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The Little Drummer Girl: recensione della serie con Michael Shannon #RomaFF13

Il regista sudcoreano Park Chan-Wook firma la regia della sua prima serie tv, The Little Drummer Girl, ispirata all’omonimo romanzo di John Le Carré. I primi due episodi sono stati presentati alla Festa del Cinema di Roma, gettando le basi per quella che potrebbe presto diventare una delle serie più in voga del momento.

The Little Drummer Girl è ambientata verso la fine degli anni ’70. Charlie (Florence Pugh) è una giovane attrice inglese intenta a trascorrere le vacanze in Grecia. Qui viene turbata dall’incontro con un misterioso sconosciuto, Becker (Alexander Skarsgard). Questi coinvolge la ragazza in un complicato intrigo internazionale orchestrato dalla spia Kurtz (Michael Shannon).

Risulta complesso inquadrare una spy-story come questa solamente dai primi due episodi. Si può però certamente individuare in questi delle ottime premesse che non fanno che aumentare le aspettative nei confronti della serie. Il regista di Old Boy sfoggia qui tutto il suo gusto estetico, regalando allo spettatore un incipit che contiene in sé spettacolarità visiva e gli elementi fondamentali per permettere un rapido inquadramento del contesto in cui ci troviamo. Curando minuziosamente l’aspetto formale, e facendolo intrecciare con la complessa trama a base di spionaggio, inganni e retroscena.

A convincere prima di tutto è infatti la messa in scena del regista, che riesce perfettamente a ricostruire la classica atmosfera da anni ’70 attraverso l’uso di giochi cromatici sia per le scenografie che per i costumi. Il tutto è sottolineato da una calda fotografia che sembra richiamare la qualità dell’immagine data dalla pellicola cinematografica. Successivamente quando con il procedere dell’episodio si fanno sempre più protagonisti i personaggi e la storia, sono questi a rubare l’attenzione dello spettatore.

Il primo episodio di The Little Drummer Girl ci presenta i tre personaggi principali, tra cui spicca un sempre impeccabile Michael Shannon. Ognuno di loro è dotato di buona caratterizzazione, che li differenzia l’uno dall’altro e che proprio per questo potrebbe in futuro dar vita ad interessanti conflitti. All’interno del primo episodio viene quindi costruita l’intera premessa della serie, e a partire dal secondo si mettono in moto la serie di eventi che porteranno i personaggi sempre più nel profondo di una pericolosa ricerca.

Per mestiere le spie mentono e sono il più riservate possibile, e altrettanto sembra promettere questa serie. Risulta infatti difficile prevedere l’evoluzione della storia proposta, a meno che non si sia letto il romanzo di Le Carré. Si ha spesso la sensazione che qualcosa ci venga nascosto, che gli autori della serie si divertano a privarci di alcuni elementi fondamentali, oppure insinuando il dubbio che ciò che ci è stato presentato non sia esattamente come sembra essere. Anche in questo gioco con lo spettatore sta il pregio di una serie che promette grandi risvolti.

The Little Drummer Girl, la recensione

Back Home: recensione del film di Magdalena Łazarkiewicz #RomaFF13

Presentato nella Selezione Ufficiale della Festa del Cinema di Roma, Back Home è il nuovo film della regista polacca Magdalena Łazarkiewicz. Il film segue la storia di Ula, giovane ragazza di una piccola città polacca. Riuscita a fuggire dalla casa di tolleranza nella quale era stata segregata, Ula torna a casa dalla sua famiglia. Tuttavia, al suo rientro, riceve un’accoglienza tutt’altro che tenera, ed è costretta a subire l’ostracismo di una comunità chiusa e oscurantista.

Percorrendo l’accidentato itinerario che conduce all’indipendenza, la giovane troverà la propria definizione dei termini cruciali per l’esistenza e basilari per instaurare legami con altre persone: affinità, amore, dedizione, fratellanza, autonomia. Prima di riuscire ad arrivare a ciò, dovrà affrontare i propri demoni, ricostruendo da zero sé stessa.

Back Home è un film che ha inizio quando il principale evento riguardante la protagonista è già avvenuto. Noi non vedremo mai, se non attraverso rapidi e frammentati flashback, il periodo della sua prigionia. La regista decide invece di farci entrare nella sua storia in quello che altrove potrebbe essere un lieto fine. Ma in Back Home il ritorno a casa è tutt’altro che un finale, men che meno lieto. Lentamente entriamo nella vita e nelle problematiche di Ula, cercando di indagare insieme alla regista i suoi tentativi di rivalsa. Un ingresso forse troppo lento in realtà, che ha l’effetto di ritardare lo sviluppo della storia.

L’effetto che automaticamente si genera è quello di un notevole appesantimento di una storia già di suo tutt’altro che leggera. Ben presto si inizia ad avvertire un senso di stanchezza, amplificato dalla difficoltosa comprensione di alcuni eventi e comportamenti dei personaggi. Regista e sceneggiatrice sembrano infatti consegnarci troppi pochi elementi di analisi, finendo così con il rendere tutto troppo criptico per essere apprezzato.

Nonostante ciò, il film riesce a regalare una serie di belle immagini, capaci di comunicare elementi importanti della storia. Fortunatamente arrivando verso il finale il film si fa sempre più limpido, favorendo così non solo una maggior comprensione ma anche un maggior coinvolgimento.

Ciò che senza dubbio è interessante del film è l’analisi che viene fatta della giovane protagonista. Questa, vista dalla comunità come una peccatrice, è costantemente messa a confronto con l’elemento religioso. Questo rapporto tra fede e personaggio sembra conferire a quest’ultimo una natura quasi cristologica, di una martire in cerca di redenzione e perdono. Ed è in questa ricerca, intima e dolorosa, che si intravede un po’ di umanità in un personaggio presentatoci inizialmente in maniera troppo distaccata e piatta.

Nonostante rimanga un film difficile da seguire e apprezzare realmente, Back Home lascia intravedere in alcuni momenti una propria voce riguardo il percorso di redenzione del personaggio. Purtroppo è una voce troppo debole, frenata da una scrittura carente e un ritmo più pesante del dovuto.

The Old Man & The Gun: recensione del film con Robert Redford

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The Old Man & The Gun si basa sulla storia abbastanza vera, come scritto sui titoli di testa, di Forrest Tucker (Robert Redford), dalla coraggiosa fuga dal carcere di San Quintino all’età di 70 anni fino a una serie di colpi senza precedenti che incantarono il pubblico e lasciarono le forze dell’ordine a brancolare nel buio. A dare la caccia a Tucker sono il detective John Hunt (Casey Affleck), sempre più affascinato dalla dedizione di Forrest all’arte del furto, e una donna (Sissy Spacek) che lo ama nonostante la professione che si è scelto.

Uscire dalle scene con stile. The Old Man & The Gun, presentato all’ultimo festival di Toronto, è  introdotto come l’ultimo film di Robert Redford. L’attore, in attività da circa 40 anni e ora ultraottantenne, ha infatti deciso di ritirarsi dalle scene, forse per dedicarsi solamente alla sua altra attività di successo: il Sundance Festival.

I ruoli che Robert Redford ha ricoperto nella sua lunga carriera sono numerosi: da Sundance Kid in Butch Cassidy alla romantica controparte di Jane Fonda in A piedi nudi nel parco, dal campione di baseball ne Il migliore al boss supercattivo in Captain America: Winter Soldier. Come capita ultimamente a molti attori della sua generazione, ora affronta ruoli che hanno più a che fare con la sua età, come abbiamo visto l’anno scorso nel film prodotto da Netflix e presentato alla Mostra del cinema di Venezia Our souls at night, in cui ritrovava Jane Fonda in una storia d’amore che sfidava i limiti dell’età.

The Old Man & The GunIn The Old Man & The Gun, diretto da David Lowery, di cui al Sundance si è visto A ghost story, Redford ha più di un elemento in comune con il protagonista: come Tucker infatti, si diverte a fare ciò che gli piace di più, nel caso del primo recitare, nel caso del secondo fare rapine in banca. Il tutto è reso chiaro in una battuta del film: “Se penso che questo sia un buon modo di vivere? Per me questo è la vita”: Tucker sente di vivere solo nel momento in cui, con garbo e calma, rapina le banche, mostrando, senza mai estrarre, la pistola che dà il titolo alla pellicola e soprattutto, senza mai sparare un colpo.

Tucker è un ladro gentiluomo, che affascina persino chi gli sta alle calcagna, l’ispettore interpretato da Casey Affleck. A condividere vita e rapine ci sono poi altri due compari, coetanei e con caratteri complementari a quello di Tucker: Teddy e Waller, interpretati rispettivamente da Danny Glover e da Tom Waits, perfetto nel ruolo di un ladro con passione per la poesia e gli audiolibri. A completare il quadro, e a cercare di dare un equilibrio alla vita di Tucker, è il personaggio di Sissy Spacek, donna indipendente e comprensiva, che sa esattamente da che parte stare.

Costruito, a partire dai titoli di testa, nello stile dei polizieschi anni ’70 e girato in 35mm, dando quindi al film una grana che rimanda alle pellicole di quell’epoca, The Old Man & the Gunè un omaggio alla carriera di Robert Redford, di cui il regista riesce a inserire in maniera intelligente alcuni contributi e anche un’affermazione di resistenza da parte dello stesso attore, che  lascia le scene ma non certo perché le forze lo abbiano lasciato. Il film è in selezione ufficiale alla Festa del cinema di Roma 2018 e uscirà in sala con Bim a partire dal 20 dicembre.

The Old Man & The Gun il trailer

Avengers 4 teoria: Cap e Iron Man non si riconcilieranno mai sullo schermo

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Avengers: Infinity War ha mostrato a tutto il pubblico che la ferita tra Cap e Iron Man, che abbiamo visto aprirsi e sanguinare in Captain America: Civil War, è ancora fresca e brucia, e tutti i fan si aspettano che i due eroe, pilastri del MCU, si riconcilino in Avengers 4, ma questo, secondo una teoria diffusasi in rete, sembra molto lontano dalla verità.

Il conflitto è ancora vivo

Civil War ha trasformato per sempre il panorama del MCU. Gli accordi di Sokovia hanno messo alla prova il legame tra Steve e Tony, e alla fine del film, il gruppo era diviso in due schieramenti. Addirittura Cap e Iron Man sono arrivati allo scontro quasi letale a causa di Bucky e della sua responsabilità nella morte dei genitori di Tony. I due eroi sono riusciti a stento a non uccidersi a vicenda. Le conseguenze di ciò che è accaduto in quel film si sono ripercosse su tutto il resto del MCU. Steve si è dato alla clandestinità con Vedova Nera, Falcon e, ovviamente, Winter Soldier. Iron Man invece, dopo un breve tentativo di rifondare gli Avengers, rinuncia all’idea. Tuttavia custodisce gelosamente il telefono cellulare che Steve gli ha fatto avere alla fine di Civil War. Non importa quanto tra loro possano essere in disaccordo, di fronte a minacce più grandi saranno sempre schierati dalla stessa parte.

Originariamente la Marvel voleva risolvere il conflitto in Infinity War. I piani prevedevano un incontro tra Cap e Iron Man a metà film, e in quella occasione i due dovevano far pace e lavorare di squadra. Tuttavia lo sceneggiatore del film, Stephen McFeely, ha spiegato: “Significava rallentare il nodi narrativo di Thanos e le Gemme per affrontare dei conflitti provenienti da altre storie. E così, tutte le volte che abbiamo scritto quelle scene, è diventato chiaro che questo film doveva riguardare Thanos e ciò che lui rappresentava per i Vendicatori.”

Indubbiamente è stata la scelta giusta in termini di coesione narrativa per Infinity War, ma non ha certamente risolto questo conflitto così importante.

I viaggi nel tempo sembrano plausibili

Poco dopo l’uscita di Avengers: Infinity War, è stato suggerito che dovrebbe essere previsto una specie di salto temporale così che lo spettatore, in Avengers 4, possa rendersi conto di ciò che è conseguito allo schiocco di Thanos. Nel film, infatti, il Titano Pazzo insisteva che “il fine giustifica i mezzi” di fronte alle proteste di Gamora, e che il suo progetto di spazzare via metà delle forme di vita dell’universo era necessario per creare il paradiso.

Un salto nel tempo permetterebbe ai fratelli Russo di mostrare come l’atto di genocidio galattico di Thanos abbia cambiato il mondo. La natura di questi cambiamenti – crisi nel governo, tensioni politiche ed etniche, criminalità, qualsiasi cosa – aumenterebbe considerevolmente la posta in gioco. I Vendicatori dovrebbero quindi combattere per annullare lo schiocco (o, più probabilmente, per evitarlo grazie al viaggio nel tempo).

La portata e le conseguenze di Infinity War sono così importanti che è impossibile arrivare direttamente agli eventi di Avengers 4 senza una panoramica o una spiegazione preventiva. Il film non può semplicemente parlare solo dei Vendicatori che reagiscono allo schiocco e che vogliono salvare il mondo, ideando un piano per sconfiggere Thanos e annullare gli effetti del suo gesto.

Si intensificano i sostenitori della teoria che Avengers 4 comincerà cinque anni dopo la fine di Infinity War. Anche se non sono mai state confermate ufficialmente, queste voci si basano su ciò che abbiamo visto dal set: le foto scattate hanno mostrato a Robert Downey Jr. nei panni di un Tony Stark più anziano. Emma Fuhrmann è stata scritturata nei panni di una Cassie Lang più grande. Un commento da parte di Gwyneth Paltrow sembrava implicare che, in Avengers 4, Tony e Pepper avranno un figlio.

Secondo una teoria popolare, Scott Lang scapperà dal Regno Quantico attraverso uno dei misteriosi “vortici del tempo” e emergerà cinque anni nel futuro. Disturbato dal mondo distopico che scopre, si precipiterà a vedere sua figlia, solo per scoprire che ha cinque anni in più. Quando Scott raggiunge i Vendicatori, Tony Stark si rende conto che è la prova che il viaggio nel tempo è possibile. Così gli Avengers si lanciano in una missione per riscrivere la storia e annullare lo schiocco.

Che significa un salto nel tempo per Cap e Iron Man?

Tornando però al nocciolo della questione: se la Marvel adotterà davvero questo approccio, vorrà dire che ci verrà tolta l’emozione di assistere al momento in cui Steve e Tony si riappacificano.

Non c’è un modo ragionevole per sostenere che Tony Stark avrebbe impiegato cinque anni per tornare sulla Terra dopo essere stato bloccato su Titano con Nebula, che è abituata ai viaggi intergalattici. Probabilmente Tony riesce a tornare sulla Terra pochi giorni dopo lo schiocco e plausibilmente è lui a dare una mano ad arginare il caos scatenatosi a seguito della vittoria di Thanos.

Quindi cosa potrebbe accadere tra Tony Stark e Steve Rogers? Considerato il bagaglio emotivo trai due, si tratta comunque di eroi. Steve ha chiarito quanto rispetto abbia per Stark quando, in Avengers: Infinity War, si riferiva ancora a Tony come “il più grande difensore del pianeta“.

Se ci dovesse essere davvero un salto temporale di cinque anni, è inevitabile che Tony Stark e Steve Rogers abbiano risolto i loro conflitti in quell’arco temporale – e non lo vedremo mai sul grande schermo. Il payoff emotivo di Captain America: Civil War dovrà essere sacrificato per continuare la storia. Inoltre, non è la prima volta che questa domanda viene fatta ai Russo; quando gli spettatori hanno notato che la riunione tra Steve Rogers e Bucky in Avengers: Infinity War non è stata travolgente, i Russo essenzialmente si sono limitati a scrollare le spalle e dicendo che presumevano si fossero incontrati prima nel periodo di due anni che intercorre tra Captain America: Civil War e Infinity War.

Non c’è dubbio che non passerà molto tempo prima che i dettagli della trama di Avengers 4 vengano resi noti, e scopriremo se ci sarà davvero un salto temporale di cinque anni. Se ci sarà, per quanto possa essere eccitante nei termini della storia, questo potrebbe significare anche che non vedremo mai il momento della riconciliazione tra Steve e Tony.

Joker: ecco Brett Cullen nei panni di Thomas Wayne – foto

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Joker: ecco Brett Cullen nei panni di Thomas Wayne – foto

Continuano a New York le riprese di Joker, diretto da Todd Phillips e con Joaquin Phoenix. Oggi, grazie a Just Jared, possiamo vedere nuovi scatti dal set di Park Avenue in cui, in particolar modo, vediamo per la prima volta sul set Brett Cullen, che nel film interpreta Thomas Wayne, papà del giovane Bruce.

Il personaggio, negli anni, è stato interpretato da diversi, attori e la sua ultima incarnazione cinematografica, in Batman v Superman: Dawn of Justice, è stata Jeffrey Dean Morgan, che si è anche detto disponibile a tornare a interpretare il ruolo e Batman in Flashpoint. La foto ci mostra Cullen pettinato e vestito perfettamente à la Thomas Wayne.

Joker: Joaquin Phoenix a confronto con Romero, Nicholson, Ledger e Leto

Joker arriverà nelle sale il 4 ottobre 2019, come ufficializzato nelle ultime ore dalla Warner Bros e sarà diretto da Todd Phillips (Una notte da leoni).

Il film sarà ambientato nel 1980, e racconterà l’evoluzione di un uomo ordinario e la sua trasformazione nel criminale che tutti conosciamo.

Ufficiali nel cast del film Joaquin Phoenix, Zazie Beetz, Robert De Niro, Frances Conroy, Marc Maron.

Fonte: Just Jared

Avengers 4: dettagli della trama dal nuovo set LEGO

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Avengers 4: dettagli della trama dal nuovo set LEGO

Sembra che, come spesso accade, i set LEGO di Avengers 4 siano fonte di informazioni preziose in merito a ciò che accadrà nel film del Fratelli Russo atteso per maggio 2019. Secondo un video trapelato su Instagram, in cui si descrive il set di mattoncini dedicato, in Avengers 4 ci sarà spazio per un viaggio nello spazio per Hulk, Iron Man e Thanos, ma c’è anche al conferma che Tony Stark viaggerà verso il Regno Quantico in compagnia di Ant-Man.

La possibile descrizione non è ufficiale e il video è trapelato illegalmente, tuttavia sappiamo che lo stesso utente di Instagram aveva già precedentemente fornito informazioni corrette in merito ai film non ancora usciti. Inoltre sappiamo che il video in questione è stato rimosso, cosa che potrebbe essere stata causata da un interesse della produzione, evento che sembra quindi avvalorare la credibilità del video stesso.

Oltre al video che purtroppo non possiamo mostrarvi, c’è anhce una foto che mostra Thor, Cap, Thanos in armatura, Captain Marvel nella divisa Kree e quello che sembra essere davvero Ronin, ovvero la nuova evoluzione di Occhio di Falco.

avengers 4 lego

MCU: il modo migliore per prepararsi all’arrivo di Avengers 4

Avengers 4 arriverà al cinema ad Aprile 2019, sarà diretto da Anthony e Joe Russo e porterà a conclusione la Fase 3 del Marvel Cinematic Universe.

Nel cast del film Robert Downey Jr., Chris Hemsworth, Mark Ruffalo, Chris Evans, Scarlett Johansson, Benedict Cumberbatch, Don Cheadle, Tom Holland, Chadwick Boseman, Paul Bettany, Elizabeth Olsen, Anthony Mackie, Sebastian Stan, Letitia Wright, Dave Bautista, Zoe Saldana, Josh Brolin, Chris Pratt, Jeremy Renner, Evangeline Lilly, Jon Favreau, Paul Rudd, Brie Larson.

#RomaFF13: è il grande giorno di Martin Scorsese

#RomaFF13: è il grande giorno di Martin Scorsese

La tredicesima edizione della Festa del Cinema di Roma celebra Martin Scorsese, uno dei più grandi cineasti della storia della settima arte: domani, lunedì 22 ottobre alle ore 19 presso la Sala Sinopoli dell’Auditorium Parco della Musica, il maestro statunitense riceverà il Premio alla Carriera, che sarà consegnato da Paolo Taviani.

Nell’occasione, Scorsese sarà protagonista di un Incontro Ravvicinato con il pubblico durante il quale ripercorrerà la sua carriera che lo ha visto autore di una straordinaria serie di capolavori da Mean Streets e Taxi Driver a Toro Scatenato, da Quei bravi ragazzi a Casinò, da Gangs of New York a The Departed – Il bene e il male, da The Wolf of Wall Street a Silence. Scorsese mostrerà inoltre alcune sequenze scelte fra i film italiani che hanno maggiormente influenzato la sua vita e la sua opera.

L’Incontro Ravvicinato con Martin Scorsese si svolgerà con il sostegno di Campari. Da sempre impegnato in primissima linea nella battaglia per la conservazione del cinema del passato, il regista ha poi selezionato per gli spettatori della Festa tre film per il cui restauro è stata impegnata la Film Foundation da lui promossa: domani, lunedì 22 ottobre, presso il Teatro Studio Gianni Borgna Sala Siae (ore 16.30) sarà la volta di Ganja & Hess di Bill Gunn (1973), restaurato da The Museum of Modern Art con il supporto di The Film Foundation.

Viste le numerose richieste, la Festa del Cinema ha organizzato un secondo appuntamento con Martin Scorsese, che incontrerà il pubblico prima della proiezione di San Michele aveva un gallo (mercoledì 24 ottobre ore 16 Sala Petrassi).

Aquaman: Vulko a cavallo di uno squalo corazzato – foto

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Aquaman: Vulko a cavallo di uno squalo corazzato – foto

Dopo il trailer esteso e il primo spot, cominciano a circolare anche altri elementi relativi ad Aquaman, il film di James Wan che vedrà Jason Momoa tornare a interpretare Arthur Curry, dopo il suo debutto ufficiale in Justice League.

Tra il nuovo materiale circolato nelle ultime ore, dobbiamo a James Wan in persona la diffusione di due nuove immagini di Vulko, interpretato da Willem Dafoe, a cavallo di squali corazzati, così come ci avevano suggerito i primi concept dal film. Il regista ha infatti condiviso su Twitter le immagini. La maggior parte dell’esercito atlantideo di Orm cavalcherà squali bianchi, in Aquaman, mentre l’esercito di Nereo sarà a cavallo di draghi di mare (una specie di cavallucci marini). Tuttavia, come si vede dalle foto, Vulko cavalcherà uno squalo-martello gigante corazzato. Nella seconda immagine, invece, vediamo Orm cavalcare un tylosaur, una variazione fantastica del tylosauro, una specie di incrocio tra squalo e coccodrillo. La creatura è stata vista la prima volta nel trailer, nella scena in cui si mostra il massiccio scontro sottomarino.

Ecco le immagini di seguito:

Inoltre, grazie a Screen Rant, possiamo osservare alcuni giocattoli. Dalle immagini vediamo Momoa nel suo costume “fumettisticamente accurato” con il tridente. E mentre questo è stato già visto alla fine del trailer del film, l’armatura gialla di Orm è un inedito. La prima confezione comprende anche Re Brine. Il secondo set di giochi, invece, comprende sempre  Aquaman, Orm (questa volta nel costume viola), Black Manta e il generale Murk.

Anche se questi giochi appartengono alla linea ufficiale del film, questo non significa necessariamente che tutti questi design di costumi saranno presenti nel film. È già capitato in passato che i giochi presentassero delle action figure che non si sono viste poi nel film, come il Lex Luthor corazzato delle action figure di Batman v Superman: Dawn of Justice.

Ecco di seguito le immagini:

Aquaman: il secondo trailer dal New York Comic Con!

Il film è stato diretto da James Wan (Insidious, L’evocazione The Conjuring, Fast and Furious 7) e vede protagonista Jason Momoa. Con lui ci sarà Amber Heard nei panni di Mera, Yahya Abdul-Mateen II, Patrick Wilson, Dolph Lundgren, Ludi Lin e  Willem Dafoe. Il cinecomic arriverà al cinema il 21 Dicembre 2018.

Aquaman è il re dei Sette Mari. Questo sovrano riluttante di Atlantide, bloccato tra il mondo della superficie, costantemente violento contro la vita nel mare e gli Atlantidei che sono in procinto di rivoltarsi, deve occuparsi di proteggere il mondo intero.

Se la strada potesse parlare: recensione del film di Barry Jenkins #RomaFF13

Tutto il cinema di Barry Jenkins si lascia guidare dai colori più che dalle parole, quindi dall’immaginario di piccoli gesti che scaturiscono al solo guardarli. Il grigio, in Medicine for Melanchony, descriveva l’incertezza di un rapporto nato per caso dopo una one night stand; il blu, in Moonlight, comunicava l’inquietudine nella vita di un giovane omosessuale cresciuto nei sobborghi di Miami; il giallo, nell’ultimo e bellissimo If Beale Street Could Talk (tratto dal romanzo di James Baldwin), trasmette un forte senso di speranza riscaldato dal calore di un abbraccio.

Quello che fisicamente e idealmente Jenkins traduce con un movimento di macchina sempre più dolce, protettivo, spesso doloroso ma non per questo insopportabile. Esasperando il lato emotivo della realtà rispetto a ciò che percepiamo come oggettivo, prediligendo il valore espressivo dei sentimenti, dei piccoli gesti, del modo in cui una tonalità interviene sulla scena. E nel caso di Beale Street, dove ancora una volta l’elemento estetico prevale su tutto il resto (senza trascurare il cuore, l’anima della storia), il giallo racchiude tra l’inizio e la fine il senso del film: un’ostinata ricerca di bellezza nel brutto, nella povertà, nell’ingiustizia, che timidamente si insinua come fa la luce del sole attraverso i vetri. Li trapassa ma non li infrange. 

Jenkins è l’unico dei cineasti neri contemporanei capace di prestare il fianco ad una riflessione politica sullo stato della comunità afroamericana, passata e presente, senza i pugni chiusi e il muso duro della denuncia sociale alla Spike Lee. Le immagini invece si nutrono di un romanticismo dimenticato, fatto di passeggiate sotto la pioggia tra i rifiuti di Harlem, di notti d’amore in uno scantinato, di sguardi innocenti e sogni di un futuro felice, vibrano come corde di violino, si tramandano come memorie condivise e universali.

In If Beale Street Could Talk ogni cosa fluisce e ogni cosa si sovrappone con grande eleganza, confermando che il regista premio Oscar non è soltanto il più vivo rappresentante di un nuovo storytelling, radicato nella cultura black e al tempo stesso rivolto all’esterno (dalle parti dell’espressionismo europeo), ma testimone lampante di quel processo di apertura e contaminazione che dovrebbe e potrebbe salvarci dall’ignoranza e dall’incapacità di immedesimarci negli altri.

Se la strada potesse parlare, il trailer

Fahrenheit 11/9: recensione del film di Michael Moore #RomaFF13

Fahrenheit 11/9: recensione del film di Michael Moore #RomaFF13

Nel 2004 il regista Michael Moore vince la Palma d’Oro al Festival di Cannes con il documentario Fahrenheit 9/11, controversa opera incentrata sui presunti legami tra il presidente Bush con l’attacco terroristico dell’11 settembre. A quattordici anni di distanza, Moore presenta alla Festa del Cinema di Roma il suo nuovo film, intitolato Fahrenheit 11/9, e incentrato sulle cause che portarono all’elezione di Donald Trump come presidente degli Stati Uniti il 9 novembre 2016.

Il richiamo al film che ha reso celebre Moore nel mondo è evidente. Questo nuovo film sembra essere un vero e proprio sequel, o quantomeno la documentata involuzione del mondo post 11 settembre. Le conseguenze di quel terribile evento, che ha cambiato la storia per sempre, si manifestano qui in tutta la loro pericolosità.

Provocatorio e sarcastico come sempre, il regista apre il film ripercorrendo con materiale di repertorio quella che da tutti era considerata la sicura vittoria di Hillary Clinton per la presidenza. Feste, concerti, persone entusiaste o con lacrime di gioia. Tutti a festeggiare qualcosa che era stato dato per certo dai media, ma che nella concretezza dei fatti doveva ancora essere ufficializzato.

Con lo scorrere delle immagini davanti ai nostri occhi, Moore costruisce un’atmosfera sempre più festosa. Ci si rende presto conto, e con profonda tristezza, che in realtà ci sta dando un primo, sonoro, schiaffo. Impossibile non riconoscersi in quanti festeggiavano prima del dovuto, dando per certa l’impossibilità di vincere di Donald Trump. Difficile non provare rabbia, ma soprattutto delusione e tristezza, davanti alle immagini che Moore riunisce. Egli costruisce una narrazione che rapidamente porta lo spettatore a confrontarsi con una delle più pericolose crisi della nostra contemporaneità.

#RomaFF13, Michael Moore: “Sono molto preoccupato per la situazione del cinema oggi”

Fahrenheit 11/9 è senza dubbio un film sull’ascesa di Donald Trump. Egli è il protagonista assoluto del documentario, ma è un protagonista che rimane sullo sfondo. Perché Moore decide di concentrarsi non tanto direttamente su di lui, quanto su ciò che ha portato alla sua affermazione. Ha così inizio un lungo viaggio tra gli orrori degli dell’acqua avvelenata della cittadina di Flint, Michigan, i devastanti tagli all’istruzione, dalle colpe della stampa al silenzio politico riguardo le continue sparatorie nelle scuole, per arrivare agli errori dell’amministrazione di Obama e del Partito Democratico.

Moore non si schiera, attacca tutti come solo lui sa fare, con le prove dei fatti in una mano e la voce del popolo nell’altra. Questo suo nuovo documentario è un’opera dalle numerose sfaccettature, in grado di far ridere, arrabbiare, piangere e infine di lasciare un profondo senso di paura e smarrimento nell’animo e nella mente dello spettatore. Il risultato finale sembra essere che da quel fatidico 11 settembre, l’umanità abbia venduto la propria libertà in cambio della sicurezza. Una sicurezza fittizia, da cui Moore ci mette in guardia.

A riguardo il regista decide di togliere ogni dubbio, con una sequenza di immagini decisamente esplicative. Mentre scorrono foto e video di repertorio dell’avvento dei regimi dittatoriali nel primo Novecento, udiamo parole che commentano il recente affermarsi delle politiche neofasciste e neonaziste. Audio e video, pur provenienti da epoche diverse, si sposano perfettamente in un monito in grado di far gelare il sangue.

Kursk: recensione del film di Thomas Vinterberg #RomaFF13

Kursk: recensione del film di Thomas Vinterberg #RomaFF13

Il regista danese Thomas Vinterberg, celebre per film come Festen e Il sospetto, porta alla Festa del Cinema di Roma il suo nuovo film, Kursk, tratto dal romanzo A Time to Die di Robert Moore e basato sul reale incidente del sottomarino K-141 Kursk. Il film si avvale di un cast di attori europeo tra cui spiccano Matthias Schoenaerts, Colin Firth e Léa Seydoux.

Nel film Kursk il 12 agosto 2000 un sottomarino della Flotta del Nord della Marina Militare Russa subisce una serie di esplosioni interne, che lo fecero precipitare sul fondo delle acque artiche. Solo 23 dei 118 marinai a bordo sopravvissero. Nei nove giorni seguenti, i marinai lottarono per la sopravvivenza, mentre le operazioni di soccorso procedevano a rilento e i familiari si battevano contro gli ostacoli burocratici.

Come dichiarato da Vinterberg stesso, questo non vuole essere un film di denuncia, ma un’opera che pone al centro di tutto il concetto di umanità. Il regista inizia infatti con il presentarci il contesto famigliare dei marinai protagonisti, esaltandone i piccoli momenti che lo rendono tanto importante. Una volta svelata l’umanità privata dei protagonisti, possiamo dunque entrare nel freddo sottomarino, che diventa ancor più luogo claustrofobico al momento dell’incidente.

A partire dall’ottima sceneggiatura di Robert Rodat, già autore di Salvate il soldato Ryan, Vinterberg costruisce tre piani narrativi, intrecciati tra loro. Abbiamo il punto di vista dei marinai intrappolati in fondo al mare, quello delle loro famiglie che tentano disperatamente di sapere cosa stia accadendo, e quello politico, che vede la Russia più impegnata a non fare una brutta figura a livello internazionale piuttosto che salvare i propri marinai accettando aiuti esteri.

Così facendo, il regista ci offre una panoramica completa della storia, portandoci ora ad essere in apprensione per gli intrappolati, ora in profonda frustrazione per chi non riesce ad ottenere la verità. Si arriva dunque al film di denuncia, certo, ma il regista non si abbandona a del facile moralismo o sentimentalismo, intento invece a dare una lucida fotografia della situazione. Il suo interesse maggiore, e questo sarà sempre chiaro durante la visione del film, è incentrato sulla ricerca delle motivazioni che muovono i suoi personaggi. E questa ricerca dell’interiorità è certamente l’aspetto più coinvolgente del film, che si muove a partire dallo sguardo innocente dei bambini.

Allo stesso tempo Kursk non lascia fuori la componente di intrattenimento cinematografico, che al contrario è molto forte. Il film riesce così a reggersi in equilibrio tra spettacolarità visiva e impegno, toccando temi cari al regista danese. Dal nucleo famigliare, al disperato tentativo di sopravvivenza. Dalla lotta del singolo contro un potere più grande, alla paura della morte e della fine. Temi che si intrecciano tra loro per costruire una riflessione più ampia sull’importanza dell’umanità.

Certamente un film lontano dall’estetica del movimento Dogma 95, ideato da Vinterberg e Lars Von Trier negli anni novanta, ma non per questo meno importante per la filmografia del regista. Al contrario, Kursk afferma le doti registiche di Vinterberg anche su registri più spettacolari, senza perdere la propria impronta autoriale.

Kursk, il trailer

#RomaFF13, a Isabelle Huppert il Premio alla Carriera: “Non ho nulla in comune con i miei personaggi”

Nel terzo giorno della Festa del Cinema di Roma, il pubblico ha avuto la possibilità di partecipare ad un interessante Incontro Ravvicinato con l’attrice Isabelle Huppert.

Parigina, ha recitato in oltre 100 film, in modo versatile e mettendosi sempre alla prova, lavorando con i più grandi registi, da Jean-Luc Godard, Cimino, Haneke, i fratelli Taviani e Olivier Assayas, tra gli altri.

Tra le più premiate al mondo, l’attrice francese è stata accolta da Antonio Monda e Richard Pena per aggiungere un altro traguardo al suo lunghissimo curriculum: il Premio alla Carriera, che le è stato consegnato da Toni Servillo.

Bellissima, con un lungo abito avorio di Giorgio Armani, la Huppert è salita sul palco per parlare delle sue più grandi interpretazioni in una piacevole e informale chiacchierata, sorprendendo tutti rispondendo alla prima domanda in un quasi perfetto italiano, poi virando sull’inglese e poi arrendendosi al suo elegantissimo francese.

Quanto è importante per lei aver lavorato in teatro?

Per me non c’è una divisione tra cinema e teatro. L’attrice è sempre la stessa, sia sul palcoscenico che sullo schermo. A teatro spesso ci si imbatte di più in personaggi più conosciuti nella memoria collettiva, come i grandi classici, mentre il cinema ti offre ruoli più inediti e grazie alle persone con cui ho lavorato ho potuto fare entrambi, partendo dalla mia formazione teatrale. Lo spettatore teatrale è molto cambiato. Il teatro è sempre più vicino al cinema, si usano anche spezzoni video e la domanda di Monda quindi è molto pertinente, perché penso che la frontiera tra cinema e teatro stia un po’ scomparendo dal punto di vista estetico.

#RomaFF13: Michael Moore e Isabelle Huppert sul red carpet

Sono state scelte sei clip per rappresentare la carriera di Isabelle Huppert, partendo dal premiatissimo Elle, film di Paul Verhoeven del 2016.

Quanto è cambiato il personaggio nel corso delle riprese, anche con l’aiuto del regista?

Abbiamo avuto molte conversazioni con Paul, ma c’erano delle scene che potevano fare un po’ paura o che erano più provate, ma devo dire di no: si tratta di film che sfuggono alla psicologia in maniera generale e ancora di più ad una psicologia di tipo classico… Quindi o le si capisce dall’interno o non si riesce a spiegarle, non si può dire ‘Forse facciamo così’ o ‘Forse è meglio così’. In realtà non ci siamo detti quasi nulla: ci salutavamo la mattina, quello certamente, ma abbiamo parlato veramente pochissimo, non abbiamo mai fatto effettivamente una conversazione sul film. Io ho la mia teoria: credo che la messa in scena sia una risposta a tutte le domande che ci si può porre ed è la regia che risponde, dipende dalla distanza della macchina da presa, dipende dall’inquadratura, se è solo il volto o il corpo. 

È questo che risponde alle domande che possiamo farci: il cinema è questo, non è soltanto una questione di sentimenti o il percorso di un personaggio. È l’insieme di elementi che raccontano un personaggio e quindi improvvisamente lo spettatore riesce a vedere tutto quello che racconta il mio personaggio, che però viene ‘agito’ dagli altri ed è qualcosa che accade nel momento. Ed un’altra cosa che ho constatato con Paul è l’arte del movimento e lui è un maestro in questo: è impossibile da spiegare, la macchina da presa si muove insieme all’attore e mentre dico questo penso ad una citazione di Rossellini che al primo film con Ingrid Bergman un po’ spaventata dal suo modo di lavorare, pare le abbia detto ‘Muoviti affinché io riprenda ciò che c’è intorno a te’ e trovo sia una bellissima definizione del rapporto tra l’attore e il film.

La seconda clip è stata tratta da “La pianista”, film di Michael Haneke del 2001 e successivamente il film di Marco Bellocchio del 2012, “Bella Addormentata”.

Preferisce un regista che lascia spazio all’interpretazione o si attiene alla sceneggiatura?

Il mio grande amico Bob Wilson dice “Acting is improvisation”: nella mente della gente l’improvvisazione fa pensare ad un qualcosa inventato su due piedi, ma anche se si recita un testo imparato, è sempre improvvisazione. L’improvvisazione è molto difficile da gestire e il regista con cui l’ho fatto in modo più significativo è Maurice Pialat in ‘Loulou’: ci sono nel film scene totalmente improvvisate, non erano proprio state scritte e poi invece c’erano anche scene molto scritte. Mi fa piacere abbiate scelto questa scena del film di Haneke perché l’abbiamo girata 48 volte! Sì perché nel libro era descritto molto bene il mio personaggio e il tipo di espressione che doveva avere in questa scena, un po’ animalesca e Haneke cercava in me proprio quell’espressione.

Quanto è importante per te relazionarti o essere vicina al personaggio che interpreti?

In realtà non ho nulla a che vedere con questi personaggi, non mi sono per nulla vicini. E’ come se incontrassi una sconosciuta per strada e poi improvvisamente divento lei: un po’ il paradosso dell’attore, è lontano ma è vicino contemporaneamente. Ma la prossimità non significa che devo amarle: nasce dell’empatia e la volontà di riconoscerle e capirle.

Il passaggio dalla pellicola al digitale ha influito sul suo modo di recitare?

Certo si possono fare tantissime inquadrature, ma a me non cambia molto sul piano del lavoro. È un cambiamento che interessa di più i registi. Forse si, cambia un po’ perché ci facciamo meno domande però non ho l’impressione che il regista prenda questa possibilità per cambiare modo di girare.

Per rappresentare la grandissima collaborazione con Claude Chabrol, è stata mandata una clip dal film “Il buio nella mente”, dove Isabelle Huppert interpreta un personaggio molto particolare e che ha segnato la sua carriera.

Cosa le è piaciuto maggiormente di questo personaggio?

La scena che avete mostrato, dove Jeanne e Sophie sparano a tutta la famiglia, è straordinaria. Una scena sconvolgente: quando il film è uscito si è detto che era un film marxista, sulla lotta di classe, però trovo che Chabrol sia geniale in questa scena. La bellezza, qualcosa di selvaggio al contempo… C’è tutto. Quando mi ha chiesto di scegliere tra i due personaggi sapeva benissimo quale avrei scelto perchè si vedeva che il personaggio che poi andò a Sandrine Bonnaire parlava di più,mentre il mio personaggio era molto buffo e al contempo terrificante, in lei troviamo tutto l’orrore.

Le ultime due clip presentate sono state tratte dal film “La Truite” di Joseph Losey e infine “I cancelli del cielo”, opera del 1980 di Michael Cimino.

C’è qualche ruolo che ha rifiutato e poi se ne è pentita?

Sì c’è un ruolo, sempre un film di Haneke, “Funny Games”, che poi ha fatto Susanne Lothar, che purtroppo non è più con noi ed era un’attrice straordinaria. Mi piaceva dire che con HAneke avevamo iniziato ‘Non facendo un film insieme’: prima mi aveva proposto Funny Games, poi Time of the wolfs e non abbiamo potuto farlo e poi finalmente abbiamo fatto insieme La Pianista. Di Funny Games avevo letto la sceneggiatura e non posso dire di aver rimpianto quel ruolo, perchè non c’era nulla che facesse appello al mio immaginario, invece poi Susanne Lothar e suo marito sono stati straordinari. Era un film molto significativo, ma non l’ho rimpianto.

Come è stato lavorare con Michael Cimino?

È stata un’avventura incredibile. Già se sento la musica mi ritornano le lacrime agli occhi e rivedere questa scena mi emoziona. Michael ormai non c’è più da 4 anni ma tutta la sua vita è stata segnata da questo film: il fallimento di questo film non lo ha mai superato e che lo ha un po’ trasformato alla fine della sua vita, in un personaggio completamente distaccato da tutto. Io credo che sia stato un regista geniale ma talmente iconoclasta e particolare che c’è stato qualcosa che forse non ha resistito ad un certo classicismo Hollywoodiano. Anche se ha fatto film notevolissimi dopo, credo non si sia mai ripreso da questo fallimento e io quando rivedo il film ne rimango sconvolta perché è un film anche molto concettuale. Con tutti questi movimenti concentrici che raccontano la vita che gira un po’ in tondo, un film da una regia straordinaria e la macchina da presa vagava un po’ ovunque. Infatti Michael diceva che questo film andava preso come se fosse stato un sogno. Il film è estremamente personale, singolare ma anche politico, contro il mito dell’America e forse è stato questo il problema.

#RomaFF13: Go Home – A Casa Loro, recensione del film di Luna Gualano

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Nasce da una riflessione estemporanea, da una scintilla, il fuoco che ha portato Luna Gualano a realizzare Go Home – A Casa Loro, lo zombie movie presentato ad Alice nella Città durante al tredicesima Festa del Cinema di Roma. La regista ha infatti spiegato che l’idea è partita mentre discuteva con il suo compagno, il produttore musicale Emiliano Rubbi (autore della sceneggiatura) dell’omicidio a Fermo del migrante nigeriano, ucciso in seguito ai suoi tentativi di difendere la sua compagna, insultata.

“Questa rabbia, questo odio sembra quasi il tema del contagio dei film di zombie, dovremmo fare un film su questo” avrebbe detto Rubbi, e così è nata la storia di Go Home: un’epidemia zombie si diffonde durante uno scontro tra estremisti di destra e i responsabili di un centro di accoglienza.

Il film, dal budget bassissimo (stimato intorno ai 35mila euro), è la traduzione di questa riflessione: la rabbia e l’odio, concetti universali, sembrano pervadere sempre più a fondo la nostra società, dalle istituzioni alla quotidianità, e questi sentimenti forti generano l’infezione e quindi l’epidemia. Il racconto è elementare e riesce con questa semplicità a mettere in evidenza due punti interessantissimi. Il primo riguarda appunto lo stimolo che ha generato il film intero, il concetto di rabbia come malattia che corrompe e deforma i corpi e le menti delle persone, che siano essi estremisti di destra, migranti o chi cerca semplicemente di aiutare.

go home poster
Il poster firmato da Zerocalcare.

A questa riflessione si collega direttamente un ritorno dell’horror e in particolare dello zombie movie alla metafora politica, intenzione confermata dallo stesso sceneggiatore che chiama in causa George Romero, che con il suo Zombi ha trasformato il genere in un atto d’accusa verso il capitalismo. Lo zombi, in quanto creatura fantastica, si presta benissimo a questo tipo di utilizzo, diventando di volta in volta metafora di tante cose, a seconda del la lettura che si dà alla creatura stessa.

Dopo tanto cinema e tante televisione che hanno riportato in auge lo zombie, proponendolo in termini più leggeri ed edulcorati rispetto a quelli “politici” che Romero aveva raccontato nel 1978, la Gualano sceglie di tornare all’origine. Il suo approccio è sicuramente schierato dalla parte di chi accoglie i migranti, tuttavia riesce a rimanere imparziale nella rappresentazione dell’odio e della rabbia, che serpeggiano da entrambi i lati della barricata. Nessuno è immune e nessuno viene risparmiato.

Go Home – A Casa Loro è una fotografia impietosa e senza speranza, scattata attraverso la lente del genere fantastico, che attribuisce di nuovo al genere il suo valore sociale e politico.

Il progetto ha incontrato da subito il sostegno di tanti personaggi pubblici che hanno partecipato alla produzione, da Piotta, il Muro del piantoTrain to Roots , fino al fumettista Zerocalcare, che ha disegnato il poster.

Beautiful Boy: recensione del film con Steve Carell

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Beautiful Boy: recensione del film con Steve Carell

Arriva alla Festa del Cinema di Roma 2018, dopo essere stato annunciato in pompa magna sin dall’inizio delle riprese, Beautiful Boy, il film diretto da Felix Van Groeningen e basato su due libri di memorie, quello di David Sheff (padre) e quello di Nic Sheff (figlio). Entrambi i volumi parlano dell’adolescenza turbolenta di Nic, preda della dipendenza da alcol e da ogni tipo di droga. Van Groeningen si avvale di Steve Carell e Timothée Chalamet per dare il volto ai suoi protagonisti, portando sullo schermo una storia unica, che abbraccia i due punti di vista, e che, nella sua semplice tragicità, è la storia di un padre che vuole a tutti i costi salvare suo figlio, ma che si scopre di volta in volta impotente di fronte al mostro della dipendenza, che attanaglia il ragazzo.

In Beautiful Boy David è un giornalista freelance di grande successo, con un figlio nato dal suo primo matrimonio, Nic, appena diciottenne. Vive a San Francisco, in una casa di legno, un ambiente stimolante pieno di libri e quadri, dipinti dalla sua nuova moglie, dalla quale ha avuto altri due bambini, entrambi devotissimi (e ricambiati) al fratellastro maggiore. Nic, giovane di belle speranza, brillante, interessato alla lettura, alla scrittura e al disegno, inciampa nell’abuso di droghe. Appena il padre scopre il vizio del figlio, cerca in tutti i modi di aiutarlo, dando origine ad un lungo circolo vizioso, in cui ogni volta sembra che il ragazzo possa davvero allontanarsi dal baratro aperto sotto i suoi piedi, ricade, per rabbia, noia o debolezza.

Certamente non estraneo alle storie dolorose (si pensi ad Alabama Monroe – Una storia d’amore), Felix Van Groeningen sceglie di raccontare tutto il percorso di Nic e David, dalla prima rehab all’ultima disperata richiesta d’aiuto del figlio al padre. Un’altalena dolorosa che determinano un ritmo ripetitivo che mina la capacità del film di entrare in connessione con lo spettatore. Una scelta poco mirata che si causa il mancato “aggancio emotivo” con il pubblico, nonostante l’utilizzo di una musica invadente che arriva puntualmente a sottolineare, come una fastidiosa tautologia sonora, lo stato d’animo che la scena di volta in volta dovrebbe generare nello spettatore.

Beautiful Boy castDi fronte alla poca incisività del film si stagliano però i due protagonisti, straordinari. Da una parte c’è l’ormai consolidato Steve Carell, che offre una performance tutta in sottrazione, ritraendo con intensità un padre addolorato e spaventato, un uomo vittima anche di un senso di impotenza devastante di fronte alla possibilità, ogni volta più concreta, di veder morire il figlio. Di fronte a lui, spalle sempre più forti e talento brillante, c’è quel Timothée Chalamet che ha fatto battere il cuore di tutti gli spettatori nella scorsa stagione cinematografica in Chiamami col tuo nome, di Luca Guadagnino. Sembra chiaro che questo film, o almeno queste performance, sono già con il collo allungato a guardare in avanti, verso la stagione dei premi.

Nella sua natura più elementare, Beautiful Boy è la storia di un padre che cerca in tutti i modi di aiutare il figlio, scoprendosi ogni volta impotente di fronte alla sua dipendenza. Un racconto che vorrebbe e potrebbe far leva su sentimenti comuni (il desiderio di un padre di proteggere sempre il proprio figlio), ma che per non rinunciare a raccontare tutti i fatti, fallisce nel raccontare le emozioni.

Beautiful Boy, il trailer

#RomaFF13, Barry Jenkins: “Il mio cinema celebra la bellezza della vita”

La vita di Barry Jenkins, regista cresciuto nel quartiere di Liberty City a Miami, è totalmente cambiata dopo l’Oscar vinto con Moonlight nel 2017 (ricordate la gaffe dei presentatori che pronunciarono per errore il nome di La La Land?). “Solo un po’, ma perché adesso – al contrario di qualche anno fa – la gente inizia a rispondere alle mie mail. Oggi la sfida è saper dire di no e rifiutare le proposte con saggezza“, racconta Jankins sorridente durante la conferenza stampa di If Beale Street Could Talk, terzo lavoro presentato alla Festa del Cinema di Roma dopo il passaggio a Toronto.

Il film traduce sul grande schermo il romanzo omonimo di James Baldwin, ambientato negli anni settanta nel quartiere di Harlem, a Manhattan, dove la diciannovenne Tish e il fidanzato Alonzo, detto Fonny, sognano un futuro insieme. Ma quando il ragazzo viene arrestato per un crimine che non ha commesso, Tish, che ha da poco scoperto di essere incinta, fa di tutto per scagionarlo, con il sostegno incondizionato di parenti e genitori.

If Beale Street Could Talk

Sono un fan di Baldwin fin dai tempi del college, dove fu una ragazza con cui stavo e che mi mollò a suggerirmi di leggere questo libro. Amo il suo modo di scrivere e l’espressione della sensualità attraverso una voce che riesce a combinare amore, passione e critica del sistema giudiziario e sociale nei confronti dei neri in America“, spiega Jenkins soffermandosi sul processo di adattamento cinematografico: “Come sceneggiatore e regista cerco sempre di restare fedele allo spirito del romanzo, m anche di riflettere nel film il mondo in cui sono cresciuto e tutto ciò che ho imparato semplicemente guardando gli altri e i piccoli gesti che compievano. Ciò che mi interessa è proprio questo, restituire i dettagli delle relazioni, che è quello che ci unisce come persone“.

If Beale Street Could Talk: il trailer del nuovo film di Barry Jenkins

Del libro di Baldwin, pubblicato nel 1979, il regista dice di aver conservato “la stessa idea di amore che aiuta a supera ogni difficoltà, anche nella situazioni difficili in cui si sono ritrovati gli afroamericani durante tutto il corso della storia a causa di fondamenta sbagliate. Perché nonostante il dolore e la sofferenza c’è ancora gioia, e con il cinema voglio ancora celebrare la bellezza della vita. E la bellezza per me è come un ricordo, non realistico, ma quasi evanescente, che appartiene ad un’altra realtà espressionista e romantica“.

Sulle differenze tra la protagonista di If Beale Street Could Talk e il personaggio principale di Moonlight, Barry Jenkins spiega che “non c’è somiglianza fra i due. Chiron era un ragazzo molto distante dal pubblico con cui era difficile relazionarsi perché stava fuggendo da se stesso; Tish invece rappresenta  qualcuno che vorresti proteggere, come fa la sua famiglia e come ho cercato di fare io come regista. Volevo che ogni scena fosse un abbraccio verso di lei.

If Beale Street Could Talk arriverà nelle nostre sale il prossimo 14 febbraio 2019 distribuito da Lucky Red.

#RomaFF13: Michael Moore e Isabelle Huppert sul red carpet

#RomaFF13: Michael Moore e Isabelle Huppert sul red carpet

Giornata ricca di ospiti internazionali e italiani, quella di sabato 20 ottobre alla Festa del Cinema di Roma 2018. Protagonista di un incontro ravvicinato con il pubblico è stata Isabelle Huppert, premiata da Toni Servillo con il riconoscimento alla Carriera. Con lei ha sfilato sul tappeto rosso dell’Auditorium anche Fabio Rovazzi, che, notizia di poche ore fa, presterà la voce a un personaggio secondario di Ralph Spacca Internet, della Pixar. Infine, la parata si è conclusa con il documentarista premio Oscar Michael Moore, che ha presentato alla Festa Fahrenheit 11/9, il suo ultimo film sulle elezioni presidenziali negli Stati Uniti che hanno visto trionfare Donald Trump.

Ecco le foto di Aurora Leone:

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#RomaFF13: Thomas Vinterberg presenta Kursk

#RomaFF13: Thomas Vinterberg presenta Kursk

Thomas Vinterberg, uno dei padri del movimento cinematografico Dogma 95, presenta il suo nuovo film alla Festa del Cinema di Roma 2018. Intitolato Kursk, il film è l’adattamento cinematografico del libro A Time to Die, di Robert Moore, basato sull’incidente del sottomarino K-141 Kursk, avvenuto il 12 agosto del 2000. In conferenza stampa, il regista racconta della genesi del film, e del perché per lui è così importante raccontare questo tipo di storie.

“Decidere di fare un film non è sempre una cosa razionale. – esordisce Vinterberg – Se una storia inizia a tormentarmi, allora inizio a pensare a che contributo potrei darvi. Ho deciso di fare questo film perché molti dei temi che più mi stanno a cuore ricorrono in questa storia. La storia di una famiglia, il disperato tentativo di sopravvivenza, la lotta di un uomo contro la burocrazia, e anche i sentimenti di indignazione, amore, dolore, perdita. Sono ossessionato da tutto ciò.”

Viene naturale chiedersi quanto di ciò che vediamo nel film sia realmente accaduto e quanto invece sia frutto di una drammatizzazione cinematografica. Il regista ha la risposta pronta a riguardo e ci tiene a specificare che “questo film parla in primo luogo di umanità, non volevo si trasformasse in un atto di accusa. Secondariamente, è un accordo tra la finzione e la verità storica. Molta della verità rimane sul fondo del mare con il sottomarino. Abbiamo ricostruito quanto più fedelmente ciò che si sa, e gli attori sono stati sottoposti ad uno studio tecnico al fine di perseguire la realtà. Tuttavia si tratta di un film, e quindi naturalmente abbiamo aggiunto elementi di finzione. C’è sempre un equilibrio tra i due elementi.”

Vedendo un film come Kursk ci si sorprende dell’evoluzione stilistica assunta dal regista rispetto ai suoi primi film. Chiamato a rispondere a riguardo, Vinterberg si sofferma a parlare del celebre movimento fondato insieme al regista Lars Von Trier.

“Questo film è ovviamente lontano da Dogma 95. All’epoca cercavamo la verità nel cinema, cercavamo di trovare l’essenza più nuda del cinema. Volevamo rivoltarci contro il suo aspetto più conservatore. Ma con il tempo anche questa volontà ha iniziato a diventare corrotta, e abbiamo finito con l’abbandonare quelle idee in cerca di nuove forme espressive. Ad ogni modo, se c’è un filo tematico che accomuna tutti i miei film è il valore dell’umanità.”

Tra i temi centrali del film, c’è quello del nucleo famigliare, ricorrente in gran parte della filmografia dell’autore danese. “Sono attratto dai rituali e dalla claustrofobia del nucleo famigliare. Stare su un set è un po’ la stessa cosa, si condivide tutto, si è nudi davanti agli altri. Finito il film, si scioglie anche il nucleo famigliare, ed io non riesco mai ad abituarmi a questo scioglimento. Ecco è per questo che ne sono ossessionato.”

“Cercavo un punto di vista dal quale raccontare, e analizzare, questa storia, e l’ho trovato in quello dei bambini. – continua poi il regista, analizzando altre peculiarità del film – Il loro è un punto di vista non corrotto su un mondo corrotto. Questa storia mi provoca rabbia, e mi provoca rabbia la mancanza d’umanità. Il bambino attraverso cui guardiamo la storia è una rivalsa della forza dell’umanità e del futuro. Io cerco sempre di tornare alla purezza dell’umanità, e dei miei personaggi.”

A conclusione dell’incontro, Vinterberg sembra voler lanciare un monito ai registi di tutto il mondo, esortandoli a raccontare sempre più temi considerati tabù. “E’ obbligo dei cineasti di parlare di questi argomenti, indagarli. Personalmente volevo mostrare cosa avviene quando l’umanità viene schiacciata dal potere fine a sé stesso. Spero che storie di questo tipo possano aiutarci a riflettere.”

Saw: 10 cose che non sai sulla saga

Saw: 10 cose che non sai sulla saga

Saw: Legacy è solo l’ultimo film della saga di Saw, una di quelle che rimarrà per sempre nella storia del cinema e del genere horror. Sin dal primo film, realizzato in maniera quasi fortuita, il pubblico si è appassionato a questa saga, tanto che sono stati realizzati ben 8 film e ancora la stanchezza non si fa sentire.

Ecco dieci cose che, forse non sapevate su Saw: Legacy e sulla saga di Saw.

Saw

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1. La saga di Saw è nata dall’idea di James Wan e Leigh Whannell. I due registi volevano realizzare un film dopo aver finito la scuola di cinema, ma potevano permettersi solo una stanza. In ogni caso, decisero di mettersi in gioco, cercando di realizzare un film che potesse essere realizzato in una sola stanza. Saw – L’enigmista fu il prodotto di questo lavoro, ed è stato considerato uno dei film più prolifici e dal successo pazzesco che ha avuto nell’intera categoria dei film horror di tutti i tempi.

2. La saga di Saw deve tutto a un manager. James Wan e Leigh Whannell hanno scritto la sceneggiatura e l’hanno spedita al loro manager. Il manager, in seguito, la mandò ad un agente di Los Angeles, che ha voluto incontrare i due. Entrambi sono stati incoraggiati a girare le scene partendo dalla sceneggiatura e realizzando un corto, con il quale hanno iniziato a presentare il soggetto da studio a studio.

Saw: Legacy streaming

3. Saw: Legacy è stato fortemente voluto dalla casa di produzione. Anche se Saw 3D – Il capitolo finale era stato originariamente concepito per essere il finale della saga, nel 2012 lo studio, la Lionsgate, ha espressamente mostrato il suo interesse nel continuare a produrre dei film su Saw, contemplando, per diverso tempo, anche la realizzazione di un reboot. Così, nel 2016, lo sviluppo di Saw: Legacy è stato confermato e il film ha avuto inizio. Chi desidera vedere Saw:Legacy in streaming, può appellarsi alla piattaforma Chili.

4. Saw: Legacy era stato classificato come +18. Secondo l’Australian Office of Film and Literature Classification, Saw: Legacy era stato classificato come visione per un pubblico over 18, con il commento di alto impatto della violenza. Il distributore, Studio Canal, ha deciso di appellarsi a questa classificazione al Classification Review Board. Il 20 ottobre 2017, il Review Board ha cambiato la classificazione da +18 a +15, con l’avviso “forti tematiche e forte violenza”. Con questa classificazione, i minori sotto i 15 anni vanno accompagnare da un genitore o chi per lui. Secondo la Review Board, i temi e la violenza del film erano di forte impatto ma non eccessivo, motivo tale per cui non si è resa necessaria una così alta limitazione.

5. Saw: Legacy è stato scritto limitando le scene di violenza. Questo film è stato concepito e scritto cercando di limitare le torture e l’estrema violenza dei film precedenti, cercando di optare per la sindrome di claustrofobia, per uno stile preciso e scene più godibili ed elaborando complesse scene di trappole mortali.

Saw – L’enigmista

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6. Saw – L’enigmista, il primo film che ha dato il via all’omonima saga, ha avuto solo 5 giorni di pre-produzione. Il primo film di Saw, oltre a godere di quei soli 5 giorni, è stato anche tagliato e montato nello stesso tempo in diciotto giorni (tutte le scene del bagno sono state girate in soli 6 giorni. Gli attori non hanno avuto assolutamente tempo di fare delle prove per prepararsi al film, tanto che le prove sono state le riprese reali del film.

7. La sceneggiatura di Saw fu scritta nel 2001. La sceneggiatura venne scritta come biglietto da visita per il regista James Wan e Leigh Whannell per cercare di entrare in Hollywood. I due hanno girato un corto a basso budget basato su una scena del film e questo ha determinato il successo sufficiente per attrarre l’attenzione dell’Evolution Entertainment. Entrambi hanno determinato sin da subito un ramo del genere horror chiamato Twisted Pictures e diedero a Wan e Whannell un piccolo budget.

8. Saw –L’enigmista contiene tanti riferimenti a film passati. Diversi di essi si riferiscono ai film italiani gialli ed horror di Dario Argento. Il pupazzo dipinto è un riferimento a Profondo Rosso (1975) di Argento, mentre i guanti neri del killer invisibile sono una delle firme di Argento e possono essere viste diverse volte nel film.

Saw 2 – La soluzione dell’enigma

9. Saw II – La soluzione dell’enigma aveva un altro titolo. Questo film, che deriva dalla sceneggiatura del regista Darren Lynn Bousman, si chiamava in realtà The Desperate. Dopo aver provato per anni a fare un film del genere, per il quale era stato detto di essere troppo violento, finalmente una società ha voluto realizzarlo, perché sospettava che Saw – L’enigmista sarebbe potuto essere un gran film e se ne poteva capitalizzare il successo. Solo quando Bousman era vicino a concludere l’accordo, Saw – L’enigmista uscì al cinema, diventando uno dei film ad avere avuto più incasso in quel periodo, tanto che Bousman venne contatto dai produttori che gli chiesero di cambiare il nome del film in Saw II. Leigh Whannell, che aveva scritto il primo Saw, venne contattato in seguito per aiutare Bousman a realizzare l’idea di un sequel di Saw – L’enigmista.

10. Saw II ha cinque finali alternativi. Per nascondere il finale, a molti degli attori non vennero date le ultime 25 pagine del copione. Solo gli attori principali erano a conoscenze delle sequenze.

Saw 2 streaming

Sulla piattaforma Chili sono presenti anche tutti i film della saga. Alcuni film di Saw (Saw II – La soluzione dell’enigma, Saw 3 – L’enigma senza fine, Saw IV e Saw V) sono anche visibili in streaming su RaiPlay.

Fonte: IMDb

#RomaFF13: il giorno di Barry Jenkins con If Beale Street Could Talk

Dopo il successo di Moonlight, vincitore di tre premi Oscar, presentato a Roma nel 2016, il regista Barry Jenkins torna alla Festa del Cinema: domani, domenica 21 ottobre alle ore 19.30 presso la Sala Sinopoli dell’Auditorium Parco della Musica, sarà infatti presentato il suo nuovo film, If Beale Street Could Talk (Se la strada potesse parlare), tratto dall’omonimo romanzo di James Baldwin.

Il film è ambientato negli anni settanta, nel quartiere di Harlem, Manhattan. Uniti da sempre, la diciannovenne Tish e il fidanzato Alonzo, detto Fonny, sognano un futuro insieme. Quando Fonny viene arrestato per un crimine che non ha commesso, Tish, che ha da poco scoperto di essere incinta, fa di tutto per scagionarlo, con il sostegno incondizionato di parenti e genitori. Senza più un compagno al suo fianco, Tish deve affrontare l’inaspettata prospettiva della maternità. Mentre le settimane diventano mesi, la ragazza non perde la speranza, supportata dalla propria forza interiore e dall’affetto della famiglia, disposta a tutto per il bene della figlia e del futuro genero.

If Beale Street Could Talk: il trailer del nuovo film di Barry Jenkins

#RomaFF13, Michael Moore: “Sono molto preoccupato per la situazione del cinema oggi”

Protagonista della terza giornata della Festa del Cinema di Roma è il regista Michael Moore, autore di documentari come Fahrenheit 9/11 (Palma d’Oro al Festival di Cannes) e Bowling a Columbine (premio Oscar al miglior documentario). Moore presenta nella Selezione Ufficiale della Festa il suo nuovo film, Fahrenheit 11/9, dedicato alla vittoria politica di Donald Trump e al suo governo.

Sin dal suo ingresso sul palco Moore si dimostra energico, ricco di voglia di parlare senza freni di ciò che più gli sta a cuore della società odierna. Questo suo brio viene ripagato con numerose ovazioni di approvazione, che sembrano essere il segnale di una contraccambiata voglia da parte del pubblico di documentazione concreta sui temi più attuali del mondo contemporaneo, cosa con cui Moore ha da sempre soddisfatto i suoi appassionati.

“Sono molto preoccupato per la situazione del cinema oggi. – esclama Moore, inaugurando così l’incontro –  Quand’ero giovane nei cinema americani si trovavano film provenienti da tutto il mondo. Oggi la situazione è cambiata, e difficilmente si riescono a trovare altri film da quelli americani nei cinema degli Stati Uniti. Il cinema è la forma d’arte del popolo, di cui ognuno può e deve beneficiare. È una forma d’arte che va assolutamente protetta. La minore possibilità di vedere film stranieri ci rende meno consapevoli del mondo che ci circonda, e questo porta all’ignoranza.”

“Circa il 60% della popolazione degli Stati Uniti non ha un passaporto, – continua il regista – il che significa che non ha mai lasciato il proprio paese, non ha mai viaggiato per il mondo. Quindi il cinema diventa per queste persone l’unica porta verso il resto del mondo. È quindi fondamentale non soltanto che il cinema venga salvato, ma che prosperi anche.”

Una volta rotto il ghiaccio, il regista passa ad esprimere, senza peli sulla lingua, il bisogno di produrre sempre più opere artistiche di valore, in grado di far sopravvivere l’arte cinematografica. “Nel cinema che gestisco, mi impegno a far vedere film che provengono da tanti paesi del mondo. Questo dev’essere un impegno reciproco. D’altra parte anche l’Italia deve continuare ad impegnarsi a produrre film di valore, che siano grande arte, così come il cinema italiano ha fatto negli ultimi cento anni. Quindi meno schifezze, più cinema di valore.”

Si entra poi nel vivo dell’incontro e del dibattito, inevitabilmente e giustamente politico, parlando del nuovo film che Moore presenta quest’oggi in anteprima alla Festa del Cinema di Roma. Un affresco liberale e anticonservatore che non prende di mira solo l’amministrazione degli Stati Uniti, ma anche le politiche dei Democratici e dei Repubblicani che hanno portato all’attuale situazione politica.

FAHRENHEIT 11/9 Michael Moore

Da Fahrenheit 9/11 a Fahrenheit 11/9, da Bush a Trump, Moore è chiamato a esporre ciò che secondo lui è cambiato in questi anni nella società americana. “La presenza di Trump non mi farà mai, mai rimpiangere Bush. Egli è un criminale di guerra. Purtroppo non molto è cambiato dal governo Bush al governo Trump. Entrambi hanno preso il numero minore di voti, eppure hanno vinto. Questa non è democrazia. E la colpa è anche dei democratici, che già all’epoca di Bush avrebbero dovuto battersi più duramente affinché questa clausola presente nella nostra Costituzione venisse modificata.”

Altro bersaglio, contro cui Moore si scaglia ferocemente nel suo film è quello dei media, colpevoli di aver instupidito la gente. “I media non hanno prestato attenzione a ciò che stava succedendo nel paese. Hanno vissuto nella loro bolla, non per strada. Non parlano con la gente, ma raccontano le storie che vogliono raccontare. La stampa ama Trump, perché lui è puro intrattenimento da tabloid. Lo amano a tal punto da avergli dato il soprannome affettuoso di “The Donald”. Tutti ridevano quando lui disse di volersi candidare alla presidenza. Io tentai di far notare la gravità della cosa, di far notare che lui non stava affatto scherzando, ma tutti mi ridevano dietro. “La gente è troppo intelligente per votare uno così”, ma la gente non è assolutamente intelligente.”

L’ignoranza è dunque per Moore la causa dei mali del nostro mondo. “Se distruggi l’istruzione, se si chiudono le biblioteche, se si consente alle grandi multinazionali di acquistare e controllare i media, e se poi su questi media si raccontano esclusivamente cose che fanno appello alla stupidità che è in tutti noi, alla fine si finisce con il rincretinire un’intera nazione. E l’ignoranza porta ad eleggere personalità come Trump, o Berlusconi e Salvini qui in Italia.”

Fahrenheit 11/9

“La causa di questi disastri politici è da imputare anche ai partiti di sinistra. – continua Michael Moore, sempre più politico e spietato – Gli italiani, come è successo negli Stati Uniti, vedono Salvini e lo trovano divertente, vedono in lui dell’intrattenimento. Ma non c’è assolutamente nulla di intrattenimento in quello che fa. E questo penso sia colpa della sinistra, che ha lasciato che questo avvenisse. La sinistra, negli Stati Uniti come forse anche qui in Italia, ha cominciato a pensare che per vincere contro queste persone fosse meglio non essere troppo di sinistra, ma più di sinistra centro, un po’ più a destra, magari definendosi come dei “Berlusconi intelligenti”, ma come si possono anche solo accostare queste due parole? Questo è stato il loro più grande errore. Ciò che ha portato le persone a votare queste figure politiche è il fatto che queste si mostrano per quello che sono, se fanno una dichiarazione idiota ne sono orgogliose. Un po’ come Bush, che si faceva vanto di arrivare a malapena alla sufficienza, come a voler dire al popolo “vedete, io sono come voi”. All’epoca di mio padre, in fabbrica, tutti volevano votare John Fitzgerald Kennedy perché egli aveva avuto l’opportunità di studiare e aveva un intelletto superiore, che quindi potesse fare qualcosa di meglio per il paese.”

Concludendo l’incontro, Moore riassume la sua speranza, che cerca di concretizzare anche attraverso i suoi film, di una maggior attenzione globale nei confronti del cambiamento della società che ci circonda. “Solo l’interesse verso l’altro può permetterci di riappropriarci delle nostre facoltà fondamentali, come quelle di scelta e pensiero.”

#RomaFF13: La Diseducazione di Cameron Post, la recensione del film di Desiree Akhavan

1993. Sullo schermo scorre la fotografia sbiadita di un’epoca che sembra già lontana: è la sera dell’evento più importante nella vita sociale di un teenager americano, il prom, e Cameron Post viene sorpresa dal suo fidanzato mentre sta avendo un rapporto sessuale con l’amica Coley nel retro della sua auto. La famiglia conservatrice, allarmata, spedisce la ragazza in un centro di terapia di conversione per giovani omosessuali dove potrà essere curata e disintossicata dal “demonio”.

Nell’inizio di The Miseducation of Cameron Post (in italiano La Diseducazione di Cameron Post) opera seconda di Desiree Akhavan, non c’è nessuna scoperta di sé o dichiarazione romantica come nei film di John Hughes, ma un brusco ritorno alla realtà peggiore, un taglio netto con tutte le fantasie che il genere teen ha montato sull’iconografia dei balli scolastici. Respingente, invece che inclusivo, il mondo al di fuori è un posto orribile dove poter vivere liberamente la propria giovinezza, in cui le infinite possibilità dell’adolescenza – fase transitoria della vita in cui si prova e sperimenta – vengono ridotte ad una triste negoziazione con chi ci governa.

Il tempo del film racconta bene l’inquietudine e l’’insicurezza degli Stati Uniti negli anni in cui si moriva di AIDS e l’omosessualità veniva trattata come patologia clinica, ma soprattutto quando i diritti della comunità LGBT non esistevano e i mezzi di comunicazione di massa (cinema e tv in particolare) non contribuivano alla rappresentazione della diversità sociale come fanno oggi. Tuttavia non è il contesto storico ciò che interessa alla regista, e nemmeno cercare ossessivamente il pretesto per un atto politico, ma riflettere sulla tossicità di un sistema familiare che riversa i propri errori sulle nuove generazioni; di fatto gli adulti di The Miseducation of Cameron Post sembrano spettatori catatonici del cambiamento sociale, incapaci di capire cosa sta succedendo nel mondo, di cogliere i bisogni dei figli e aiutarli nel momento più difficile.

E se fossero loro i soggetti da curare? E se in questa fotografia del 1993 si nascondesse tutto il rancore, ma anche i sogni e le speranze della Akhavan (classe 1984) rivolti a chi l’ha preceduta e a chi verrà dopo di lei? Il punto di vista è lodevole e perfino originale in certi frangenti, ma le manca ancora il graffio dei grandi autori.

Trailer di La Diseducazione di Cameron Post

Kylo Ren un bambino viziato? La Lucasfilm “censura” Ralph Spacca Internet

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Dalle Principesse Disney agli Stormtrooper della Lucasfilm, il nuovo film Disney Ralph Spacca Internet è intenzionato a pagare tutti i “debiti” alla Casa di Topolino, ma a quanto pare il riferimento a Kylo Ren in programma nel film non è andato a genio alla Lucasfilm stessa, che ha chiesto alla Pixar di eliminarlo dalla sceneggiatura.

Il co-regista del film, Rich Moore, ha dichiarato: “Ad un certo punto abbiamo inserito una battuta sul fatto che Kylo Ren fosse una specie di bambino viziato. Siamo andati alla Lucasfilm e li abbiamo messi al corrente di ciò che abbiamo detto. E loro ci hanno spiegato ‘preferiremmo che non lo mostrasse come un bambino viziato. Sai, è il nostro cattivo, e preferiremmo che non lo facesse’. Quindi abbiamo scelto di essere rispettosi nei confronti di questa esigenza.”

Sebbene Kylo Ren possieda grandi poteri e possa essere una figura intimidatoria, si è anche guadagnato la reputazione di “moccioso viziato” a causa dei suoi capricci infantili. Sebbene ci si prefigga, probabilmente, di mostrare la sua rabbia incontrollabile, per lo più viene semplicemente percepito come un bambino che piange quando non riesce a farsi strada.

Kylo Ren meglio di Darth Vader: parola di Donald Glover

In ogni caso, è per il meglio del franchise di Star Wars che la Pixar non ha ulteriormente preso in giro il personaggio. Di contro, Ralph Spacca Internet ha un simpatico tributo a un altro personaggio di Star Wars, l’amato droide C-3PO che apparentemente sarà il maggiordomo delle principesse Disney.

L’obiettivo di questi camei, secondo il co-regista Phil Johnston, non è necessariamente quello di prendere in giro i personaggi, ma piuttosto di onorarli e rispettando la loro storia. Nel caso di C-3PO infatti, essere un maggiordomo sembrava sposarsi con la sua natura di aiutante e compagno fedele.

Ralph Spacca Internet, recensione del film Disney

Avengers 4: emersa una nuova descrizione del trailer – non ufficiale

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Dopo la prima, appassionante anche se non ufficiale, è emersa in rete una nuova descrizione del trailer di Avengers 4, questa volta leggermente più plausibile, anche se forse ancora non ufficiale. A certificare un certo grado di attendibilità di questo nuovo leak è il fatto che l’utente di Reddit che ha diffuso questa descrizione (qui il profilo) è lo stesso che a suo tempo rivelò in anteprima che il secondo trailer di Captain America: Civil War avrebbe incluso Spider-Man.

Ecco cosa riporta questa nuova indiscreta descrizione del trailer di Avengers 4:

La voce di Thanos: “Il mio destino non si è ancora compiuto…”. Inquadratura di Tony stremato, sembra confuso e ancora su Titano. “Le minacce più grandi nascono per annullare l’equilibrio. Ho perso tutto per raggiungere… e io …. non mi … annullerò” Inquadratura di Banner e Cap con Vision su un tavolo in dissolvenza… Inquadratura di Peter QUill su una nave che decolla. Dissolvenza. Tony: “Fury aveva ragione”. Sta parlando a qualcuno fuori campo in un’abitazione normale. Potrebbe essere Zia May, ha gli occhi lucidi e la battuta è relativa all’inquadratura precedente, non è quello che sta dicendo adesso. “Aveva ragione dal primo giorno…” dissolvenza in nero. Tony: scena di lui in una sorta di garage, in cerca di posto. Di fronte a 3 diverse armatura, sembrano abbastanza normali? Nessuna di quelle assomiglia a quelle trapelate. “Farò tutto il necessario affinché non accada mai più…” schermo nero e poi Tony nella divisa dello SHIELD. Sta camminando verso la telecamera con dei soldati dietro di lui. Inquadratura di Ant-Man che sta nel regno Quantico. Sua inquadratura, mentre è circondato da 3 tardigradi. Sta correndo, poi si ferma vicino a una specie di portale verde. Dissolvenza a una foto di Scott in abiti civili. Jeans e camicia grigia, giacca di jeans.

Scott: “Penso… potrei avere un modo di aiutare.” Non siamo molto sicuri di chi stia parlando in questo momento, ma sembra che il dialogo corrisponda. Inquadratura di un trono vuoto nel Wakanda, varie inquadrature di Shuri, M’Baku e Okoye. Schermo nero. “Questa NON era la nostra lotta…” lo pronunciano Shuri o Okoye. Schermo ancora nero. Inquadratura di Cap che tiene le braccia incrociate con Rhodey, Rocket e Thor, in una stanza, sembra di essere ancora nel Wakanda. Cap: “Dobbiamo farlo bene …”. Banner: “Cap non sappiamo nemmeno da dove cominciare… Thanos è sparito. Ha vinto.” Thor: “Bene… allora faremmo meglio a metterci al lavoro.”

Lenta inquadratura verso il basso sul cercapersone che aveva Fury nelle mani di qualcuno. Potrebbe essere Tony. Una breve inquadratura di Rhodey che si adatta rapidamente alla nuova nanotecnologia applicata alle sue ginocchia, fino alla vita. Sembra la stessa tecnologia della maschera di Star Lord. Thor, dal fuoricampo: “Sei pronto per questo?”

Rocket: “Beh… se non sto …” pausa. Dissolvenza in nero su Rocket, silenzi musicali: “Cos’altro potrei perdere?” Il Bifrost con Thor, War Machine e Rocket. Varie inquadrature: il Guanto ancora danneggiato, un’immagine di Nebula (sembra nello stesso posto in cui Tony era prima), e poi inquadratura su Banner. Schermo nero. Thor: “Abbiamo bisogno di un esercito per opporci a Thanos…”. Inquadratura di Thanos che indossa l’armatura. “Il tuo è l’unico abbastanza formidabile da darci una possibilità…”. Inquadratura di Thanos che brandisce una grande spada a doppio taglio. “Quindi ti chiedo…” Vediamo Vedova Nera, una breve occhiata all’armatura di Tony, la nuova divisa di Cap, con la cotta di maglia e Banner che indossa una tuta attillata viola davanti ad un specchio. Siamo su Thor: “Ci aiuterai?” Altri vari scatti, compreso un guanto distrutto a terra mentre qualcuno (chiaramente Thanos) si allontana… stessa estetica e scenario della scena precedente. “È passato un po’ di tempo da quando sono stata sulla Terra…” La musica diventa più forte fino all’inquadratura al petto di Captain Marvel che sale sul suo viso. Lo scenario dietro di lei sembra quasi Xandar. Perché non può essere la Terra (non avrebbe senso) ma ci sono cieli azzurri e nuvole fuori da una finestra… Capitan Marvel: “Andiamo” Inquadratura su di lei che vola verso qualcosa con rabbia, tira indietro un pugno, gli occhi brillanti, le fiamme la circondano. Dà un pugno, quindi parte il tema degli Avengers con il titolo in sovrimpressione.

Compare solo uno schermo bianco con della musica di sottofondo… Rocket è su una sedia con le ruote guardando alcuni schermi di computer, indossa una tuta bianca molto cool.

Rhodey: “Ho visto un sacco di cose pazze, ma un procione parlante? (Rocket lo guarda dalla sedia) Sicuramente li supera tutti…” Rocket, tornando da Rhodey agli schermi dei computer sarcastico: “Ragazzo se mi avessero pagato per ogni volta che l’ho sentito” Taglio su Thor che ride.

Avengers 4 arriverà al cinema ad Aprile 2019, sarà diretto da Anthony e Joe Russo e porterà a conclusione la Fase 3 del Marvel Cinematic Universe.

Nel cast del film Robert Downey Jr., Chris Hemsworth, Mark Ruffalo, Chris Evans, Scarlett Johansson, Benedict Cumberbatch, Don Cheadle, Tom Holland, Chadwick Boseman, Paul Bettany, Elizabeth Olsen, Anthony Mackie, Sebastian Stan, Letitia Wright, Dave Bautista, Zoe Saldana, Josh Brolin, Chris Pratt, Jeremy Renner, Evangeline Lilly, Jon Favreau, Paul Rudd, Brie Larson.

Pupazzi senza gloria: intervista a Phil Phillips

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Pupazzi senza gloria: intervista a Phil Phillips

In occasione della premiere a Londra di Pupazzi senza gloria abbiamo avuto il piacere di intervistare il protagonista, Phil Phillips.

Pupazzi senza gloria racconta le vicende di due detective alle prese con un serial killer che sta uccidendo tutti i componenti del cast de L’allegra combriccola, un amatissimo show di pupazzi degli anni 90.

A seguire il caso Connie Edwards (Melissa McCarthy), una veterana del corpo di polizia con una terribile dipendenza dallo zucchero, e il suo ex collega pupazzo Phil Phillips (doppiato da Maccio Capatonda), caduto in disgrazia e diventato ora un investigatore privato.

Ambientato in una Los Angeles in cui umani e pupazzi condividono sesso, droga e pallottole, Pupazzi senza gloria è un film scorrettissimo tutto da ridere e dal “piacere” assicurato.

Pupazzi senza gloria

The Old Man & The Gun: teaser trailer con Robert Redford

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The Old Man & The Gun: teaser trailer con Robert Redford

Guarda il teaser trailer ufficiale di The Old Man & The Gun, il nuovo film con protagonista la leggenda del cinema Robert Redford. Il film sarà presentato oggi alla Festa del cinema di Roma.

The Old Man & The Gun è ispirato alla storia vera di Forrest Tucker (Robert Redford), un uomo che ha trascorso la sua vita tra rapine in banca ed evasioni dal carcere. Da una temeraria fuga dalla prigione di San Quentin quando aveva già 70 anni, fino a una scatenata serie di rapine senza precedenti, Forrest Tucker disorientò le autorità e conquistò l’opinione pubblica americana. Coinvolti in maniera diversa nella sua fuga, ci sono l’acuto e inflessibile investigatore John Hunt (Casey Affleck), che gli dà implacabilmente la caccia ma è allo stesso tempo affascinato dalla passione non violenta profusa da Tucker nel suo mestiere, e una donna, Jewel (Sissy Spacek), che lo ama nonostante la sua professione.

The Old Man & The Gun, la recensione

#RomaFF13: Cate Blanchett illumina il tappeto rosso in John Galliano

Cate Blanchett è stata la protagonista del venerdì della Festa del Cinema di Roma, incontrando il pubblico e presentando il film di Eli Roth, Il mistero della casa del tempo. Ecco come ha sfilato sul tappeto rosso della cavea dell’Auditorium Parco della Musica di Roma, offrendosi ai fan e ai fotografi.

Dopo il completo Armani scelto per la giornata, la Blanchett ha indossato un Maison Margiela by John Gallianoper il red carpet. Ecco le foto di Aurora Leone:

#RomaFF13: l’incontro ravvicinato con Cate Blanchett

Marvel Studios: rimosso un film dalle uscite Disney del 2020

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Marvel Studios: rimosso un film dalle uscite Disney del 2020

Mentre Disney e Fox risistemano la loro calendarizzazione delle uscite a seguito della fusione, la Casa di Topolino ha rimaneggiato anche la lista dei film Marvel Studios, già annunciata dalla Casa delle idee, rimuovendo dalle uscite del 2020 un film Marvel senza titolo. Oltre a questo spostamento degno di nota, la Disney ha deciso nuove date d’uscita anche per Jungle Cruise e per Morte sul Nilo, sequel di Assassinio sull’Orient Express di e con Kenneth Branagh. Parallelamente, anche la Fox ha spostato il film con Brad Pitt, Ad Astra, a fine maggio prossimo, posticipando anche la commedia action con l’inedita coppia Kubail Nanjiani-Dave Bautista.

In seno alla Disney, i Marvel Studios sono una proprietà molto importante, visto che negli ultimi dieci anni hanno “portato a casa” un incasso totale di quasi 18 miliardi. Stando a quanto riporta The Hollywood Reporter, questo spostamento ha influito nella futura programmazione dello studio. Il film senza titolo originariamente previsto per il 31 luglio 2020 è stato rimosso dal programma senza che sia stata annunciata una nuova data d’uscita. Ecco il programma completo della Disney per il 2020, con Jungle Cruise che è stato posizionato al posto del misterioso progetto Marvel:

  • 14 febbraio 2020: Live Action Disney senza titolo
  • 6 marzo 2020: Film Pixar Animation senza titolo
  • 27 marzo 2020: Mulan
  • 1 maggio 2020: Film Marvel
  • 29 maggio 2020: Maleficent 2
  • 19 giugno 2020: Film Pixar Animation senza titolo
  • 24 luglio 2020: Jungle Cruise
  • 9 ottobre 2020: Live Action Disney senza titolo
  • 6 novembre 2020: Film Marvel
  • 25 novembre 2020: Film d’animazione Disney senza titolo
  • 23 dicembre 2020: Live Action Disney senza titolo

Lucca Comics & Games 2018: Disney Italia celebra i 10 anni dei Marvel Studios

Non si sa quale film della Marvel avrebbe occupato quella data dell’estate 2020, ma Guardiani della Galassia Vol. 3 sembrerebbe la scelta più logica viste le recenti vicissitudini del progetto. È comprensibile dunque che se il film ha subito un pesante stop in produzione, perdendo il regista, non sarà pronto per il 31 luglio 2020, inizialmente pianificato.

Il prossimo film Marvel Studios sarà Captain Marvel, in arrivo l’8 marzo 2019.

Fonte: THR

Halloween: la recensione del film di David Gordon Green

Halloween: la recensione del film di David Gordon Green

Che il movimento Me Too abbia provocato una serie di danni collaterali al sistema hollywoodiano è indubbio, come è altrettanto vero che l’asse di produzioni sembra essersi leggermente spostato verso progetti diretti da donne o con protagoniste donne “forti” in grado di rovesciare le regole del maschilismo al cinema.  Nel 1978 Halloween – La notte delle streghe di John Carpenter e l’anno successivo Alien di Ridley Scott avevano in qualche modo “anticipato i tempi, in un’epoca in cui i reclami erano più silenti e non vi era alcuna ragione politica dietro quella scelta. Piuttosto sembrava molto più funzionale alla storia e realistico proporre sullo schermo due personaggi che riuscivano a sopravvivere perché scaltri, furbi e intelligenti come solo le donne sanno essere; e non è un giudizio negativo, anzi, semplicemente un dato di fatto.

Ciò che colpisce è in che maniera registi e autori contemporanei stanno riflettendo su questo ribaltamento di campo senza rimanere preda della facile morale femminista: ne L’Inganno, Sofia Coppola mostrava con una violenza inedita e una maniacale precisione le varie sfumature e la complessità del carattere femminile in presenza di un predatore, mentre Halloween (che de La notte della streghe è il sequel diretto) non avrà lo stesso spessore né la stessa profondità di sguardo, tuttavia può partecipare al discorso che riflette sulla vendetta invece che sulla rivendicazione.

Lo fa lavorando al limite della copia dell’originale mentre decide di cambiare alcune dinamiche fondamentali: così, se nel film di Carpenter era Michael Myers a inseguire la sua vittima, qui è Laurie Strode a impugnare il fucile. È lei che dà la caccia all’uomo nero, che detta le regole del gioco e il ritmo della partita, che “apre l’armadio” sorprendendo il suo incubo (l’esatto contrario di quanto accadeva nel ’78). Dall’altra parte gli uomini – mariti, fidanzati, amici, poliziotti, non sembrano mai in grado di gestire il pericolo sotto pressione, e vengono ritratti come individui sciocchi e superficiali; loro provano ad azionare una trappola per topi e falliscono, Laurie (Jamie Lee Curtis) con figlia e nipote metteranno in scena un piano ben più complesso.

Halloween è la dimostrazione che non tutte le storie di vendetta devono essere interpretate come atti politici, perché esiste una gamma infinita di possibilità – scenario che contempla pure percorsi scomodi e immagini sgradevoli – per i personaggi femminili. Quando ce ne renderemo conto si uscirà finalmente da certi schemi che, oggi più che mai, stanno soffocando la bellezza del cinema e l’atteggiamento critico nei confronti di queste opere.

Trailer del film Halloween di David Gordon Green

Il mistero della casa del tempo: recensione del film di Eli Roth

Il mistero della casa del tempo: recensione del film di Eli Roth

Presentato nella Selezione Ufficiale della Festa del Cinema di Roma 2018, Il mistero della casa del tempo è il nuovo film del regista Eli Roth, con protagonisti Jack Black, Cate Blanchett e il giovane Owen Vaccaro. Il film è tratto dall’omonimo romanzo di John Bellairs, primo di una serie di classici della letteratura per ragazzi con elementi che spaziano dal fantasy all’horror.

Il mistero della casa del tempo racconta l’avventura magica e misteriosa di un ragazzino di dieci anni, Lewis Barnavelt (Owen Vaccaro), che rimasto orfano si trasferisce a vivere nella casa vecchia e stramba dell’eccentrico zio Jonathan (Jack Black) e della sua amica, Mrs Zimmerman (Cate Blanchett). In questa strana dimora si nasconde un mondo segreto ricco di magie, misteri, streghe e stregoni. Ben presto Lewis verrà coinvolto in un’importante missione segreta: scoprire l’origine e il significato del ticchettio di un orologio nascosto da qualche parte nei muri di casa.

Il mistero della casa del tempo film

Prodotto dalla Amblin Entertainment di Steven SpielbergIl mistero della casa del tempo si presenta come un chiaro omaggio al cinema per ragazzi anni ’80, al quale si mescola un’estetica da anni ’50, nei quali la storia è ambientata. Facendo riferimento a queste due epoche, il film vive delle particolarità cinematografiche che li hanno caratterizzati. Eli Roth, dopo numerose opere di puro stampo horror, si misura con una materia più leggera, riuscendo tuttavia ad imprimere in essa il proprio particolare gusto per la suspense e il terrore, ispirandosi ai classici della sua gioventù come I Goonies e Gremlins.

Ne deriva un efficace prodotto in grado di divertire, specialmente grazie all’ormai noto talento comico di Jack Black, ma anche di spaventare, con un’adeguata costruzione della suspense che lentamente porta lo spettatore in uno stato di inquietudine. Atmosfera questa che Roth costruisce sapientemente allontanandosi dai canoni del film del terrore odierno. Nella misteriosa casa protagonista, le cose accadono sullo sfondo, quasi impercettibili allo sguardo, e quando finalmente notiamo il cambiamento che da queste è derivato, si diventa così suscettibili che anche il ticchettio di un orologio può generare spavento.

Il mistero della casa del tempo

L’elemento interessante de Il mistero della casa del tempo tuttavia, ancor prima di quello magico, sono i suoi tre protagonisti. Tre personaggi ognuno a loro modo costretti ad affrontare una sconfitta personale, un lutto che ha rotto qualcosa in loro. All’interno della casa, che con le sue particolarità assume le caratteristiche vere e proprie di un quarto personaggio, i tre dovranno essere in grado di riconoscersi per le loro somiglianze unendo le loro forze. Ad opporsi a loro c’è un malvagio stregone degno di nota, interpretato da Kyle Maclachlan, che svela anch’egli un proprio interessante background, a conferma che la scrittura del film non si è risparmiata in dettagli, cercando di scavare quanto più in profondità possibile nel cuore dei personaggi.

All’interno di questo quadro Il mistero della casa del tempo presenta invenzioni visive e comiche ben costruite e riuscite, che si alternano a qualche momento di maggior rallentamento del ritmo o a qualche prevedibilità narrativa, ma che grazie anche ad una messa in scena particolarmente ricca, specialmente da un punto di vista scenografico e dei costumi, consegna un perfettamente godibile prodotto di intrattenimento, capace anche di dare una propria interpretazione sul concetto di magia, vista non più come materia per bambini ma come elemento indispensabile per la vita e la crescita di ognuno di noi.

#RomaFF13: l’incontro ravvicinato con Cate Blanchett

#RomaFF13: l’incontro ravvicinato con Cate Blanchett

Nella seconda giornata della Festa del Cinema di Roma 2018, l’attrice premio oscar Cate Blanchett si rende protagonista di due incontri. Il primo è la conferenza stampa del film Il mistero della casa del tempo, regia del maestro dell’horror Eli Roth, in cui dà vita ad un’inedita coppia con Jack Black.

Nel film di Roth, proposto nella Selezione Ufficiale della Festa, Cate Blanchett si ritrova ad avere a che fare con la magia e la stregoneria. Elementi questi per lei molto più attuali e concreti di quanto si creda.

Cate Blanchett

Interrogata in conferenza stampa sulla sua idea a riguardo, l’attrice dichiara che “la magia permette di trasformarsi. Quello della trasformazione è un concetto positivo da adottare e perseguire nella vita. Evolvendo costantemente, migliorando noi stessi, impediamo che gli altri possano affibbiarci delle etichette”.

L’attrice passa poi a raccontare le scelte che l’hanno portata ad accettare il ruolo di Mrs. Zimmerman, la co-protagonista del film. “Ero ossessionata dall’horror, e lo sono ancora. Avrei potuto guardare film horror ogni giorno. Per questo ero interessata all’idea di lavorare con Eli Roth, e il fatto che il film contenesse specialmente contenuti per ragazzi mi attraeva ancora di più. Attraverso i miei figli vivo le loro paure, e questo mi ha aiutato a sentirmi ancor più parte del progetto.”

“Io elaboro le cose per amore dell’interesse. – continua la Blanchett, alla domanda sulle sue fonti di ispirazione per il ruolo. – Assimilo ogni cosa, e presto o tardi queste tornano utili per i miei personaggi. Ho lavorato per costruire un passato al mio personaggio, un passato doloroso che potesse renderlo ancor più interessante. Se quello che fai non risuona nel pubblico è inutile, e in questo le reazioni dei miei figli al personaggio mi hanno aiutato a trovare il carattere giusto, affinché fosse in grado di stupire chiunque. Come attrice non penso a me e alle mie esperienze nella costruzione del personaggio. Non mi interessa portare la mia esperienza sul grande schermo, ma tentare di raccontare l’esperienza di qualcun altro.”

La conferenza stampa si chiude sulla domanda che chiede all’attrice di indicare il potere magico che desidererebbe avere. “Farei in modo che tutti i maggiorenni andassero a votare. Vengo da un paese dove il voto è obbligatorio e la democrazia una responsabilità. Incoraggerei tutti a votare, anche per chi non può farlo.”

Durante il secondo incontro, quello pomeridiano con il pubblico, condotto dal direttore artistico della Festa Antonio Monda, la Blanchett ripercorre invece, attraverso la visione di diverse clip, i ruoli più celebri della sua carriera. In questa occasione l’attrice svela curiosità e retroscena sulle sue varie tappe artistiche.

Il curioso caso di Benjamin Button

Si parte da Il curioso caso di Benjamin Button, film del 2013 diretto da David Fincher in cui la Blanchett affianca Brad Pitt. “Ricordo di aver accettato il ruolo perché avrei lavorato a qualsiasi cosa con Fincher e Pitt. Quando poi ho letto la sceneggiatura mi hanno particolarmente colpito le sue immagini, specialmente una delle ultime. Il mio personaggio, Daisy, tiene tra le braccia Benjamin Button, ormai diventato un infante, e lo guarda morire. È una scena che mi ha commosso profondamente. Ogni madre sa cosa vuol dire stringere a sé il proprio figlio desiderando che quel momento non finisca mai.”

Passando poi a parlare del film Carol, regia di Todd Haynes in cui Cate Blanchett ha una storia d’amore con l’attrice Rooney Mara nella repressiva società degli anni ‘50, la Blanchett ricorda di essere rimasta molto stupita dalle domande che le venivano fatte durante le presentazioni stampa del film. “E’ strano perché durante le conferenze stampa di questo film le domande che mi venivano rivolte erano prevalentemente riguardo la mia sessualità, quando però per altri film non mi avevano mai fatto domande sulle mie capacità psichiche, o simili. In me questo ha suscitato una certa sorpresa, vedere che il mio genere sessuale fosse diventato un argomento di cui discutere. Interpretare un ruolo vuol dire avere una connessione universale con l’esperienza umana. Per questo non penso mai al mio genere, almeno che questo non chiuda delle porte, perché penso sempre in termini di un personaggio come di un essere umano. Per me l’esperienza di creare un personaggio è un’esperienza antropologica, di mettermi in un ambito che non conosco. Il piacere dell’interpretazione per me è studiare cosa muove le persone, che cosa le motiva.

Carol

Si passa poi a parlare del film The Aviator, regia di Martin Scorsese in cui Cate Blanchett interpreta Katharine Hepburn accanto a Leonardo DiCaprio nei panni di Howard Hughes. Per questo film la Blanchett vinse il suo primo Oscar come miglior attore non protagonista. L’attrice ricorda di quando Scorsese la chiamò al telefono, per proporle il ruolo. “Non ricordo assolutamente nulla di quella chiamata. Io lo ascoltavo parlare e tremavo incessantemente. Continuavo a ripetere sì senza realmente capire a cosa stessi dando risposte affermative. Quando la chiamata finì, il mio agente mi chiese cosa mi aveva proposto, ma io non riuscivo davvero a ricordarlo, tanto ero sotto shock dall’aver parlato con il grande Scorsese. Quando poi mi comunicarono cosa avevo accettato, allora ebbi davvero paura. Quel ruolo poteva distruggermi o farmi affermare come attrice.

Sul finire dell’incontro, la Blanchett si sofferma sulle differenze tra cinema e teatro. “Quando ho iniziato a lavorare a teatro a Sidney, in Australia, non mi sarei mai aspettata di arrivare al cinema. Ho avuto una grande fortuna e il piacere di lavorare con i più grandi. Penso sia bellissimo e utile poter passare dal teatro al cinema, poiché nel teatro c’è la possibilità di avere un rapporto diretto con il pubblico, mentre il cinema mi ha portato a valutare la possibilità espressiva delle inquadrature. Dovessi scegliere tra i due, direi il teatro. Il teatro non consente l’errore, e allo stesso tempo il suo fascino è l’avere la possibilità di cambiare ogni sera, poiché ogni sera il pubblico è diverso.”