Ospite alla XIV edizione del
Sardinia Film Festival, Luca
Raffaelli, giornalista, saggista e sceneggiatore italiano
esperto di fumetti e animazione, ha presentato la nuova edizione
aggiornata di Le anime disegnate, volume
fondamentale per chiunque voglia approcciarsi alla storia e alla
filosofia del cinema d’animazione, sia da appassionato che da
addetto ai lavori.
Pubblicato inizialmente nel 1994, la
nuova edizione (Tunuè) presenta un lavoro
importante di integrazione con tutto ciò che è accaduto nel cinema
d’animazione negli ultimi 25 anni.
Chiediamo a Luca Raffaelli:
rimettendo mano a questo lavoro, sei ancora d’accordo con il te del
’94?
“Questa è la terza edizione del
libro e ogni volta che l’ho aggiornato mi sono sempre trovato
d’accordo con me, questo mi fa piacere sia dal punto di vista
lavorativo che personale. L’idea del libro è nata durante un
viaggio in Giappone, io, che non ero un amante del cinema
d’animazione giapponese, ho avuto la possibilità di scoprire come
quest’ultimo non fosse realizzato né con il computer né dal
computer, come si diceva, e poi quanto fosse realmente amato dai
giovani spettatori italiani. Era il 1985, e, negli studi
d’animazione, ho visto scatole di lettere che i giapponesi non
sapevano decifrare, ed erano tutte di giovani ammiratori italiani
che si lamentavano del fatto che i loro genitori non gli
permettessero di guardare i loro cartoni animati ed esprimevano il
desiderio di andare a lavorare in Giappone a realizzarli.”
Chi oggi ha dai 30 ai 40
anni considera invece i cartoni animati giapponesi un culto, quando
è accaduto che la cultura occidentale ha accolto questo nuovo modo
di fare animazione?
“Gli anni ’80 sono stati pieni
di articoli di giornalisti che condannavano questi prodotti dicendo
che erano fatti dal computer e non a mano, per poter ipnotizzare
l’attenzione dei ragazzi italiani, perché il linguaggio di questa
animazione era totalmente diverso da quello che avevano visto i
ragazzi della generazione precedente. Se i cartoni americani sono
sempre stati sdrammatizzanti, quelli giapponesi erano invece
drammatizzanti. Abbiamo avuto per la prima volta non più
coniglietti o cagnolini che affrontavano la vita, ma dei ragazzi in
carne e ossa che spesso si disperavano per l’incomprensione che
ricevevano dal mondo e piangevano per la loro solitudine. Un
cambiamento epocale. Come capita molto spesso, quando un adulto
vede che i ragazzi si appassionano a qualcosa di completamente
diverso rispetto a ciò che hanno amato loro, pensano che la cosa
nuova sia sbagliata. Si pensa sempre che la maniera in cui siamo
cresciuti noi sia la maniera giusta per crescere.”
A conclusione del blocco
dedicato al cartone animato giapponese, ne Le Anime Disegnate, si
legge infatti che con questo nuovo linguaggio è il cartone animato
a parlare al giovane spettatore, non più il genitore.
“È stato proprio questo il
grande cambiamento del cartone animato giapponese. Mentre il
cartone animato americano in genere parlava ad un pubblico di
famiglie, perché era destinato al cinema, dai film Warner Bros di
Bugs Bunny a quelli di Topolino, fino ai classici Disney, quello
giapponese era un cartone animato televisivo che si rivolgeva ai
ragazzi, parlava proprio ai loro sentimenti, e questo ha
rivoluzionato il linguaggio del cinema d’animazione
popolare.”
Il libro è diviso in tre
grandi capitoli, ognuno dei quali espone una filosofia e ha un
titolo molto evocativo: Uno per Tutti, per il cinema a marchio
Disney; Tutti contro Tutti, per l’animazione “anti” Disney; Tutti
per Uno, infine, per l’animazione giapponese. Come sei arrivato a
questa razionalizzazione dell’enorme mole di materiale con la quale
ti sei confrontato?
“Quando ho deciso, di ritorno
dal Giappone, nel 1985, che bisognava scrivere qualcosa su questo
argomento, innanzitutto avrei dovuto documentarmi e guardare i
cartoni animati che non conoscevo, per capire quel mondo. Ma mi
sembrava che un libro dedicato solo a quello fosse troppo povero,
così ho cercato di capire in che maniera la filosofia del prodotto
giapponese fosse differente da quella americana. Così è venuta
fuori la distinzione tra le tre filosofie: Uno per Tutti è perché
il personaggio Disney è quello in cui noi ci identifichiamo, da
Biancaneve a Cenerentola, e attraverso il quale cerchiamo di
raggiungere la felicità, liberandoci dal male che ha colpito i
protagonisti. Tutti contro Tutti, invece, è una visione più laica,
i personaggi anti-disneyani non sanno bene dove sia la felicità,
sanno invece dov’è lo scontro e lo cercano per crearsi una
personalità, lo fa Bugs Bunny come lo fa Homer Simpson. In questo
scontro però non c’è redenzione, non c’è possibilità di felicità
eterna, fino ad arrivare alla massima espressione
dell’impossibilità di raggiungere le felicità, che è rappresentata
da Bojack Horseman. Invece, Tutti per Uno vede tutti i personaggi
che si rivolgono allo spettatore. E proprio così era una volta,
soprattutto in Giappone, dove la natalità è molto bassa, ci sono
tanti figli unici e dove tutti i personaggi cercano di consolare
questo bambino solitario davanti alla tv.”
Sembra quindi che il
discorso sull’animazione non possa prescindere dalla Disney, anche
solo per contrapposizione ad essa.
“Questo dipende da un fatto
storico. La definizione delle filosofie si ha con la nascita del
grande cartone animato industriale, alla fine degli anni ’20, e con
l’arrivo del sonoro. La produzione d’animazione precedente è molto
meno strutturata, basata sulla casualità di eventi e produzioni. La
Disney, per prima, dà una filosofia alla propria produzione, non
solo in senso di pensiero ma anche in senso di voler raggiungere la
qualità del cinema di Serie A. Poi arrivano gli anti-Disney, e solo
dopo troviamo i giapponesi con le prime produzioni televisive degli
anni ’60.”
Il libro è stato pubblicato
nel 1994, e nel 1995 è uscito Toy Story. Cosa hai
pensato quando hai visto per la prima volta quel film?
“Innanzi tutto che finalmente
l’animazione al computer aveva raggiunto quella dimensione che per
anni aspettavamo. Ho l’età che mi permette di poter dire che ho
cominciato a vedere le immagini generate all’interno di un computer
ad una lentezza incredibile. Io ho lavorato anche con Guido
Vanzetti, uno dei precursori dell’animazione al computer in Italia.
Sapevamo che prima o poi si sarebbe arrivati al lungometraggio
realizzato al computer, ed è formidabile come i maestri della Pixar
siano riusciti a rimodulare una disneyanità in linea con la
filosofia Disney ma compatibile con il rinnovamento dei tempi.
Certamente non era possibile continuare a fare Biancaneve e i Sette
Nani né era possibile continuare ad avere una struttura di un film
in cui il cattivo rompe l’equilibrio di personaggi che sono
fondamentalmente buoni. La Pixar ci ha dato prova di una capacità
di sviluppare la poeticità disneyana in maniera assolutamente
mirabile. Senza John Lasseter e compagni il cinema d’animazione
sarebbe stato molto più povero.”
Della tua professione hai
dichiarato che in te non esiste la parte di critico e la parte di
appassionato, ma esiste un’unità e questa si approccia alla visione
del film e poi al commento. Come fai a mantenere in equilibrio le
due parti?
“Forse c’è bisogno di un
allenamento per guardare le emozioni in maniera razionale, ovvero
di riuscire a scandagliare quello che si sta vivendo, non solo
quello che si è vissuto, in maniera da capire là dove l’emozione
tradisce la razionalità, e viceversa. Bisogna cercare di avere un
equilibrio, il giudizio di un film non può essere distaccato, deve
esserci la parte emotiva che ti dice se il film ti dà delle
emozioni o non te le vuole dare, se quindi raggiunge il suo scopo
oppure no. Però le emozioni che tu vivi, nel momento in cui le stai
vivendo, devono essere razionalizzate, cioè devi comprendere da che
cosa provengano, cosa te le sta facendo scatenare, diciamo che è
una visione anche psicoanalitica. Bisogna cercare di capire in che
maniera il film può dare emozioni ad altre persone, non solo a te
stesso.”
E non rischi di guardarti
l’ombelico parlando in questo modo di cinema?
“No, perché non guardo me
stesso, cerco sempre di riferirmi alla pellicola, tuttavia un
critico non è mai lontano da se stesso. Scrive sulla base di ciò
che ha ricevuto, e quello appartiene solo a lui perché ognuno
elabora le emozioni che riceve dall’esterno in maniera personale.
Bisogna cercare però di razionalizzare le emozioni, capirle, senza
venirne sopraffatti e allo stesso tempo cercando di non difendersi
troppo. Le emozioni da parte di un film devono arrivare, io stesso
spesso mi commuovo guardando dei film, ma questa commozione deve
essere capita. È per questo che il critico non può essere lontano
dall’appassionato e l’appassionato non può essere lontano dal
critico.”
Qual è invece lo stato
dell’animazione in Italia, sia al cinema che in
televisione?
“Ci sono dei segnali molto
positivi. Quello di Mad Entertainment è uno dei segnali più
importanti, è uno studio a Napoli che lavora con continuità, dopo
L’Arte della Felicità ha fatto Gatta
Cenerentola e adesso sta lavorando ad altri progetti
(The Walking
Liberty, ndr). È un fatto molto positivo che questi
film ricevano premi e che continuino a lavorare. In Italia c’è la
difficoltà di fare film d’animazione o serie televisive che non
siano rivolte a bambini o adolescenti, perché il maggior produttore
italiano del settore è la Rai che si rivolge a quel target. Credo
che questo sia un bel problema, perché l’animazione ormai si
rivolge ad un pubblico anche adulto, e si può permettere di
trattare tutti i temi della vita, come fanno anche molti autori di
cortometraggi che vanno per Festival. Sono tantissimi gli autori
che fanno grande animazione ma non sono aiutati. Bisogna trovare
più produttori coraggiosi che realizzano più film d’animazione
anche tenendo conto che la nuova legge sul cinema offre
all’animazione spazi interessanti. Esistono anche finanziamenti da
parte dello Stato che prima non erano previsti. Quindi,
rimbocchiamoci le maniche e cerchiamo di lavorare!”
Bisognerebbe riconoscere
all’animazione il ruolo di strumento e di linguaggio, non quello di
genere.
“Questo è importantissimo. Come
si fa a paragonare il lavoro di autori tanto differenti nel mondo
dell’animazione e metterlo tutto nella stessa categoria. Animazione
è anche Persepolis, anche Valzer con
Bashir, film che non hanno davvero nulla a che vedere con
i film per bambini.”
Edito da
Tunuè in questa nuova veste, Le anime
disegnate si fregia di una bellissima copertina ad opera
di Lorenzo Ceccotti, in cui la filosofia Disney e
quella dell’animazione giapponese si incontrano: la mano di
Topolino e quella di un mecha si stringono, su fondo bianco, un
riassunto perfetto dell’interessante contenuto del volume. E, a chi
accusa questa rappresentazione di essere incompleta, perché non
comprende la filosofia anti-Disney, Luca Raffaelli
risponde che, nella sua immaginazione, quella stretta di mano tra
un topo e un robot nasconde una statuetta di Bugs Bunny.
