La 20th Century Fox ha diffuso il
trailer ufficiale italiano di X-Men –
L’inizio, prequel della trilogia cinematografica
dedicata ai personaggi della Marvel, gli X-Men (X-Men,
X-Men 2, X-Men – Conflitto finale), narra le vicende di Charles
Xavier (Professor X), Erik Lehnsherr (Magneto) e del loro primo
tentativo di formare una scuola per i ragazzi mutanti.
Tratto dall’omonimo fumetto della
Marvel, il film racconta della giovinezza di due amici che scoprono
di avere poteri speciali, Charles Xavier e Erik Lensherr; del loro
lavorare assieme, con altri mutanti, contro la più grande minaccia
che il mondo abbia affrontato; del loro allontanarsi causa un
dissidio che li vedrà diventare arcirivali con i nomi di Professor
X e di Magneto. Il film è ambientato negli anni ’60, all’alba
dell’era spaziale, l’epoca di JFK. Un periodo storico all’insegna
della Guerra Fredda, in cui l’intero pianeta era minacciato dalle
crescenti tensioni fra Stati Uniti e Russia. L’era in cui il mondo
scoprì l’esistenza dei mutanti.
Metti l’esilarante e affiatata
coppia Totò e Peppino, aggiungici una spalla
simpatica e buffa come Giacomo Furia, il tutto
contestualizzato nell’Italia degli ingenui, onesti e squattrinati,
e otterrai La Banda degli onesti. Scritto dalla
coppia Age & Scarpelli, questo film datato 1956 è
diretto da Camillo Mastrocinque, regista che ha firmato 64 film,
tra cui diversi lungometraggi con la coppia Totò-Peppino, o anche
uno solo dei due, e Walter Chiari. Lavorando con autentici geni
della comicità, Mastrocinque limitava molto il suo intervento sul
set, lasciando carta bianca alla spontaneità degli attori
protagonisti.
Antonio Buonocore (Totò), portiere
di uno stabile di Roma con una moglie tedesca, si trova per caso ad
assistere il signor Andrea, un anziano inquilino che, prima di
morire, gli rivela di essere in possesso di una valigia con
all’interno alcuni cliché originali della banca d’Italia, di cui
egli era stato a lungo dipendente, nonché della carta filigranata
per stampare le banconote da 10.000 lire, materiale che egli aveva
rubato con l’intenzione di vendicarsi del suo licenziamento e
fabbricare soldi falsi ma che non aveva mai avuto il coraggio di
fare e che consegna a Buonocore chiedendogli di buttare al fiume la
valigia distruggendone così il contenuto.
Buonocore però sta attraversando un
brutto periodo: persona fondamentalmente onesta, si è rifiutato di
diventare complice del ragioniere Casoria, il nuovo amministratore
del condominio, che gli aveva proposto di effettuare una serie di
operazioni truffaldine ai danni del condominio medesimo, e per tale
ragione è sotto minaccia di licenziamento. Egli così decide di non
distruggere la valigia ma, ignorante dei metodi per stampare le
banconote, chiede l’intervento del tipografo Giuseppe Lo Turco e
(Peppino De Filippo), successivamente, del pittore Cardone (Giacomo
Furia), tutti e due variamente indebitati come lui, per produrre le
banconote da 10.000 lire. Facendo leva sui bisogni economici dei
suoi compari, organizza delle furtive ed esilaranti riunioni
notturne per dar vita a una banda di falsari. I tre riescono a
stampare le banconote, ma le cose si complicano quando Buonocore
scopre che suo figlio finanziere, da poco trasferito a Roma, è
sulla pista di una partita di banconote false…
Film divertente, piacevole,
rilassante, semplice. Un autentico inno all’onestà, all’amicizia,
alla sana ingenuità. Può essere guardato svariate volte, offre
sempre il piacere di vederlo. Memorabili alcune scene, come quando
il portiere Buonocore cerca di convincere il tipografo Lo Turco nel
bar con ingarbugliati giri di parole. O quando i tre provetti
falsari sono alle prese con la prima banconota da stampare. O
ancora, quando Buonocore spaccia per la prima volta una banconota
stampata in una tabaccheria.
Festeggiato durante la breve
cerimonia da David Mamet che per l’occasione ha regalato all’attore
un “piede di porco” con tanto di dedica, insieme ad amici e
colleghi tra cui Andy Garcia e Denniz Franz.
Belli, muscolosi e sorridenti, così i
protagonisti di Fast & Furious 5 si sono
presentati questa mattina alla conferenza stampa per presentare ai
giornalisti romani il nuovo capitolo della saga più roboante di
sempre: mattatore dell’incontro un Vin Diesel su di giri
che ha confessato, apparentemente senza riserve, il suo amore per
Roma
Parlando a margine della proiezione
di Le donne del 6° piano, il regista del film,
Philippe Le Guay, ha diffusamente discusso
riguardo alle motivazioni che l’hanno spinto a concretizzare
quest’opera, a partire dal desiderio, finora irrealizzato di
lavorare con attori non francesi; il casting per i ruoli delle
estroverse cameriere spagnole si è svolto a Madrid, dove il regista
si è trattenuto per tre settimane, dividendosi tra lavoro e visite
culturali: in proposito Le Guay ha raccontato di come, nel corso
degli incontri pomeridiani con le aspiranti protagoniste, avesse
l’impressione di ritrovarsi di fronte alle versioni in carne ed
ossa dei protagonisti delle opere di artisti come Goya e Velazquez,
visti nelle visite mattutine al Prado.
La vicenda prende spunto da un
avvenimento storico ben preciso: il fenomeno migratorio che, a
cavallo tra gli anni ’50 e ’60 portò tante donne spagnole, per la
maggior parte provenienti dalle campagne, a fuggire dalla povertà
(la Spagna all’epoca scontava un ritardo di quasi un secolo nel suo
sviluppo economico rispetto alla Francia) e a farsi impiegare come
domestiche, in particolare nelle case della medio-alta borghesia
parigina.
Per accentuare il realismo della
vicenza, Le Guay ha peraltro intervistato alcune di quelle donne,
ormai anziane, oltre che attingendo dalla propria vicenda
personale, con la quale peraltro quella del film ha molti punti di
contatto. Come il protagonista del film, anche il padre del regista
era un agente di cambio, professione peraltro tramandata in
famiglia da generazioni, e come nel film, anche la famiglia di Le
Guay aveva assunto una domestica spagnola. Come si evince dallo
stesso titolo, si tratta di un film incentrato sulle donne: una
scelta voluta da Le Guay, che nel film ha voluto riflettere
l’allegria di quelle donne, felici del senso di libertà e di
affrancamento dall’oppressione maschile, nonostante la durezza dei
lavoro che dovevano svolgere e degli orari cui erano costrette.
Parlando del protagonista del film,
il regista ha affermato di non aver voluto raccontare tanto la
storia di una crisi di mezza età con tanto di innamoramento per una
ragazza più giovane, quanto quella di una sorta di ‘risveglio’:
anche la sua scelta di appoggiare il gruppo di domestiche, andando
oltre i confini di classe e culturali, non è frutto di una
posizione ‘a monte’, ma di un’evoluzione, di una presa di
coscienza, dalla voglia di farsi coinvolgere e contaminare da una
realtà prima sconosciuta, in contrapposizione con lo stile di vita
‘borghese’, rappresentato dai figli, ma anche contro la
‘resistenza’ alla modifica dello ‘status quo’ (e quindi all’andare
oltre i rapporti stabiliti dalla società, come appunto quello
domestica – padrone), rappresentato anche dal personaggio di Carmen
Maura.
Nell’economia della storia, i figli
impersonano certo i canoni più rigidi della borghesia francese, ma
anche quelli più fedeli alla tradzione e le leggi: figli che allo
spettatore possono sembrare meschini e un pò cattivi, ma che in
fondo risultano anche divertenti, nel tradizionale rovesciamento di
ruoli: a loro sta richiamare ai doveri famigliari un padre
improvvisamente scopertosi ‘libero’. Il personaggio della moglie,
interpretato da Sandrine Kiberlaine, potrebbe sembrare algido,
incurante dei sentimenti del marito e dedito solo alla
conservazione delle convenzioni sociali; tuttavia Le Guay ha invece
spiegato di aver voluto piuttosto portare sullo schermo un modello
di donna della provincia francese, che non vede (o non vuol vedere)
il cambiamento del marito, ma non lo giudica nemmeno, in
contrapposizione alle amiche cittadine subito pronte a consigliarle
un buon divorzista.
Ciò che però il regista ha voluto
rimarcare con più forza nel corso della conferenza stampa, è stato
volere con questo film porre l’accento sul concetto di ‘comunita’:
il film in fondo propone un’utopia, all’insegna
dell’interclassismo, dell’accoglienza e del rapporto con ‘l’altro’
come occasione di cambiamento in contrapposizione con il clima
attuale, che anche in Francia, soprattutto negli ultimi anni, è
stato caratterizzato da una crescente spinta all’esclusione – e
dunque all’espulsione – dello ‘straniero’.
In Le donne del 6°
piano Jean-Louis è un agente di cambio che vive
un’esistenza monotona, scandita dai ritmi sempre uguali del lavoro
e da quelli ugualmente poco vivaci della vita famigliare, tra un
moglie troppo attenta ad apparenza e formalità e la poca
comunicazione coi due figli pre-adolescenti. Sarà un gruppo di
cameriere spagnole con la loro umanità calorosa e debordante a
restituire al protagonista il gusto dei rapporti umani prima e dei
sentimenti poi, attraverso la storia d’amore con una di
loro.
Le donne del 6°
piano sarebbe passato probabilmente inosservato dalle
nostre parti se non fosse stato per il successo riscosso in Francia
(2 milioni di spettatori raggiunti in poco tempo), che gli ha fatto
guadagnare la classica definizione di ‘caso cinematografico
dell’anno’. La storia ce la racconta Philippe Le
Guay, praticamente sconosciuto dalle nostre parti, e
autore non troppo prolifico (“Le donne…” è la sua quarta pellicola
in oltre vent’anni): il ‘canovaccio’ potrebbe forse apparire poco
originale (il tipo un pò ‘piatto’, che sommerso nell’anonimato di
una vita fin troppo convenzionale, ritrova il piacere della vita),
così come lo svolgimento all’insegna di una certa prevedibilità, ma
alla fine il tutto viene presentato con modi tali da poter
sorvolare sulla scontatezza, anche grazie a una sorta di cambio di
registro in corso d’opera: laddove ormai sembra di essersi
incanalati nei binari della farsa, ecco che si devia verso la
commedia sentimentale.
Una scelta comunque azzeccata, il
cui limite è che forse il cambio di traiettoria è un pò
improvviso: a un certo punto le risate si esauriscono, e nel
proseguio prevalgono i sentimenti, il film perde di ritmo e
coesione, con sequenze che finiscono per sembrare un pò
‘giustapposte’, rendendo meno fluido lo scorrimento della storia. A
salvare il film ci pensano comunque gli interpreti, a partire da
Fabrice Luchini (una lunga carriera nel cinema
francese, dall’esordio di In ginocchio da Claire
di Rohmer, a Potiche – La bella statuina di Ozon) nel
ruolo del protagonista, capace di dare vita a quel personaggio che,
prima in modo titubante e poi sempre più convinto, si fa travolgere
dagli eventi, con una mimica efficace sia nel suscitare la risata,
che nell’evocare maggiore riflessività; con lui le convincenti
Sandrine Kiberlaine (una moglie a cavallo tra
conspavelozza e voluta indifferenza di fronte al mutamento del
marito), Natalia Verbeke (che dipinge con
delicatezza la cameriera della quale il Jean-Louis si innamora,
dominata dalle incertezze derivanti da un vissuto in parte
drammatico).
A fianco a loro naturalmente spicca
il gruppo di esuberanti signore, guidate dall’attrice – feticcio di
Alomodòvar, Carmen Maura, tra le quali vi è
un’altra frequentatrice abituale dei set del regista spagnolo,
Lola Duenas. Non a caso, la presenza delle
due interpreti, accomunate alle altre dalla provenienza spagnola
nella finzione cinematografica, può ricordare certe ‘comunità’ dei
film di Almodòvar, finendo in certi frangenti per spingere ad
immaginare cosa sarebbe stato questo film nelle sue mani, senza
peraltro nulla togliere alla capacità di Le Guay di dare comunque
vita a un film gradevole.
Le donne del 6°
piano pur con qualche passaggio a vuoto resta infatti un
film efficace, divertente, che riesce a strappare in più di
un’occasione risate di gusto, e che oltre a raccontarci il ritorno
alla vita di un individuo schiavo delle sue abitudine, ci racconta
anche di quanto il contatto con altre culture e modi diversi di
affrontare la vita alla fine possa essere via per migliorarsi: un
messaggio più che mai necessario in tempi nei quali l’immigrato è
vissuto fin troppo spesso come una ‘minaccia’ o, nel migliore dei
casi, come un problema del quale liberarsi in fretta.
Arriva al cinema distribuito da
Come l’acqua per gli elefanti, il film diretto da Francis
Lawrence, con Robert Pattinson e Reese Witherspoon.
In Come l’acqua per gli
elefanti Jacob è un giovane studente di veterinaria,
figlio di immigrati polacchi, che nel giorno del suo esame finale
all’università perde entrambi i genitori in un incidente stradale.
Siamo negli anni ’30 e gli Stati Uniti sono nel pieno della
Depressione. Il ragazzo decide quindi di andare verso la città, ma
sulla strada salta su di un treno che si rivela essere quello del
circo itinerante dei fratelli Benzini. Entra subito nelle simpatie
di un altro espatriato polacco, che gli troverà lavoro come
spalatore di deiezioni degli animali. Il suo primo giorno di
lavoro, Jacob rimane folgorato da Marlena, stella del circo oltre
che moglie del bipolare August, capo della struttura. August
alterna momenti di tenerezza e amore per la moglie a scatti d’ira
che rivolge con la stessa violenza su esseri umani e animali. Dopo
aver scoperto gli studi di Jacob, lo promuove veterinario del circo
e in seguito addestratore della nuova attrazione: Rosie
l’elefantessa. Grazie all’animale, ma anche a causa della sempre
maggiore irascibilità del marito di Marlena, i due si avvicineranno
inevitabilmente.
Come l’acqua per gli elefanti, il
film
Francis Lawrence,
regista di questo film, ha al suo attivo la regia di
Constantine, film apocalittico con Keanu Reeves arcangelo e Io sono
leggenda, altro film apocalittico con Will Smith. Anche in questo caso un animale
accompagna la storia del film e c’è da dire che probabilmente è
quello che riesce a procurare le maggiori emozioni. Come
l’acqua per gli elefanti infatti, che vuole narrare una
storia di amore osteggiato, durante la Depressione degli anni
Trenta, non prende mai decisamente la strada del melodrammatico, i
personaggi non sono mai delineati a livello caratterialmente
profondo, non c’è un cattivo contro il quale opporsi e anche i
buoni comunicano poca empatia. Christoph Waltz si impegna enormemente,
riuscendo a caratterizzare con successo il suo personaggio come uno
psicotico, non è alla fine il male assoluto, e dall’altro canto
Robert Pattinson e
Reese Witherspoon non sembrano mai disperatamente
attratti l’uno dall’altra.
Le carte in tavola per un film che
potesse sbaragliare il campo c’erano tutte: su tre personaggi
principali, figurano due premi Oscar, con l’aggiunta da box office
dell’idolo delle teenager in vena di riscatto attoriale. Il
progetto però fallisce, visto che tra i tre non si percepisce un
lavoro fatto in armonia, non ci sono tracce di chimica, ognuno
recita il suo ruolo a prescindere dalla presenza dell’altro.
Di sicuro si cerca, anche attraverso la fotografia, virata sul
giallo/ambra di Rodrigo Prieto di creare l’atmosfera di quegli
anni, anche sottolineando l’assoluta assenza di idee riguardanti ad
esempio, la violenza sugli animali o una certa etica
professionale.
Inoltre, e questo è parte ormai
delle strategie della distribuzione italiana, nel titolo si
richiama il film di Alfonso Arau “Come l’acqua per
il cioccolato”. Questo non vi tragga in inganno, i due non sono
affatto tormentati, o osteggiati dalla società, la sicurezza della
fuga che i due faranno insieme si percepisce già dalle prime
sequenze. L’elemento di distrazione da una storia essenzialmente
lineare ce lo danno quindi gli animali, che come dice uno dei
personaggi, sono al primo posto come importanza nello spettacolo.
Anche in questo, inteso come opera filmica. La chiave di volta
della storia Come l’acqua per gli elefanti, forse
non a caso, ricade infatti nelle loro zampe.
Occhi azzurri e broncio da eterno
ragazzino, Jake Gyllenhaal è entrato
nell’immaginario collettivo dando corpo a Donnie Darko, il
ragazzino un po’ asociale che tra disquisizioni pseudo dotte sul
sesso dei puffi e visioni inquietanti ha previsto la fine del mondo
nel 2001.
Dopo 10 anni di vita al cinema e
dopo aver interpretato numerosi personaggi importanti per la
filmografia mondiale a diversi livelli, Jake ritorna al cinema in
Source
Code, thriller fantascientifico magistralmente
diretto da Duncan Jones, lo stesso del
semisconosciuto e prodigioso Moon. In Source Code Jake mostra la sua padronanza
della scena, seppur claustrofobica, palesando agli occhi dello
spettatore che il ruolo del soldato è quello che gli si addice
maggiormente, infatti già Sam Mendes nel 2006 ne
aveva fatto un marines in Jarhead.
Una vita nel cinema: il nostro
giovane Jake nasce in una famiglia inserita nell’ambiente, padre,
Stephen Gyllenhaal, regista di origine svedese; madre, Naomi Foner,
sceneggiatrice ebraica e newyorkese; ha anche una sorella maggiore,
Maggie, splendida attrice cinematografica vista
accanto a lui in Donnie Darko, ma anche
in Secretary e soprattutto ne Il Cavaliere
Oscuro nei panni di Rachel, amica e amata di
Bruce Wayne/Batman. Non solo la famiglia ma anche la sua cerchia di
amici e (come spesso succede) amori gira intorno ad Hollywood:
fidanzato con Kirsten Dunst per due anni, poi con
Reese Witherspoon e per un po’ di tempo anche con
Taylor Swift; trai suoi migliori amici si contano
la bella e più volte compagna di set Anne
Hathaway, il compianto Heath Ledger,
anche lui collega nel discusso I Segreti di Brokeback
Mountain, ma anche il cigno Natalie
Portman e i componenti dei Maroon 5.
Il ragazzo che vide la fine del
mondo: Jake Gyllenhaal
Il giovane Jake
Gyllenhaal Inizia la sua carriera all’età di 5 anni
come protagonista nel video della canzone Lay It Down
della band rock Ratt, ma il suo vero debutto sul
grande schermo avviene nel 1991, all’età di 10 anni, nel film
Scappo dalla città – La vita, l’amore e le vacche di Ron
Underwood. Prima del diploma, l’unico film non diretto dal padre al
quale ha potuto partecipare è Josh and S.A.M., un film
d’avventura per bambini poco conosciuto. Dopo essersi diplomato
alla Harvard-Westlake High School di Los Angeles
nel 1998, si iscrive nel 2000 alla Columbia
University di New York per seguire un corso di Religioni
Orientali e Filosofia, ma dopo due anni abbandona gli studi per
concentrarsi sulla sua carriera d’attore.
Il primo ruolo da attore
protagonista ci sarà nel 1999 con il film Cielo d’ottobre
di Joe Johnston, nel quale interpreta la parte di
un figlio di minatori che, colpito dal lancio dello Sputnik, decide
di costruire un proprio razzo per lanciarlo nel cosmo. Il film
incassa 32 milioni di dollari e Jake riceve commenti molto positivi
dalla critica per la sua performance; il ragazzino dallo sguardo
imbambolato comincia a farsi notare e presto arriverà l’occasione
di una vita: Donnie Darko. La notorietà
internazionale e il plauso della critica arrivano infatti nel 2001
grazie al film cult di Richard Kelly. Presentato
al Sundance Film Festival il 19 gennaio del 2001, il film non
ottiene buoni incassi ma strega una solido gruppo d fan che ne
porteranno avanti il ‘mito’ e o faranno diventare un piccolo
cult. Elvis Mitcheel, giornalista del New York Times, dice:
«La performance di Gyllenhaal è particolarmente inquietante: è
probabilmente lontano solamente un paio di grandi ruoli dal
diventare una star».
Nello stesso anno incontra
Heath Ledger, con il quale partecipa al provino
per Moulin Rouge! di Baz Luhrmann. Come sappiamo
il ruolo fu poi affidato ad Ewan McGregor, ma
Heath e Jake divennero molto amici da allora, tanto che l’attore
prematuramente scomparso indicò proprio il nostro Jake quando si
trattò di scegliere un padrino per la sua primogenita
Matilda, nata dall’unione con Michelle
Williams. Dopo Donnie Darko partecipa a diversi
film più o meno indipendenti e recita accanto a Jared
Leto (attore e front man dei 30 Seconds to
Mars), Jennifer Aniston, Susan
Sarandon, Dustin Hoffman, oltre a
debuttare a teatro accanto a Hayden Christensen e
Anna Paquin in This Is Our Youth di
Kenneth Lonergan, che rimane in cartellone a
Londra per 8 settimane.
Nel 2004, arriva una grande
opportunità che purtroppo Jake non riesce a cogliere (non per suo
demerito). Infatti Tobey Maguire rimase
infortunato durante le riprese di Spider Man 2 e
Sam Raimi prende in considerazione Gyllenhaal come
sostituto di Tobey. Come sappiamo però Maguire si ristabilisce e
Jake può così partecipare al catastrofico The Day After
Tomorrow – L’alba del giorno dopo, del 2004, lavorando per
Roland Emmerich accanto a Emmy
Rossum e Dennis Quaid. Jake è Sam,
brillante studente in visita a New York per una competizione
insieme ad altri suoi compagni di scuola. In città, Sam rimarrà
prigioniero nella biblioteca attanagliato dal gelo di una
improvvisa, implacabile nuova Era Glaciale.
Ma il 2005 è l’anno del successo planetario:
il regista Ang Lee lo sceglie per interpretare
Jack Twist, mandriano che scopre l’amore in Ennis Del Mar,
interpretato dall’amico Heath Ledger. Il film è
I segreti di Brokeback Mountain e la performance dei due
attori protagonisti viene acclamata, forse anche per scongiurare
accuse varie di omofobia, all’unanimità da critica e pubblico: il
film ottiene, infatti, 71 premi e 52 nomination. Il Jack
interpretato da Jake è un uomo sensibile e innamorato, che non
accetta la ritrosia del suo compagno e vive una vita priva di
gioia, sempre in attesa che il suo Ennis faccia qualcosa per
potergli stare accanto. Per la sua interpretazione, Gyllenhaal
riceve numerosi riconoscimenti tra i quali un premio BAFTA, uno
Screen Actors Guild, in entrambi i casi nella categoria di “miglior
attore non protagonista” e un MTV Movie Award nella categoria
“miglior bacio” con il collega Heath Ledger.
Sempre nella categoria “Oscar al miglior attore non protagonista”
riceve una candidatura al Premio Oscar.
È in questo film che Jake incontra
anche Anne Hathaway, che interpreta Lureen
Newsome, ricca e un po’ rozza texana che sposerà Jack. La coppia
Gyllenhaal/Hathaway si è dimostrata vincente anche di recente al
cinema, con Amori e altri rimedi, firmata Edward
Zwick, dramma travestito da commedia, ridanciano e
scollacciato in cui i due giovani attori sono due amanti e fanno
bella mostra dei loro corpi belli e giovani. Lo stesso Zwick ha
sottolineato: “Eravamo tutti d’accordo nel dare autenticità a
questa relazione. Per quanto riguarda la mia esperienza, quando due
persone si mettono insieme trascorrono un sacco di tempo a letto.
Il letto diventa il loro mondo. Se Jake Gyllenhaal e Anne Hathaway
avessero tenuto le lenzuola fino al mento sarebbe stato
ridicolo”. Inoltre i due attori, amanti sul set, sono amici
‘di cucina’: sono soliti scambiarsi consigli e ricette culinarie; i
due si sono ritrovati a scambiarsi SMS per qualche consiglio
culinario, ma è soprattutto Jake – che è considerato un cuoco
provetto, ad Hollywood – ad aiutare la collega, che invece non è
particolarmente brava in questo campo. “Lei mi manda messaggi
quando ha dei dubbi in materia di cucina” – ha rivelato
Gyllenhaal – “L’altra sera Annie mi ha chiesto un consiglio su
come fare velocemente il pangrattato, e io le ho scritto tutte le
istruzioni, mettendoci 15-20 minuti. E lei mi ha risposto: “Ah sì,
ci pensato. Ma non funziona.”
Nel 2005, recita nella pellicola
del regista Sam Mendes sulla guerra del Golfo,
Jarhead, assieme al cognato Peter
Sarsgaard e in Proof – La prova di John
Madden, accanto a Gwyneth Paltrow e
Anthony Hopkins. Dopo una pausa di due anni,
David Fincher lo vuole sul set di Zodiac,
film che tratta dell’omonimo serial killer statunitense, mai
catturato. Gyllenhaal interpreta Robert Graysmith, vignettista
fanatico di parole crociate e rebus, che insieme all’ispettore
David Toschi (Mark Ruffalo) ed al giornalista
disfattista e alcolizzato Paul Avery (Robert Downey
Jr.) proveranno a dare la caccia al serial killer Zodiac.
Il ritmo dilatato del film di Fincher da ampio spazio alla prova
attoriale di Jake che si mostra all’altezza del regista e dei suoi
illustri colleghi.
Sempre nel 2007 esce Rendition
– Detenzione illegale di Gavin Hood, accanto
a Reese Witherspoon, Meryl Streep e di nuovo
Peter Sarsgaard. Ma presta anche la voce al
cortometraggio d’animazione The Man Who Walked Between the
Towers di Michael Sporn, in cui commenta
l’impresa dell’acrobata francese Philippe Petit che, il 7 agosto
1974, camminò su una fune da una Torre Gemella all’altra, venendo
poi “condannato” ad esibirsi al Central Park davanti ad un pubblico
di bambini. La stessa storia viene raccontata nel bellissimo
documentario premio Oscar Man on Wire, presentato in
anteprima mondiale al Festival di Roma del 2008.
Dal 6 luglio 2006 è tra i 120 nuovi
invitati a far parte della Academy, con diritto di voto per le
assegnazioni degli Oscar. La sua nomina, come le altre, è stata
ufficializzata il 20 settembre 2006 nel corso di una cerimonia
tenutasi al Fairbanks Center for Motion Picture Study di Beverly
Hills. Considerato un sex symbol nel mondo dello spettacolo, nel
2006 viene confermata la sua posizione dalla rivista People che lo
piazza nella classifica “50 Most Beautiful People” e in quella di
“Hottest Bachelors of 2006”, ma Jake in realtà si contraddistingue
proprio per la differenza tra la sua prestanza fisica, che si nota
soprattutto in Prince of Persia del 2008, e il suo viso, da eterno
ragazzo.
Del 2008 sono Brothers,
film di Jim Sheridan, con l’amica Natalie
Portman e l’ex ‘rivale’ Tobey Maguire, e
Prince of Persia: Le sabbie del Tempo, film tratto
dell’omonimo videogioco, in cui Gyllenhaal interpreta il principe
Dastan, accanto a Gemma Artenton. Per questo ruolo
Jake si è dovuto allenare molto, costruendosi una fisicità che
prima non aveva affatto in modo da poter fare il più possibile a
meno di controfigura e stun. Il 4 febbraio 2011 esce in Italia
Amore & altri rimedi, di cui abbiamo già parlato e per la
quale Jake ha ricevuto una candidatura ai Golden Globes.
E’ attualmente in fase di post
produzione Nailed, commedia romantica che vede Jake
Gyllenhaal recitare accanto di Jessica Biel e
James Marsden. Nel film una giovane cameriera di
una piccola città, in seguito ad un incidente, subisce sbalzi di
comportamento. A Washington un giovane senatore la prende sotto la
sua ala protettrice, ma l’amore ci metterà lo zampino. Alla regia
il ritrovato David O. Russel reduce dal successo
del suo The Fighter. Source Code, nelle sale
italiane dal 29 aprile, aprirà il prossimo Southwest Film
Festival.
Molto legato alla sua famiglia, ha
più volte dichiarato di essere di fede ebraica, religione
professata dalla madre e, all’età di 13 anni, ha celebrato il suo
Bar mitzvah. Jake Gyllenhaal, come gli altri membri della sua
famiglia, è impegnato in numerosi progetti che promuovono la
cultura, l’educazione, i diritti umani, la non-violenza e la difesa
dell’ambiente. È sostenitore dell’ACLU (Unione Americana per le
Libertà Civili), dell’associazione Not in Our Name che promuove un
patriottismo pacifico, e del College Summit, un’organizzazione
no-profit che aiuta, anche economicamente, l’ingresso al college
degli studenti poco abbienti. Nel 2004 ha partecipato alla campagna
elettorale di John Kerry, candidato democratico alla presidenza
USA. In occasione della 78ª Notte degli Oscar, si è recato al Kodak
Theater di Los Angeles su una macchina che produce l’80% in meno di
emissioni inquinanti, aderendo con vari altri candidati e
presentatori all’iniziativa Red Carpet, Green Cars.
L’attore, inoltre, sostiene le attività della CarbonNeutral Company
in difesa dell’ambiente, e nel 2010 è entrato a far parte della
campagna Stand Up To Cancer insieme ad altre star di Hollywood.
CURIOSITA’
Madrina di Jake è l’attrice Jamie
Lee Curtis, mentre il suo padrino è Paul Newman. Il fascinoso
attore dagli occhi di ghiaccio, che è un grande appassionato di
motori, ha dato a Jake le prime lezioni di guida.
Jake Gyllenhaal ha rivelato che
suo cognato Peter Sarsgaard gli ha fatto conoscere la comodità di
correre a piedi nudi, o quasi. Jake infatti ha detto che non
indossa normali scarpe da ginnastica, perchè le trova scomode, e
preferisce quelle con una suola molto sottile, che gli garantiscono
comodità e al tempo stesso gli impediscono di farsi male quando
corre in città.
Il buio oltre la siepe è il libro
preferito di Jake Gyllenhaal, tanto che l’attore ha chiamato i suoi
due cani Boo e Atticus, come due personaggi principali del romanzo
di Harper Lee.
Uno dei docenti di Jake Gyllenhaal
ai tempi in cui frequentava la Columbia University, era Robert
Thurman, padre di Uma Thurman.
Jake è inoltre discendente di
Johan Abraham Gyllenhaal, geologo e mineralogista, uno dei membri
della famiglia nobile svedese dei Gyllenhaal. Il cognome
Gyllenhaal, in svedese, potrebbe significare “salone d’oro”.
Dopo l’annuncio che alcune scene di The Dark Knight
Rises verranno girate nella città indiana di
Jodhpur, detta la CittàBlu, e ecco arrivarealcuni dettagli
aggiuntivi…Estratti dell’articolo del Times of India:
Il regista Christopher
Nolan verrà a Jodhpur a girare The Dark Knight Rises con nientemeno
che Christian Bale. Non è prevista la presenza di altri attori di
Hollywood per questa porzione indiana di riprese.
Nolan era venuto in
India a dicembre a fare un sopralluogo a Jodhpur: è stato allora
che ha scelto di girare al Forte Mehrangar. La troupe principale
inizierà ad arrivare il 1 maggio, Christian Bale arriverà in India
il 4 o 5 maggio. Anche se sono stati chiesti permessi per girare
lungo tutto il mese di maggio, la prima unità girerà solo un paio
di giorni: il 6 e il 7 maggio.
Gli alberghi a Jaipur e Jodhpur
sono già stati prenotati. Una fonte ci rivela che
“Nolan aveva fatto sopralluoghi a Jodhpur e Jaipur: si è innamorato
della prima città e ha deciso di girare lì. La troupe coinvolta
sarà piccola, coinvolgerà una quindicina di persone, e gireranno un
paio di giorni. Non ci saranno attori di Bollywood nel film, ma
alcuni membri della comunità locale di attori e di lavoratori del
settore potrebbero essere coinvolti. La troupe vuole utilizzare lo
splendido Forte come sondo per il film. Comunque, non sappiamo se
Jodhpur comparirà nel film come città indiana o meno.
L’idea è di Andrej Wajda,
regista di Katyn. Molti sono i progetti artistici che hanno come
obiettivo quello di rappresentare e onorare forse la più importante
scrittrice e giornalista italiana del ‘900: Oriana Fallaci. Dal
cinema al teatro, fino alla televisione.
E’ cominciata la campagna di
amrketing che la Summit Entertainment porterà avanti per Breaking
Dawn, fino all’uscita in sala del film previsto per il 18 novembre
del 2011. Ecco infatti alcune foto pubblicate da Entertainment
Weekly, con tanto di copertina della rivista. Oltre a molte foto
inedite, il servizio sarà corredato da numerose dichiarazioni dei
protagonisti:Bill Condon, Kristen Stewart, Robert Pattinson eTaylor
Lautner.
Ebbene sì, a quasi 75 anni, il
signor Ken Loach ancora s’indigna. E lo
dimostra col suo ultimo film L’altra verità – Route
Irish, da mercoledì scorso nelle sale italiane, in
concorso a Cannes
2010, in cui affronta uno dei temi più controversi
della nostra attualità: la guerra in Iraq.
E lo fa adottando un punto di vista
vicino a chi la guerra l’ha subìta, senza esserne minimamente
responsabile, ossia le vittime civili irachene. Il regista ha
infatti affermato che questa guerra viene vista troppo spesso come
una tragedia americana, mentre non è affatto così: “volevamo
avvicinare la gente alle sensazioni del popolo iracheno: milioni di
morti, quella è la tragedia”.
Ken Loach, filmografia
Ma ciò che intende fare con questo
film, oltre a far luce sul fenomeno dei “contractors”, che ha
portato alla “privatizzazione di fatto” della guerra, è anche
suscitare la reazione del pubblico di fronte all’atteggiamento
delle potenze occidentali in merito a ciò che è accaduto in Iraq –
al fatto, ad esempio, che si sia praticata la tortura. Un
atteggiamento di accettazione, di chi invita ad andare avanti,
magari dimenticando. Lo ha detto senza mezzi termini il regista di
Nuneaton, presentando il film a Cannes:
“lo hanno fatto nel nostro nome, e coloro che reputano
accettabile tutto ciò, i vari Blair, Bush e gli altri, sono ancora
lì. Inoltre Blair, con grandissima ironia, è stato nominato
Ambasciatore di pace in Medio Oriente (…) Quindi, se non possiamo
farli giudicare da una corte di giustizia, dobbiamo almeno farli
giudicare dall’opinione pubblica”. Perciò, obiettivo del film
è “mantenere vivo il senso d’ingiustizia” rispetto ai
crimini commessi in questa guerra.
Potremmo citare altre sue
dichiarazioni – dalle prese di posizione nei confronti d’Israele,
alla provocatoria definizione della Gran Bretagna come una
“colonia culturale degli Stati Uniti” – ma ce n’è già
abbastanza per farsi un’idea di chi sia Ken Loach e del suo cinema.
Un cinema che pone domande, che scuote, che non lascia mai
indifferenti e spinge a reagire di fronte alle ingiustizie e ai
soprusi. Un cinema coraggioso e politico nel senso più ampio del
termine, che gli è valso prestigiosi riconoscimenti
internazionali.
Dal 1963 ad oggi, il regista, nato
nel Warwickshire il 17 giugno del ’36, ha portato la sua denuncia
sociale prima in tv, lavorando per la BBC assieme al produttore
Tony Garnett, e innovando fortemente nei primi anni ’60 gli schemi
televisivi, con i suoi docu-dramas, poi sul grande schermo.
Qui, dal 1967, si è dedicato al
racconto del mondo operaio, che fa parte delle sue origini, ma ha
saputo fotografare bene anche la borghesia inglese con pellicole
come Family life (1971). La sua fama resta però
indubbiamente legata alla produzione degli anni ’90, con pellicole
come Terra e libertà, sulla guerra civile
spagnola, e altre, dove torna a parlare del proletariato
britannico, realtà da lui ben conosciuta. Così fa in Riff
Raff, dove si scaglia con forza contro le politiche
tatcheriane, o con la storia dell’ex alcolista Joe, o coi
ferrovieri di Paul, Mick e gli altri, fino al più
recente Il mio amico Eric. E in questa realtà
marginalizzata include anche i nuovi poveri, gli ultimi arrivati
nella scala sociale britannica, come in quella delle altre società
occidentali: gli immigrati, costretti ai lavori più umili e spesso
senza alcun diritto (Bread and roses, In
questo mondo libero). Loach racconta la Storia, attraverso
storie di persone ordinarie, cercando di capire e far capire i
meccanismi secondo cui essa si muove, suggerendo strade di
possibile cambiamento.
Sin dagli esordi cinematografici,
con Poor Cow (1967) e Kes (1969),
il regista mostra le sue doti, inaugurando l’indagine sulle
condizioni esistenziali del proletariato britannico, che saprà
dipingere sempre con efficace realismo: è attento e scrupoloso,
ironico e tagliente, drammatico, ma non retorico. In questi suoi
primi lavori, sceglie un approccio quasi documentaristico, per
raccontare rispettivamente di una giovane donna e di un ragazzino
ai margini della società, alle prese con continue sfortune,
incontri sbagliati e vessazioni.
Nel ’71 esplorerà invece
l’asfittico e tarpante universo borghese della sua Inghilterra,
trattando in modo vivido e toccante il tema della malattia mentale,
con Family life. Al centro, la vicenda umana della
giovane Janice Baildon/Sandy Ratcliff, che non riesce a prendere in
mano la propria vita ed è costretta dai genitori ad abbandonare
amore, sogni e aspirazioni. Da tutto ciò fugge, scivolando
lentamente ma inesorabilmente nella malattia mentale, che la
condurrà in ospedale psichiatrico. A nulla valgono le insistenze
della sorella Barbara, che, staccatasi dalla famiglia con cui è in
aperto contrasto, inviterà più volte Janice a fare altrettanto.
Loach pone domande e invita a riflettere sull’apparente normalità
di una famiglia borghese, dietro cui si celano incomunicabilità e
alienazione, ma anche su un apparato statale carente
nell’affrontare il disagio sociale ed esistenziale. In seguito, il
regista di Nuneaton torna a lavorare per la tv, dedicandosi solo di
rado al cinema.
A inizio anni ’90, invece, il
grande schermo è di nuovo una delle sue principali occupazioni. In
questo decennio, e in quello successivo, la sua fama si
consoliderà, facendolo entrare a pieno titolo tra i più grandi
registi europei. Il decennio si apre con una pellicola d’impegno,
componente irrinunciabile nel lavoro di Loach. Si tratta del
thriller L’agenda nascosta, in cui il regista ci
presenta l’annosa questione dell’IRA in Irlanda, da un punto di
vista del tutto diverso da quello solitamente adottato. Ci parla,
come farà spesso nel confrontarsi coi grandi temi storici, di
verità nascoste, lati oscuri, responsabilità che non ricadono mai
da una sola parte, come troppo spesso siamo portati a credere. Qui
si tratta infatti di violazioni commesse dalle forze di polizia
inglesi nei confronti di militanti irlandesi dell’IRA e
dell’inchiesta che ne scaturisce; della morte di un avvocato
americano, e della volontà di sua moglie di scoprirne il reale
motivo. Abbiamo quindi – e le ritroveremo in molti film di Loach –
delle storie personali dal forte valore emotivo, con un elevato
potenziale di coinvolgimento, che sono l’occasione per mettere in
moto una riflessione. La pellicola ottiene il Premio speciale della
Giuria al Festival di
Cannes.
Loach continua poi la sua indagine
sulle problematiche della società britannica, e in particolar modo
delle sue classi meno agiate, e lo fa con Riff,
raff, in cui, attraverso le vicende di Steve/Robert
Carlyle, ex galeotto che trova lavoro come operaio edile, punta il
dito contro le politiche tatcheriane disinvoltamente liberiste, che
lasciano le classi lavoratrici senza i più elementari diritti
(emblematico il fatto che i protagonisti lavorino per trasformare
un ex ospedale in un condominio di lusso). La vita di cantiere è
dipinta con la consueta precisione e realismo. Accanto a Carlyle,
che Loach sceglierà anche per La canzone di Carla,
troviamo Peter Mullan, futuro protagonista del fortunato My
name is Joe.
Per non farsi mancare nulla e
tratteggiare un quadro completo della marginalità sociale inglese,
Loach firma nel ’94 il commovente Ladybird,
Ladybird, ritratto di Maggie/Crissy Rock, madre cui viene
tolta la custodia di quattro figli, perché inadatta a crescerli, e
poi ancora di altri due, avuti con un compagno assieme al quale
cercava di rifarsi una vita. Il film è tratto da una storia vera, e
non vuole certamente difendere ad ogni costo Maggie, che viene
mostrata senza ipocrisie, in un ritratto fatto di luci e ombre.
Piuttosto, ancora una volta, vuole restituire una visione complessa
della realtà, mostrandoci un punto di vista che ci spinga a
interrogarci sul tema dell’affidamento. Orso d’oro a Berlino per la
Rock come Miglior Attrice.
Torna poi alle grandi vicende della
Storia, raccontate però sempre dal basso, a partire dalla gente
comune, con Terra e libertà (1995). In questo caso
si parla della guerra civile spagnola del ’36, e di un giovane di
Liverpool, David/Ian Hart, che parte per andare a combattere contro
le truppe di Franco, a fianco del Partido Obrero de Unidad
Marxista. Passerà attraverso l’ardore idealista degli inizi,
sperimenterà difficoltà, vivrà anche una storia d’amore con
Blanca/Rosana Pastor, militante del Poum, insieme si scontreranno
con la disillusione di un triste epilogo. La disgregazione e le
lotte interne al fronte d’opposizione contro Franco porteranno
infatti allo scioglimento del Poum e lasceranno la strada aperta
alla dittatura. Quando gli verrà intimato di deporre le armi e
alcuni suoi compagni si rifiuteranno, a farne le spese sarà proprio
Blanca, che morirà tra le braccia di David. Anche qui, c’è passione
politica, c’è dramma, ma la crudezza e l’autenticità salvano dalla
retorica. Il film ottiene il Premio della Giuria ecumenica al
Festival di
Cannes.
Loach non rinuncia poi a parlarci
della guerriglia controrivoluzionaria dei Contras nel Nicaragua
sandinista, scegliendo come protagonista di nuovo Robert Carlyle.
Il film è La canzone di Carla. Siamo nel 1987 e
questo racconto in due parti esplora da un lato, la realtà
britannica – la prima parte del film è infatti ambientata a Glasgow
– dall’altro, quella nicaraguense, poco conosciuta in Europa.
Occasione per fare ciò, è una vicenda umana delle più semplici, e
si direbbe banali: la storia d’amore tra l’operaio di Glasgow
George Lennox/Robert Carlyle e la nicaraguense Carla, giunta in
Scozia da rifugiata. Il film inaugura la lunga e fruttuosa
collaborazione tra Loach e lo sceneggiatore Paul Laverty.
Nel ‘98 i due collaboreranno
ancora, stavolta per tornare ad occuparsi esclusivamente di Regno
Unito, con My name is Joe, storia di un ex
alcolista che cerca di rifarsi una vita, ottimamente interpretato
da Peter Mullan, che è premiato con la Palma d’Oro a
Cannes.
Ancora vite ai margini in cerca di riscatto e di giustizia, come
sarà anche nel successivo Bread and roses (2000),
che affronta il tema delle rivendicazioni di diritti civili da
parte degli immigrati. Stavolta, però, Loach va in trasferta negli
Usa, dove l’immigrazione è quella messicana. La protagonista, Maya,
lotterà per i suoi diritti di lavoratrice, vedendoli riconosciuti.
E di rivendicazione di diritti, stavolta da parte di un gruppo di
ferrovieri inglesi in cassa integrazione, si parla in Paul,
Mick e gli altri (2001), a sottolineare che, anche dopo
l’era Tatcher – il film è ambientato negli anni Novanta, durante il
governo di Major – le prospettive per la classe lavoratrice inglese
non sono certo rosee. Loach sarà molto critico anche nei confronti
del nuovo corso laburista, inaugurato da Blair, e sosterrà il
movimento Respect, a sinistra del nuovo Partito Laburista.
Nel 2002, sarà tra i registi che
realizzeranno corti sul tema dell’11 settembre 2001, e anche in
questo caso lo farà in maniera del tutto peculiare, volgendo ancora
una volta lo sguardo dove lo spettatore non si aspetta. Partendo
infatti dalla data dell’attentato alle Torri Gemelle di New York,
il regista britannico ricorderà un altro 11 settembre, quello del
1973, che vide in Cile il golpe di Pinochet e la morte del
Presidente Allende, il sovvertimento dell’ordine democratico e
l’instaurarsi di una dittatura che avrebbe portato a migliaia di
morti innocenti e di persone torturate, sotto gli occhi di tutto il
mondo occidentale, Usa compresi, che non fecero nulla per fermare
Pinochet, e anzi lo considerarono interlocutore degno delle loro
diplomazie. Anche qui, dunque, la prospettiva adottata fa sorgere
vari quesiti: esistono vittime di serie A e vittime di serie B?
Attentati alla democrazia di fronte ai quali è giusto indignarsi e
altri verso i quali è opportuno restare indifferenti? Loach solleva
la questione, allo spettatore il compito di farsi un’opinione in
merito.
Il 2006 sarà invece l’anno che
porterà al regista inglese la Palma d’Oro al Festival di
Cannes, che ancora una volta dimostrerà grande
apprezzamento nei confronti di questo arguto cineasta. Lo farà
premiando Il vento che accarezza l’erba, in cui si
riapre una delle pagine più dure della storia britannica: la guerra
civile che dilaniò l’Irlanda negli anni ’20. Da una parte
l’esercito inglese che vuole reprimere ogni residua volontà
indipendentista in Irlanda, dall’altra il popolo irlandese, che si
dividerà a sua volta tra chi accetterà un trattato che pone fine
alle ostilità con gli inglesi e chi vi si opporrà, considerandolo
un mero opportunismo. Ancora una volta, una guerra fratricida,
inutile, anzi, dalle conseguenze disastrose. Loach ce la fa vivere
attraverso le vicende di una famiglia irlandese, che si troverà su
fronti opposti delle barricate. Sceneggiatura curata dall’ormai
immancabile Paul Laverty, e massimo riconoscimento a
Cannes
per il film.
L’anno successivo, Loach e Laverty
torneranno invece alla stretta contemporaneità e al mondo del
lavoro, occupandosi della sua precarizzazione, di liberalizzazione
e competizione selvagge. In questo contesto, Angie, la protagonista
di In questo mondo libero, licenziata, si fa
imprenditrice di una ditta di collocamento per immigrati e finirà
per trattare le persone che le si rivolgono come fossero una merce.
Loach torna dunque all’attualità, evidenziando i guasti prodotti
nelle società occidentali dal liberismo selvaggio. C’è chi ha
definito cinico il suo approccio in questa pellicola, ma a tale
osservazione il regista di Nuneaton ha risposto rivendicando una
necessità di realismo, che faccia comprendere il reale
funzionamento dei meccanismi delle nostre società, come presupposto
di un possibile cambiamento. Laverty si è guadagnato con questo
lavoro l’Osella d’Oro per la sceneggiatura al Festival
del Cinema di Venezia 2007.
Ancora una storia ai margini della
working class britannica è quella di Il mio amico
Eric (2009), sempre in collaborazione con Laverty. Eric è
un uomo la cui esistenza è allo sbando, ma mentre sta andando alla
deriva, sarà soccorso dal suo idolo, qui una sorta di angelo
custode: Eric Cantona, calciatore del Manchester. Il film unisce
toni leggeri e drammatici, e sperimenta elementi surreali,
riuscendo ancora una volta a catturare il pubblico, anche trattando
temi non facili. Premiato a Cannes
dalla Giuria Ecumenica.
Siamo così ad oggi. Nel 2010
infatti, la premiata ditta Loach-Laverty torna ad occuparsi di
questioni internazionali e di Storia, affrontando, da inglese, il
tema della guerra in Iraq. E lo fa, come detto in apertura, con
L’altra verità – Route Irish, affidando il ruolo
del protagonista a Mark Womack, noto attore televisivo inglese al
suo debutto cinematografico. Womack interpreta un ex contractor il
cui miglior amico, contractor anch’egli, muore in circostanze poco
chiare sulla tristemente nota strada di Baghdad. Qui, si mettono a
nudo aspetti spesso taciuti di questo recente conflitto, ma
indispensabili per comprenderlo, proprio perché, come ha affermato
lo stesso Loach, il cinema ci aiuta a fare ciò che tutti dovremmo
fare, essendo nel mondo: cercare di capirlo. E può talora
suggerirci strade da percorrere, se ne vogliamo ottenere il
mutamento. Se vi state chiedendo dove sia, allora, la differenza
tra cinema e politica, beh, la risposta, con la consueta ironia, la
dà lo stesso Ken, ricordando un vecchio slogan della sinistra
americana: “scuotere (agitate), istruire
(educate), organizzare (organize). I film possono
scuotere un po’, non possono realmente istruire e neppure
organizzare. Quindi, fateci fare ciò che possiamo, cioè scuotere,
ma una volta che siete usciti dal cinema, per l’amor di Dio,
organizzatevi!”
Una serie di sospiri accompagnano
la soggettiva offuscata della statua della Madonna che apre il film
premio Brian a Venezia 2010 come miglior film “che evidenzi
ed esalti i valori del laicismo”. I Baci Mai Dati
di Roberta Torre arriverà venerdì 29 nelle sale
italiane a due anni dalla sua realizzazione e con due importanti
festival alle spalle: Venezia (nella sezione Controcampo italiano)
e il Sundance Film Festival.
I Baci Mai Dati
narra le vicende di Manuela (Carla Marchese), una
ragazza di tredici anni che, stanca dei disordini familiari, decide
un po’ per gioco, un po’ per provocazione e un po’ per una qualche
forma di convinzione di far credere agli abitanti del quartiere di
aver parlato con la Madonna. Dopo lo scherno iniziale dei genitori
che iniziano a rinfacciarsi le responsabilità per aver dato alla
luce due figlie: una che “parla con la madonna” e l’altra che
“sembra la figlia di Paris Hilton” la madre inizia a fiutare
l’affare e mette in moto un grande business attorno alla presunta
santità della figlia. La gente ha bisogno di sperare, ma la
speranza è diversa dal “farsi prendere per il culo” come osserva la
protagonista.
Il quartiere catanese di Librino fa
da sfondo alla vicenda. Una vicenda siciliana ma non solo in cui i
personaggi sono al tempo stesso tipici di una realtà locale (come
il “biondo Librino” che caratterizza i capelli di Donatella
Finocchiaro) ma anche stilizzati, personaggi fumetto, come
stilizzate ed esagerate sono le scelte formali della regista. Il
kitsch caratterizza oggetti e arredi legati al mondo della fede:
una chiesa ridipinta di un blù elettrico in cui troneggiano statue
e dipinti di dubbio gusto, cui fanno eco i gadget con la faccia
della bambina “santa” voluti dalla madre.
Il colore è un tratto esuberante
che caratterizza il film e che trova la sua massima espressività
antinaturalistica nel salone della parrucchiera-fattucchiera
interpretata da Piera Degli Esposti. Una
parrucchiera che non si limita a curare l’estetica delle teste, ma
che agisce magicamente anche sul loro contenuto, un’altra
“spacciatrice di speranza” che viene messa in diretta relazione con
la bambina. Nel finale il miracolo accade, o meglio, i miracoli
accadono. Il primo è nel riavvicinamento tra madre e figlia,
coronato da quei “baci mai dati” cui accenna il titolo. Il secondo
apparentemente più inspiegabile è lasciato in sospeso e sorprende
la stessa protagonista stanca del suo bluff.
In questo film delicato ma anche
graffiante la regista (anche sceneggiatrice con Laura
Nuccilli e anche produttrice con Amedeo
Bacigalupo) si è avvalsa della collaborazione di attori di
chiara fama e collaudatissimo mestiere come Piera Degli
Esposti, Pino Micol, Donatella
Finocchairo e Giuseppe Fiorello ma anche
di due attrici giovanissime: Carla Marchese e Martina
Galletta al loro esordio cinematografico.
Voglia di
tenerezzaRegia: James L. Brooks
Anno: 1983 Cast: Shirley
MacLaine, Debra Winger, Jack Nicholson.
Il film è tratto da un romanzo di
Larry McMurtry del 1975, dall’omonimo titolo. Nel romanzo però non
appare il personaggio di Garrett, ideato dallo stesso Brooks,
interpretato da Jack Nicholson e centrale nel film. I protagonisti
portano dentro di sé tristezza e insoddisfazione, cadendo così in
sbagli continui arrecati proprio dalla loro fragilità.
Abbiamo Aurora, donna che non
accetta di invecchiare e vorrebbe restare una single eternamente
corteggiata dagli uomini; c’è Emma, la figlia, che è sempre più
trascurata dal marito Flap, che di fatto la tradisce, causandone
così il reciproco tradimento; c’è Garrett, ex astronauta vitellone.
Ma il brutto male che colpisce Emma porterà un cambiamento positivo
in ognuno di loro: Aurora accetterà di buon grado il ruolo di
nonna, Flap si impegnerà di più come padre, Garrett si dedicherà
anima e cuore ad Aurora, sbarazzandosi dal ruolo di scapolone negli
“anta”. Commedia adatta per gli amanti dei film lenti e riposanti,
romantici, strappalacrime.
Voglia di tenerezza ha avuto anche
un sequel girato nel 1996, Conflitti del cuore: nel film Aurora ha
una tormentata relazione con un giovane psichiatra (Bill Paxton) e
Nicholson compare solo in un cameo.
Al ritiro dell’Oscar Shirley
MacLaine, durante il suo discorso, si rivolse a Debra Winger,
candidata per la stessa categoria e lo stesso film, e le disse:
“Metà di questo è tuo”. La Winger le rispose: “Allora
ne prenderò metà”.
Il periodo delle riprese coincideva
con la disintossicazione di Debra Winger da una seria dipendenza
dalla cocaina, che causò molti comportamenti scorretti sul set, che
in un’occasione la portarono addirittura alle mani con Shirley
MacLaine.
James L. Brooks ha lavorato solo
occasionalmente come regista, in quanto la sua principale attività
è di produttore televisivo. Tra i lavori più famosi c’è quello di
produttore esecutivo dei Simpson.
In America è molto conosciuto anche
per programmi televisivi quali Mary Tyler Moore, Rhoda e Taxi. Come
regista ha firmato altri cinque film: Dentro la notizia (Broadcast
News, 1987), Una figlia in carriera (I’ll Do Anything, 1994),
Qualcosa è cambiato (As Good As It Gets, 1997). Spanglish – Quando
in famiglia sono in troppi a parlare (Spanglish, 2004) e il recente
Come lo sai (How Do You Know, 2010).
Sebbene Brooks non abbia diretto
molti film, con Voglia di tenerezza ha proposto una pellicola che
ha fatto incetta di premi. Cinque Premi Oscar: Miglior film a James
L. Brooks, Migliore regia a James L. Brooks, Miglior attrice
protagonista a Shirley MacLaine, Miglior attore non protagonista a
Jack Nicholson, Migliore sceneggiatura non originale a James L.
Brooks. Quattro Golden Globe: Miglior film drammatico, Miglior
attrice in un film drammatico a Shirley MacLaine, Miglior attore
non protagonista a Jack Nicholson, sceneggiatura a James L. Brooks.
Quattro National Board of Review Award: Miglior film, Migliore
regia a James L. Brooks, Miglior attrice protagonista a Shirley
MacLaine, Miglior attore non protagonista a Jack Nicholson. Due
Kansas City Film Critics Circle Award: Miglior film, Miglior attore
non protagonista a Jack Nicholson. Un David di Donatello: Miglior
attrice straniera a Shirley MacLaine. E ancora 5 premi al Los
Angeles Film Critics Association Award e tre al New York Film
Critics Circle Award.
Caro Diario è un
film diretto da Nanni Moretti e con protagonisti nel cast lo stesso
Nanni Moretti e Silvio Orlando.
Con questo film (Caro
Diario), Nanni Moretti ci offre un autentico
documentario sulla politica italiana tra il ’94 e il ’97. Un
documentario filtrato dalle sue sensazioni, delusioni, gioie,
ansie, aspettative; sentimenti che si mescolano causa la politica e
la vita privata. Dalla vittoria di Berlusconi nelle elezioni
politiche del ’94 alla vittoria del Governo Prodi del ’96, passando
per l’attesa per la nascita del figlio che lo distrae dal lavoro
fino alle delusioni arrecategli dalla “sua” parte politica.
Caro Diario si
apre con il discorso di Emilio Fede al Tg4 che annuncia la vittoria
di Silvio Berlusconi alle elezioni politiche del
1994. Nanni Moretti è sconcertato dalla
vittoria della destra e pensa di girare un documentario a proposito
della figura di Berlusconi e del conflitto d’interessi. Tuttavia il
progetto verrà accantonato per fare posto ad un musical.
Ma nel 1996 ci saranno le elezioni
anticipate e Moretti (che nel frattempo aveva sospeso a tempo
indeterminato il musical per mancanza d’idee) ripensa al suo
progetto del film politico. Contemporaneamente la moglie gli rivela
di essere incinta e da quel momento la vita di Moretti si divide
tra il lavoro sul documentario e il figlio a cui dedica tantissimo
tempo.
Caro Diario, un film egocentrico
Incontra notevoli difficoltà
professionali e soprattutto personali nel suo nuovo ruolo di padre.
Il documentario non verrà realizzato in tempo, quindi Moretti
abbandona il progetto (anche per via della vittoria della sinistra)
e si dedica nuovamente al musical, con protagonista un pasticciere
trotskista (Silvio Orlando) che balla dopo la morte di Stalin nella
sua pasticceria.
Caro diario è il
film più egocentrico di Moretti; ma anche il più politico, al pari
solo de Il Caimano, presentato 8 anni dopo (2006).
Tra le scene che restano più impresse, si ricorda quella famosa
della canna fumata da Moretti dopo la vittoria di Berlusconi nel
’94, con la madre di fianco; mentre la più toccante è quella che lo
ritrae giungere sulle coste pugliesi in occasione dell’affondamento
di una nave albanese da parte della Marina italiana, con Moretti
che critica i dirigenti di sinistra non accorsi sul luogo
dell’atroce misfatto.
Li critica con ironia nevrotica,
affermando che negli anni del fermento politico e civile, loro
erano chiusi in casa a guardare Happy days. Altra scena famosa è
quella in cui Moretti incita Massimo D’Alema, ospite di Porta a
porta incalzato da Berlusconi, di dire “qualcosa di sinistra”; o
quanto meno qualcosa, visto che era silente agli attacchi
dell’avversario.
Tra i riconoscimenti, si ricorda il
David di Donatello vinto da Silvio Orlando nel ’98
come migliore attore.
Dopo aver confermato che sarà
nuovamente sul set del film “italiano” di Woody Allen, The Wrong
Picture, che si girerà in estate a Roma, Penelope Cruz
ritornerà nuovamente in Italia per essere diretta da Sergio
Castellitto dopo la fortunata esperienza di Non ti muovere.
La teutonica Antje Traue
(Pandorum), potrebbe entrare a far parte del cast di Superman: man
of Steel, di cui ricordiamo fanno già parte Michael Shannon nei
panni del generale Zod, Henry Cavill per la parte dell’eroe
d’acciaio e inoltre Amy Adams, Kevin Costner e Diane Lane Il ruolo
della Traue dovrebbe essere quello di Faora, una kriptoniana che
contrasterà la forza di Superman sulla Terra. Sul personaggio di
Faora, apparsa nei comic book del supereroe alla fine degli anni
’70, era basato quello di Ursa, apparsa in Superman e in Superman
II. Ricordiamo che Superman:Man of Steel diretto da Zack
Snyder e prodotto da Christopher Nolan uscirà nelle sale
americane il dicembre del 2012.
Sarà il regista, produttore e
sceneggiatore statunitense Darren Aronofsky
(autore del film d’apertura della 67 Mostra, Black Swan, e
Leone d’oro 2008 per The Wrestler) è la personalità chiamata
a presiedere la Giuria Internazionale del Concorso della 68esima
Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (31
agosto-10 settembre 2011).
La decisione è stata presa dal Cda
della Biennale di Venezia, presieduto da Paolo Baratta, accogliendo
la proposta del Direttore della Mostra Internazionale d’Arte
Cinematografica, Marco Mueller.
Gli attori del cast parteciperanno
dal 10 al 12 giugno a un incontro coi fan presso l’Hotel Futura di
Casoria. Dopo il successo dell’edizione romana del 2010, torna la
Twilight Ita Con 2, la prima convention italiana dedicata alla saga
vampiresca di «Twilight».
Dom Toretto (Vin
Diesel) e la sua famiglia, composta dalla sorella Mia
(Jordana
Brewster) e dal di lei compagno Brian
(Paul
Walker), in Fast & Furious 5 si
trovano, dopo la rocambolesca evasione di Dom, a Rio de Janeiro,
per portare a termine un ultimo colpo che permetterà loro di
rifugiarsi con un’altra identità in uno dei paesi che non applicano
l’estradizione dei ricercati.
A Rio però il colpo si complica
contro ogni aspettativa; vengono uccisi degli agenti federali e
piomba in città, in tutto il suo splendore di muscoli e armi,
l’agente speciale Hobbs (Dwayne
Johnson), più che determinato a incastrare i Toretto.
Intanto Dom ha spostato l’imprevisto del colpo andato a male su di
un livello più personale e vuole affrontare una volta per
tutte il capo della malavita locale Reyes, depredandolo del suo
potere e dei suoi soldi. Per fare ciò ha bisogno del migliore dei
team possibili, e quindi raduna i suoi uomini e donne
migliori per portare a termine il colpo che metta in ginocchio il
magnate del crimine.
Fast & Furious 5, il
film
Fast & Furious 5
segna la riunione in grande stile del cast delle origini, per
offrire due ore buone di intrattenimento composto da effetti sonori
saturi, macchine veloci, sgommate, lotte tra culturisti e un po’ di
Sudamerica. Questi elementi fanno di Fast & Furious
5 un prodotto completo per qualsiasi mercato: il cast
di origine multietnica, le varie lingue in cui vengono declinati i
dialoghi, i principi basici a cui il film è votato.
Non disattende la brama di azione,
trucchi e astuzie da guardie e ladri, con una base di moralità
legata al concetto di sacralità della famiglia. Quella che si è
persa e per la quale si continua a lottare e quella che si allarga,
dopo pochi minuti si scopre che la sorella di Dom è incinta di
Brian, ex poliziotto ormai parte del team Toretto, e, per
estensione, si parla anche di famiglia acquisita, in questo
caso formata dalla squadra di Dom che porta a termine il colpo.
Ovviamente in Fast &
Furious 5 ci sono le macchine veloci, di cui tutti gli
agenti specializzati sono esperti, e un’incredibile, anche se forse
un po’ allungata, scena di inseguimento con cassaforte piombata a
traino di due macchine ultrapotenti in pieno centro di Rio de
Janeiro, con conseguente distruzione di molti edifici e carambole
di macchine della polizia. Fanno perciò sorridere i disclaimer a
fine film, che suggeriscono di non provare ad imitare queste scene,
l’immaginazione porta immediatamente a una Maserati con attaccato
un box di sicurezza delle poste che cerca di svicolare nel traffico
del Lungotevere romano.
Fast & Furious
è una saga che ci accompagna da dieci anni, in cui i
protagonisti si sono alternati attorno al nocciolo duro formato da
Vin Diesel e Paul Walker e che ora ritorna al completo con
l’aggiunta di
Dwayne Johnson, che in più di una scena ci ricorda il
perché un tempo non troppo lontano era conosciuto come The Rock e
frequentava i ring del wrestling. La sua caccia a Toretto
proseguirà nel prossimo (sicuro) capitolo. Un ultimo consiglio,
questa volta più di altre conviene restare oltre la fine dei
titoli di coda: Eva Mendes è protagonista del
teaser del prossimo film della serie, che vedrà il reintegro, per
probabile riesumazione, di un’altra parte del cast.
In un mondo di oggi saturo di remake e
discretamente pieno di reboot fa un enorme piacere apprendere che
la 20th Century Fox ha lanciato un’iniziativa molto
interessante.