Arriva al cinema distribuito da
Adler Entertainment The Iceman diretto da Ariel Vromen, con
Michael Shannon e
Winona Ryder. Come può un uomo essere al
contempo uno spietato serial killer e un premuroso marito, nonché
padre di famiglia? E come può agire indisturbato per un ventennio?
Ecco le domande che il regista Ariel Vromen
(Rx, Danika) pone
attraverso la storia vera di Richard Kuklinski,
serial killer statunitense al servizio di svariate famiglie
mafiose, noto col soprannome di The Iceman, che nel ventennio
Sessanta – Ottanta uccise più di 100 persone, prima di essere
arrestato nel 1986.
Vromen torna a indagare gli abissi
della psiche umana in un lavoro che mescola mafia movie e thriller
psicologico. Basato sul romanzo di Anthony Bruno The
Iceman – the true story of a cold blooded killer e
sul documentario The Iceman tapes
(conversazioni di James Thebaut con lo stesso
Kuklinski) il film è imperniato su una vera e propria scissione di
personalità e intende esplorare meccanismi di rimozione e senso di
colpa, scanditi dalla netta divisione tra le vite parallele
condotte dal protagonista. La domanda rivolta a Kuklinski che
introduce il film, chiuso all’interno di un flashback, è infatti se
egli si sia mai pentito per ciò che ha fatto. La risposta arriverà
alla fine e non potrà che essere contraddittoria.
The Iceman, il film
Per il ruolo del protagonista
Vromen sceglie
Michael Shannon (candidato all’Oscar per
Revolutionary Road, in cui aveva già
interpretato un personaggio con problemi psichici), che si rivela
la persona giusta nel ruolo giusto, col suo volto segnato e
l’espressione impassibile da vero Iceman, ma altrettanto credibile
negli improvvisi scoppi d’ira e nell’affetto verso i propri cari.
Accanto a Shannon, attori ben scelti, con alcuni pregevoli cameo:
Winona Ryder convincente nei panni della moglie di
Kuklinski – Ray Liotta (il boss Demeo),
Chris Evans (il “socio in affari” Mr. Freezy),
James Franco (Marty Freeman).
Nonostante ciò, l’amalgama non
coinvolge fino in fondo, a discapito di entrambi gli elementi che
la costituiscono. Esposta la doppia vita e la freddezza del
protagonista, aggiunto qualche tocco pulp, il film si lascia andare
agli stilemi della cinematografia sulla mafia. La sceneggiatura
dunque, approfitta poco delle interessanti premesse poste e diventa
piatta, non fa molto più che presentare allo spettatore la consueta
girandola di vendette mafiose, non arricchendo il genere. D’altra
parte, si toglie spazio a un vero scavo psicologico sul
protagonista, ridotto alle scene d’apertura e chiusura, a un mantra
numerico e ad una scena di vissuto infantile, mentre avrebbe dovuto
essere il cuore del film. Si preferisce seguire il ritmo delle
uccisioni – efficace il montaggio di Danny Rafic – cadendo nella
monotonia.
Prodotto da Ehud
Bleiberg e Avi Lerner, oltre che dal
regista e sceneggiatore, il film è curato – anche nella
ricostruzione d’epoca – e più che dignitoso, ma non riesce a
colpire davvero, segno che la faccia giusta al posto giusto,
attorniata da un altrettanto buon cast, a volte non è tutto.
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