La ricerca della
felicità è uno di quei film che ha goduto di un enorme
successo nel 2006, anno d’uscita, e anche in quelli a venire,
riuscendo a colpire il cuore degli spettatori di tutto il
mondo.
Questo film non fa altro che
raccontare una storia vera e narrare come non ci si debba mai
abbattere durante la ricerca della propria felicità, cercando di
combattere tutti gli ostacoli che si possono trovare sul
cammino.
Ecco, allora, dieci cose da
sapere su La ricerca della felicità.
La ricerca della felicità
film
1. I senzatetto del film
erano reali.La ricerca della felicità racconta i
giorni di intensa povertà provati da Chris Gardner
e da suo figlio, costretti a vivere nella zone più povere di San
Francisco. In queste scene, i senzatetto che si vedono sono
autentici e, per apparire nel film, sono stati pagati più di otto
dollari l’ora e gli sono stati offerti i pranzi. Per alcuni di loro
quelli erano i primi soldi che non vedevano da tanto tempo.
2. Sono stati assunti dei
professionisti. In La ricerca della felicità, il
personaggio di Will Smith gioca spesso al cubo di Rubik. Per
far sì che l’attore fosse in grado di risolverlo in meno di due
minuti, sono stati ingaggiati i campioni
Tyson Mao, Toby Mao e
Lars Petrus che gli hanno insegnato le tecniche giuste.
3. Muccino è stato voluto
da Will Smith. Sembra che l’attore americano, che per
La ricerca della felicità è stato anche produttore del
film, oltre che esserne il protagonista, abbia scelto Gabriele Muccino per la regia dopo aver visto
L’ultimo bacio (2001) e Ricordati di me
(2003).
La ricerca della felicità
streaming
4. Il film è disponibile
per lo streaming digitale. Chi volesse vedere o rivedere
La ricerca della felicità, è possibile farlo grazie alla sua
presenza sulle diverse piattaforme di streaming legale digitale,
come Rakuten Tv, Chili, Infinity e Netflix.
La ricerca della felicità
frasi
5. Sono molte le frasi
indimenticabili. Non sono tanti i film che riescono ad
entrare nell’immaginario collettivo delle persone e che riescono a
rimanere ancorati anche con poche frasi. Questo, però, è il caso de
La ricerca della felicità ed ecco qualche esempio:
Hey! Non permettere mai a nessuno di dirti che non sai fare
qualcosa. Neanche a me. Ok? Se hai un sogno tu lo devi proteggere.
Quando le persone non sanno fare qualcosa lo dicono a te che non la
sai fare. Se vuoi qualcosa, vai e inseguila. Punto.
(Chris)
Fu in quel momento che cominciai a pensare a Thomas Jefferson,
e alla dichiarazione d’indipendenza, quando parla del diritto che
abbiamo alla vita, libertà e ricerca della felicità, e ricordo di
aver pensato, come sapeva di dover usare la parola ricerca. Perché
la felicità è qualcosa che possiamo solo inseguire, e che forse non
riusciremo mai a raggiungere, qualunque cosa facciamo, come faceva
a saperlo?! (Chris)
Sono stato seduto là fuori per mezz’ora cercando di trovare una
storia per giustificare il fatto di essere venuto qui vestito in
questo stato. E ho cercato di pensare a una storia in grado di
dimostrare delle qualità che sono sicuro voi apprezziate qui, come
l’essere volenterosi, essere precisi, avere un obiettivo, fare
gioco di squadra, ma non m’è venuto niente in mente.
(Chris)
Uh però… Senta avrei due domande da farle. Che lavoro fa? E
come si fa? (Chris)
Sei un bravo papà. (Chris Jr.)
La ricerca della felicità
libro
6. Il film si basa su un
libro di memorie.La ricerca della felicità
racconta la storia vera di Chris Gardner, autore dell’omonimo libro
autobiografico, pubblicato nel maggio del 2006. È proprio questo
libro ad essere la base del film e raccontare la sua ricerca per la
felicità.
7. Il titolo è volutamente
sbagliato. Sia nel libro che nel film, il titolo originale
ha un errore voluto. In The Pursuit of Happyness la y è
voluta per il semplice fatto che questa parola appariva scritta
alla stessa maniera sul muro esterno dell’asilo nido di
Chris Jr.
8. Alcuni elementi sono
stati cambiati. Il film, che racconta una storia vera, si
basa anche su un omonimo libro e presenta dei fatti diversificati.
Per esempio, il tirocinio di Gardner non era non pagato: in realtà,
egli riceveva uno stipendio abbastanza modesto. Tra le altre
differenze, il protagonista e la madre del figlio non si sono mai
sposati, così come l’età del figlio che, nel libro, era un infante,
mentre nel film ha cinque anni.
La ricerca della felicità
cast
9. Il vero Chris Gardern
appare nel film. Alla fine de La ricerca della
felicità, è possibile notare il cameo del vero Garden. Nella
fattispecie, svolge il ruolo di un passante, vestito con un
completo, mentre incrocia lo sguardo di Will Smith.
10. Un rapporto tra padre e
figlio non solo di finzione. In questo film viene
raccontato anche il rapporto che esiste tra Chris e il figlio Chris
Jr. di soli cinque anni. In questo caso, il legame tra i due era
anche reale, dato che i protagonisti erano proprio Will Smith e suo
figlio Jaden.
Andrà in onda in prima serata su
Rete 4 il film La ricerca della
felicita’ con protagonista Will
Smith.
Il film diretto da Gabriele Muccino
racconta Christopher Gardner (Will Smith), rappresentante di
apparecchiature mediche che rimane senza lavoro. Abbandonato dalla
moglie e con un figlio a carico (Jaden Smith) e’ costretto a vivere
da barbone. La sua tenacia e la sua forza di volonta’ lo porteranno
a raggiungere la felicita’, anche per pochi minuti?
È ispirato alla vita di Chris
Gardner, imprenditore milionario, che durante i primi anni ottanta
visse giorni di intensa povertà, con un figlio a carico e senza una
casa dove poterlo crescere. Egli appare nella scena finale del
film, in un cameo, mentre attraversa la strada in giacca e
cravatta, incrociando lo sguardo con Will Smith.
Il regista Gabriele Muccino fu
scelto da Will Smith, produttore del film, dopo aver visto
L’ultimo bacio, segnalatogli dalla collega Eva Mendessul set
di Hitch.
Il film ha riscosso un notevole
successo negli USA, dove ha incassato 162 milioni di dollari. In
Italia ha incassato 15,5 milioni di euro e un totale di circa
307 milioni di dollari in tutto il mondo.
La religiosa è un
film del regista francese Guillaume Nicloux che
uscirà nelle sale italiane a partire dal prossimo 27 giugno. Tratto
dall’omonimo romanzo di Denis Diderot, La religiosa narra la
storia di una giovane donna che lotta e si batte per non sottostare
alle regole e alle imposizioni di una società, quella francese di
metà ‘700, in cui alle donne era preclusa qualsiasi possibilità di
arbitrio.
In La religiosa la
giovane e graziosa Suzanne (Pauline Etienne) è
l’ultima di tre figlie di una nobile famiglia in precarie
condizioni economiche. Dotata di un naturale talento musicale e di
una solida e convinta fede religiosa Suzanne viene, contro la sua
volontà, destinata ad una vita monastica, non potendo la famiglia
accasare anche lei come le due sorelle maggiori. Non avvertendo
nessuna vocazione, Suzanne si ribellerà da subito a quel tipo di
vita a cui si sente condannata ma dovrà affrontare e subire
innumerevoli prove ed umiliazioni a cui le gerarchie ecclesiastiche
la sottoporranno per farla recedere dal suo intento di libertà.
La religiosa, il film
Sostenuta da una fede solida,
convinta e sincera, pura e disincantata, ma priva di una
particolare vocazione tonacale, Suzanne non accetta di rinunciare
alla propria vita e alla possibilità di conoscere il mondo.
Sulla strada che separa Suzanne dal
suo intento di rinunciare ai voti, la ragazza incontrerà personaggi
diversi che in modo diverso cercheranno di farla recedere da tale
proposito: dalla paziente ed affettuosa madre superiora Madame de
Moni (Francoise Lebrun), che tenterà con la
dolcezza di risvegliare nella ragazza quella vocazione che essa
nega di avere, alla sadica e spietata Suor Christine
(Louise Bourgoin) che, succeduta a Madame de Moni,
sottoporrà Suzanne a terribili umiliazioni. Quindi, una volta
trasferita al convento di St, Eutrope, Suzanne farà la conoscenza
di una nuova madre superiora (Isabelle
Huppert) che maturerà verso la ragazza una
predilizione morbosa che presto si trasformerà in una disperata ed
incontrollabile passione.
La
religiosa è un film che parla di fede ma sopratutto di
libertà, la libertà di essere padroni della propria vita e delle
proprie scelte; un film che presenta una società patriarcale in cui
alle donne era negato questo diritto di scelta sia che fossero
destinate al velo monacale o ad un matrimonio di convenienza.
Guillaume Nicloux presenta un film molto intenso e
carico di tensione emotiva, concentrandosi volutamente sui tormenti
interiori di una giovane donna che non accetta di vivere una vita
non sua e che risalta, in un ambiente ecclesiastico, per la propria
religiosità sincera e pura, ma che vuole vivere in modo onesto.
Un film che tratta temi attuali o
attualizzabili in una società, quella contemporanea, in cui forse
le donne non hanno ancora compiuto quel percorso di emancipazione
totale che può permettere loro una reale libertà di scelte.
Indubbiamente le tematiche narrative dovettero apparire alquanto
audaci e sconvenienti alla Francia di metà ‘700 quando Diderot
scrisse questo libro, figlio di una nuova ventata culturale
illuminista di cui l’autore è tra i principali esponenti.
La
religiosa è un film ben diretto da Nicloux che ha
curato con mirabile precisione ogni dettaglio scenografico e
costumistico, ottenendo un’ambientazione estremamente fedele ed
efficace; una regia varia e funzionale che in determinate sequenze
opta per la telecamera a mano in modo da conferire, volutamente, un
maggiore realismo e coinvolgimento emotivo da parte dello
spettatore.
Ottime interpreti tra cui spicca
l’interpretazione particolarmente profonda della giovane
protagonista Pauline Etienne e della ben più
esperta Isabelle Huppert straordinaria nell’impersonare una madre
superiora divorata da una passione inappagabile e contraria al
proprio ruolo di guida spitituale.
I thriller di spionaggio sono da
sempre un genere di film particolarmente apprezzati dal grande
pubblico, fondamentalmente per il loro possedere, nei casi
migliori, delle storie particolarmente complesse e dai risvolti
imprevedibili. Due regole sono sempre valide in questo tipo di
film, ovvero “niente è come sembra” e “non fidarsi di
nessuno”. Questi stessi principi sono alla base anche di
La regola del sospetto, titolo del 2003
scritto da Roger Towne, Kurt Wimmer e
Mitch Glazer e diretto da Roger
Donaldson, celebre anche per altri titoli simili come
Senza via di scampo, La rapina perfetta e
The Novembre Man.
Costato circa 46 milioni di dollari,
La regola del sospetto si affermò come un buon successo al
box office, arrivando ad un incasso complessivo di oltre 100
milioni di dollari a livello globale. Ciò a riprova di come questo
genere di film attragga sempre molto pubblico al cinema,
specialmente se nella pellicola vi recitano celebri attori come in
questo caso. Differente è invece stata l’accoglienza della critica
e della CIA. Agenti di quest’ultima, infatti, hanno definito il
film molto poco realistico ma comunque godibile. Il film di
Donaldson è dunque un titolo che si prende le sue libertà, offrendo
però buon intrattenimento.
Per gli appassionati del genere è
dunque un titolo da riscoprire, sia per la sua trama non sempre
prevedibile sia anche solo per gustarsi le interpretazioni di due
celebri attori, tra cui un premio Oscar, i quali impreziosiscono
non poco l’intera pellicola. Prima di intraprendere una visione del
film, però, sarà certamente utile approfondire alcune delle
principali curiosità relative a questo. Proseguendo qui nella
lettura sarà infatti possibile ritrovare ulteriori dettagli
relativi alla trama e al cast di
attori. Infine, si elencheranno anche le principali
piattaforme streaming contenenti il film nel
proprio catalogo.
La regola del sospetto: la
trama del film
Protagonista del film è
James Clayton, giovane genio dell’informatica che
viene notato dal reclutatore della CIA Walter
Burke, il quale lo convince ad entrare a far parte
dell’Agenzia. Durante i duri mesi di addestramento passati in un
luogo isolato, che gli appartenenti all’organizzazione chiamano “la
Fattoria”, James imparerà due fondamentali regole del mestiere,
ossia “niente è ciò che sembra” e “non fidarsi di
nessuno“, dimostrando di essere uno dei migliori aspiranti al
posto di agente segreto, almeno secondo le necessità di Walter
Burke. Dopo un test apparentemente fallito, James viene dunque
contattato da quest’ultimo, che gli affida la sua prima ed
importante missione.
James dovrà investigare sulla
collega Layla e sventare una possibile fuga di
notizie. Secondo Burke, infatti, la donna è una spia infiltratasi
all’interno dell’agenzia e intenzionata a copiare Ghiaccio Nove, un
potente programma informatico top secret. Data la sempre crescente
attrazione di James nei confronti di Layla, però, il giovane si
ritroverà ben presto invischiato fra sospetti, pericoli e dubbi che
lo porteranno a dubitare dello stesso Burke. Deciso ad andare fino
in fondo alla vicenda, James comprenderà quanto sia vero il
principio di non doversi fidare di nessuno.
La regola del sospetto: il
cast del film
Ad interpretare l’agente James
Clayton vi è l’attore Colin Farrell,
il quale ha raccontato di essersi preparato al ruolo incontrando
veri agenti della CIA. Parlando con loro ha potuto non solo
apprendere meglio il ruolo dell’agente, ma ha anche potuto imparare
anche alcuni segreti del mestiere. Farrell ha poi apportato al
personaggio anche alcune sue idee, come quella di fargli dire,
durante un tentativo di seduzione, la battuta “sono appena
uscito di galera”. Una frase che l’attore ha dichiarato di
aver realmente usato in una circostanza simile. Inoltre, le foto
che nel film ritraggono James e il padre sono vere foto di Farrell
con suo padre.
Accanto a lui, nel ruolo del mentore
e agente CIA Walter Burke vi è invece il premio Oscar Al Pacino, il
quale accettò il ruolo poiché interessato dagli aspetti più
controversi e meno ortodossi. Ad interpretare Layla, l’agente su
cui James è chiamato a investigare, vi è invece Bridget
Moynahan. L’attrice è nota principalmente per aver
recitato in film come Le ragazze del Coyote Ugly,Io, robot e nei film
John Wick e John Wick – Capitolo 2.
Al film partecipano anche gli attori Gabriel Macht
nel ruolo di Zack e Kenneth Mitchell in quelli di
Alan.
La regola del sospetto: il
trailer e dove vedere il film in streaming e in TV
È possibile fruire di La
regola del sospetto grazie alla sua presenza su
alcune delle più popolari piattaforme streaming presenti oggi in
rete. Questo è infatti disponibile nei cataloghi di Rakuten
TV, Chili Cinema, Google Play, Apple iTunes, Now, Amazon Prime Video e Tim Vision. Per
vederlo, una volta scelta la piattaforma di riferimento, basterà
noleggiare il singolo film o sottoscrivere un abbonamento generale.
Si avrà così modo di guardarlo in totale comodità e al meglio della
qualità video. Il film è inoltre presente nel palinsesto televisivo
di sabato 8 aprile alle ore 21:00
sul canale Iris.
Gary Webb è un autorevole
giornalista che pubblica una serie di articoli in cui si dimostra
il coinvolgimento della CIA nel traffico di
droga dal Nicaragua alla California, i cui
profitti servivano per armare i ribelli Contras. Ma nonostante
gli avvertimenti di boss della droga e agenti della CIA, Webb
continua ad indagare facendo cominciare una campagna diffamatoria
che colpirà anche la sua famiglia.
Michael Cuesta
dirige LaRegola del
gioco – o Kill the
Messenger – film tratto dalla storia vera di Cary
Webb. Se il thriller giornalistico (o meglio d’inchiesta americano)
è noto al mondo cinematografico, valorizzato da pellicole quali
Tutti gli uomini del Presidente, o tratto
da romanzi quali Rapporto Pellican per
arrivare al recentissimo State of Play.
La storia del regista statunitense usa il consueto registro visivo
(pulito e di servizio) solo per i primi 40 minuti del film dove i
titoli di testa sono un mezzo per introdurre l’argomento trattato e
di conseguenza delineare il personaggio e la storia. Quindi il
punto di vista è a servizio dello spettatore che apprende la verità
insieme a Webb, immedesimandosi con le sue reazioni e i suoi
pensieri.
Ma non appena vengono allargati
“gli orizzonti geografici” la storia si caratterizza di un sistema
più grande che ci mostra l’inadeguatezza e la tensione del nostro
giornalista, caratterizzando intere sequenze con camera a mano che
dai primi piani seguono le ansie del reporter che oltre ad
enfatizzare il leitmotiv ridimensionano la figura dell’idealismo in
una chiave meno eroica e più umana, meno impavida e più consapevole
dei rischi e quindi dando la possibilità di far divenire il
protagonista attivo non solo sulla storia ma anche emanatatene,
senza risparmiare le varie riflessioni sul sistema giornalistico
contemporaneo, dal rapporto con i poteri forti fino alle figure
della redazione.
Cuesta riesce quindi a raccontare
obiettivamente la storia, senza cercare facili soluzioni o cliché e
riportando Jeremy Renner al dramma che lo ha traghettato
al successo prima che venisse fagocitato dai vari franchising
cinematografici. Quindi oltre alle ellissi e iperbole la storia
riesce ad emozionare lo spettatore conservando uno sguardo critico
su una storia controversa che non è mai stata chiarita a seguito
degli scandali del Presidente Clinton e riguardo alle reali sorti
di Webb.
Seppur rimanga un racconto che
vacilla nello stereotipo, come dimostra la scelta del cast:
Barry Pepper nel ruolo del procuratore di stato,
Andy Garcia in quello del
narcotrafficante-gangster sudamericano, Ray Liotta
in quello “dell’eminenza grigia” che vive lontano dal sistema dopo
averlo costruito, Michael Sheen nel ruolo di un
mentore “anonimo”, Rosemarie DeWitt in quello
della moglie remissiva ed infine Paz Vega nella
“femme fatale”. Anche il finale, affrettato e brusco, trova il suo
scopo, far riflettere lo spettatore e persino invogliarlo a
informarsi sull’argomento.
La regista di
TwilightCatherine
Hardwicke ha detto di non ricordare la maggior
parte delle attrici che hanno fatto il provino per la parte di
Bella Swan nella serie
di filmTwilight.
“Vedi, non so se sono
effettivamente venuti a trovarmi“, ha dichiarato
Hardwicke. “Non sono
sicuro. Non potevo garantirlo. Molto
presto, avevo gli occhi puntati su Kristen [Stewart]. Appena
ho visto Into the Wild ho pensato: “Penso che sia
lei”. Quindi potrebbero aver visto tutte queste altre persone,
ma poi ero semplicemente concentrato come il laser, “La
voglio”. Non appena l’ho incontrata e sono andato là fuori e
ho trascorso quel tempo quel fine settimana, ho pensato: “Ce l’ha
fatta”. Nessuna stronzata, non agirà mai in modo eccessivo, ha
quell’angoscia… ovviamente, il suo viso è
luminoso.’ La macchina da presa, puoi
riprendere qualsiasi cosa e lei è fantastica.
Di cosa parlava Twilight?
“La studentessa liceale
Bella Swan (Kristen
Stewart), sempre un po’ disadattata, non si aspetta
che la vita cambi molto quando si trasferisce dalla soleggiata
Arizona al piovoso stato di Washington“, si legge nella
sinossi del primo film. “Poi incontra Edward Cullen
(Robert
Pattinson), un adolescente bello ma misterioso i cui
occhi sembrano scrutare direttamente nella sua anima. Edward è
un vampiro la cui famiglia non beve sangue, e Bella, lungi
dall’essere spaventata, inizia una pericolosa storia d’amore con la
sua anima gemella immortale.
Il co-creatore de La Regina
degli Scacchi, Allan Scott, ha ottenuto i
diritti del libro e ha iniziato a scrivere una sceneggiatura per la
serie Netflix quasi trent’anni fa, e sembra che il suo incontro con
Heath Ledger fu un momento fondamentale per il
progetto. Scott infatti scelse proprio Ledger come regista per il
film, che avrebbe dovuto essere quindi l’esordio alla regia
dell’attore e avrebbe dovuto avere Ellen Page nei panni della
protagonista.
“[Heath Ledger] ne era
appassionato; era un giovane intenso e interessato e fui subito
attratto da lui. Abbiamo parlato e parlato del progetto al
telefono, e poi alla fine siamo riusciti a incontrarci.” ha
dichiarato Scott.
Secondo The Independent, il
piano originale prevedeva che l’attore facesse il suo debutto alla
regia alla fine del 2008 con The Queen’s Gambit.
Sarebbe stato un progetto intrigante e di alto profilo per Heath Ledger dopo la sua interpretazione di
Joker ne Il Cavaliere Oscuro. Come sappiamo, purtroppo, le cose
sono andate diversamente, visto che Heath Ledger si è spento a
gennaio del 2008.
Il film mai realizzato su La Regina degli
Scacchi
“Ho scritto bozza dopo bozza e
lui ha dato il suo contributo – ha continuato Scott – ci siamo
incontrati diverse volte a New York e qui, dove trascorreva molto
del suo tempo. Eravamo arrivati al punto in cui avevamo inviato
la sceneggiatura a Ellen (Page). Heath era pieno di idee per il
resto del cast, principalmente dalla sua lista di amici attori.
Avevamo intenzione di fare un film alla fine del 2008.”
Come sappiamo il film non è stato
mai realizzato, ma la miniserie sta avendo un successo travolgente
su Netflix, dove detiene il primo posto dei titoli più visti da
oltre un mese.
Oggi Netflix e Shondaland hanno svelato il
trailer, il poster e le nuove immagini di La regina
Carlotta: una storia di Bridgerton,
il prequel dell’omonima serie.
La regina Carlotta: una
storia di Bridgerton, la trama
Dedicato all’ascesa al
potere della regina Carlotta, questo prequel dell’universo
Bridgerton racconta come il matrimonio della giovane regina con il
Re Giorgio abbia rappresentato non solo una grande storia d’amore,
ma anche un cambiamento sociale, portando alla nascita dell’alta
società inglese in cui vivono i personaggi di Bridgerton.
La regina
Carlotta: una storia di Bridgerton è una miniserie
ideata e scritta da Shonda
Rhimes, diretta e prodotta da Tom Verica, che ha come
produttore esecutivo Betsy Beers. Ne Cast figurano Golda Rosheuvel
(regina Carlotta), Adjoa Andoh (Lady Danbury) e Ruth Gemmell (Lady
Violet Bridgerton) riprendono i loro ruoli di Bridgerton in questa
miniserie. India Amarteifio (Line of Duty) interpreta la regina
Carlotta da giovane, Michelle Fairley (Gangs of London) la
principessa Augusta, Corey Mylchreest (The Sandman) il giovane re
Giorgio, e Arsema Thomas la giovane Agatha Danbury. Nel cast anche
Sam Clemmett (Harry Potter e la maledizione dell’erede – West End
and Broadway, The War Below) nei panni del giovane Brimsley,
Freddie Dennis (The Nevers) in quelli di Reynolds e Richard
Cunningham (The Witcher) in quelli di Lord Bute. Infine, Tunji
Kasim (Nancy Drew) interpreta Adolphus, Rob Maloney (Casualty) il
medico reale, Cyril Nri (Cucumber) Lord Danbury, e Hugh Sachs
(Bridgerton 1 e 2) Brimsley (da anziano).
Netflix ha rilasciato il primo teaser
trailer di La regina Carlotta: Una storia di Bridgerton,
l’imminente prequel del popolare dramma romantico dello
streamer. La serie limitata sarà disponibile per lo streaming
il 4 maggio. Il video mette in luce il matrimonio combinato tra la
regina Charlotte e il re Giorgio, la cui storia d’amore cambierà il
mondo. Prende in giro anche l’ascesa al potere senza
precedenti di Charlotte mentre si assicura con sicurezza la sua
posizione.
Questo prequel dell’universo di
Bridgerton
è incentrato sull’ascesa al potere e alla fama della regina
Carlotta. La serie racconta come il matrimonio della giovane regina
con re Giorgio sia alla base di una grande storia d’amore e di un
cambiamento sociale grazie al quale è nato il mondo dell’alta
società di Bridgerton.
La serie limitata si basa sulle
origini della figura storica Queen Charlotte. Sebbene la serie
sia incentrata sull’ascesa e sulla vita amorosa di una giovane
regina Charlotte, si concentrerà anche su Violet Bridgerton e Lady
Danbury.
“Incentrato sull’ascesa alla
ribalta e al potere della regina Charlotte, questo prequel in
versi di Bridgerton racconta la storia di come il matrimonio della
giovane regina con re George abbia scatenato sia una grande storia
d’amore che un cambiamento sociale, creando il mondo del Ton
ereditato dai
personaggi di Bridgerton ”,
si legge nel logline.
Nel cast anche India Amarteifio
(Line of Duty) nei panni di una giovane regina
Charlotte, Arsema Thomas nei panni della giovane Lady Agatha
Danbury, Corey Mylchreest (Sandman) nei panni di
un giovane re Giorgio e la veterana di Game of Thrones
Michelle Fairley nei panni della principessa
Augusta.
Il cast aggiuntivo include Sam
Clemmett ( Harry Potter e la maledizione
dell’erede ) nei panni di Young Brimsley, Richard
Cunningham ( The Witcher ) nei panni di
Lord Bute, Tunji Kasim ( Nancy Drew )
nei panni di Adolphus, Rob Maloney
( Casulty ) nei panni del dottore reale,
Cyril Nri ( Cucumber) ) come Lord
Danbury, e Hugh Sachs ( Bridgerton
Stagioni 1 e 2) come Brimsley (vecchio). La
regina Carlotta: Una storia di Bridgerton è
stato creato e scritto da Shonda Rhimes, che è anche la showrunner.
I produttori esecutivi del prequel sono Rhimes, Betsy Beers e Tom
Verica.
Dopo il successo
travolgente di Bridgerton,
non ha sorpreso nessuno che Netflix, mentre si appresta a realizzare
altre sei stagioni della serie “regolare” tratta dai romanzi di
Julia Quinn, abbia deciso di espandere l’universo
della serie ucronica con uno spin off ambientato nel passato, e che
racconta le origini de la Regina Carlotta.
Il punto di maggiore
curiosità e interesse della serie originale era proprio la
ricchezza etnica dell’alta società inglese nel periodo della
Reggenza. I più attenti, ricorderanno che, nella prima stagione, il
personaggio di Lady Danbury faceva un commento sibillino in merito
al fatto che “quelli come lei”, ovvero quelli di un etnia diversa
da quella caucasica, dovevano i loro privilegi alla scelta del re
di sposare proprio Charlotte, una donna di colore. Ebbene, il cuore
di La regina Carlotta: una storia di Bridgerton è
proprio questo, ovvero una spiegazione delle ragioni che hanno
portato al matrimonio reale e le motivazioni che hanno spinto la
giovane e ribelle Carlotta ad abbracciare il suo ruolo di Regina e
di moglie.
La regina Carlotta: una storia di
Bridgerton, la trama
La storia, dunque, si
svolge prima degli eventi della serie regolare e ci presenta una
giovanissima Carlotta, nobile delle colonie, che viene portata alla
corte di Re Giorgio per sposare l’erede al trono e diventare la
nuova Regina. La regina madre, però, mette subito in chiaro una
cosa: questo matrimonio è un grande esperimento sociale di cui la
Corona ha bisogno per tenere legato a sé tutto il Regno e tutti i
suoi abitanti. Un matrimonio politico dunque, al quale Carlotta è
costretta a sottostare. Quello che però la giovane donna non sa è
che dietro alla mossa politica, che le è ben chiara, c’è un altro
grande e oscuro segreto che la Corona tiene nascosto a tutto il
Regno e che, se dovesse essere portato alla luce, causerebbe il
crollo dell’Impero britannico.
La regina
Carlotta: una storia di Bridgerton è un altro, l’ennesimo
in questi anni, esempio di come le Proprietà Intellettuali possano
viaggiare da forma a medium, conservando la loro anima e di come un
mondo si possa espandere, forzando i confini del mezzo con cui
viene raccontato. Se con Bridgerton,
Shonda
Rhimes ha preso il lavoro di Julia Quinn e lo ha
trasformato in una serie di sicuro successo, con la serie spin-off
prequel, il processo è contrario: immaginata e scritta da Rhimes,
la storia diventerà un libro firmato sempre da Quinn che
arricchirà, anche in campo letterario, il mondo di Bridgerton.
E in effetti non si
tratta soltanto di un arricchimento in meri aspetti di trama e di
storie che vengono raccontate, ma La regina Carlotta: una
storia di Bridgerton costituisce anche una nuance in più
sulla palette delicata, romantica, appassionata e divertente di
Bridgerton. La nuova serie si concede infatti
anche dei toni più oscuri e degli argomenti molto importanti e
attuali che vengono affrontati con serietà anche se mantenendo al
centro un cuore romantico e commosso, che non tradisce la
tradizione di Shondaland. Rhimes si dimostra
infatti una grande narratrice che riesce a modellare la soap opera
come nessun altra. Complice anche uno svolgimento narrativo coeso,
essenziale, sviluppato su due piani temporali nell’arco di sei
episodi ricchi e densi che non potranno fare altro che tenere
altissima l’attenzione degli spettatori che avevano già amato
Bridgerton.
La regina Carlotta: una storia di
Bridgerton, il cast
Oltre a Golda
Rosheuvel, Adjoa Anode e Ruth Gemmen che
riprendono i ruoli rispettivamente della Regina Carlotta adulta, di
Lady Danbury adulta e di Lady Bridgerton, che si muovono nella
linea temporale del futuro (il presente della serie regolare),
La regina Carlotta: una storia di Bridgerton vede
protagonisti India Amarteifio, nei panni della
giovane Carlotta, Corey Mylchreest in quelli di Re
Giorgio, Arsema Thomas, nel ruolo di una
irresistibile giovane Lady Danbury e soprattutto Michelle
Fairley nei panni austeri della Principessa Augusta, madre
del Re e decisa a proteggere suo figlio a tutti i costi.
La serie paga il giusto
prezzo a tutto ciò che in questo momento storico va raccontato:
dall’attenzione alla malattia mentale, all’integrazione etnica, al
ruolo della donna rispetto al patriarcato e soprattutto a come la
donna sia, anche in condizioni avverse, una creatura piena di
risorse e di capacità, tali che le permettono di sopravvivere in
qualsiasi situazione. La regina Carlotta: una storia di
Bridgerton è anche però un genuino omaggio all’amore che
trionfa su tutto e a come la dedizione e la forza di volontà
possano, fino a un certo punto, vincerete qualsiasi difficoltà. Lo
spin-off di Bridgerton si rivela, proprio come le due stagioni
già disponibili della serie regolare, una storia d’amore che nasce
da presupposti insoliti e ostili e che, in maniera forse troppo
ingenua, trionfa, con un finale emozionante e buffo allo stesso
tempo.
Carissimo lettore, la serie
spin-off di Bridgerton,
La regina Carlotta: Una storia di Bridgerton (Queen
Charlotte: A Bridgerton Story, la
nostra recensione), esplora la donna sotto la corona.
Da giovane donna, interpretata da India Amarteifio, il passato
illumina le sue lotte come nuova monarca e la ricerca della sua
voce, aggiungendo un contesto alla regina del presente,
interpretata da Golda Rosheuvel, per quanto riguarda la sua attuale
fissazione di assicurare la sua linea di famiglia.
Il corso del vero amore non scorre
mai liscio e, alla fine della stagione di sei episodi, il pubblico
vede come la sua storia con Re Giorgio III (Corey
Mylchreest) sia una guerra che lei continua a combattere
sia che stia con lui sia che si separino. Senza ulteriori indugi,
vediamo dove finiscono Charlotte e la sua corte alla fine della
stagione.
Charlotte e George si nascondono
insieme dal cielo
Dopo essere intervenuta e aver
allontanato il Dr. Monro (Guy Henry), Charlotte si
impegna a prendersi cura del benessere di George. Inizialmente,
George cerca di allontanarla, ma Charlotte si oppone perché sa che
lui la ama. Quando finalmente lui ammette di amarla disperatamente,
i due tornano su un terreno solido, protetto dal loro amore.
Sebbene all’inizio George abbia dei
giorni positivi, come essere al fianco di Charlotte alla nascita
del figlio, cade anche in alcuni giorni negativi, come quando non
riesce a scendere dalla carrozza per rivolgersi al Parlamento.
Invece di sentirsi frustrata con George, Charlotte lo accoglie con
compassione. Lo trova sotto il letto e va a sdraiarsi sotto il
letto con lui. George cerca di dirle che non può darle il futuro
che merita, ma lei gli assicura che insieme sono completi.
Invece di andare in Parlamento,
Charlotte consiglia a George di portare il Parlamento da lui,
organizzando un ballo a Buckingham House per festeggiare il figlio.
George inizia a tremare mentre stanno per uscire, ma Charlotte lo
tranquillizza tenendogli la mano, dicendogli di tenere gli occhi su
di lei e ricordandogli che ci sono solo lui e lei.
Il ballo è un successo, al punto
che la principessa Augusta (Michelle Fairley)
ringrazia Charlotte per aver reso suo figlio davvero felice.
Charlotte ha ora il controllo della situazione e Augusta si è
ufficialmente ritirata dal ruolo di custode di George. Al termine
del ballo, Charlotte dà al marito la notizia di essere di nuovo
incinta. La loro famiglia sta crescendo ancora una volta, e alla
fine comprenderà quindici figli. Hanno l’un l’altro, e questa è la
cosa più importante per loro.
Ti amerò sempre
Re Giorgio e la Regina
Carlotta non sono stati l’unica coppia protagonista della
serie spinoff: abbiamo seguito anche la relazione tra i rispettivi
bracci destri, Reynolds (Freddie Dennis) e
Brimsley (Sam Clemmett). Nel corso della prima
stagione, i due hanno cercato di bilanciare le incongruenze di
quando potevano passare del tempo insieme con la loro lealtà verso
i rispettivi sovrani.
Sebbene il loro rapporto sia stato
più volte scosso a causa della mancanza di fiducia, Reynolds e
Brimsley tornano l’uno all’altra e sognano come sarebbe se
potessero stare davvero insieme. Durante il ballo reale, i due si
avvicinano di nascosto a una collina e ballano insieme mentre suona
un’interpretazione di “I Will Always Love You” di Whitney
Houston.
La scena passa al presente, dove un
Brimsley più anziano (Hugh Sachs) sta ballando lo stesso ballo, ma
questa volta da solo. Il suo momento di solitudine viene
bruscamente interrotto quando viene annunciato che un visitatore è
lì per la regina. Mentre guarda in lontananza, il pubblico si
chiede cosa sia successo a Reynolds.
È morto o, a causa della permanenza
della regina e del re in palazzi separati, anche loro sono rimasti
separati? Sebbene il destino di Reynolds rimanga per ora
ambiguo, possiamo aggrapparci alla sua osservazione del
passato, secondo cui il grande amore può fare
miracoli.
Un’amicizia in crisi?
Un altro sviluppo sorprendente nel
corso di questa stagione di sei episodi è stato scoprire quanto
Lady Danbury (Adjoa Andoh) e il suo passato si
siano incrociati con Violet Bridgerton (Ruth
Gemmell). In passato, Agatha (Arsema
Thomas) ha trovato compagnia e una notte d’amore con il
padre di Violet, Lord Ledger (Keir Charles).
Attraverso il suo breve corteggiamento con il fratello di
Charlotte, Adolphus (Tunji Kasim), Agatha si rende
conto che non sarà in grado di amare un altro uomo come ha fatto
con Ledger.
Al ballo del re e della regina a
Buckingham House, si rende conto di non volersi risposare. Sebbene
non debba più preoccuparsi della sua posizione in società,
preferisce affrontare l’ignoto e respirare di nuovo da sola; Agatha
rifiuta Adolphus. Dopo che Charlotte ne viene a conoscenza, la
trova e, con la scusa di un finto castigo, assicura ad Agatha che
il suo titolo rimarrà sicuro e che potrà sempre rivolgersi
direttamente a lei per qualsiasi cosa.
Nel frattempo, nel presente, Violet
scopre uno dei cappelli di compleanno del padre a casa di Lady
Danbury. Quando inizialmente cerca di chiedere a Lady Danbury
dell’uomo che ha fatto fiorire il suo giardino, Lady Danbury
all’inizio è schiva, ma poi si spinge a dire che è stato Adolphus.
Sebbene il suo corteggiamento nei confronti del fratello della
regina sia tecnicamente vero, la donna continua a mentire per far
desistere Violet. Purtroppo per lei, Violet non è convinta e tenta
un approccio diverso.
Invita Lady Danbury a prendere un
tè a Bridgerton House e fa esporre nella stanza tutti i
suoi cappelli di compleanno, compresi quelli per i suoi numerosi
figli nel corso degli anni. Violet sostiene che è ora di metterli
via, ma Lady Danbury le dice di lasciarli fuori. Lady Danbury sa
che Violet ha scoperto il suo passato con il padre di Violet, ma
Violet porge il tè a Lady Danbury invece di affrontarla e le due
amiche sorseggiano il loro tè in silenzio.
Un lieto fine degno di una
regina
Nel presente, la Regina
Carlotta si è concentrata esclusivamente sul fatto che i
suoi figli si assicurino un erede per la loro famiglia. Nel corso
della stagione, i suoi figli hanno cercato di opporsi ai desideri
della madre, ma non sono riusciti ad affrontarla. Alla fine, il
Principe Giorgio IV (Ryan Gage) e la Principessa
Elisabetta (Sabina Arthur), a nome dei figli di
Charlotte, si oppongono alla Regina esprimendo quanto sia stata
crudele la corsa al bambino della madre.
Dalla mancanza di compassione dopo
la morte della moglie e della figlia di Giorgio IV ai molteplici
aborti spontanei di Elisabetta nel tentativo di procurarsi un
erede, essi affermano che Charlotte è stata per loro più una regina
che una madre. Charlotte si lamenta dei loro commenti, ma grazie a
una conversazione aperta con Brimsley, si rende conto della
validità delle loro affermazioni.
Non molto tempo dopo, suo figlio,
il Principe Edward (Jack Michael Stacey) e sua moglie
Victoria (Florence Dobson), fanno visita a Charlotte per dirle che
sono incinta e che si aspettano che sia una femmina; ciò
significa che la futura Regina Victoria è nel grembo materno e si
prepara a fare il suo debutto. In risposta alla lieta notizia,
Charlotte abbraccia il figlio in un raro momento di tenerezza.
Più tardi, Charlotte si reca a Kew
per visitare il marito e dargli la notizia. Trova Giorgio III
(James Fleet) nel bel mezzo di uno dei suoi episodi. Si infila
sotto il letto e gli dice di seguirla per nascondersi insieme dal
cielo. George la segue e, una volta sotto il letto, riconosce il
suo amore e torna a essere “solo George”. Charlotte gli assicura
che la sua stirpe continuerà a vivere, ma lui risponde che è la
loro stirpe, non solo la sua. Si baciano e George osserva che
Charlotte non ha superato il muro e Charlotte risponde
amorevolmente che non è così. La stagione ha mostrato la storia
spesso tumultuosa del loro matrimonio. Mentre molti all’esterno
credono che Charlotte si limiti a tollerare il re, i loro ultimi
momenti insieme rivelano che il loro amore è rimasto forte
attraverso tutto questo.
Il giardino di Violet Bridgerton
potrebbe “fiorire” di nuovo durante Bridgerton
Dal finale di Queen Charlotte, ci
proiettiamo nella
terza stagione di Bridgerton.
Sfortunatamente, finora ben pochi degli eventi di Queen Charlotte
hanno avuto un impatto su questa nuova stagione. Non c’è ancora un
erede che garantisca che la linea della Regina Carlotta e l’eredità
del Grande Esperimento non muoiano con lei (le gravidanze sono
un’impresa di molti mesi).
Nel finale, Charlotte conferma
sottilmente che il figlio di Lady Danbury erediterà il titolo del
padre, creando un precedente, e sappiamo che il Grande Esperimento
è proseguito con successo, come dimostra l’elevazione di Will
Mondrich (Martins Imhangbe) e della sua famiglia nell’alta società,
ma rimane fragile. Sicuramente questa sarebbe stata la sua priorità
invece della stagione sociale. Tuttavia, la Regina Charlotte è più
che mai impegnata con la nuova stagione del matrimonio e con la sua
“scintillante” Francesca Bridgerton (Hannah Dodd) che con la
gravidanza di Victoria.
A proposito di Francesca, sia
Violet Bridgerton che Lady Danbury rimangono vicine come
sempre, mentre si concentrano sull’aiutare Francesca a
destreggiarsi nel marasma del matrimonio. Nonostante l’imbarazzo
tra Violet e Lady Danbury alla fine di Queen Charlotte, le
rivelazioni del loro passato hanno poca rilevanza sul loro
presente. Le due donne sembrano essere unite, ma l’arrivo di
qualcuno del passato di Lady Danbury potrebbe far emergere le crepe
della loro amicizia.
Ciò che è stato portato avanti da
Queen Charlotte nella nuova stagione di Bridgerton
è la rivelazione di Violet di essere pronta a ritrovare l’amore; in
particolare, le manca il piacere di avere il suo giardino “curato”.
Sebbene in questa stagione Violet stia concentrando la maggior
parte delle sue energie sulla prima stagione di Francesca fuori dal
matrimonio, ha attirato l’attenzione di Marcus (Daniel
Francis), fratello estraneo di Lady Danbury.
Marcus è tornato a Londra con
l’unica intenzione di trovare un partner amoroso per il suo secondo
matrimonio, cosa che Violet ha avuto solo con il suo defunto
marito, Edmund (Rupert
Evans). Sebbene l’interesse tra Violet e Marcus sia
reciproco, Lady Danbury non crede che gli interessi del fratello
siano così puri come lui sostiene. Forse l’interferenza di
Lady Danbury nell’intrigo che sta sbocciando tra Violet e Marcus
potrebbe essere la causa di una frattura tra i due
amici.
Sebbene gli eventi dello spinoff
abbiano un impatto minimo sulla serie principale, la Regina
Carlotta fornisce una prospettiva sulla donna che Lady Whistledown,
doppiata da Julie Andrews, continua a inimicarsi. Charlotte ha
affrontato innumerevoli avversità, lottando per l’amore della sua
vita e per l’eredità che hanno costruito insieme sotto il cielo.
Mentre Penelope Featherington (Nicola Coughlan) è sulla buona
strada per ottenere il suo lieto fine con Colin Bridgerton (Luke
Newton) in questa stagione di Bridgerton, tutto potrebbe essere
messo a repentaglio se colpisse di nuovo Charlotte. Se abbiamo
imparato qualcosa dalla regina Charlotte, è che non bisogna mai
scommettere contro Charlotte. Penelope, tieni gli aculei
affilati!
Un famoso detto, diffuso nella
Hollywood degli addetti ai lavori sin dai gloriosi anni ’30,
afferma che il cinema americano è stato fondato in realtà da donne,
ebrei e immigrati. Tralasciando la più che evidente connotazione
xenofoba e misogina di base, tale affermazione non può che trovare
un forte riscontro in tutte le sue tre dimensioni fondamentali, a
dimostrazione di come, in particolare nel mondo dell’arte, molto
spesso le dicerie e i luoghi comuni tendono ad affondare le proprie
radici in un qualche sostrato di verità. Se grandi autori, di
chiara origine europea del calibro di Otto Preminger, Frank
Capra, Billy Wyilder e Duglas Sirk
riuscirono a portare alla luce il mito tutto americano del
self-made director e a far brillare di gloria in tutto il
mondo la cinematografia a stelle e strisce, il ruolo femminile
all’interno dei vari settori della settima arte è stato a lungo
sottovalutato e tenuto all’oscuro delle cronache più o meno
ufficiali, riuscendo fortunatamente a tornare a far sentire la
prioria voce soltanto a cavallo degli anni ’70 e ’80 del Novecento,
grazie soprattutto alla sinergia fra gli studi di riscoperta delle
modalità produttive e fruitive del cinema delle origini da una
parte e la corrente delle teorie filmiche di matrice femminista
dall’altra.
Non è per nulla un segreto a
esempio il fatto che il corpo femminile fosse divenuto fin da
subito un soggetto cardine e appetibile nelle prime vedute animate
di fine XIX secolo, così come dimostrano le numerose “danze
serpentine” di chiara matrice erotica interpretate da celebri
proto-dive provenienti dai cabaret e dai teatri di vaudeville, come
per esempio Amy Muller e Annabelle
Whitford Moore, allo stesso modo di alcuni dei primi
proto-generi cinematografici denominati “film dal buco della
serratura” – o in maniera ben più esplicita “film dei guardoni” –,
tutti precedenti all’introduzione dei primi sistemi di censura e
tarati su un più che dichiarati intento voyeurista e licenzioso. In
realtà però, oltre che come soggetti prediletti, le donne assunsero
un ruolo integrante (seppur in sordina) all’interno delle attività
di elaborazione delle pellicole, venendo impiegate come manovalanza
attiva all’interno di alcune delle prime case produttrici – come ad
esempio la Star Film di George Méliés e la Edison
Company – per colorare manualmente i singoli fotogrammi attraverso
alcune tecniche primordiali quali il pochoir (il celebre processo
“a tampone”) e il più evoluto viraggio. Gli stessi fratelli
Lumiére, infatti, usarono parte delle operaie assunte nelle loro
fabbriche di prodotti fotografici per sviluppare, colorare e
confezionare i propri film.
In seguito all’evoluzione dello
studio system hollywoodiano, a partire dalla metà degli
anni ’10, furono appunto le donne a ricoprire compiti di sempre
maggiore responsabilità e competenza all’interno delle crews dei
grandi studios, tra cui spiccano la figura della segretaria di
edizione (non a caso ribattezzata in seguito “script
girl”), quella di costumista e soprattutto di montatore, uno
dei ruoli fondamentali del processo di post-produzione e che
divenne, soprattutto a cavallo degli anni ’40 e ’50, vero
appannaggio femminile e che avrebbe dato luogo a una lunga e
florida tradizione. Se il celebre sodalizio fra Martin
Scorsese e Thelma Schoonmaker può essere
considerato come una delle formule più celebri e vincenti in tal
senso, allo stesso modo si spiega la tendenza dello stesso
Hitchcock a volere accanto a sé la moglie e collaboratrice
Alma Reville durante le sessioni in moviola,
poiché egli riteneva essenziale un attento occhio femminile durante
la fase più delicata dell’intera creazione filmica.
La celebre teorica del cinema
tedesca Lotte Eisner, oltre a riconoscere
l’indubbio valore della figura della diva incarnato da celebri
interpreti come Pina Menichelli, Lyda
Borelli, Francesca Bertini, Asta Nielsen e Louise
Brooks – in quanto unico vero ruolo filmico in cui è
appunto la donna a dominare per intero la scena e a imporsi sul
maschio, inerme al suo fascino –, cercò di dimostrare come già nei
tardi anni ’40 si cercasse di rivendicare la centralità della
dimensione femminile in quello che appare come il ruolo cardine e
più delicato dell’intera produzione creativa e fattuale del film,
ovvero la regia. Se pensiamo ad alcune celeberrime e apprezzate
cineaste dell’epoca moderna e post-moderna quali Agnès
Varda, Marie Huillé, Liliana Cavani, Lina Wertmüller, Kathryn
Bigelow, Nora Ephron e Jane Campion non
possiamo non rimanere perplessi per come in decenni l’industria del
cinema, in tutte le sue correnti ed epoche, abbia tentato di
nascondere, e in un certo senso anche di ostacolare, la presenza –
per altro ancora oggi abbastanza esigua – della donna in quanto
figura in grado di incarnare un ruolo creativo e operativo rimasto
si dall’inizio appannaggio quasi esclusivo dell’universo
maschile.
I primi accenni di una qualche
figura di donna direttamente coinvolta nella fase di progettazione
e messa in scena in un prodotto di tipo filmico risalgono
addirittura all’epoca precedente l’invenzione del cinema stesso, e
vedono come protagonista la ricca ereditiera inglese Lizzie
Whitley, moglie dell’inventore francese Louise
Aimè Augustin Le Prince, colui che è rimasto a lungo
sconosciuto alle cronache ufficiali e che tutt’oggi è considerato
come il padre apocrifo della settima arte. Fu infatti proprio la
giovane pittrice che, trasferitasi a New York nel 1981 per lavorare
nell’istituto per non udenti di Washington Heights, collaborò
assieme al marito e all’assistente Joseph Banks
nella realizzazione di una primordiale cinepresa a 16 lenti in
grado di riprendere fino a 10-12 fotografie al secondo, tutt’oggi
considerata come il primo vero dispositivo proto-cinematografico
antecedente addirittura al kinetoscopio di Edison e al
Cinematograph dei Lumière. Seppur non vi siano ancora prove certe
di un suo diretto coinvolgimento nel progetto, è comunque indubbia
la presenza e il supporto operativo fornito dalla giovane Lizzie
durante la realizzazione del primo filmato della storia ad oggi
rinvenuto, una veduta animata di appena tre secondi realizzata da
Le Prince nel 1888 proprio nel giardino della famiglia Whitley a
Oakwood Grange Road nello Yorkshire, ben presto rinominata
Roudnhay Garden Scene. È comunque certo
che, dopo la misteriosa e ancora irrisolta sparizione del marito
avvenuta nel settembre del 1890 durante un viaggio in treno da
Digione a Parigi, fu proprio la determinazione della donna a
permettere la prosecuzione delle rivoluzionarie sperimentazioni
riguardati le immagini in movimento, tutto prima che gli acerrimi
concorrenti americani e francesi prendessero il sopravvento e
aprissero definitivamente le porte alla nascita della
cinematografia.
La documentazione storica
ufficiale è solita in realtà considerare la francese Alice
Guy-Blaché come la prima donna ad aver ricoperto
ufficialmente il primo vero ruolo stabile da regista all’interno di
una delle prime grandi case di produzione europee, la Gaumont,
iniziando la sua carriera come semplice segretaria ed esordendo
dietro la macchina da presa già nel 1896 con il cortometraggio
La Fée aux chouz, realizzato con alcuni
spezzoni di pellicola ottenuti di nascosto da rivenditori non
autorizzati. Assunta stabilmente alla guida della neonata major
d’oltralpe, Alice-Guy ebbe modo di realizzare una decina di
pellicole fra mediometraggi e qualche lungometraggio nel periodo
compreso fra il 1906 e il 1920, tra cui vanno ricordati i drammi
The Face at the Window (1912) e
Beneath the Czar realizzati per conto
dell’americana Solax Film Company nonché una delle prime pellicole
religiose della storia, Naissance, vie et mort de Notre
Seigneur Jesus Christ (1906), distribuita in scene a
bobine indipendenti. Nel frattempo decise di dedicarsi anche alla
carriera di sceneggiatrice e produttrice assieme al marito Herbert,
prima di lasciare a Louis Feuillade il ruolo di
regista ufficiale della compagnia e ritirarsi a vita privata,
imprimendo un segno indelebile all’interno della memoria collettiva
del cinema mondiale.
Negli stessi anni in cui in Francia
Alice-Guy porta avanti la sua gloriosa fama di pioniera, in Italia
è invece la giovane insegnante e modista salernitana Elvira
Notari a rompere precocemente i rigidi tabù dell’epoca,
decidendo di trasferirsi a Napoli e di fondare nel 1902, assieme al
marito fotografo Nicola, la casa di produzione Film Dora – in
seguito meglio nota come Dora Film – iniziando a progettare e
filmare documentari e cortometraggi di fiction. Passata alla regia
di alcuni dei primi lungometraggi tratti da noti romanzi popolari e
di cronaca rosa, tra i quali spiccano Il processo
Cuocolo (1909), Bufera
d’anime (1911) e Errore
giudiziario (1913), la Notari si distingue subito
attraverso una modalità di realizzazione e gestione del tutto
innovativa che prevedeva non solo il pieno controllo di tutte le
varie fasi di ideazione e realizzazione dei propri progetti, ma
oltretutto l’impiego di rivoluzionari e precoci meccanismi di
colorazione e accoppiamento sonoro delle pellicole, oltre alla
caratterizzazione di personaggi per lo più scabrosi e
anticonvenzionali che le avrebbero causato grossi grattacapi col
futuro regime fascista. Estremamente carismatica, oculata esperta
di marketing e decisa a gestire personalmente i rapporti con gli
organi di stampa e promozione, la Notari realizzò oltre sessanta
film dal 1906 al 1929 – alcuni dei quali dei veri e propri successi
popolari come ’A leggee
’Nfamia (1924) – fondando inoltre la prima Scuola
d’Arte Cinematografica italiana in cui veniva insegnato uno stile
di recitazione fortemente naturalistico e agli antipodi rispetto
alle caricate performance divistiche ben note a quel tempo. In
seguito all’incapacità tecnica ed economica di rimanere al passo
con il dilagare delle prime pellicole sonore, la Dora Film chiuse i
battenti a inizio anni ’30, venendo convertita in società di
distribuzione e continuando a tenere alto il nome della sua donna
di successo, colei che ebbe il grande coraggio di dirigere racconti
estremamente crudi e profondamente scandalosi secondo gli standard
del pubblico del tempo.
Sempre nell’Italia a cavallo degli
anni ’10 e ’20 ecco fare la sua comparsa una nuova figura femminile
estremamente importante per la storia del cinema quale
Diana Karenne, nata in Polonia come
Leucadia Konstantin e trasferitasi nel nostro
paese nel 1914, divenendo ben presto una delle dive più amate e
pagate di tutto il cinema europeo. Estremamente libertina, amante
degli sport estremi come il volo e le corse automobilistiche,
pericolosamente affascinante e ben dotata artisticamente, la
Karenne debuttò sul grande schermo nel 1916 con
Passione tziagana di E.M.
Pasquali, fondando nel 1917 assieme al fratello David la
David-Karenne Film che produsse il suo esordio da regista
Pierrot lo stesso anno. Interprete di
celebri pellicole quali La contessa
Arsenia (1916), Redenzione
(1919) e La fiamma e la cenere (1919) in
cui riuscì a creare su di sé il personaggio conturbante di una
femme fatale vorace e distruttiva, fu anche apprezzata regista e
sceneggiatrice di progetti ambiziosi e di chiaro indirizzo
femminista come Justice de femme! (1917)
e Ave Maria (1920), prima di dedicarsi
definitivamente al ruolo di attrice a tempo pieno, anche fuori
dall’Italia, dopo l’inizio degli anni ’20. Fu l’unica delle grandi
dive italiane a non prendere mai marito, decidendo di rivendicare
sempre e comunque la propria libertà personale e creativa
all’interno di una società estremamente maschilista e piena di tabù
etici e morali. Dopo una florida carriera attoriale e una decina di
pellicole da lei liberamente direttamente scritte, dirette e
montate, la Karenne si congedò dal grande schermo nel 1939 con
Manon Lescaut di Carmine
Gallone, morendo tragicamente in seguito alle disastrose
ferite riportate durante un bombardamento avvenuto nel luglio del
1940 nella città di Aquisgrana.
Sposandoci in territorio tedesco,
il periodo che precede la nascita del cinema sonoro è dominato da
due figure di donne capaci di mettere tutta la propria creatività e
capacità tecnica al servizio della regia di opere estremamente
sperimentali e anticonvenzionali, dimostrando dunque non solo un
grande coraggio ma bensì una forte tendenza a infrangere regole
sociali e artistiche già all’epoca estremamente fossilizzate.
Erna Niemeyer, versatile e prolifica artista
capace di muoversi con estrema disinvoltura attraverso le più
disparate forme di espressione, divenne già all’inizio degli anni
’20 una delle più apprezzate animatrici europee, sviluppando una
rivoluzionaria serie di procedimenti con cui ritagliare e
fotografare direttamente su pellicola porzioni di materiali
eterogenei che divennero la base per celebri lavori di avanguardia,
tra cui vanno certamente ricordati la famosa Dyagonal
symphonie di Viking Eggeling e la
ben più celebre serie dei Rythmus
(1921-1923-1925) di Hans Richter. Allo stesso modo
anche la figura di Lotte Reiniger non può passare
del tutto inosservata nel panorama del cinema animato, se si pensa
ad alcune delle sue più splendide e sensazionali opere grafiche,
realizzate mediante l’impiego di elaborate e raffinatissime
silhouettes nere su mirabolanti sfondi colorati a mano, tra cui
spiccano il capolavoro Le avventure del principe
Achmed (1926) e una serie di pellicole ispirate a
famosi racconti per bambini come
Cenerentola e La bella
addormentata nel bosco, entrambi del 1922.
Dalla potenza tutta artigianale dei
racconti animati si passa poi alla poetica del documentario, reso
più che mai celebre nella neonata Unione Sovietica da
Esfir’ Šub, giovane e intraprendente cineasta che
fece tesoro delle innovazioni di montaggio messe a punto dai
colleghi della Scuola Statale di Cinema di Mosca per realizzare
stupefacenti reportage storici dal sapore sperimentale come
La fine della dinastia dei Romanov (1927)
e La grande strada (1927), entrambi
sviluppati mediante un collage di riprese amatoriali e
professionali di repertorio, allo stesso modo di La
Russia di Nicola II e Lev Tolstoj (1928), dando di
fatto i natali al genere tutto di nicchia del “documentario di
montaggio”.
In quegli stessi anni
Alexandra Khokhlova, fascinosa moglie del celebre
cineasta e teorico Lev Kuleshov, dopo aver dato il
via a una robusta carriera di attrice attraverso uno stile nervoso
e anti-naturalistico – ben rappresentato da alcune pellicole
dirette dal marito come Le avventure di Mr West nel
paese dei bolscevichi (1924) e Dura
lex (1926) – si dedicò anche alla scrittura e alla
co-regia di due film alquanto discussi a causa dei loro apparenti
contenuti eccessivamente “spinti”, Discendere da un
vulcano (1941) e Noi veniamo dagli
Urali (1943).
Se in quegli stessi decenni negli
Stati Uniti la fotografa Margaret Burke-White
tentava anch’essa la strada del cinema documentario di denuncia
sociale all’interno del collettivo di sinistra Workers’ Film and
Photo League, in Francia ecco emergere la figura eclettica e
controversa di Germaine Dulac, prima e unica
autrice ad aver non solo avuto accesso diretto a tutte le più
importanti forme d’arte (pittura, scultura, fotografia, musica,
danza e cinema), ma oltretutto a essere riuscita a imporsi come
vero e proprio simbolo della creatività sperimentale europea a
cavallo degli anni ’20 e ’30, attraversando trasversalmente – e con
grandi risultati – le principali avanguardie cinematografiche del
tempo, partendo dalle vocazioni poetiche dell’impressionismo con
La souriante madame Beudet (1923),
passando attraverso i primordi visionari surrealisti de
La coquille et le clergyman (1928) fino a
toccare le punte totalmente astratte e anti-figurative del cinéma
pur con gli esperimenti plastici di Disque
927 (1928) e Arabesque
(1929). Mentre le performance estreme e anticonvenzionali della
Dulac non mancavano di dividere aspramente il pubblico e la
critica, molto più lineare – ma altrettanto coraggiosa – risulta la
produzione di Marie Epstein, sorella del ben più
celebre teorico e cineasta visionario (e padre del concetto di
photogenie) Jean, la quale fin dal 1928 iniziò a collaborare
assiduamente col collega Jean Benoît-Lévy nella
realizzazione di drammi estremamente struggenti, polarizzati verso
una forte denunce nei confronti del degrado e della povertà
sociale, anticipando di fatto la futura corrente del realismo
poetico di metà anni ’30. Fra le opere più rappresentative in tal
senso vanno ricordate certamente Âmes
d’enfants (1928) e
Maternité (1929), oltre che il
celeberrimo La Maternelle, una delle
prime opere filmiche a trattare direttamente il tema dell’abbandono
e delle turbe infantili ancor prima di I bambini ci
guardano (1943) di De Sica e
Sciuscià (1946) di Rossellini.
I decenni interessati
dall’avvento della dittatura nazionalsocialista e dallo scoppio
della Seconda Guerra Mondiale costituiscono per la Germania il
periodo di maggior produttività di Leni von
Riefenstahl, una delle autrici più controverse e celebri
di tutta la storia del cinema internazionale durante l’oscuro
periodo delle macchinazioni pre e post bellica, gli stessi decenni
in cui la sceneggiatrice Thea von Harbou
instaurava col compagno Fritz Lang un forte e
proficuo sodalizio sentimentale e professionale. Aspirante
ballerina di cabaret costretta a ritirarsi dalla professione a
causa di un precoce infortunio, si interessò molto presto alla
recitazione durante l’età d’oro del cinema muto, esordendo nel 1926
con il lungometraggio La montagna
dell’amore diretto da Arnold Fanck,
autore con cui intraprenderà un duraturo legame all’interno di
pellicole appartenenti al genere nazionale – all’epoca molto in
voga – dei così detti “film della montagna”, tra cui Il
grande salto (1927), Tempesta sul Monte
Bianco (1930) e Ebrezza
bianca (1930). Dopo essere stata in contesa assieme a
Marlene Dietrich per il ruolo da protagonista nel
celebre L’angelo azzurro (1930) di
Josef von Sternberg e aver collaborato con
G.W. Pabst in La tragedia di Pizzo
Palù (1929), nei primi anni ’30 la Riefenstahl affina
grazie a Fanck le sue doti di montatrice e sceneggiatrice,
esordendo alla regia nel 1932 con La bella
maledetta – da lei anche scritto e interpretato –
prima che l’avvento del nazismo le facesse maturare una vera e
propria ossessione per Hitler, al quale scrisse in privato per
ottenere udienza. Fu proprio il fuhrer che, dopo aver ammirato le
straordinarie doti atletiche e tecniche della giovane autrice nel
film in doppia lingua S.O.S. Iceberg
(1933), decise di affidarle la realizzazione di un cortometraggio
con cui immortalare la prima sessione del congresso del Partito
Nazista del 1933. Purtroppo, in seguito all’epurazione dello
squadrone delle SA durante la celebre Notte dei Lunghi
Coltelli, La vittoria della
fede venne sequestrato e distrutto, poiché conteneva
inquadrare di alcuni dei maggiori capi dell’ex divisione personale
del dittatore, comprese le immagini del generale Ernst
Röhm. L’anno successivo venne data l’opportunità alla
Riefenstahl di girare una nuova pellicola – questa volta un
lungometraggio dichiaratamente propagandistico – relativo al
secondo incontro ufficiale del partito avvenuto a Norimberga,
intitolato Il trionfo della volontà.
Grazie alle sperimentazioni tecniche messe in atto attraverso
questo ambizioso progetto e ormai capacissima di dirigere
addirittura dieci équipe di operatori contemporaneamente, dopo la
breve parentesi del cortometraggio I giorni della
libertà – Il nostro esercito (1935) dedicato alle
forze armate naziste, nel 1938 la Riefenstahl si imbarcò nel
titanico progetto in due parti di
Olympia, film dedicato alla
documentazione degli storici Giochi Olimpici di Berlino e primo
grande esempio di una narrazione sportiva realizzata mediante
soluzioni visive (ralenti, teleobbiettivi, montaggio in
multicamera, carrellate aeree e a bordopista, ecc.) che avrebbero
costituito la base per tutte le future immagini atletiche
cine-televisive. Il suo stile monumentale e velatamente polarizzato
sull’ideologia politica dominante le causarono però numerosi
grattacapi durante la fine della guerra, quando, dopo essersi
rifugiata in uno sperduto paesino delle alpi svizzere, venne
rintracciata e ricondotta in Germania, dove fu l’unica regista –
assieme al collega Veit Harlan – ad essere pubblicamente accusata e
perseguita con l’accusa di sostegno e favoreggiamento del decaduto
regime nazista. Dopo essere rimasta a lungo lontano dai set a causa
della sua cattiva fama, la Riefenstahl riuscì timidamente a
riaffacciarsi alla professione solo nel 1954 con la regia e
l’interpretazione di Tieflad (1954)
diradando sempre più le proprie apparizioni pubbliche e
professionali ne corso degli anni, concludendo la propria carriera
nel 1993 con la celebre rievocazione storica delle proprie imprese
nel documentario La forza delle immagini
di Ray Müller e l’avvio di un ultimo progetto
registico dal titolo Un sogno d’Africa,
distribuito postumo nel 2003.
A conclusione di questo parziale
excursus dedicato alla gloriosa e semi-sconosciuta storia
della regia al femminile, spostando di qualche decade il punto
focale della nostra analisi, vale la pena di valorizzare l’operato
di una delle poche vere autrici dell’est Europa, la praghese
Věra Chytilová, cineasta visionaria ed eclettica
passata alla storia per i suoi esordi nei primi anni ’60 – in piena
influenza delle nouvelle vague continentali – attraverso pellicole
d’avanguardia e ricche di uno stile comico-surreale, tra cui vanno
ricordate certamente Qualcosa d’altro
(1963), Tavola calda universo (1965) e il
grottesco Le margheritine (1966), prima
che i fatti della Primavera di Praga gettassero nell’oscurità molti
dei suoi lavori, rendendoli reperibili solo nei tardi anni ’80,
come accade per Il gioco della mela,
realizzato in realtà nel 1976.
Il colore rosa, fatte le
dovute eccezioni kitsch del cinema di Almodovar,
non è molto presente nelle palette delle immagini filmiche, ma lo
spirito tutto femminile che questo cromatismo ha saputo (e sa
tutt’ora) consegnare al nobile ruolo della regia cinematografica
appare indubbiamente uno degli aspetti più belli e sinceri che le
pellicole – o i sensori dell’era digitatale – si rendono capaci di
restituire ad ogni singolo spettatore, sia esso uomo o donna.
Prima di consacrarsi come autore
cinematografico grazie a Gli spietati,
Clint Eastwood ha dato vita nel 1990 ad un
ennesimo poliziesco che lo ha visto impegnato tanto come regista
quanto come interprete. Si tratta di La
recluta, incentrato sulla ricerca di una banda di
ladri d’auto da parte di due poliziotti molto diversi tra loro, per
età e modi di fare. Ormai grande esperto del genere grazie a film
come Una 44 Magnum per l’ispettore
Callaghan e Corda tesa, Eastwood ha
profuso in tale opera molte novità, tra cui grandi effetti speciali
ed una messa in scena particolarmente dinamica e complessa. Ciò ha
reso questo uno dei suoi film da regista più sperimentali di
sempre.
Girato interamente in California,
questo è infatti ricordato per la presenza di sequenze
particolarmente complesse ed elaborate, che hanno permesso al
regista di sfoggiare un grande virtuosismo. Il massiccio utilizzo
di effetti speciali e CGI, inoltre, lo ha reso un vero e proprio
unicum nella carriera del premio Oscar. Ancora oggi La
recluta è ricordato come uno dei suoi titoli più stravaganti
ed esagerati, ricco di elementi che poi non sarebbe più ricomparsi
nei suoi successivi lungometraggi. Costato 10 milioni di dollari,
questo fu anche uno dei minori successi economici di Eastwood
dell’epoca.
Uscito in sala, infatti, il film
venne grossomodo oscurato dal successo di Mamma ho persol’aereo. Negli anni è però diventato un titolo cult, che
gli appassionati del regista e attore non mancano di riscoprire con
piacere. Prima di intraprendere una visione del film, però, sarà
certamente utile approfondire alcune delle principali curiosità
relative a questo. Proseguendo qui nella lettura sarà infatti
possibile ritrovare ulteriori dettagli relativi alla
trama e al cast di attori.
Infine, si elencheranno anche le principali piattaforme
streaming contenenti il film nel proprio catalogo.
La recluta: la trama del
film
La vicenda del film si svolge a Los
Angeles, dove il burbero e coraggioso agente di origine polacca
Nick Pulovski fa parte del dipartimento che si
occupa di furti d’auto. Nonostante la grande esperienza, questi si
trova ora coinvolto nel difficile scontro con la banda capeggiata
da Strom e Liesl, malviventi
impegnati proprio nel furto di importanti auto di lusso. In seguito
ad un incidente, nel quale perde il suo collega, Nick si vede
affidare un nuovo partner. Si tratta del giovane agente
David Ackerman, inesperta recluta tormentata dalla
morte del fratello, avvenuta anni prima e per cui si sente
responsabile. Nick è ovviamente contrario all’avere il giovane
accanto, considerandolo un ostacolo alla sua indagine.
Quest’ultima, però, gli viene ben
presto tolta dalle mani e trasferita alla sezione omicidi. Pulovski
però non ha intenzione di rinunciarvi, desideroso anche di
vendicare il collega morto. Decide allora di seguire per proprio
conto le indagini su Strom, e per farlo avrà necessariamente
bisogno di coinvolgere nel caso anche Ackerman. La differenza d’età
tra i due, e il loro carattere contrastante, non renderà però
facile lo svolgimento della ricerca. Prima di riuscire ad
acciuffare i criminali, dovranno infatti superare le loro
differenze, trovando il modo di unire realmente le forze, tra
l’esperienza dell’anziano e le intuizioni del giovane.
La recluta: il cast del
film
Regista del film, Clint Eastwood
accettò l’offerta della Warner Bros. di realizzare La
recluta a patto che lo studios gli finanziasse un progetto più
personale, intitolato Cacciatore bianco, cuore nero,
uscito nello stesso anno. Ottenuto l’accordo, Eastwood decise anche
di ricoprire il ruolo del protagonista Nick Pulovski. Si è trattato
di un nuovo personaggio di poliziotto per lui, che però ha cercato
di costruire in modo molto differente rispetto a quelli
precedentemente interpretati. Il suo Nick, pur se di carattere
burbero, presenta infatti anche diversi elementi comici. Accanto a
lui, nei panni della recluta David Ackerman si ritrova invece
l’attore Charlie Sheen. All’epoca delle riprese
questi aveva problemi di abuso di sostanze stupefacenti. Eastwood
divenne per lui una figura paterna e protettiva, aiutando il
giovane a mantenere disciplina e controllo di sé.
È poi presente l’attore portoricano
RaulJulia, noto per essere stato
Gomez in La famiglia Addams, nei panni del criminale
tedesco Storm. La brasiliano Sonia Braga, celebre
per il film Donna Flor e i suoi due mariti, interpreta
invece la compagna di Storm, Liesl. La scelta di due attori
sudamericani nei panni di due tedeschi ha destato non poche
critiche, ma i due furono fortemente voluti da Eastwood, che li
trovava interpreti in grado di superare le barriere sulle
rispettive origini. Tom Skerritt, noto per film
come Alien e Top Gun, veste invece i
panni del padre di David, Eugene Ackerman. Infine, l’attrice
Lara Flynn Boyle, celebre per aver interpretato
Donna Hayward in Twin Peaks, ricopre qui il ruolo di
Sarah, la fidanzata di David, che finirà inevitabilmente coinvolta
nelle indagini.
La recluta: il trailer e
dove vedere il film in streaming e in TV
È possibile vedere o rivedere il
film grazie alla sua presenza su alcune delle più popolari
piattaforme streaming presenti oggi in rete. La
recluta è infatti disponibile nel catalogo di
Chili Cinema, Google Play e Apple iTunes. Per
vederlo, in base alla piattaforma scelta, basterà iscriversi o
noleggiare il singolo film. Si avrà così modo di poter fruire di
questo per una comoda visione casalinga. È bene notare che in caso
di solo noleggio, il titolo sarà a disposizione per un determinato
limite temporale, entro cui bisognerà effettuare la visione. Il
film sarà inoltre trasmesso in televisione il giorno
venerdì 16 dicembre alle ore
21:00 sul canale
Iris.
Sembra aver avuto più o meno la
reazione di tutti i fan del Comic Con Jared Leto,
di fronte al se stesso in versione Joker. Ecco il video della
reazione dell’attore-cantante al trailer di Suicide
Squad:
Suicide
Squad si concentrerà sulle gesta di un gruppo di
supercattivi dei fumetti DC che accettano di svolgere incarichi per
il governo in modo da scontare le loro condanne.
Il film arriverà al cinema il 5
agosto del 2016, mentre la data d’uscita italiana sarà
probabilmente spostata nell’autunno.Nel cast
vedremo Will Smith nei panni di
Deadshot, Margot Robbie in quelli di
Harley Quinn, Jay Courtney nel ruolo di
Capitan Boomerang, Cara
Delevingne sarà Enchantress, Joel
Kinnaman nei panni di Rick Flag, Viola
Davis nel ruolo di Amanda Waller e Jared
Leto sarà l’atteso Joker.
Dopo la reazione di Jared Leto nel
vedere se stesso come nuovo Joker, ecco anche quella di
Jack Nicholson, che vede per la prima volta
l’iconico personaggio in azione nel trailer di Suicide
Squad.
Suicide
Squad si concentrerà sulle gesta di un gruppo di
supercattivi dei fumetti DC che accettano di svolgere incarichi per
il governo in modo da scontare le loro condanne.
Il film arriverà al cinema il 5
agosto del 2016, mentre la data d’uscita italiana sarà
probabilmente spostata nell’autunno.Nel cast
vedremo Will Smith nei panni di
Deadshot, Margot Robbie in quelli di
Harley Quinn, Jay Courtney nel ruolo di
Capitan Boomerang, Cara
Delevingne sarà Enchantress, Joel
Kinnaman nei panni di Rick Flag, Viola
Davis nel ruolo di Amanda Waller e Jared
Leto sarà l’atteso Joker.
I fan, si sa, sono i critici più
severi, e Jared Leto, che ha esordito lo scorso
sabato con il nuovo look del suo Joker in Suicide
Squad, non viene risparmiato dalle critiche più
feroci che impazzano sul web.
Di seguito vi mostriamo un video in
cui è stata simulata una reazione, disperata, di Jack
Nicholson, al look che Leto e la produzione alla Warner
hanno scelto per questa reincarnazione della nemesi di Batman.
La poetica (e l’etica) documentaria
del cinema-verità di Jean-Pierre e Luc
Dardenne prosegue imperterrita su di un terreno di
perfetta coerenza estetico-narrativa da oltre due decenni, trovando
proprio ne La ragazza senza nome una condensazione
perfetta di un cinema che antepone il contenuto morale
sull’esistenza del quotidiano a una forma rimasta sempre essenziale
ma al contempo lucida e graffiante. La decima pellicola firmata dai
fratelli belgi appare di fatto come la più “cinematografica”, in
quanto, mentre nella palma d’Oro Rosetta la
ruggine e il vento del reale spingevano insistentemente per bucare
la sottile membrana dello schermo e invadere l’extra diegetico
spettatoriale, qui il filmico rimane conchiuso nei bordi di un
formato vicino al 4:3 che comprime fatti, volti ed emozioni in uno
spazio ben delimitato nel quale la sola presenza fisica della
giovane – ma già “vissuta” – dottoressa Davin incolla il fruitore
all’umano e alle sue peripezie. In questo loro cinema baziniano
“più vero del vero” i Dardenne decidono di replicare la formula
della ricerca a tappe già ben delineatasi con Due giorni,
una notte.
In La ragazza senza nome
un’ora dopo la chiusura d’esercizio la dottoressa Jenny
Davin (Adèle
Haenel), medico condotto di un piccolo sobborgo alle
porte di Liegi, rifiuta di rispondere a una chiamata al citofono
del suo ambulatorio. Il giorno seguente un’indagine di polizia
rivela che una donna dalle generalità ignote è stata trovata morta
sulle rive di un canale e dalle registrazioni delle videocamere di
sorveglianza Jenny scopre che la giovane aveva provato a chiamare
aiuto proprio presso di lei prima di fuggire spaventata. Rosa da un
senso di colpa che si fa via via sempre più lacerante la dottoressa
da inizio a un’ossessiva e catartica ricerca dell’identità della
povera vittima, generando impercettibili ma fatali conseguenze che
ricadono via via sui propri scarni rapporti sociali e sulla propria
carriera in procinto di decollare.
La ragazza senza nome, il
film
In questo caso perà la
protagonista è calata in un racconto d’atmosfera che occhieggia al
thrilling poliziesco di detection in cui ci si trova dinnanzi a uno
strano ossimoro: mentre la giovane Jenny – un’intensa Adèle Haenel bravissima nel celare sotto una
patina di apparente freddezza un turbine di profonde emozioni
sapientemente centellinate – si prodiga ossessivamente per espiare
la propria presunta colpa di omissione di soccorso ricercando
l’identità (e, in senso biblico, il nome) della ragazza uccisa, di
lei non abbiamo alcuna informazione al di fuori di ciò che accade
dinnanzi alla macchina da presa e che rivela la psicologia di una
donna inizialmente “professionale” ma in realtà già disposta a
darsi totalmente agli altri, qualità che verrà in seguito portata
francescanamente all’estremo dal fatto incriminato.
Peccando forse leggermente di
didascalismo narrativo ma reggendo sempre ben saldo il timone
dell’occhio e del cuore, i fratelli Dardenne ci pongono di forza
dinnanzi alla ricerca dell’altro quale strumento per ritrovare
autenticamente noi stessi.
Uscito in anteprima in alcune sale
cinematografiche in anteprima il 30 settembre, ed il 7 ottobre
sulla piattaforma streaming, La ragazza più fortunata del
mondo (Luckiest girl alive) è una
pellicola che affronta una delle piaghe silenziose della società
contemporanea: gli abusi sessuali. Il film, diretto da Mike
Barker (The Hadmaid’s
tale) e scritto da Jessica Knoll, è tratto dal
romanzo del 2015 di quest’ultima. Nel cast ritroviamo note figure
del cinema Hollywoodiano come l’attrice ucraina
Mila Kunis nel ruolo della protagonista Tiffani (Ani)
Fanelli, e Finn Wittrock (La grande
scommessa) come Luke Harrison.
La ragazza più fortunata del mondo:
l’oscurità dietro il velo di perfezione
Ani ha 28 anni, lavora in una nota
rivista per donne a New York, si sta per sposare con Luke, giovane
ricco ed affascinante: la sua vita sembra perfetta, ma non lo è.
Dietro ad un’armatura di sorrisi e di frasi di circostanza, Ani ha
seppellito un grande trauma della sua adolescenza: uno stupro di
gruppo da parte di tre suoi compagni di scuola e poi una sparatoria
proprio all’interno del rinomato liceo privato. Il passato sembra
voler ribussare alla sua porta quando un giovane regista la
contatta per realizzare un documentario della tragedia. Nel
rivivere nuovamente il trauma, Ani perde il controllo della se che
aveva costruito, di questo suo alter ego, e decide di voler portare
dei cambiamenti nella sua vita.
Tiffani Fanelli da adolescente
Ani Fanelli e Jessica Knoll in
parallelo
“A volte mi sento come una bambola a molle: gira la chiave e
ti dirò esattamente quello che vuoi sentire”
Ani è il personaggio attorno al
quale ruotano tutte le vicende di La ragazza più
fortunata del mondo: tramite questo film (e libro) le è
stata data finalmente una voce. Ma ad un qualsiasi spettatore o
lettore viene spontanea una semplice domanda: quanto c’è di verità
in questa storia? In diverse occasioni, Knoll ha negato qualsiasi
esperienza personale di violenza sessuale, affermando che tra i
parallelismi tra il suo personaggio e lei stessa (La scrittrice
aveva 28 quando scrisse il libro e trascorse parte della sua
carriera scrivendo per la rivista Cosmopolitan) non rientra
l’intera vicenda. Poi, nel 2017, arriva la rivelazione nel
settimanale Lenny: una
lettera dettagliata in cui la scrittrice racconta la sua
storia.
Ani elabora questo trauma in maniera
molto singolare: finisce per ignorarlo; per fare ciò, si distacca
il più possibile da quella che era la se adolescente per ricrearsi
e realizzarsi a pieno. Già dalle prime scene, risulta essere un
personaggio molto ambizioso: lei sa cosa vuole e come ottenerlo. Ma
questo suo successo ha una doppia valenza per lei: solo nel momento
in cui avrà raggiunto tutti i suoi obbiettivi si sentirà abbastanza
forte da affrontare la sua tragedia e l’unico suo aggressore ancora
in vita, Dean Barton. Per Ani il suo successo è così importante
perché crede di poter essere veramente ascoltata solo nel momento
in cui non sarà più una ragazzina povera in una scuola per ricchi,
come se la sua credibilità dipendesse dalla sua classe
sociale. Ma, con l’ansia per il documentario ed il dolore di
vecchie ferite che tornano a riaprirsi, per Ani diventa sempre più
difficile indossare quella maschera che si era creata con tanta
cura negli anni.
La ragazza più fortunata del
mondo: l’empatia dello spettatore
Il grande merito di film come
La ragazza più fortunata del mondo è proprio di
riuscire, non solo a raccontare una storia, ma a trasmettere così
tanto allo spettatore da fargli provare un forte senso di empatia.
In questo modo porta il pubblico ad un profondo stato di
riflessione, in maniera quasi catartica; nel cinema contemporaneo
sono sempre più numerosi gli esempi di pellicole del genere. Basti
pensare a Una
donna promettente, scritto e diretto da
Emerald Fennell, thriller candidato a cinque Oscar
e vincitore del premio per la miglior sceneggiatura originale.
Un’altra tematica interessante nel
film è la differenza tra l’io nello spazio dell’apparenza e l’io in
privato; seguendo le vicende di Ani, è possibile per lo spettatore
sapere i suoi pensieri, oltre a ciò che la protagonista dice e fa
realmente, e quindi notarne la quasi paradossale differenza.
La violenza sessuale: dal grande
schermo alla realtà
La ragazza più fortunata del
mondo tende a rappresentare alcune figure, alcune
situazioni che sembrano quasi surreali ed irrealistiche, ma così
non sono. Molte frasi, molte scusanti per gli stupratori ed
affermazioni screditanti la versione della sopravvissuta sono
ripetute ogni giorno a tutte le vittime di violenza sessuale.
Tra gli esempi più palesi si pensi al preside della scuola che
considera la versione di Tiffani poco veritiera perché lei aveva
bevuto (come se l’incoscienza della ragazza potesse in qualche modo
dimostrare consenso); la madre, che non dimostra un briciolo di
affetto o empatia nei confronti della figlia. E per finire Luke, il
fidanzato, che per tutto il film sembra comunque essere una figura
di supporto per Ani, alla fine la colpevolizza per voler agire in
maniera pubblica contro il suo aggressore.
Per quanto questo possa sembrare
solo un film, vicende simili sono la realtà di molte, in Italia e
nel mondo.
Medusa Film ha diffuso il teaser
trailer di La ragazza nella nebbia, il film
diretto da Donato
Carrisi con TONI SERVILLO, ALESSIO
BONI, LORENZO RICHELMY, GALATEA RANZI,
MICHELA CESCON e con JEAN RENO.
Basato sul best seller La
ragazza nella nebbia è prodotto da MAURIZIO
TOTTI e ALESSANDRO USAI.
La ragazza nella nebbia trama
Un piccolo paese di montagna,
Avechot. Una notte di nebbia, uno strano incidente. L’uomo alla
guida viaggiava da solo. È incolume. Allora perché i suoi abiti
sono sporchi di sangue? L’uomo si chiama Vogel e fino a poco prima
era un poliziotto famoso. E non dovrebbe essere lì. Un mite e
paziente psichiatra cerca di fargli raccontare l’accaduto, ma sa di
non avere molto tempo. Bisogna cominciare da alcuni mesi addietro.
Quando, due giorni prima di Natale, proprio fra quelle montagne è
scomparsa una ragazzina di sedici anni: Anna Lou aveva capelli
rossi e lentiggini.
Però il nulla che l’ha ingoiata per
sempre nasconde un mistero più grande di lei. Un groviglio di
segreti che viene dal passato, perché ad Avechot nulla è ciò che
sembra e nessuno dice tutta la verità. Questa non è una scomparsa
come le altre, in questa storia ogni inganno ne nasconde un altro
più perverso. E forse Vogel ha finalmente trovato la soluzione del
malvagio disegno: lui conosce il nome dell’ombra che si nasconde
dentro la nebbia, perché “il peccato più sciocco del diavolo è la
vanità”… Ma forse ormai è troppo tardi per Anna Lou. E anche per
lui.
Arriva il 26 ottobre nelle sale
La Ragazza nella Nebbia, film di esordio
dell’amatissimo scrittore DonatoCarrisi, che presenterà la sua opera prima anche
in preapertura al Festival del Cinema di Roma 2017.
Carrisi porta sul grande schermo uno dei suoi
romanzi più amati, dimostrando come la sua esperienza pregressa sui
set in veste di sceneggiatore, abbia dato buoni frutti. In effetti,
per sua stessa ammissione, la storia de La Ragazza nella
Nebbia nasce come sceneggiatura, rimanendo sospesa e
incompiuta sino al completamento dell’omonimo libro. L’autore,
formatosi come criminologo con specializzazione in Scienza del
Comportamento, dá vita ad una serie di personaggi delineati
perfettamente, indagando nei meandri della complicata psiche
umana.
Non per nulla il film si apre nel
particolare studio dello psicanalista Flores (Jean
Reno): un ambiente disordinato come le menti delle
persone che lo frequentano, costellato di orribili trofei ittici
appesi alle pareti. Lo psichiatra assiste, assieme allo spettatore,
alla ricostruzione della storia dell’ispettore Vogel (ToniServillo). Vogel si trova in uno sperduto
paese di montagna, Avechot, per indagare sulla scomparsa di Anna
Lou (Ekaterina Buscemi). L’ispettore procederà in
questo “nebbioso” mistero lasciando che all’iniziale sicumera
subentri uno stato di totale spiazzamento, che lo porterà ad avere
un incidente quasi mortale e quindi a doverne rendere conto ad uno
psichiatra.
Il film omaggia dichiaratamente il
noir italiano anni ’60, contaminandolo con il più recente thriller
made in USA che fa capo ai cult come Il Silenzio
degli Innocenti e Seven.
Carrisi non sembra affatto un novellino, ma
dimostra di aver imparato la lezione dei grandi maestri di genere,
da Argento a Bava, e soprattutto
costruendo la solida impalcatura narrativa su quello che è il
personaggio dell’investigatore Vogel, appositamente e unicamente
plasmato su Toni Servillo.
Servillo, inizialmente un
po’teatrale, funge necessariamente da anfitrione in un sottomondo
labirintico – quello del gelido paese di Avechot – rappresentato da
un plastico più volte ripreso a volo d’uccello e utile a scandire
l’evolversi degli eventi. Quasi inevitabile quindi non pensare a
Shining e al dedalo di kubrickiana memoria.
Strutturando il suo noir come un’insieme di scatole cinesi, ognuna
delle quali si apre su un personaggio sospetto e ambiguo, il
regista ne delinea magnificamente la caratterizzazione psicologica,
non lasciando nulla al caso. La pellicola procede lenta ma
inesorabile, dando voce alle ombre, ai silenzi e ad una suspense
trepidante, piuttosto che ai colpi di pistola e allo splatter più
banali.
La Ragazza nella
Nebbia è un film sul Male. Male che abita la mente
dell’uomo comune, e non risiede necessariamente nell’animo di un
assassino, bensì aleggia nei deliri fideistici di una piccola
comunità montana, o si diffonde tramite i mass media che lucrano
sui fatti di cronaca nera. Un male che possiede persino chi per
antonomasia è destinato a sconfiggerlo, l’ispettore Vogel di
Toni Servillo tanto affine al Gian Maria Volontè di Indagine su un Cittadino al di sopra di ogni
sospetto.
La location alpina, gelida e
misteriosa, strizza evidentemente l’occhio ai recenti successi
svedesi (letterari e cinematografici), ma riesce nell’intento
anestetizzante nei confronti di uno spettatore che deve capire che
– in questa storia – non esiste il Bene. La stessa soluzione
finale, priva di qualsiasi intento consolatorio, perde quasi di
vista il mistero di partenza perché ciò che qui preme raccontare è
il degrado del genere umano nel suo complesso. Pur se azzardata, la
scelta del film di genere thriller si rivela azzeccata e
rappresenta una coraggiosa voce nel marasma di commedie italiane di
cui il cinema nostrano si alimenta.
Il cast de La Ragazza nella
Nebbia, assieme al regista Donato
Carrisi, si è riunito a Roma per incontrare la stampa in
occasione della promozione del film, in uscita del film il 26
ottobre e della presentazione in anteprima al Festival del Cinema
di Roma.
Donato Carrisi è alla sua
prima regia ma non è certo nuovo nei set, avendo lavorato come
sceneggiatore.
R: Avendo sempre lavorato al
fianco dei registi, non ero del tutto estraneo a questo mondo.
Spesso infatti mi dicono che i miei libri assomigliano a dei
film.
Il film è un’indagine sul
Male. Jean Reno e Alessio Boni – gli altri
due protagonisti oltre a Toni Servillo – come vi siete
relazionati col vostro personaggio, lo psichiatra Auguste Flores
(Reno) e il Professor Martini (Boni)?
Jean Reno:In
questo film nessuno è ciò che sembra. Io interpreto uno psichiatra
e compito degli psichiatri è indagare il dentro degli altri, anche
le personalità più deviate dal male appunto. E del mio stesso
personaggio, un uomo apparentemente semplice, dalla “faccia
onesta”, non si capisce se sia dalla parte del bene o del male.
Questo film è un cammino, un’evoluzione dei vari protagonisti e per
questo lo ho accettato, oltre che per poter lavorare al fianco del
grande Toni Servillo.
Alessio Boni:io non conoscevo Donato Carrisi se non come scrittore, ma solo
marginalmente. Quello che mi ha affascinato di questa sceneggiatura
è la capacità di indagare il Male che vige in ognuno di noi, che
potrebbe serpeggiare dentro di noi. È sempre lì con noi, ma se si
crea una “crepa” nella nostra esistenza potremmo arrivare a farci o
a fare del male. La cosa che mi ha colpito di Donato è la capacità
di entrare nella testa delle persone.
Signor Carrisi come mai
stavolta si è messo a fare il regista, lei che nasce come
scrittore? Non si fidava degli altri o era solo una nuova sfida
verso sé stesso?
In realtà in questo caso non ero
LO scrittore, ma uno degli scrittori. È stato un lavoro di squadra,
un film di autori dove ognuno porta il proprio contributo, dal
montatore allo scenografo. Fare il regista mi ha solo permesso di
ispirare gli altri. Quindi ho dato fiducia a tutta la crew. Ad
esempio, nel personaggio del professor Martini, Alessio Boni
mette del suo. Quindi partendo da un personaggio imperfetto, grazie
all’apporto di Alessio arriviamo ad una figura completa.
Jean Reno dal suo canto ci ha
sorpresi richiedendo di recitare in italiano, quindi il suo
personaggio passa attraverso la sua interpretazione anche della
lingua italiana. Per quanto riguarda Toni il suo protagonista
è nato in me con la faccia di Servillo scolpita addosso, quindi è
un altro discorso.
L’aspetto, negativissimo,
dei Media nel film è essenziale. Un caso giudiziario che diventa
uno strumento di apparizione.
C’è una cosa che nessuno dice:
il crimine è un business. È accaduto anche nella realtà che il
luogo di un efferato omicidio risentisse positivamente della eco
televisiva e mediatica. Un fatto di cronaca nera diventa così un
qualcosa dal forte impatto economico, portando con sé una valanga
di pubblicità, trasmissioni, giornalisti, turismo. È un circo
mediatico e vizioso che riguarda i media, gli investigatori che li
fomentano e i telespettatori famelici che aspettano da casa le
notizie. Non ci sono innocenti. Proprio come in questo film.
L’immagine che appare alla fine de La Ragazza di Nebbia non è solo
quella del mostro assassino, ma anche quella che ci guarda dal
nostro riflesso nello specchio. Siamo tutti un po’ mostri
infondo.
Dopo lo straordinario successo al
Box Office, La ragazza nella nebbia, il film nato
dall’omonimo romanzo e diretto all’esordio dallo scrittore
Donato Carrisi (David di Donatello 2018 come
miglior regista esordiente), con Toni
Servillo nel ruolo dell’ispettore Vogel, sbarca
in prima visione lunedì 15 ottobre alle 21.15 su Sky Cinema
Uno e alle 21.45 su Sky Cinema Hits.
Disponibile anche su Sky On Demand.
Posizionandosi come il film
italiano non commedia con più incassi e più visto della stagione,
la pellicola di Carrisi ha riscosso anche ampi consensi dalla
critica.
Arricchiscono il cast anche
Jean Reno (Il Codice Da Vinci, The
Promise), Galatea Ranzi (La Grande
Bellezza, Il pranzo della domenica) e Lorenzo Richelmy (Sotto una buona stella,
Una questione privata).
LA RAGAZZA NELLA NEBBIA
in prima visione lunedì 15 ottobre alle 21.15 su Sky Cinema Uno e
alle 21.45 su Sky Cinema Hits. Disponibile anche su Sky On
Demand.
La Ragazza nella Nebbia,
la trama
L’ispettore Vogel (Toni
Servillo, Il Divo,
La Grande Bellezza,
Loro) viene mandato in una cittadina isolata di una
sperduta valle montana per investigare sul caso di una sedicenne
scomparsa, la giovane Anna Lou. Intanto, i media prendono d’assalto
la località e la popolazione del paese comincia ad incolpare Loris
Martini (Alessio Boni, La bestia nel cuore,
Maldamore), un professore che si è appena stabilito lì. Ma la
verità si rivelerà più contorta di ciò che si possa pensare.
Presentato a
Venezia nella sezione Orizzonti Extra, il
film di Wilma
LabateLa ragazza ha volato il 23
giugno arriva in sala anche per il grande pubblico.
Trieste, un’adolescente solitaria violata e una serie di
carenze affettive sono i protagonisti della sceneggiatura scritta
da Labate insieme ai fratelli d’Innocenzo.
La sinossi di La ragazza ha
volato
Nadia (Alma
Noce) è una sedicenne di Trieste che studia
all’istituto alberghiero. È una ragazza solitaria e, durante uno
dei suoi vagabondaggi pomeridiani in giro per Trieste, incontra un
ragazzo più grande che la invita a fare una passeggiata fino alla
casa dello zio. Il giovane, apparentemente gentile, si rivela
presto tutt’altra persona e l’incontro tra i due sfocia presto in
uno stupro. Le conseguenze del rapporto violento subito da
Nadia le stravolgeranno la vita, offrendole però
anche una via d’uscita dalla sua solitudine.
La protagonista ipnotica
di La ragazza ha volato
Alma
Noceè un’attrice eccezionale. Oltre alla
bellezza della ragazza, l’intensità delle espressioni del volto
sono ciò che dà carattere al personaggio di Nadia. Dopo
averla vista interpretare la controparte adolescente di Micaela Ramazzotti ne Gli anni più
belli (Gabriele
Muccino), Alma Noce ha ottenuto un
meritatissimo ruolo da protagonista ne La ragazza ha
volato. Gli occhi di Nadia dicono molto di più
delle sue poche battute e, potentemente, esprimono alla perfezione
gli stati d’animo della ragazza.
Nadia infatti parla
poco, ”tiene tutto dentro” come dice sua madre. La solitudine della
ragazza però non è infrangibile: come spesso accade agli
adolescenti, l’atteggiamento a tratti scorbutico di
Nadia nasconde in realtà una necessità profonda di affetto
e di considerazione, sentimenti che le vengono costantemente
negati. A peggiorare la situazione arriva l’incontro con il ragazzo
violento: l’unico a darle attenzioni lo fa nel modo peggiore
possibile.
Una rappresentazione senza
filtri
La violenza subita da Nadia
viene mostrata senza troppe censure e filtri. Wilma
Labate sceglie di seguire passo a passo l’esperienza
traumatica che vive la protagonista di La ragazza ha
volato. La scelta è consapevole e lecita. Non solo la
narrazione permette di empatizzare con il personaggio protagonista,
ma contiene anche una critica ad un tema trattato ancora troppo
poco in Italia. Quanto viene mostrato è realistico, purtroppo:
Nadia rappresenta un’adolescente come tante che vive
un’esperienza traumatica e non trova negli altri l’empatia
necessaria per rendersene conto fino in fondo.
La cinepresa – nella scena cruciale
come in tutto il film – è abbastanza acritica e distaccata.
L’intensità drammatica del lungometraggio scaturisce dai fatti che
si manifestano davanti all’inquadratura. L’utilizzo dei campi
lunghi e di punti di vista laterali dona realismo e rende bene la
solitudine del piccolo – in termini di età come di spazio occupato
nelle immagini – personaggio protagonista de La ragazza ha
volato.
Lo zampino dei fratelli
D’Innocenzo
Si coglie chiaramente la
presenza dei fratelli D’Innocenzo ne La
ragazza ha volato. Gli autori della sceneggiatura, registi
di
America Latinae Favolacce,
portano al film di Wilma Labate quelle tinte
grigie e sciatte della periferia a loro ben familiari. Questa volta
non siamo a Roma ma a Trieste, una città tanto
pulita e ordinata quanto algida. E, questo contesto, riflette
l’atteggiamento dei personaggi.
La ragazza ha
volato è un film che racconta una storia forte e
vera, fatta di volti autentici, contesti semplici e esperienze
tragiche. È un dramma realistico perché mostra tutte le fasi legate
ad un trauma: la vita prima, lo shock subito dopo
e la ripresa nel lungo termine. In questo senso, il lungometraggio
è anche un racconto di formazione che vuole offrire, come si può
intuire dal titolo, una speranza per la realtà periferica e per gli
adolescenti.
Un operaio dell’industria
petrolifera, interpretato da Damon, parte dall’Oklahoma alla volta
di Marsiglia per visitare la figlia, finita in carcere per un
delitto che sostiene di non aver commesso. Messo alla prova dalle
barriere linguistiche, dalle differenze culturali e da un complesso
sistema legale, Bill rende la battaglia per la libertà della figlia
la propria missione. Durante questo percorso, sviluppa un’amicizia
con una donna locale e la sua piccola bambina, che lo porterà ad
allargare il proprio sguardo e a scoprire un nuovo e inatteso senso
di empatia con il resto del mondo.
Accade molto spesso che si decida di
portare sul grande schermo vicende realmente avvenute ma
cambiandole quel tanto che basta da rendere le opere ad esse
dedicate come “liberamente ispirate”. È il caso di
La ragazza di Stillwater, il film diretto nel 2021 da
Tom McCarthy, premio Oscar per Il caso Spotlight, che si ispira chiaramente a una
delle vicende di cronaca più discusse degli ultimi anni, quella
dell’omicidio di Meredith Kercher, di cui la
statunitense Amanda Knox è stata erroneamente
accusata. Tale storia viene però qui arricchita e trasformata,
senza che ciò influisca sulle riflessioni che la storia vera
solleva.
Presentato al Festival di
Cannes, il film parte da queste premesse per raccontare
però anche la determinazione di un padre nel voler salvare sua
figlia, andando contro ostacoli apparentemente insormontabili.
La ragazza di Stillwater offre dunque un racconto
ricco di pathos e tensione, che fa leva su emozioni primarie per
coinvolgere lo spettatore. Il risultato è poi stato apprezzato da
un ampio numero di spettatori e critici, anche se numerose sono
state anche le polemiche sollevate in nome della veridicità storica
e del ritratto che si offre dei suoi protagonisti.
Grazie ora al suo passaggio
televisivo, il film è senza dubbio un titolo da non perdere per gli
appassionati di questo tipo di racconti, ma anche per chi vuole
scoprire di più su una vicenda particolarmente controversa degli
ultimi anni. In questo articolo, approfondiamo dunque alcune delle
principali curiosità relative a
La ragazza di Stillwater. Proseguendo qui nella
lettura sarà infatti possibile ritrovare ulteriori dettagli
relativi alla trama, al cast di
attori e alla storia vera dietro il film.
Infine, si elencheranno anche le principali piattaforme
streaming contenenti il titolo nel proprio catalogo.
La trama e il cast di La
ragazza di Stillwater
Protagonista del film è Bill
Baker, un trivellatore di petrolio dell’Oklahoma che
viaggia fino a Marsiglia, in Francia, per incontrare sua figlia
Allison, che non vede da anni. La ragazza,
infatti, si trova in prigione a causa di un omicidio di cui si
dichiara innocente. Per lei, Bill si troverà a dover affrontare un
sistema legale sconosciuto, molte barriere culturali e
linguistiche, ma soprattutto personali per tentare di scagionare il
sangue del suo sangue. È durante la missione salvifica di Allison
che l’uomo imparerà un senso di empatia fino ad allora
sconosciuto.
Ad interpretare Bill Baker vi è
l’attore Matt Damon, il quale per prepararsi al ruolo
si è immerso nella cultura dei “roughnecks” del petrolio
dell’Oklahoma. Sua figlia Allison è invece interpretata da Abigail Breslin, attrice divenuta celebre
grazie al film Little Miss Sunshine. Accanto a loro,
recitano Camille Cottin nel ruolo di Virginie e
Lilou Siavaud nel ruolo di Maya, mentre
Idir Azougli è Akim, ragazzo che Allison indica
come il vero assassino. Completano il cast Deanna
Dunagan nel ruolo di Sharon, William
Nadylam in quello di Patrick e Anne Le Ny
in quello di Leparq.
La storia vera dietro il film
Sebbene la struttura portante di
La ragazza di Stillwater sia, come anticipato,
liberamente ispirata al caso di Amanda Knox, sono
state prese molte libertà per aumentare l’effetto drammatico della
storia. Per questo motivo, è giusto analizzare quali parti del film
sono basate sui fatti reali e quante sono state inventate per scopi
drammatici. Innanzitutto, a parte il crimine centrale che dà
origine alla trama del film, ben poco di
La ragazza di Stillwater è vero. In primo luogo,
il caso di omicidio in cui è stata coinvolta Amanda Knox si è
svolto a Perugia, in Italia, e non a Marsiglia, in Francia, dove è
ambientato il film.
In secondo luogo, la famiglia Knox è
originaria di Seattle, Washington, non di Stillwater, Oklahoma.
Inoltre, Bill Baker è raffigurato nel film come un operaio edile i
cui valori del Midwest definiscono la sua personalità dura. Nella
realtà, il padre di Amanda, Curt Knox, era il
vicepresidente delle finanze dei grandi magazzini Macy’s di Seattle
e conduceva uno stile di vita molto diverso dalla sua controparte
immaginaria. Sebbene questi dettagli geografici e socioeconomici
possano sembrare insignificanti rispetto alla condanna per omicidio
di Amanda, è importante notare che lo scontro culturale che Bill
sperimenta nel film non è mai stato un fattore nella vita
reale.
Infatti, a detta di tutti, Curt Knox
non si è mai recato in Italia per far uscire Amanda di prigione,
come invece fa Bill in Francia. Il suo intero viaggio oltreoceano e
la sua incapacità di adattarsi alla vita e al sistema legale in
Francia sono stati inventati per il film per riformulare la storia
attraverso la prospettiva di un padre vendicativo. In realtà,
entrambi i genitori di Amanda sono stati costretti ad attendere il
verdetto del processo per omicidio in America. I genitori di Amanda
le hanno dato sostegno finanziario e morale per combattere i suoi
problemi legali all’estero, ma l’intera storyline che coinvolge
Bill che prende in mano le questioni legali in Francia non è mai
accaduta a Curt in Italia.
Tornando alla storia vera, nel 2007
la ventenne Knox si recò a Perugia, in Italia, per studiare
all’estero. Lì viveva con altre tre donne in un appartamento con
quattro camere da letto, tra cui la vittima dell’omicidio,
Meredith Kercher. Dopo essere tornata a casa con
il fidanzato Raffaele Sollecito e aver trovato
sangue in bagno e la porta della camera di Meredith chiusa a
chiave, la Knox ha chiamato la polizia. Dopo essersi
involontariamente implicata nel crimine, la Knox fu arrestata e
condannata per l’omicidio della Kercher. Ha poi trascorso quattro
anni in un carcere italiano nonostante abbia sempre sostenuto la
propria innocenza.
Durante ulteriori indagini sul caso
Knox, fu trovato il DNA di un giocatore di rugby di nome
Rudy Guede (personaggio del tutto rimosso da
La ragazza di Stillwater. Guede fu interrogato e
ammise di essere stato presente sulla scena del crimine, ma affermò
di non aver ucciso Meredith. Tuttavia, una delle maggiori libertà
drammatiche che il film si prende riguarda la fantasiosa trama in
cui Bill rapisce e tortura un uomo di nome Akim (Idir Azougli), che
crede essere il colpevole. In realtà, il padre di Amanda non ha mai
rapito e torturato Guede o altri sospettati di omicidio.
L’espediente hollywoodiano è stato probabilmente creato per
aumentare la posta in gioco di un action-thriller drammatico.
Sebbene
La ragazza di Stillwater salti i laboriosi processi e
le temporanee assoluzioni per snellire gli eventi per motivi di
tempo, il finale del film aderisce parzialmente ai fatti del caso
Knox. È vero che, dopo aver scontato quattro anni in un carcere
italiano, è stata scagionata grazie al test del DNA che ha
dimostrato la colpevolezza di Guede. Dopo otto anni di processi, di
cui quattro di carcere, Amanda Knox è stata definitivamente assolta
dalla Corte di Cassazione nel 2015. Questo differisce drasticamente
dal finale del film, che rivela che Allison ha assunto Akim per
“far fuori” Lina dal suo appartamento.
L’equivoco portò Akim a uccidere
Lina, cosa che Allison non aveva mai voluto. Nella realtà, Amanda
non ha mai partecipato all’ingaggio di Guede per uccidere la
Kercher. Da quando è tornata a Seattle dopo la sua prigionia
italiana, la Knox ha completato la sua laurea e da allora è
diventata autrice di diversi libri, tra cui Waiting to Be
Heard: A Memoir. La Knox è poi diventata anche un’attivista
che ha sostenuto l’Innocence Project, un’associazione no-profit che
si occupa di difendere le persone accusate ingiustamente di
reati.
Il trailer di La ragazza di
Stillwater e dove vedere il film in streaming e in TV
È possibile fruire
di La
ragazza di Stillwater grazie alla sua presenza su
alcune delle più popolari piattaforme streaming presenti oggi in
rete. Questo è infatti disponibile nei cataloghi di Apple
TV e Prime Video. Per vederlo, una volta
scelta la piattaforma di riferimento, basterà noleggiare il singolo
film o sottoscrivere un abbonamento generale. Si avrà così modo di
guardarlo in totale comodità e ad un’ottima qualità video. Il film
è inoltre presente nel palinsesto televisivo di venerdì 9
agosto alle ore 21:20 su Canale
5.
Arriva il 9 settembre in sala
La ragazza di Stillwater, il nuovo film del premio
Oscar Tom McCarthy presentato in concorso al
Festival di Cannes 2021. Nel cast del film Matt Damon, Abigail Breslin e Camille Cottin.
La ragazza di Stillwater, la trama
Un operaio dell’industria
petrolifera, interpretato da Damon, parte dall’Oklahoma alla volta
di Marsiglia per visitare la figlia, finita in carcere per un
delitto che sostiene di non aver commesso. Messo alla prova dalle
barriere linguistiche, dalle differenze culturali e da un complesso
sistema legale, Bill rende la battaglia per la libertà della figlia
la propria missione. Durante questo percorso, sviluppa un’amicizia
con una donna locale e la sua piccola bambina, che lo porterà ad
allargare il proprio sguardo e a scoprire un nuovo e inatteso senso
di empatia con il resto del mondo.
Matt Damon (left) stars as
"Bill" and Camille Cottin (right) stars as "Virginie" in director
Tom McCarthy's STILLWATER, a Focus Features release. Credit Jessica
Forde / Focus Features
Dal regista vincitore del Premio
Oscar Tom McCarthy (Il
Caso Spotlight) arriva in prima tv La
ragazza di Stillwater, potente e commovente film con
Matt Damon e Abigail Breslin, in onda lunedì 30
maggio alle 21.15 su Sky Cinema Uno e Sky Cinema 4K, in streaming
su NOW e disponibile on demand, anche in qualità 4K.
Presentato fuori concorso alla 74ª
edizione del Festival
di Cannes, scritto da Tom McCarthy, Marcus Hinchey e
Thomas Bidegain e Noé Debré, la pellicola è un intenso dramma
familiare, che abbraccia i temi del perdono e della redenzione e
scava anche nel confronto tra culture. Nel cast con Matt Damon e
Abigail Breslin anche Camille Cottin e Lilou Siauvaud.
La ragazza di Stillwater, la
trama
Bill Baker (il vincitore del Premio
Oscar
Matt Damon) è un operaio petrolifero senza lavoro.
Viaggia dall’Oklahoma fino a Marsiglia per visitare la figlia
Allison (l’attrice nominata per il Premio Oscar Abigail Breslin), con cui intrattiene
difficili rapporti. Imprigionata per un omicidio che afferma di non
aver commesso, Allison individua un nuovo elemento che potrebbe
liberarla e spinge il padre a coinvolgere gli avvocati. Ma Bill,
volenteroso di provare il proprio valore e a riguadagnare la
fiducia della figlia, decide di affrontare la questione in totale
autonomia. Velocemente rimane bloccato dalle barriere linguistiche,
dalle differenze culturali e da un complesso sistema legale, fino
all’incontro con un’attrice francese, Virginie, (Camille Cottin),
madre di una bambina di otto anni, Maya (Lilou Siauvaud). Questa
alleanza improvvisata li porta a intraprendere un viaggio di
scoperta, verità, amore e liberazione.
Disponibile nel catalogo di
Netflix a partire dal 27 gennaio, la serie
spagnola La ragazza di neve è in breve
divenuta uno dei titoli più celebri e ricercati sulla piattaforma
streaming. Ad oggi ricopre infatti il primo posto nella Top 10
delle serie TV più viste e dato il suo continuo crescere di
popolarità potrebbe mantenere tale posizione ancora a lungo. Ma
qual è il segreto dietro il successo di questa serie? Scritta da
Jesús Mesas e Javier Andrés Roig
e diretta da David Ulloa e Laura
Alvea, questa offre un racconto investigativo nel quale si
fondono i canoni dei generi mistery e
thriller.
La storia è dunque strutturata per
catturare sin da subito l’attenzione dello spettatore, offrendo
indizi, sospetti, depistaggi e possibili soluzioni ad un enigma che
si rivela più grande e complicato del previsto. Non mancano poi
anche tutte quelle caratteristiche che hanno reso popolari serie
spagnole come La casa di carta o Élite, ovvero la
presenza di emozioni forti, relazioni e passioni pericolose, le
quali contribuiscono a far generare nello spettatore ulteriore
pathos nei confronti dei personaggi e delle loro storie.
La ragazza di neve, il libro di Javier Castillo
Dietro tale ricca struttura
narrativa si nasconde un romanzo di altrettanto successo, quello
scritto Javier Castillo e pubblicato in Italia da
Salani. Castillo, definito anche come “lo
Stephen King spagnolo“, è un’autore di 35 anni particolarmente
apprezzato in patria, i cui romanzi hanno superato il milione di
copie vendute e sono stati tradotti in più di 60 Paesi. Formatosi
studiando Economia aziendale e ottenendo un master in Management
presso la ESCP Europe Business School, inizialmente egli lavorava
come consulente finanziario, ma dopo il successo dei suo primi
libri, ha abbandonato quella professione per diventare uno
scrittorea tempo pieno.
Nel 2022 pubblica infine La
ragazza della neve, che con la sua storia che mescola dramma,
mistero e forte suspence, è divenuto un grandissimo successo
editoriale con milioni di copie vendute in tutto il mondo. Grazie
proprio alla sua storia che rapisce e conquista, era solo questione
di tempo prima che i diritti del romanzo venissero acquistati per
poterne trarre un prodotto audiovisivo. Netflix non ha infatti
tardato a produrre la serie che oggi sta tanto spopolando, a
conferma del grande fascino suscitato da un racconto come questo.
Ma, dopo aver parlato degli elementi alla base della storia di
La ragazza della neve, di cosa parla concretamente il
libro e la serie?
La trama e il cast di La ragazza di neve
Il racconto ha inizio nel 2010, a
Malaga, durante la parata dei Magi. Durante tale occasione
Amaya Martín, una bambina tre anni, sparisce tra
la folla. Dopo lunghe ricerche, guidate dai terrorizzati genitori,
vengono ritrovati solo i suoi vestiti e delle ciocche di capelli.
Il mistero dietro la scomparsa della bambina sembra irrisolvibile e
ci vorranno anni prima che spunti un indizio in grado di rimettere
in moto la macchina investigativa. Proprio il giorno del compleanno
di Kera, i suoi genitori ricevono uno strano pacchetto. Dentro c’è
una videocassetta che mostra una bambina che sembra proprio essere
Kiera, mentre gioca con una casa delle bambole in una stanza dai
colori vivaci.
Dopo pochissimo lo schermo torna
però a sgranarsi in un pulviscolo di puntini bianchi e neri, una
neve di incertezza, speranza e dolore insieme. A guardare tale
video, insieme ai due spaventati genitori, c’è anche Miren
Rojo, che all’epoca del rapimento era una studentessa di
giornalismo e da allora si è dedicata anima e corpo a questo caso.
È lei a condurre ora, insieme
all’esperto Eduardo, un’indagine parallela,
più profonda e pericolosa, in cui la scomparsa di Kiera si
intreccia con la sua storia personale in un enigmatico gioco di
specchi che potrebbe far emergere scheletri dal passato
potenzialmente pericolosi, in modi inaspettati, per tutti i
coinvolti.
Ad interpretare i personaggi
principali si possono ritrovare alcuni noti attori spagnoli, a
partire da Milena Smith nei panni di Miren Rojo.
Dopo aver esordito nel film Non uccidere, ha
ottenuto grande popolarità per aver recitato accanto a Penelope Cruz
in Madres Parallelas,
guadagnando anche una nomination ai premi Goya come miglior
attrice. Accanto a lei, nel ruolo di Eduardo, vi è invece l’attore
José Coronado, recentemente visto anche in Way
Down – Rapina alla banca di Spagna. Sono poi presenti gli
attori Aixa Villagránnei
panni di Belén Millán, Tristán Ulloa in
quelli di David Luque e Loreto Mauleón as Ana
Núñez.
Il finale di La ragazza di neve
Di seguito si riportanno elementi
spoiler riguardanti
il finale della serie, dunque per chi
non ha ancora terminato la visione, si consiglia di interrompere la
lettura. Ma per chi proprio non riesce ad aspettare di arrivare
alla fine del sesto ed ultimo episodio della serie per vedere come
questa finisce, o per chi ha visto il finale e desidera avere
maggiori chiarimenti a riguardo, di seguito si riporta nel
dettaglio la spiegazione di quanto avviene. Innanzitutto, come
saprà chi ha visto o sta vedendo La ragazza di neve, a
rendere avvincente e coinvolgente la storia ci pensa anche una
struttura temporale non lineare, che compie salti temporali avanti
e indietro nel tempo.
Questi permettono allo spettatore di
avere a disposizione una sempre maggior quantità di dettagli su cui
costruire le proprie riflessioni in vista della risoluzione del
caso. Nel finale, si scoprirà dunque che la piccola Amaya è stata
rapita da Iris e Santiago, marito
e moglie e pazienti della mamma della bambina, alla clinica della
fertilità. Il forte desiderio di Iris per la maternità la convince
ad allontanare la bambina dai genitori e a crescerla come se fosse
sua figlia. Amaya vive così ben dieci anni in compagnia dei suoi
rapitori, arrivando a convincersi che siano davvero loro i suoi
genitori e sviluppando una notevole paura del mondo esterno per via
di ciò che Iris e Santiago le raccontano di questo.
Il fine è naturalmente quello di
impedire che la piccola sviluppi curiosità per ciò che si trova al
di fuori del luogo in cui è tenuta, rischiando dunque di essere
ritrovata dai veri genitori. Mossi da compassione, però, i due
rapitori decidono di inviare a questi alcuni brevi video della
bambina, per far sapere loro che sta bene. Sarà proprio grazie ad
uno di questi filmati che Miren riuscirà a risalire al luogo in cui
la piccola è tenuta prigioniera. Dopo averla recuperata, in seguito
ad un incidente in cui Iris perde la vita, la bambina fa però
fatica a riconoscere i suoi due veri genitori come tali e per loro
si prospetta un percorso di riconciliazione piuttosto lungo.
Nel mentre, Miren, durante una
presentazione del suo libro, riceve un pacchetto anonimo che sembra
collegato a un complicato caso di traffico di donne e bambini che
la reporter aveva portato a galla durante le sue indagini. Per lei
dunque sembra avere inizio un nuovo caso da risolvere, lasciando
dunque intendere che la serie potrebbe avere una seconda stagione
ancora una volta con la reporter interpretata dalla Smith come
protagonista. Netflix non ha ancora confermato nulla a riguardo, ma
i presupposti sembrano esserci tutti, anche se in caso di nuova
stagione questa proporrà per forza di cose un racconto originale,
che esula dal romanzo di Castillo.
La ragazza di neve
è un’altra emozionante serie originale Netflix che
ha conquistato i nostri schermi nel 2023 e, dopo un’accoglienza
esplosiva, è tornata con la seconda stagione nel
gennaio 2025. Con temi avvincenti quali indagini, omicidi, giochi
mentali e segreti, è dedicata agli amanti dei thriller
polizieschi.
La serie di 6 episodi riporta in
scena nomi familiari e volti nuovi come Milena Smit, Jose
Coronado, Aixa Villagran, Miki Esparbe e Luis Callejo ed è
diretta da Laura Alvea. Con rivelazioni scioccanti e colpi di
scena, il finale di stagione ha tenuto gli spettatori con il fiato
sospeso.
Se avete visto la seconda stagione
e volete sapere se ci sarà una terza, questo articolo ha tutte le
informazioni che state cercando. Ecco tutto quello che
sappiamo:
Di cosa parla la seconda
stagione di La ragazza di neve?
La ragazza di neve – stagione 2
riprende con il tour promozionale di Miren dopo il successo del suo
libro, The Snow Girl. Uno sconosciuto chiamato God’s Raven
si avvicina a Miren e le chiede di giocare al Soul Game se vuole
scoprire la verità su Laura, una minorenne scomparsa anni fa.
Allo stesso tempo, l’ultimo caso di
Belen e Chaparro è l’omicidio di Allison, che sembra essere stata
coinvolta anche lei nel Soul Game. Miren è costretta a comportarsi
bene poiché è stata affiancata da Jaime, un affascinante
giornalista di Madrid, per scrivere un articolo sul caso di
Allison.
Miren, essendo Miren, decide di
trovare un collegamento tra Laura e Allison mentre sconosciuti e
volti familiari cercano di fermarla. Anche Jaime si ritrova nei
guai con la sua alma mater, poiché si tratta della stessa scuola
frequentata da Laura e Allison.
La ragazza di neve è stato
rinnovato per la terza stagione?
Al momento della stesura di questo
articolo, Netflix non ha rinnovato La ragazza di
neve per una terza stagione.
Netflix tende a considerare le
visualizzazioni e il tasso di abbandono prima di rinnovare o
cancellare una serie, oltre al successo di critica. Alcune serie
vengono rinnovate immediatamente, come One Piece e
Bridgerton, mentre altre richiedono anni, come The
Watcher e The Victim’s Game.
La ragazza di neve 2 ha anche un finale aperto, il che
significa che è stato realizzato pensando a una terza stagione.
Inoltre, Netflix Spagna tende a creare serie con più stagioni come
Cable Girls, Elite e Money Heist, quindi siamo abbastanza
ottimisti. Se il successo di critica e commerciale della stagione
sarà simile a quello della prima, The Snow Girl potrebbe essere
rinnovata.
Cosa sappiamo della terza
stagione di The Snow Girl?
Al momento non si sa molto sulla
terza stagione di La ragazza di neve, dato che non è stata ancora
approvata. Ma ci sono molte domande senza risposta, come ad esempio
cosa succederà a Miren. Inoltre, la polizia fa irruzione in una
lavanderia a gettoni e trova i film snuff di Slide. Vediamo due
nomi: Miren Rojo e Cristina Ruiz.
Questo finale aperto lascia spazio
a ulteriori sviluppi nel caso in cui la serie venisse rinnovata. Se
la serie dovesse tornare, ci si può aspettare una stagione di circa
6 episodi, ciascuno della durata di circa 50 minuti. Tuttavia, non
c’è ancora nulla di confermato, ma aggiorneremo questa pagina non
appena avremo nuove informazioni.
Con l’uscita di La ragazza
di neve – stagione 2, la collezione di thriller di Netflix
si arricchisce di un’altra emozionante aggiunta. La serie
misteriosa spagnola, scritta da Jesus Mesas e adattata dal
romanzo di Javier Castillo, ha tutto ciò che serve per
diventare una serie da guardare tutta d’un fiato nei suoi sei
episodi. La storia segue Miren Rojo (Milena Smit) e
il suo improvviso interesse per un caso di rapimento di una
bambina, Amaya Martín, scomparsa sotto la sorveglianza del padre
mentre la madre era lontana. Miren, una giornalista stagista, ha
una trama che si svolge sotto forma di flashback, mostrando
frammenti del suo stupro e di come il trauma di quell’esperienza
influenzi i suoi sforzi con ogni colpo di scena della vicenda della
bambina scomparsa, mentre i due casi iniziano a intrecciarsi.
La serie riesce magnificamente a
far empatizzare il pubblico con ciascuno dei personaggi, tutti alle
prese con le proprie lotte interiori, il che porta a un finale
emozionante e a un epilogo che lascia la porta aperta a ulteriori
colpi di scena in una seconda stagione, se Netflix darà il via
libera a un altro adattamento.
Un incontro teso tra Miren e
Iris
Tutto ciò che è successo tra il
primo e il quinto episodio ha portato a questo momento. Il pubblico
ha capito subito, non appena Miren ha scoperto il nome di Iris, che
era solo questione di tempo prima che la trovasse. Questo incontro
è stato amplificato dal fatto che Miren si è ritrovata sospettata
nei telegiornali dopo il ritrovamento dei corpi di David Luque
(Tristán Ulloa) e James Foster. Rendendosi conto di essere
con le spalle al muro, capì che era ora o mai più di fare pressione
su Iris e sperare di rintracciare Amaya. Quello che seguì fu la
scena più tesa di una serie ricca di momenti palpitanti.
L’ambientazione stessa alimentava l’intensità di ciò che stava per
accadere, dato che Iris e Amaya, che nei nove anni trascorsi dal
rapimento aveva assunto il nome di Julia, vivevano in una zona
isolata, con una sola strada di accesso e nessun vicino nel raggio
di chilometri. Era come mettere le mani in un nido di vespe:
dopotutto, gli spettatori avevano già visto Iris sparare con un
fucile a un impiegato di banca che era venuto a notificare loro il
mancato pagamento del mutuo.
La conversazione tra Miren e Iris
riassume tutto ciò che gli spettatori sapevano di Miren, ovvero che
è una persona molto astuta. Gli sceneggiatori di La ragazza
di neve hanno fatto un lavoro straordinario nel
fornire chiari indizi al pubblico sui vari momenti in cui Miren ha
iniziato a collegare i puntini e capire che Amaya era tenuta
prigioniera in quella casa.
C’era il videoregistratore che lei
ha notato non appena si è seduta in salotto, che conteneva le due
cassette che Iris e il suo defunto marito Santiago le avevano
inviato in precedenza. La fascia che Iris indossava era dello
stesso tessuto di quella che Amaya indossava nei video che le erano
stati inviati. Miren ha anche notato una piccola bicicletta rosa
nascosta sul retro quando è arrivata.
Qui gli sceneggiatori hanno
aggiunto un tocco di classe, fornendo indizi ma lasciando anche che
lo spettatore giocasse a fare il detective, perché era
evidente che Miren aveva notato quelle cose, ma ciò che restava da
dedurre al pubblico erano altri due indizi. Il primo riguardava
proprio quella bicicletta, quando Iris disse in seguito a Miren
che, dopo la morte del marito, la casa era ora occupata solo da lei
e dal suo cane. Si trattava di una chiara svista, poiché non
spiegava perché questa donna avesse una bicicletta da bambina nel
cortile sul retro. Il secondo indizio sottile era il rumore che
Miren aveva sentito provenire dal piano di sopra, che era una
combinazione di rumori del cane e di Amaya. Iris ha rapidamente
coperto il rumore dicendo che aveva portato il cane al piano di
sopra perché “impazziva” quando c’era gente in giro. Pochi istanti
dopo, poiché il rumore non si dissipa, Iris si offre di portare giù
il cane. Una volta al piano di sotto, Miren riceve un caloroso
benvenuto dal cane e gli spettatori lo vedono poi sedersi
tranquillamente in cucina. Anche se Miren non rivela di aver capito
o meno, è lecito supporre che abbia notato la bugia di Iris.
Una fine violenta che lascia
molti pezzi da raccogliere
A questo punto, tutti i personaggi
coinvolti erano consapevoli che gli altri sapevano cosa stava
succedendo. Iris aveva capito chiaramente di essere stata scoperta,
mentre Miren era sicura che quella fosse la donna che aveva rapito
Amaya. Nel corso dei sei episodi, il team creativo ha fatto un
lavoro straordinario nel delineare i personaggi, e vedere il
risultato a questo punto ha reso il finale degno di tutti i colpi
di scena. Alla fine, quella conversazione ha portato Iris a
raccogliere tutto e fuggire, dando vita a un breve inseguimento in
auto con Miren alle calcagna. Sentendo che nessuno può separarla
dalla sua “figlia”, Iris esce di strada e precipita giù da una
collina, andando incontro alla morte. Amaya, che aveva tenuto
allacciata la cintura di sicurezza, esce dall’auto con ferite al
viso più che altro, e alla fine spara un colpo che sfiora la spalla
di Miren prima che lei riesca a strapparle la pistola e a calmare
la ragazza. Questa scena è stata difficile da guardare perché, con
il passare dei secondi, era sempre più chiaro che non sarebbe
finita bene. Gli spettatori hanno assistito all’ascesa e alla
caduta di Iris, una donna che era una paziente della madre di Amaya
e a cui era stato detto che le sue possibilità di avere un figlio
erano sempre più remote. Per quanto la svolta di Iris nel decidere
di rapire la bambina fosse cupa e inquietante, gli sceneggiatori
sapevano che era importante mostrare le difficoltà che aveva
attraversato affinché questa scena finale avesse l’effetto
desiderato.
La parte restante dell’episodio
vede Amaya ricongiungersi con i suoi genitori, ma chiaramente con
una lunga convalescenza davanti a sé dopo essere stata tenuta in
isolamento per nove anni. Non risponde al nome Amaya in
un’interazione straziante tra la famiglia riunita, ma sua madre
alla fine la chiama Julia e il muro tra i genitori e la figlia si
abbassa leggermente, dando agli spettatori la speranza che il tempo
possa guarire questo rapporto. Nonostante abbia interpretato il
ruolo dell’eroina, Miren non si sente affatto tale dopo aver
salvato la ragazza. La polizia sospetta ancora che lei abbia
qualcosa a che fare con l’incendio doloso, perché sapeva che Miren
aveva scoperto che le due persone morte facevano parte della pagina
web oscura che aveva pubblicato il video del suo stupro. Anche il
pubblico ha visto la sua macchina fotografica con le due foto che
gli investigatori avevano scoperto, dipingendo Miren come la
principale sospettata. La scheda con le foto è stata però distrutta
da Eduardo (José Coronado), che lo ha fatto per proteggerla.
Miren ha avuto molte interazioni durante lo show, ma il suo legame
indissolubile con Eduardo si è rivelato una trama interessante, con
il culmine proprio in questo momento, quando il pubblico ha potuto
vedere fino a che punto lui sarebbe arrivato per proteggerla.
Il significato de La
ragazza di neve viene svelato
Prima della fine della serie, c’è
un salto temporale di due anni e Miren, che sembra aver voltato
pagina senza alcuna prova a suo carico, ha appena pubblicato un
libro intitolato “Snow Girl”. Naturalmente, il libro documenta il
viaggio che ha intrapreso per scoprire la verità sul rapimento di
Amaya Martín. È qui che il pubblico finalmente capisce il
significato del titolo della serie.
Durante una lettura del libro,
Miren spiega che si tratta del rumore bianco che si sentiva alla
fine di ciascuno dei due nastri inviati a lei e ai genitori di
Amaya per far loro sapere che stava bene: “Ogni volta che finivano,
sullo schermo emergeva un rumore bianco interno ed era allora che
vedevo sempre Amaya, ricoperta di neve, tanto che era impossibile
sfuggirle”. Questo è stato il motivo che ha spinto Miren a
perseguire con determinazione la giustizia; semplicemente non
poteva lasciare che quella ragazza cadesse nell’oscurità, anche
dopo nove anni di ricerche.
Sebbene Netflix
abbia etichettato questo programma come miniserie, ciò non
significa che la serie sia giunta al termine. Prima di chiudersi,
Miren riceve una busta con scritto sulla parte anteriore: “Vuoi
giocare?”. Per quanto inquietante possa sembrare, il contenuto
della busta porta questa storia oscura a un altro livello quando
viene mostrata una foto di una ragazza legata. Chi è quella
ragazza? Che cosa ha a che fare con Miren? Alla fine, non si sa
nulla, il che lascia la porta aperta per una seconda stagione se
Netflix decidesse di dare seguito al successo ottenuto con i primi
sei episodi.