Pensanti proibite, nascoste da Valya e dalle Bene Gesserit.

Cosa è successo a Griffin Harkonnen

L’episodio 3 di Dune: Prophecy presenta l’unico fratello di Valya e Tula, Griffin Harkonnen. Tornati sul loro pianeta natale di Lankiveil, la Casa Harkonnen è stata evitata dall’Imperium a causa della presunta codardia del loro antenato durante la Battaglia di Corrino contro Vorian Atredies. Mentre il popolo degli Harkonnen si è ridotto a raccogliere pellicce di balena, una Valya audace e ribelle si rifiuta di permettere che il suo cognome venga scartato dall’Imperium.

Griffin spiega alla sua famiglia che si sta dirigendo a Zimia, che è la città principale del pianeta natale dei Corrino, Salusa Secundus, perché Landsraad, ovvero l’organismo che rappresentava tutte le Grandi Casate, ha accettato la sua petizione per ottenere un accordo commerciale migliore per la pelliccia di balena. Mentre è a Zimia, Griffin si mette alla ricerca e affronta Vorian Atreides, che Valya incolpa per aver disonorato Casa Harkonnen. È implicito che Griffin abbia affrontato Vorian come Valya voleva e sia morto nello scontro.

Perché Tula Harkonnen ha ucciso Orry Atreides

Valya e Tula Harkonnen hanno dedicato le loro vite a vendicare il nome della loro famiglia e la morte del loro fratello Griffin, la cui morte ha ulteriormente alimentato il loro odio per Casa Atreides. Mentre Valya andava ad allenarsi con la Sorellanza, Tula nascose la sua vera identità e “si innamorò” di Orry Atreides sul pianeta natale degli Atriedes, Caladan. Orry e Tula si erano incontrati in un mercato dove Orry aveva iniziato una conversazione e aveva chiesto a Tula di sposarlo solo pochi mesi dopo. Tula sembra accettare la proposta di matrimonio di Orry ma solo dopo rivela di essere una Harkonnen, il che sconvolge Orry. Fa appena in tempo e vedere i suoi familiari morti quando Tula piomba su di lui e lo uccide, come aveva fatto con tutti gli altri.

Il significato del toro in Casa Harkonnen spiegato

Tula uccide Orry con un veleno relativamente indolore e rapido, ma il modo in cui più di due dozzine di membri degli Atreides siano morti è più ambiguo. Dopo che Tula uccide Orry ma risparmia un giovane ragazzo Atreides che potrebbe benissimo essere Keiran, alza lo sguardo verso la cima di una rupe e vede un mitico toro nero. Sebbene non venga mai detto nell’episodio 3 di Dune: Prophecy, sembra che il toro abbia assassinato tutti gli Atreides nell’accampamento. Il toro è un simbolo della Casa Harkonnen poiché il nome Harkonnen è basato sul nome finlandese Härkönen che significa “bue” o “persona simile a un bue”. Poiché Tula non avrebbe potuto uccidere tutti quegli Atreides da sola, il mitico toro che vede dopo aver ucciso Orry è il colpevole più probabile.

Cosa ha mostrato Raquella a Valya nei tunnel

L’episodio 3 di Dune: Prophecy rivela come la Madre Reverenda Superiora Raquella abbia mostrato un interesse speciale per un’allieva in difficoltà di nome Valya Harkonnen. Raquella ha preso Valya sotto la sua ala e ha iniziato a farle conoscere la sua grande visione per le Bene Gesserit, che era quella di stabilire un enorme indice genetico per allevare governanti ideali per l’Imperium. Raquella è colpita dall’abilità di Valya con la Voce e le affida il compito di portare avanti la sua visione delle Bene Gesserit al posto della figlia più puritana, Dorotea. Invece di imparare da Dorotea, Valya riceve una speciale guida da Raquella, che le mostra come assembla il suo indice genetico di allevamento nei tunnel usando la tecnologia proibita delle Macchine Pensanti.

Cosa è successo a Valya durante The Agony

Non è esattamente chiaro cosa abbia visto Valya durante il suo rituale auto-somministrato, a cui si è sottoposta da sola a Lankiveil. Entra nello stesso sinistro regno spirituale con tutte le sue antenate Harkonnen come Lila ha fatto con le sue antenate nell’episodio 2 di Dune: Prophecy. Valya è in grado di tornare alla realtà dopo essere sopravvissuta all’Agonia e si riunisce a Tula con una nuova visione per il futuro. Insoddisfatta della sua vita a Lankiveil e detestata dai suoi genitori, Valya giura in questo momento di dedicare tutta la sua vita alla sua nuova famiglia: la Sorellanza. Tornerà dalla Madre Reverenda Superiora Raquella per completare il suo voto di Sorellanza.

A chi fa visita Valya alla fine dell’episodio 3?

Tornando alla linea temporale presente in Dune: Prophecy, Valya fa una visita a sorpresa a suo nipote, Harrow Harkonnen, e al suo anziano padre, Evengy Harkonnen. Dice nell’ascensore mentre sale a casa di Evengy: “I sacrifici devono essere fatti. La sorellanza prima di tutto”. La scena si interrompe e l’episodio si conclude prima che possa accadere qualsiasi altra cosa. Nel contesto della linea temporale attuale della serie, Valya sta cercando ansiosamente di capire cosa fare dopo aver tentato senza successo di usare la Voce su Desmond Hart per ucciderlo ed essere stata bandita da Salusa Secundus. È possibile che possa offrire suo zio e/o suo nipote come una sorta di manovra di pacificazione o di affermazione del potere.

Come Tula progetta di riportare in vita Lila

Tula usa i computer di indicizzazione genetica di Raquella e Valya nella scena finale dell’episodio 3 di Dune: Prophecy in un ultimo disperato tentativo di riportare in vita Lila con una dose di spezia attentamente regolata. Tula ha chiaramente un cuore più grande di Valya e farà di tutto per riportarla in vita da una morte prematura ingiusta in nome della Sorellanza. Anche se Tula non è la madre di Lila, l’ha cresciuta come tale dopo che sua madre è morta durante il parto, o almeno questo è ciò che Tula afferma sia successo. La tecnologia informatica che Tula usa alla fine di Dune: Prophecy cercherà di riportare in vita Lila e di tirarla fuori dal regno in cui ha incontrato Raquella e Dorotea.

From – Stagione 4: cast, storia e tutto quello che sappiamo

La serie horror soprannaturale di Paramount+ From ha già riscosso un grande successo con le sue tre stagioni e ora è stata rinnovata per una quarta stagione. Debuttata nel 2022, la serie racconta la storia di una misteriosa città dell’America centrale che intrappola chiunque vi entri ed è circondata da mostri letali che infestano i boschi fuori dalla città. Riprendendo la trama contorta di serie come Lost e aggiungendo un tocco spaventoso, From si è rapidamente affermata come una delle serie horror di punta nel mondo altamente saturo delle serie TV in streaming.

Il finale della seconda stagione di From ha preparato il terreno per una terza stagione ancora più terrificante, e ogni nuova scoperta solleva più domande invece di dare risposte. Il vero potere della serie è stato il mistero che la avvolge e, come nei migliori puzzle, ogni colpo di scena rende la trama ancora più contorta. Con From che ha ottenuto un successo quasi unanime (compresi gli elogi del maestro dell’horror Stephen King), il futuro della serie sembra roseo. Il futuro sembra ancora più roseo ora che MGM+ ha deciso di rinnovare la serie per una quarta stagione.

Ultime notizie su From – stagione 4

Diversi mesi dopo il rinnovo dello show, arrivano le ultime notizie sotto forma di un’anticipazione sulla data di uscita della stagione 4. Il produttore esecutivo Jeff Pinkner e il co-produttore/creatore della serie John Griffin hanno espresso opinioni contrastanti sulla data di ritorno della serie, anche se Griffin sembra aver avuto l’ultima parola. Anche se Pinker ha detto che c’erano grandi speranze che la serie tornasse prima della fine del 2025, Griffin ha sottolineato che “probabilmente sarà all’inizio del 2026”. Questo perché le riprese della quarta stagione non finiranno prima delle vacanze del 2025.

Un intervallo di poco più di un anno tra una stagione e l’altra non è insolito nell’era dello streaming, e tutte e tre le stagioni di From sono state rilasciate in periodi diversi dell’anno. I commenti di Pinker sull’arrivo entro la fine del 2025 erano probabilmente solo un pio desiderio, o forse aveva semplicemente dimenticato il calendario di produzione. In ogni caso, la risposta più certa di Griffin significa che l’inizio del 2026 è la data più probabile per l’uscita.

Leggi qui i commenti di Griffin e Pinker:

Griffin: “Prima di passare alla prossima domanda, vorrei intervenire, se posso, perché non voglio che Jeff o io veniamo presi di mira da persone arrabbiate. Jeff, correggimi se sbaglio, probabilmente non finiremo le riprese prima delle vacanze. Quindi, molto probabilmente, sarà all’inizio del 2026, no?”

Pinkner: “Probabilmente sarà all’inizio del 2026”.

La quarta stagione è confermata

Fin dall’inizio della terza stagione, sono iniziate le speculazioni sulla quarta stagione di From, ma MGM+ non ha lasciato i fan con il fiato sospeso a lungo. A pochi giorni dal finale della terza stagione, MGM+ ha deciso di rinnovare la serie horror per un’altra stagione. Questo conferma la fiducia della piattaforma di streaming nella serie originale, molto apprezzata, e probabilmente significa che lo show potrebbe andare avanti ancora per un bel po’. È stato anche annunciato che le riprese della quarta stagione inizieranno nel 2025 e che l’uscita è prevista per l’inizio del 2026.

Per commemorare il rinnovo, la pagina ufficiale From su X (precedentemente Twitter) ha condiviso un video del protagonista della serie Harold Perrineau che strappa una bottiglia da un albero con la scritta “From stagione 4 in arrivo”.

Dettagli sul cast della quarta stagione

Il cast della quarta stagione di From è difficile da prevedere, dato che la terza stagione eliminerà senza dubbio alcuni personaggi prima che sia tutto finito. Tuttavia, la forza costante durante l’intera serie è stata Harold Perrineau nei panni di Boyd Stevens, lo sceriffo e leader de facto della città, che dovrebbe tornare nella quarta stagione. Nonostante il suo status fosse incerto all’inizio della terza stagione, si prevede che Catalina Sandino Moreno tornerà a interpretare Tabitha Matthews.

Jim Matthews, interpretato da Eion Bailey, sembrava un altro candidato sicuro per il cast della quarta stagione, ma la sua morte scioccante nella terza stagione significa che probabilmente non tornerà. Tuttavia, con i viaggi nel tempo, quasi tutti potrebbero tornare ad un certo punto. Come negli anni precedenti, la quarta stagione probabilmente aggiungerà anche alcuni membri del cast, anche se è impossibile prevederlo finché non saranno disponibili ulteriori informazioni.

Dai dettagli della trama della quarta stagione

Come molte serie horror sconvolgenti, la trama di From è costellata da colpi di scena enormi che potrebbero portare la serie in qualsiasi direzione in un attimo. Il finale della terza stagione di From non è stato privo di sorprese scioccanti, anche se è servito principalmente a rivelare la natura ciclica del male che affligge la città. Con la rinascita di Smiley, c’è un oscuro senso di disperazione, poiché tutto sembra essere vano. Tuttavia, alcune cose sono cambiate con la morte di Jim e gli abitanti della città sono in grado di minacciare i mostri a modo loro.

Scoprire che tutto è un ciclo può sembrare disperato, ma offre anche ai sopravvissuti la possibilità di analizzare lo schema e trovare il modo di spezzarlo.

La prossima stagione vedrà probabilmente i sopravvissuti cercare di sfruttare ciò che hanno imparato e apportare modifiche. Scoprire che tutto è un ciclo può sembrare disperato, ma offre anche ai sopravvissuti la possibilità di analizzare lo schema e trovare il modo di spezzarlo. Tuttavia, più resistono al ciclo, più le loro vite sono in pericolo in From – Stagione 4.

Yellowstone è basato su una storia vera? L’ispirazione alla vita reale del western, spiegata

Yellowstone è incentrata sulla famiglia Dutton. John Dutton, il patriarca della famiglia interpretato da Kevin Costner, è una figura chiave della serie fin dalla prima stagione. Il potente proprietario di ranch e la sua famiglia controllano il più grande allevamento di bestiame contiguo del Paese, e con esso nascono conflitti con gli interessi degli indigeni e con gli sviluppatori aziendali che cercano di estendere le loro catene e i loro oscuri segreti. Anche se può essere difficile da credere, Yellowstone è il primo ruolo di Costner in una serie regolare. Sheridan aveva proposto a Costner diversi ruoli prima di John Dutton, ma è stato questo progetto a convincere l’attore a partecipare.

Sin dall’uscita di Yellowstone, le persone sono state attratte dalla rappresentazione autentica della vita nei ranch e dei problemi della vita reale. Se lo show sia basato sulla vita reale è una domanda che spesso viene posta agli spettatori. La serie western è semplicemente uno degli show che sembrano troppo reali per non esserlo, il che la dice lunga sulla qualità della narrazione di Sheridan. La verità è che sia la storia che il personaggio di Costner attingono a persone e conflitti reali.

Taylor Sheridan e Kevin Costner hanno co-creato John Dutton

Taylor Sheridan Yellowstone
Taylor Sheridan nella serie tv Yellowstone – Credit Paramount Network

John Dutton non è esattamente “un bravo ragazzo”. È il tipo di eroe che “può fare cose che non ti piacciono molto”, secondo quanto dichiarato da Sheridan in un’intervista congiunta con Costner, rilasciata al LA Times. Il creatore dello show ha ammesso che gli piace che i suoi “eroi facciano cose” che “non piacciono” alla gente, perché così gli spettatori si interrogano sulle loro decisioni. Secondo Costner, il suo Dutton “vive nel grigio”, ma non perché il patriarca della famiglia lo voglia. L’attore ritiene che Dutton non sia “una persona che nella sua mente vive nel grigio”. La sua posizione unica e il peso sulle sue spalle lo spingono a prendere decisioni “per portare a termine le cose”, il che suona molto simile a un’altra figura dell’universo di Sheridan: il Tommy Norris di Billy Bob Thorton in Landman.

Il ruolo di John Dutton è stato creato su misura per Costner, che ha anche aggiunto il suo contributo nel plasmare il personaggio. “Taylor e io abbiamo trascorso molto tempo a parlarne, perché ho dovuto mettere mano a certe cose”, ha detto Costner. Dal punto di vista di Sheridan, avere Costner a bordo significava avere un grande attore in grado di gestire le “situazioni conflittuali” in cui lo aveva gettato. Grazie a Costner, Sheridan ha potuto scrivere molto di più sul ruolo che è diventato John Dutton. Il creatore dello show ha dichiarato a Variety:

Kevin è una delle più grandi star del cinema degli ultimi 40 anni, e se lo merita. È un incredibile narratore di storie come regista, scrittore e attore, e quindi quando hai questo tipo di strumenti nella tua cassetta degli attrezzi, puoi scriverlo in alcune situazioni davvero conflittuali.

Kevin Costner ha portato suo padre in John Dutton

yellowstone kevin costner

Per la ricerca, Kevin Costner si è tuffato nella storia americana per trovare ispirazione. Ha guardato documentari, libri e momenti socioeconomici della Guerra Civile per esplorare l’origine del suo personaggio; ma è stato suo padre ad aiutarlo a entrare nel personaggio. La star del western ha spesso citato il padre come figura chiave di ispirazione. Ha raccontato a The Hollywood Reporter:

Lui [mio padre] era un duro; era un combattente; sapeva combattere e mi ha insegnato in un modo che era progettato per vincere.

L’attore ha portato con sé l’eredità del padre e del nonno attraverso la sua interpretazione del patriarca dei Dutton, in particolare il fucile di John Dutton, un calibro 30-30 che apparteneva al padre di Costner. L’attore ha rivelato questo fatto divertente al Dan Patrick Show, rivelando che il fucile era un piccolo gesto che gli ricordava la fattoria dei suoi nonni in Oklahoma. Suo padre, William Costner, è cresciuto in una fattoria di grano insieme agli altri 10 fratelli.

Quando TV Insider gli ha chiesto se avesse portato un po’ di suo padre nello show, l’attore ha rivelato che suo padre era “un duro che combatteva a pugni e con un’unica mente, uscito dalla Dust Bowl durante la Grande Depressione”, e la calibro 30-30 che ha usato a Yellowstone lo ha aiutato a entrare nel personaggio ogni volta che l’ha puntata alla guancia. “Mio padre è proprio lì”, ha detto Costner. Ha anche rivelato che , grazie a suo padre, sapeva “cosa significa essere una persona che è una specie di John Dutton, senza l’omicidio”.

È interessante notare che anche Beth Dutton ha avuto un’ispirazione nella vita reale, ma non quella che gli spettatori normalmente si aspetterebbero. La Beth di Kelly Reilly è una figlia cresciuta tra gli uomini, ma il fatto di essere una donna l’ha resa più spietata. Nell’intervista rilasciata al LA Times, Sheridan ha ammesso che “potrebbe benissimo essere la cosa migliore” che ha scritto nello show. L’ispirazione è stata la preferenza di Angelina Jolie nel capovolgere il genere dei suoi personaggi quando si tratta di interpretare un ruolo. Con Beth, l’idea centrale è che se fosse stata Ben, non sarebbe cambiato nulla.

Yellowstone è stato ispirato dalla vita reale

Anche se non esiste un John Dutton nella vita reale, chiunque abbia visto almeno un episodio di Yellowstone sa che l’autenticità è al centro della serie. Il creatore dello show, Taylor Sheridan, che è un cowboy in carne e ossa, non ha bisogno di guardare oltre per trovare ispirazione. Sheridan è cresciuto in un ranch fuori Waco, in Texas. Essendo l’attuale proprietario del 6666 Ranch e avendo vissuto in Wyoming negli ultimi anni, i cambiamenti che Sheridan ha visto intorno a sé nel corso degli anni sono l’ispirazione per Yellowstone.

Il potere, l’allevamento, lo sviluppo del territorio e le cose che la gente fa intorno ai tre sono tutti problemi e scenari reali. Anche se le storie dello show sono di fantasia, non si discostano molto dalla realtà. Nell’intervista rilasciata al LA Times, Sheridan ha anche rivelato che tutti i problemi di “sviluppo del territorio, cattiva gestione delle risorse, oppressione e povertà estrema e disuguaglianza nel governo” esistono nella vita reale, ma “quando accadono in una piccola area, in una zona rurale”, sono amplificati e più drastici. Ha detto:

Questi problemi di sviluppo del territorio, di cattiva gestione delle risorse, di oppressione, di estrema povertà e di iniquità nel governo – esistono anche qui, ma quando accadono in una piccola area, in un’area rurale… e perché c’è meno gente, le conseguenze sembrano molto più acute. Quando si inizia a vedere Costcos in un paesaggio di fattorie e ranch, è molto più drammatico che se ne inceppassero uno nella San Fernando Valley.

Le ispirazioni della vita reale sono il motivo per cui Yellowstone esiste. La serie nasce dal desiderio di Sheridan di far conoscere situazioni reali che di solito vengono affrontate solo nei documentari. In effetti, Yellowstone non era inizialmente pensato come una serie televisiva. “Non è una mossa intelligente, fare una cosa sull’allevamento moderno”, ha detto Sheridan, che ha ammesso che l’intera faccenda ha avuto delle sfide che l’hanno resa ‘non una mossa intelligente’. L’aggiunta di elementi di finzione è stata necessaria perché “se vuoi fare qualcosa senza alcuna resistenza, fai qualcosa che sa di qualcos’altro”. Con Yellowstone, parte dell’accordo è il collegamento tra la vita del ranch e il resto del mondo. Nella stessa intervista, Sheridan ha dichiarato:

Quando le persone vedranno questo film, penso che capiranno: “Anche se è un mondo così diverso, vedo molte somiglianze nei problemi, vedo molte somiglianze nei conflitti. Anche se il loro stile di vita mi è così estraneo, non siamo poi così diversi”, e non lo siamo, ma ogni volta che si riesce a ricordarlo alla gente, credo sia una buona cosa.

Yellowstone è stato girato in un vero ranch

Yellowstone 5 Beth e Rip

In tutti gli spin-off e i prequel della serie Yellowstone di Taylor Sheridan, sebbene tutti i personaggi siano per lo più di fantasia, le riprese si sono svolte in luoghi reali. Il ranch di Yellowstone della serie è un ranch storico realmente funzionante, il Chief Joseph Ranch, a Darby, nel Montana. La serie porta gli spettatori in giro per il ranch, con luoghi chiave come l’armeria, la baita di Rip (nota come baita di Ben Cook), la baita di Lee (nota come baita del pescatore) e la baita del trapper.

L’autenticità e i paesaggi mozzafiato sono il motivo per cui gli spettatori visitano spesso la serie. “Non credo che ci stancheremo mai di vedere fiumi che scorrono, valli e montagne”, ha detto Costner a CBS This Morning. Le location svolgono un ruolo fondamentale nel lavoro di Sheridan. Trovarsi in un vero ranch sullo sfondo del paesaggio del Montana fa sì che gli spettatori e gli attori comprendano la vita e le storie che sta raccontando. “Taylor [Sheridan] è un grande fan dell’autenticità e voleva che tutti noi capissimo in cosa stavamo entrando”, ha detto a Vanity Fair l’attore di Kayce Dutton, Luke Grimes. Ha spiegato che per il pubblico, la ricerca di autenticità di Sheridan è quella di “mostrare questo a persone che normalmente non capirebbero che questo è ancora un modo di vivere per molte persone”.

The Merry Gentlemen: recensione del nuovo film Netflix

A meno di un mese dal Natale, Netflix regala in anticipo al suo pubblico una nuova e originale commedia natalizia: stiamo parlando di The Merry Gentlemen. La pellicola leggera e divertente è diretta da Peter Sullivan e scritta dall’attrice e sceneggiatrice Marla Sokoloff (Claire in Desperate housewives). The Merry Gentlemen presenta un cast di figure già note nel panorama cinematografico internazionale. Il protagonista Luke è interpretato da una versione più adulta (e muscolosa) di Chad Michael Murray, attore divenuto noto nei primi 2000 con il ruolo di Tristan in Una mamma per amica e Charlie Todd in Dawson’s Creek. Al suo fianco l’americana Britt Robertson (Tomorrowland, The space between us) è nel ruolo della protagonista femminile Ashley.  Altre figure ricorrenti nel film sono Maria Canals-Barrera ( Camp Rock, I maghi di Waverly) e Beth Broderick (Diane in Lost, Sabrina, vita da strega), rispettivamente nei panni di Denise e Lily, madre di Ashley.

The Merry Gentlemen: un Natale a luci rosse

Ashley vive il suo sogno di quando era bambina di essere una delle Jingle belles, un gruppo di ballerine che inscenano uno spettacolo a tema natalizio in uno degli spettacolari teatri di Broadway. Tutto sembra perfetto fino all’arrivo di una nuova giovane belles: Ashley viene tristemente scaricata perché considerata troppo matura per lo spettacolo e viene liquidata brevemente dalla coreografa poche settimane prima di Natale.

Ashley fa ritorno a Sycamore Creek, la sua città Natale. Qui scopre che il Rhythm room, il locale gestito da tanti anni dai suoi genitori, ha perso fama e ha portato la sua famiglia a indebitarsi. Il Rhythm room non sembra avere altro scampo se non essere trasformato in un juice bar, per non rischiare di divenire un altro buco nel muro tra troppi buchi.

Con l’aiuto di Luke e degli altri ragazzi, Ashley riuscirà a dare una nuova chance al locale portando una ventata di novità da Broadway: uno show di varietà maschile. Lo spettacolo si traduce in un’esibizione molto osé e attraente per il pubblico femminile della città. Mentre il destino di Ashley sembra essere nella sua città d’origine, il capitolo di Broadway non sembra totalmente chiuso: la scelta tra Sycamore Creek e Luke e la città sarà molto difficile.

The Merry Gentlemen: le ingiustizie dello spettacolo

Il punto di partenza di The Merry Gentlemen è una delle tante ingiustizie che si creano in un settore come la danza o lo spettacolo in generale. Sul palco ciò che conta di più è certamente il talento e l’aspetto, ma ciò non giustifica i corpi di ballo a liquidare con tale facilità le proprie ballerine con la comparsa del primo capello bianco.

Come tutte le attività che prevedono una certa prestanza fisica, come anche gli sport, la danza non è certo una disciplina e un lavoro che può essere praticato in maniera indisturbata per tutta la vita. Ciononostante, sembra chiaro fin da subito quanto sia sbagliato che Ashley, a un età identificabile intorno ai trent’anni, venga cacciata dal proprio posto a favore di una se più giovane e soda.

Un Magic Mike versione natalizia

Come spesso accade nelle pellicole di Natale, non sempre si riesce a trovare nuovi elementi di originalità per individualizzare il film. nel caso di The merry gentlemen, l’elemento di novità dovrebbe essere la presenza di giovani e attraenti ragazzi che si esibiscono mezzi nudi per salvare il Rhythm room. Ciò comporta molte scene hot in un clima natalizio. Questo non è di certo il primo film che porta tematiche simili sul grande schermo: già solo a pensare alla serie cinematografica di Magic Mike la quale è incentrata totalmente su un gruppo di spogliarellisti. Già in partenza sembra molto strano immaginare una commedia di natale su degli pseudo spogliarellisti.

Tralasciando questo elemento, tutto il resto del film sembra essere molto standard: una storia a lieto fine con un fantastico miracolo di Natale finale, una romantica storia d’amore e un’atmosfera molto famigliare.

The Merry Gentlemen si rivela una commedia leggera, piacevole da guardare (magari non in compagnia dei propri genitori/figli per evitare un Natale un po’ cringe!). Nonostante ci sia un certo grado di originalità, la contemporanea presenza di spogliarellisti e di spirito natalizio sembra un po’ stridere, stranendo lo spettatore, più abituato alle classiche storie di Natale.

La nostra terra: recensione del film di Dk e Hugh Welchman

Quando diverse forme d’arte e le tradizioni culturali di un popolo si fondono in un’unica opera, possono nascere autentici gioielli. Se a questa combinazione si aggiungono poi valori e tematiche di forte risonanza sociale, come quelli legati al femminismo, il risultato merita ancora di più l’attenzione e l’interesse del grande pubblico. È il caso di La nostra terra, il nuovo film del duo Dk Welchman e Hugh Welchman, già noti per il loro lavoro nel candidato all’Oscar Loving Vincent, dedicato agli ultimi giorni di Vincent van Gogh. 

Presentato in selezione ufficiale al Toronto Film FestivalLa nostra terra è l’adattamento cinematografico del celebre romanzo I contadini (The Peasantsdi Władysław Reymont, vincitore del Premio Nobel per la Letteratura nel 1924. Come un dipinto vivo e prezioso, l’opera di Reymont prende forma sul grande schermo grazie alla stessa straordinaria tecnica utilizzata in Loving Vincent: il potere evocativo della pittura a olio sulle immagini pre-registrate secondo l’animazione al rotoscopio.

Ogni fotogramma del film è ispirato alle opere dei pittori polacchi della fine del XIX e dell’inizio del XX secolo, il risultato di un elaborato processo tecnico che ha richiesto anni di lavoro. Distribuito da WantedLa nostra terra sarà al cinema solo il 2, 3 e 4 dicembre.

Cosa racconta La nostra terra?

Lunghi capelli color oro, occhi tanto chiari quanto sinceri e un volto che sembra appartenere a un angelo: Jagna è una giovane donna di straordinaria bellezza, determinata a ritagliarsi il proprio spazio nel mondo. Vive con sua madre in piccolo villaggio rurale della campagna polacca, Lipce, alla fine del XIX secolo, cercando di sopravvivere in una realtà dominata dal patriarcato, anche in una famiglia priva di una figura maschile. Ben presto, Jagna si trova intrappolata tra i desideri e le ossessioni degli uomini del villaggio. Tra questi ci sono il contadino più ricco, Maciej Boryna, che la costringe a sposarlo, e il figlio maggiore di lui, Antek, di cui Jagna è perdutamente innamorata. In questo ambiente familiare e al tempo stesso spietato, Jagna scopre che la libertà che tanto desidera le è negata, e il destino che credeva di poter controllare si rivela l’ennesima trappola: lei non è altro che una pedina nelle faide familiari, un oggetto di scambio in una realtà dominata dal potere del denaro e della tradizione della sua terra.

“L’amore non dura per sempre. La terra, invece, sì.”

La nostra terra è articolato in quattro capitoli, ognuno dei quali corrisponde a una stagione dell’anno, riflettendo così i cambiamenti della natura che fanno da cornice alle vicende dei tre protagonisti. Questo suggestivo intreccio tra il ciclo della vita e quello della terra diventa lo sfondo ideale per una drammatica storia d’amore intrisa di dolore e ingiustizia. Qui le dinamiche amorose e familiari si fondono tragicamente con le spietate logiche di potere di una società in cui la terra non è soltanto una risorsa vitale, ma rappresenta anche il principale motivo di orgoglio, simbolo di identità e misura di ricchezza.

Il film, realizzato con straordinaria maestria tecnica dai coniugi Welchman, trasporta il pubblico in un viaggio immersivo nella ricca cultura e nelle tradizioni polacche. Le pittoresche celebrazioni, gli abiti tradizionali, le danze vorticose e i canti carichi di emozione e pathos non sono semplici dettagli scenografici, ma elementi vivi e pulsanti che danno voce alla più intima rappresentazione della Polonia rurale. Attraverso questi dettagli, La nostra terra, oltre a celebrare un capolavoro letterario spesso poco conosciuto al di fuori dei confini del Paese, offre anche uno sguardo autentico e intenso sull’identità nazionale della Polonia.

La nobile battaglia di Jagna

Rispetto al romanzo originale, l’opera dei Welchman concentra gran parte della narrazione sul personaggio di Jagna, trasformandola in una potente metafora della lotta femminista in un mondo “a misura d’uomo”. Jagna è una giovane donna di straordinaria bellezza, dolcezza e intelligenza, ma anche caparbietà e sensibilità artistica. Tuttavia, la terra che l’ha vista nascere e crescere non la protegge né la accoglie, anzi la disprezza fino a esiliarla. “All’inizio è invidiata e fraintesa,” ha spiegato DK Welchman, “poi maltrattata e insultata, infine emarginata: per essere bella, per essere sognatrice e artistica, per essere appassionata e, soprattutto, per mettere in discussione il patriarcato, un sistema sostenuto anche dalla chiesa.”

Jagna è dunque un personaggio contemporaneo: una donna complessa e tragicamente incompresa, ribelle e audace, che si scontra con una società in cui il patriarcato e il denaro dettano l’unica legge possibile. Eppure, a lei non importa né dell’uno né dell’altro. In questo mondo, gli uomini, per quanto ipocriti, adulteri, bugiardi o stupratori, mantengono sempre il potere, mentre le donne sono condannate a subire e ad accusarsi l’una con l’altra. Nonostante sia consapevole delle conseguenze delle sue scelte, Jagna accetta le lusinghe di Antek perché innamorata, anche se lui è un uomo sposato e padre. Tuttavia, quando la loro relazione clandestina viene scoperta, il giudizio della comunità si accanisce solo su di lei. Jagna è additata come traditrice, approfittatrice e sgualdrina, mentre Antek, pur colpevole delle stesse azioni, non subisce la stessa condanna sociale.

Jagna però non abbassa mai la testa, diventa simbolo di resistenza e sofferenza femminile, denunciando l’ipocrisia di una società in cui le donne sono ancora oggi condannate a soccombere alle ingiustizie della disuguaglianza di genere. La sua emarginazione non è, infatti, solo il risultato del suo essere diversa, troppo bella e troppo desiderata, ma anche un atto di punizione verso chi osa sfidare i limiti dei ruoli prestabiliti, mettendo in discussione un sistema che trae da sempre forza dalla sottomissione delle donne.

Un’esperienza visiva tanto affascinante quanto memorabile

Di primo impatto, è impossibile non ammirare il lodevole lavoro artistico e la qualità pittorica dell’animazione del duo registico. La nostra terra è un’esperienza visiva tanto affascinante quanto memorabile, capace di catturare lo spettatore e immergerlo all’interno di una storia che pennellata dopo pennellata, prende vita sotto i suoi occhi.

Partendo da un’opera letteraria di Reymont apparentemente semplice e prevedibile, i Welchman trasformano quella storia in un film che parla all’oggi e va oltre il tributo alla scrittura e alla cultura polacca. Il risultato è un’opera cinematografica potente, che si fa veicolo di riflessione e denuncia sociale. Più che un semplice adattamento, il film può essere considerato un crudo e sincero manifesto femminista, dove romanticismo, erotismo, violenza e ossessione si fondono e si scontrano sul grande schermo, evocando un profondo senso di inquietudine e urgenza all’azione.

La nostra terra è una nobile dichiarazione d’intenti: un chiaro memento che ci invita a riflettere sui conflitti di potere intrinseci all’umanità, sul precario equilibrio tra uomo e natura, e sul valore della libertà e della dignità femminile in un mondo ancora troppo spesso crudele e impari.

Virgin River – Stagione 6: Netflix lancia il trailer per i nuovi episodi in arrivo

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È arrivato il nuovo trailer di Virgin River. La serie Netflix, che ha debuttato nel 2019, racconta la storia romantica e appassionante che ha inizio quando Mel Monroe (Alexandra Breckenridge) si trasferisce nella piccola città della California settentrionale nella speranza di trovare tranquillità, ma scopre che tra gli abitanti ci sono molti conflitti e si innamora del proprietario del bar Jack Sheridan (Martin Henderson). La prossima Virgin River – stagione 6 non sarà l’ultima della serie, poiché è già stata rinnovata per la stagione 7, che la renderà la serie drammatica in lingua inglese più longeva della piattaforma.

Netflix ha ora svelato il primo trailer ufficiale completo della Virgin River stagione 6. La frase di apertura del trailer è “Sei pronta per questo?”, mentre Mel e Jack si preparano per le loro imminenti nozze. Si rivela essere una sorta di presagio inquietante, poiché le clip rivelano che, con l’avvicinarsi del matrimonio, tutti i cittadini di Virgin River dovranno affrontare importanti svolte nella trama, tra cui una gravidanza, segreti che vengono svelati, visitatori misteriosi, rimpianti e una buona dose di momenti bollenti. Guarda il trailer qui sotto:

Cosa significa questo per la sesta stagione di Virgin River

Mentre il trailer si apre con Mel e Jack felici per il loro imminente matrimonio e la prospettiva di trascorrere il resto della loro vita insieme, le settimane prima dell’evento non saranno sicuramente rose e fiori. Nel tipico stile di Virgin River, anche i momenti più felici sembrano destinati a non essere particolarmente facili per i personaggi principali. Tuttavia, mentre si avvicinano al nuovo capitolo della loro vita, entrambi i protagonisti appaiono più spesso felici nel nuovo trailer.

Quasi lo stesso tempo è dedicato alle trame degli altri personaggi che tornano…

Il trailer promette anche che, mentre la maggior parte delle trame ruoterà in qualche modo attorno ai preparativi del matrimonio, gli altri personaggi di Virgin River che circondano Mel e Jack non saranno dimenticati. Quasi lo stesso tempo è dedicato alle trame degli altri personaggi che tornano, tra cui Jenny Cooper nel ruolo di Joey Barnes, Colin Lawrence nel ruolo di John “Preacher” Middleton, Annette O’Toole nel ruolo di Hope McCrea, Tim Matheson nel ruolo di Vernon “Doc” Mullins, Zibby Allen nel ruolo di Brie Sheridan, Marco Grazzini nel ruolo di Mike Valenzuela e Sarah Dugdale nel ruolo di Lizzie.