Nel 1964, il regista Michelangelo
Antonioni gira il suo nono lungometraggio, dal titolo
Il deserto rosso. Ci ricordiamo la
storia, incentrata sul personaggio di Giuliana. Moglie del
dirigente industriale Ugo, il quale pare incapace di capirla, lei,
complice un incedente d’auto, comincia a vivere una fase
depressiva, che neppure l’amicizia (prima) ed il tradimento (dopo)
con l’Ing. Corrado salveranno dal suo acuirsi.
Il film s’intitola
Il
deserto rosso, con due sole parole. Un
sostantivo, che rinvia alla fredda o meglio scheletrica
architettura del Polo petrolchimico a Ravenna, e poi un aggettivo,
che rinvia all’unica tonalità (presente dappertutto: negli abiti,
nelle pareti, nelle condutture, nei parapetti ecc…) almeno
teoricamente in grado di rivitalizzare lo spleen esistenzialistico
dei personaggi. Antonioni ama le carrellate che portano la macchina
da presa a risalire, o di contro a ridiscendere, i vari edifici. Il
film Il deserto rosso inizia
mostrandoci il fumo industriale, da una coppia di soffioni.
Contraddicendone la risalita, tramite il vento, la macchina da
presa si sposta in discesa, inquadrando gli operai, i quali
dovrebbero andare a lavoro (siccome in quelle ore la Cgil
ha indetto uno sciopero). E’ la prima testimonianza estetica
dell’incomunicabilità visiva, la quale supporterà i dialoghi mai
conclusi fra i vari personaggi, in tutto il film.
La metafora del fumo industriale è
interessante: nel film i personaggi dialogano in maniera
confusionaria; il fumo degli scarichi industriali risale in aria
formando delle volute, molto lente e pesanti da percepire; i
dialoghi dei personaggi hanno spesso un’ambizione intellettuale,
alla fine, però, ne escono solo dei giri di parole. Gli esempi sono
numerosi, anche il personaggio in apparenza più stabile
(assumendosi le responsabilità che gli competano, quantomeno in
ambito lavorativo), ovvero l’Ing. Corrado, giunge a dire: “Io
nasco a Trieste, ma la mia famiglia s’è trasferita a Bologna; da
solo ho vissuto prima a Milano, poi a Bologna, mentre adesso non
saprei dove andare”. La protagonista Giuliana (con la grande
recitazione di Monica Vitti, musa di Antonioni sia dentro sia fuori
il set, per dieci anni) pensa nella confusione di se stessa in
specie quando racconta i propri sogni. Abbiamo l’impressione che
lei non concluda un vero discorso perché si sente letteralmente in
un altro mondo.
Ricordiamo una scena in cui la
protagonista ha la testa quasi nascosta, dentro la tappezzeria del
divano: di nuovo, è la metafora del fumo industriale che,
pericolosamente, non risale per disperdersi in aria, ma rimane a
contorcersi, nel piano orizzontale del vissuto materiale. La regia
poi rinforza la nostra comprensione inconcludente di Giuliana, con
la sinestesia. La sirena di una nave mercantile va virtualmente a
perforare la testa della donna, impedendole persino di vivere. Le
onde sonore sostituiscono il fumo industriale. L’intero film è
montato per inquadrature i cui elementi tagliano continuamente se
stessi. Nella scena iniziale, ad esempio, gli operai passano da
destra a sinistra (in orizzontale), mentre Giuliana ed il figlio
Valerio s’avvicinano a noi, dalla profondità (dunque in verticale).
L’incomunicabilità visiva del film presuppone che i loro incroci
saranno solo fittizi. Il gruppo degli operai non si fermerà innanzi
a Giuliana e Valerio, o viceversa e le persone rinunceranno al
contatto reale (conoscendosi).
Più in generale, è caratteristico
che Antonioni in molti film inquadri i protagonisti a sfuggire gli
uni sugli altri. Giuliana pronuncia la sua frase sconclusionata, e
quando l’Ing. Corrado le si avvicina, lei ha già camminato oltre.
Soprattutto, nel film Deserto rosso, l’incomunicabilità
dello sfuggire ci pare insistita, per la complicità
dell’architettura industriale. Le tubature inevitabilmente seguono
un percorso a zig-zag, nel contrasto fra le pareti ed i
piani. Qualcosa di simile accade nel continuo stop and go di
Giuliana, che si riverserà sull’Ing. Corrado. Antonioni insiste
molto a mostrare che le persone si appoggiano alle pareti,
inquadrandole in diagonale, perché quelle potrebbero cadere da un
momento all’altro. Quando Giuliana ha un momento d’intimità, sia
col marito sia con l’Ing. Corrado, innanzi ai loro corpi può
comparire il più freddo e striminzito parapetto del letto. Torna la
metafora estetica del taglio, per avvertirci che la passione della
protagonista è solo momentanea.
Per il filosofo Sartre, se qualcuno
immagina, accade che la sua coscienza diventi essenzialmente
libera. Così l’io soggettivo si renderebbe del tutto autonomo,
rispetto all’alterità. Invece, se la coscienza stesse a percepire,
le mancherebbe la sua libertà. Un’opera d’arte si pone in via
certamente materiale, così, noi ci aspetteremmo che essa vada
unicamente percepita. Invero, l’arte per Sartre sarà fruita con la
sola facoltà dell’immaginazione. Sappiamo che lui segue un
indirizzo filosofico di tipo essenzialmente esistenzialistico. Ciò
significa che tutta la realtà si fa come tale solo in quanto essa
appare nella coscienza d’un certo (singolo) uomo. L’io soggettivo
che definisce una qualunque persona va costituendo ogni ente del
mondo. La realtà si fa come tale perché un certo individuo ne ha la
sua coscienza.
Questa conclusione definisce il
tema filosofico della cosiddetta intenzionalità, che ciascuna mente
umana porta sempre con sé. Sartre spiega che noi abbiamo
inevitabilmente coscienza di qualcosa. Ciò vale sia per gli enti di
tipo astratto, sia per quelli più semplicemente materiali. La
necessità che noi ammettiamo il medium del di spiega il classico
tema fenomenologico dell’intenzionalità. Però, nell’opera
d’arte resta accettato che nessuno ha coscienza di quella in via
solo percettiva. Un fenomeno estetico ha pure una dimensione
concretamente materiale. Questa va intrinsecamente a richiamare un
atto intenzionale, il quale risulta di stampo sempre
immaginario.
Nel film
Il
deserto rosso, sarebbe facile limitarsi a
percepire il suono della nave mercantile. Durante la scampagnata
dei dirigenti industriali, nella casetta del pescatore, solo
Giuliana ha voglia d’immaginarlo, in maniera creativa. La sirena
della nave letteralmente si trasferisce dentro la testa della
donna. Giuliana è quasi un’esistenzialista, se in lei la realtà
circostante deriva dall’apparenza della sua immaginazione. Nel
contempo, la regia insiste a visualizzare il posizionamento della
scenografia, più che i singoli oggetti. L’Ing. Corrado cerca
d’avvicinarsi a Giuliana, ma lei ha già camminato oltre. Così, noi
vediamo solo il posizionamento del primo sulla seconda. Le tubature
industriali si percepiscono per i loro incroci spezzati (a
zig-zag). Di nuovo, conta il loro posizionarsi. E’ il problema
dell’intenzionalità, se parliamo di filosofia. La scelta
fotografica di colorare alcuni elementi col rosso spinge
l’osservatore ad isolarli, nel loro ipotetico calore.
Presumibilmente, quelli avrebbero dovuto simboleggiare la rinascita
(la rivitalizzazione) dal grigio mondo industriale. In realtà, i
personaggi del film alla fine continueranno ad evitarsi. Giuliana
non rinasce nemmeno sognando la sabbia rosa dell’isola Budelli, a
La Maddalena.
Per Sartre, la coscienza di chi
concettualizza può conoscere (grazie alla sua riflessione
intellettuale) quella che, inizialmente, aveva soltanto percepito
qualcosa. Invece, l’immaginazione si definisce come tale quando una
persona prova a capire unicamente la mera intenzionalità. La
coscienza di chi fantastica si delinea sempre riguardando
l’inevitabilità della mente che si posizioni. Con l’immaginazione,
succede che il fenomeno estetico venga inteso unicamente perché lo
si deve intendere. Tramite l’opera d’arte, la coscienza
contemplativa si riferisce solo al suo inevitabile farsi di se
stessa. Non ci sono altri rimandi.
Con la fantasticheria, la coscienza
si fa del tutto autonoma, attiva e spontanea. Di contro,
percependo, accade che noi restiamo passivamente condizionati dal
mondo in cui ci troviamo, tramite una precisa situazione
esistenziale. Per Sartre, l’immaginazione si darà avendo la
coscienza d’un fenomeno esteriore, che sfugga sia alla sensazione
sia al pensiero. Innanzi all’opera d’arte, l’intenzionalità è
letteralmente di tipo impercettibile. Ma essa non può unicamente
(essenzialmente) riflettere. Ciò avviene dal momento che
l’immaginazione si pone in via sempre esteriore, laddove il
pensiero si trova necessariamente interiorizzato. L’intenzionalità,
di stampo appena impercettibile, per Sartre va a nientificare la
più immediata sensibilità del corpo. Con l’opera d’arte, il
contemplatore sa finalmente che la coscienza è unicamente di se
stessa. Allora immaginare significa intendere con la mente un
oggetto che risulti solo posizionato dall’Io. Qui la coscienza non
si fa più condizionare dal piano della realtà materiale (che invece
va sempre percepita). L’immaginazione diventa per Sartre una vera e
propria forma di negazione universale, ossia tanto del mondo
concreto quanto di ciascuna riflessione intellettuale.
Nel film Deserto rosso, la
protagonista Giuliana all’improvviso chiede all’Ing. Corrado se lui
vota a destra oppure a sinistra. Lui rilancia: quella prima domanda
ne aprirebbe una seconda, anche più importante: “Credi o non credi
in Dio?”. L’Ing. Corrado ritiene che in ogni caso loro siano
innanzi ad “un problema troppo grande da risolvere”. E’ il momento
in cui la riflessione intellettuale si fa inutile, in mezzo ad una
natura (la materia del mondo) che si percepisce come squamosa e
viscida, complici gli scarichi industriali. Nel film Deserto
rosso, la battuta del “Credi o non credi in Dio?” si risolve
forse laicamente nel “Mi pare un problema che noi possiamo solo
porre”. Alla nientificazione degli affetti fra le persone,
s’accompagna la nientificazione dell’ambiente.
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