Questa mattina è stato presentato
alla stampa Ti ho cercata in tutti i necrologi , film
che segna il ritorno alla regia di Giancarlo Giannini, dopo
l’esperienza di Ternosecco, datata 1987. Prodotto grazie
alla Magalì Production, alla Dean Film e Rai
Cinema, la pellicola è distribuita dalla Bolero film e
sarà nelle nostra sale a partire dal 30 maggio. Nel cast, oltre a
Giancarlo Giannini, anche F.Murray Abraham e
Silvia De Santis. Proprio l’attrice apre la conferenza
stampa, in attesa dell’arrivo dell’attore e regista più atteso:
Giancarlo Giannini.
Com’è lavorare con un attore del
calibro di Giancarlo Giannini?
SD: Oltre al grande
carisma di un personaggio come Giancarlo Giannini, attore celebre
in tutto il mondo e con molta esperienza alle spalle, una cosa
davvero importante è che lui, oltre che regista, sia anche, in
primo luogo, un attore. Giancarlo riesce così a capire le
problematiche che possono incontrarsi nella recitazione,
indirizzandoti nel modo migliore.
Come è entrata un questo
personaggio che ha tanti risvolti, un po’ dark lady ma anche
estremamente triste. Com’è stato entrare nelle sue corde?
SD: È stata dura. Perché è
un personaggio molto denso. Per me la difficoltà era proprio capire
come mai una donna potessa fare una cosa del genere, far parte di
questa organizzazione che organizza caccie all’uomo. Diciamo che
però…
Silvia De Santis
viene per un attimo interrotta dagli applausi per l’arrivo di
Giannini.
GG: Scusate il ritardo. Di
questi tempi siamo un po’ sbattuti da una parte all’altra perché il
cinema italiano ha bisogno un po’ di aiuto, anche quando si fanno
storie un po’ così, forti, curiose, strane. Scusa se t’interrompo
Silvia. Mi dispiace che a Cannes non abbia vinto il nostro amico
Sorrentino, il quale, dalle poche immagini che abbiamo visto, ha
realizzato un film abbastanza visionario e mi piacciono quelli che
hanno coraggio. In Italia ci chiedono il coraggio e poi, quando fai
una storia così, ti dicono che non hanno capito niente e che ne
abbiamo avuto troppo di coraggio. Scusate, continuiamo, poi magari
ne parliamo.
SD: Si stava parlando,
appunto, di come sono entrata in un personaggio così complesso.
Naturalmente, tra le altre cose, ho avuto anche la fortuna di avere
un regista con le idee talmente chiare, che sono stata molto
guidata all’interno di questo viaggio e di questo personaggio. Un
altro elemento importante è il mondo interiore di lei. Il fatto che
lei entri a far parte dell’organizzazione deriva da questo grande
malessere esistenziale, di una donna così sola, raccontato non
banalmente attraverso il vissuto del personaggio, ma attraverso
delle immagini. Lo specchio di Helen è la sua abitazione. Questo mi
ha aiutato tantissimo perché la casa di Helen è molto particolare.
Quella casa voleva proprio raccontare questo mondo interiore così
disordinato, così inquieto, così solitario. Questi sono insomma
vari elementi che hanno arricchito l’interpretazione.
A questo punto si passa alle domande
rivolte al regista Giancarlo Giannini.
A livello di location, la prima è
Toronto?
GG: Più o meno Toronto e
dintorni. Poi abbiamo l’Arizona. Ho girato anche in Italia, gli
interni, la costruzione della casa, un po’ dappertutto. Ma Toronto
è la location dove nasce il film.
Questo personaggio, questo
“traghettatore di morti”, è nato da una tua idea o esisteva già un
soggetto?
GG: Nasce da una storia
vera, da un racconto che mi hanno fatto molti anni fa. In Africa
avvenivano queste caccie all’uomo, nero in quel caso, con i
cacciatori che si erano un po’ stancati di cacciare gli elefanti o
altri animali. Mi è stato raccontato che pagavano un milione.
Naturalmente erano cose nascoste, in cui potevi essere colpito
oppure no. Il milione comunque andava o a te, o alla famiglia.
Quando giravamo il film in Canada, su internet, è anche apparso un
annuncio di un signore che si proponeva per una caccia, voleva
essere cacciato per 25mila dollari canadesi, e non penso conoscesse
il mio lavoro. Nel mondo succedono queste cose. Credo che succedano
anche cose peggiori di quelle che vediamo in questo film. Da questa
storia, che mi è stata raccontata molti anni fa, mi è nata poi
l’idea e alla fine ho deciso di proporla e realizzarla non come
storiellina comica, ma attraverso un personaggio più denso, che
avesse un senso di racconto per quello che riguarda l’uomo, come
vive, l’uomo all’interno di questa società, in questo potere che ci
circonda, che io ho raccontato con dei cacciatori. I cacciatori,
infatti, non si vedono mai, sono degli spari, potrebbero essere dei
fantasmi.
Il film è pieno di simboli, ma il
cinema in fondo nasce come sotto testo, come realtà virtuale, una
simulazione. All’interno del film ho voluto anche mescolare gli
stili, ho voluto insomma divertirmi. Fare l’attore mi piace, mi
diverto, ho sempre il fanciullino dentro, perché se l’attore non ha
questo senso di gioco e di proporre favole a noi grandi, cui non le
racconta più nessuno, cosa lo fa a fare?
Da attore lei ha avuto una
carriera spettacolare, penso davvero densissima di soddisfazioni.
Fare il regista, a quanto dicono, comporta uno stress terrificante,
tra produzione e finanziamenti. Perché ha avuto questa esigenza
creativa diversa, che l’ha messa per la seconda volta dietro la
macchina da presa? Non è che questo rovina un po’ quella sua voglia
di giocare che diceva prima?
GG: Uno è cosciente di
quello che fa. Fare il regista non è una cosa semplice, è molto
impegnativo, anche da un punto di vista comunicativo, è una cosa
seria, che porta via tantissimo tempo. La produzione è un’altra
cosa, in cui spesso si è aiutati da altri. Uno che fa produzione
vuole poter decidere ciò che più preferisce. Oggi è difficile
trovare qualcuno che ti finanzi lasciandoti fare quello che vuoi,
senza imposizioni su attrici e attori, ad esempio. Facendo anche la
parte della produzione io mi metto nella responsabilità di fare
tutto. Sono responsabile, nel bene e nel male, solo io di questo
film. L’ho voluto, mi è piaciuto farlo. Dopo tanti anni di lavoro,
alla fine è arrivato un momento in cui ho potuto dire “mi faccio il
film che voglio”. C’è sempre qualcuno che ti comanda. Pensi a
quanto è libero il Nikita, talmente libero che dice ai cacciatori
“adesso sono io che voglio farmi cacciare, provate a prendermi”. La
libertà dell’uomo secondo me è avere, durante la giornata, la
maggior quantità di tempo per fare ciò che vuoi.
Quanto tempo ha
richiesto la lavorazione del film?
GG: Molto tempo, non per
colpa mia ma per problemi di coproduzione. Ho dovuto sospendere,
riprendere, spesso cambiare location, e questo ha portato a grandi
difficoltà anche a livello di costo del film. Ma quando uno decide
di affrontare una sfida la affronta fino in fondo, non solo come
attore o regista ma anche nella vita. Purtroppo non è stata una
sfida divertente, il film è stato sospeso a più riprese, ma sono
problemi che si riscontrano spesso nella produzione. Il cinema ha
un tempo e se non funziona qualcosa quello che non funziona poi ti
costa tre volte di più.
Il 30 maggio siete in anteprima
mondiale in Italia con il film. Per quanto riguarda il mercato
estero, dato che è anche stato girato tutto in lingua
inglese?
GG: Per quanto riguarda il
mercato estero per intanto andiamo al Festival di Shangai. Poi
andremo in America del sud dove ho alcuni contatti con la Globo.
Vedremo negli Stati Uniti, la Germania è interessata, insomma, è
una partenza. Sicuramente non è un film facile.
Come è nato il titolo del
film?
GG: In inglese il titolo
era “The gambler who wouldn’t die”. Ma “gambler” in italiano era
difficilmente traducibile. Abbiamo avuto diverse idee, volevamo
chiamarlo con un titolo a contrasto, ironico, curioso, ed è quindi
nato prendendolo dalla battuta che avete sentito nel film. Abbiamo
anche pensato anche a “La rosa e il coniglio” ma sembrava troppo da
cartone animato, poi “Esci dal mio coniglio!”, altra battuta del
copione. Alla fine “Ti ho cercata in tutti i necrologi” ci è
sembrato più intrigante.
È più difficile doppiare Al
Pacino o ridoppiare se stessi?
GG: Sicuramente ridoppiare
se stessi, nonostante si abbia già in mente i contenuti e quello
che bisogna trasmettere, avendo già recitato in inglese.
Che differenze ha riscontrato
nelle produzioni statunitensi, tipo James
Bond?
GG: Tutto è preciso, a
partire dallo storyboard, in cui si entra nell’immagine per capire
se funziona. In realtà anche per questo film lo storyboard è stato
molto dettagliato, non c’è tutta questa grande differenza, per un
attore in fondo è motore, azione, ciak anche nelle grandi
produzioni. Per gli americani ad esempio ha però un’importanza
molto rilevante lo scenografo, mentre da noi, i luoghi in cui
girare sono forse scelti con men cura. Un buon operatore riesce a
far recitare la luce e l’immagine per te.
Il film incarna i valori
cristiani? Qual è il messaggio e quali sono le risposte agli
interrogativi che vengono posti?
GG: Io sono un credente,
cattolico. Nel film si parla del dopo vita e il mistero esiste,
indipendentemente dalla propria religione. Non credo che la vita
sia un semplice momento di passaggio. Nikita lo capisce e sfida la
morte. Nel film ci sono personaggi estremi. Il gioco non funziona
più quando la preda vuole farsi ammazzare. Il senso è un viaggio
che arriva fino alla morte, che Nikita desidera. Ma anche dopo la
morte, con l’immagine rappresentata dai due conigli, le caccie non
finiscono mai.
Il film inizia come un noir,
finendo invece quasi come un melodramma?
GG: Come ho già detto mi è
piaciuto mischiare molti stili. Alla fine sembra quasi un western,
con anche il sottofondo di un’armonica, è stato divertente. Siamo
troppo legati al nostro cinema, al neorealismo. Bisogna cercare di
creare un cinema di rottura, pur prendendo spunto dai nostri
maestri. Come Spielberg che in E.T. mi disse di aver copiato dal
nostro MIRACOLO A MILANO, sostituendo alle scope le
biciclette.