Via capelli lunghi e barbone che ha
in Argo, oggi
Ben Affleck a Roma si è presentato in forma
smagliante, con il suo mento prominente in bella vista, e
dispostissimo a parlare di tutto e di più relativamente al suo
ultimo, bellissimo, film. Straordinariamente esaustivo e loquace,
ai limiti del logorroico,
Ben Affleck ha spiegato di sentire una doppia
responsabilità, avendo scelto di dirigere un film tratto da una
storia vera: “La prima è quella di realizzare il miglior film
possibile per il tuo pubblico, di cercare di soddisfarlo
emozionalmente e dal punto di vista spettacolare; la seconda è
quella di rispettare il cuore della verità e della storia che
racconti. È un gioco d’equilibrio, molto complesso. In
Argo, rispetto ai fatti, ho aggiunto un po’
di action nel terzo atto, ma in generale i miei
peccati rispetto alla verità sono di omissione: c’era così tanto
materiale da bastare per una serie di dieci ore, ho dovuto togliere
tanti dettagli.”
-Come ha scelto gli attori?
La maggior parte di loro viene dalla Tv.
“E’ vero. Adesso se si fanno
film drammatici davvero buoni vanno in tv e così se si vuole fare
cinema bisogna scegliere gli attori migliori che possono
interpretare i ruoli. Ma non ho scelto gli attori solo perché
venivano dalla tv, questo è chiaro. Avevo in ufficio delle foto
delle persone vere coinvolte nei fatti, e naturalmente se un attore
ci somigliava tanto era un di più ma non era l’unico criterio. Ad
esempio John Goodman che interpreta il truccatore John Chambers è
molto somigliante!”
-Qualcuno ha detto,
all’epoca dei fatti, che la crisi degli ostaggi contribuì ad
affossare l’amministrazione Carter…
“Non sono un esperto di
politica ma è chiaro che la crisi degli ostaggi ha segnato la fine
dell’amministrazione Carter da un lato e l’inizio delle tensioni
con l’Iran che viviamo ancora oggi dall’altro. Io però non volevo
che il mio film fosse esplicitamente politico, volevo solo
rievocare degli eventi, magari, appunto, facendo dei paralleli con
la storia di oggi. Volevo essere integro. E volevo anche omaggiare
delle persone, come Tony Mendez, che hanno fatto
dei sacrifici nella loro vita e nel loro privato per il bene del
nostro paese.” “Ho voluto inserire nel finale la voice over di
Carter perché aveva un grande valore evocativo, sottolineava che si
è trattato di una storia vera”.
-Com’è stato collaborare
con George Clooney che compare trai produttori?
“Lui ama il cinema
intelligente, e mi ha aiutato molto a ritrovare lo stile sporco, o
la staticità studiata dei film anni ‘70: è bello avere qualcuno che
i film li fa e li gira, come produttore, perché comprende sempre
esattamente la situazione e i problemi che puoi trovarti di fronte
sul set.”
-Nel film il personaggio di
Goodman dice che “Anche un macaco potrebbe fare il
regista”, ci sono molti macachi ad Hollywood?
“Se è vero che forse ci sono
tra le colline dei registi che sono dei macachi, tra cui forse
anche il sottoscritto, non dirò certo che è vero che Hollywood è
popolata da solo pigri e da cialtroni: non potrei mai tornare a
casa. Ci sono però delle verità nei dialoghi sul cinema e su
Hollywood nel film, dialoghi che rispecchiano la competitività e la
spietatezza di quel posto. Poi, come racconto nel film, sia la
gente di Hollywood che quella del mondo dello spionaggio compiono
in fondo operazioni simili: cercano entrambe di creare un mondo che
non esiste, di vedere una bugia. Uno lo fa per arte, uno per altre
ragioni.”