Peter Berg
(Hancock) produce e dirige Battleship, un
epico film di azione e avventura che si svolge in mare, in cielo e
sulla terraferma e che narra della lotta per la sopravvivenza da
parte degli umani contro una forza aliena superiore.
Basato sul classico gioco Hasbro,
la battaglia navale, Battleship vanta
star quali Taylor Kitsch e Brooklyn Decker nei panni di
Sam, fisioterapista e fidanzata di Hopper; Alexander
Skarsgård, nei panni del fratello maggiore di Hopper; l’Ufficiale
Comandante Stone della USS Samson; Rihanna nei panni di
Raikes, compagna al college di Hopper e specialista di armi nella
USS John Paul Jones, e la star internazionale Liam Neeson nei
panni del superiore di Hopper e Stone (e padre di Sam),
l’Ammiraglio Shane.
Ecco il video dietro le quinte con
i commenti dei realizzatori:
Guarda il Dietro le quinte del film
candidato a 12 Premi Oscar Lincoln di Steven Spielberg. Il filmato è un ampio
guardo dietro la realizzazione della pellicola ed ha
The Last of
Us racconta una storia che si svolge vent’anni
dopo la distruzione della civiltà moderna. Joel, un sopravvissuto,
viene incaricato di far uscire Ellie, una ragazzina di 14 anni, da
una zona di quarantena sotto stretta sorveglianza. Un compito
all’apparenza facile che si trasforma presto in un viaggio brutale
e straziante, poiché i due si troveranno a dover attraversare gli
Stati Uniti insieme e a dipendere l’uno dall’altra per
sopravvivere.
Nel cast Pedro Pascal nel ruolo di Joel e Bella Ramsey nel ruolo di Ellie. Gabriel Luna è Tommy, Anna Torv interpreta Tess, l’attrice
britannica Nico Parker è Sarah. Murray
Bartlett veste i panni di Frank, Nick
Offerman quelli di Bill, Storm Reid è
Riley, Merle Dandridge è Marlene. Il cast include
anche Jeffrey Pierce nel ruolo di Perry,
Lamar Johnson in quello di Henry, Keivonn
Woodard nel ruolo di Sam, Graham Greene
nel ruolo di Marlon, Elaine Miles nel ruolo di
Florence. E con Ashley Johnson e Troy Baker.
The Last of
Us è scritta da Craig Mazin (Chernobyl) e
Neil Druckmann (il videogioco The Last Of Us) che ne sono anche i
produttori esecutivi. The Last Of Us è una co-produzione
Sony Pictures Television con Carolyn Strauss, Evan Wells, Asad
Qizilbash, Carter Swan, e Rose Lam come produttori esecutivi. La
serie è prodotta da PlayStation Productions, Word Games, The Mighty
Mint, e Naughty Dog.
Nell’era dei
cinecomics sembra stranissimo ricordare che, ad
esempio, Robert Downey Jr ha un grande talento
drammatico ampiamente dimostrato in altri film in cui non indossa
la corazza di Iron Man, o che Chris Hemsworth, per
quanto molto giovane, ha dimostrato di essere un bravissimo attore
senza l’ausilio dei fulmini di Thor, o che, ancora, Chris
Evans non si prende sempre tanto sul serio come il suo
Cap, ma che riesce anche a far sorridere qualche volta, o ancora,
il forzuto e cinematograficamente imponente Wolverine di
Hugh Jackman è un grande attore di musical, come
Les Misérables ha mostrato.
Ecco le migliori performance
‘extra-fumetto’ degli attori che sono, che sono stati o che saranno
supereroi al cinema:
Presentato a Venezia 2011 nelle
Giornate degli Autori, Dietro il buio di Giorgio
Pressburger – regista soprattutto di teatro, che si cimenta qui con
la trasposizione del testo teatrale di Claudio Magris Lei
dunque capirà – è un esperimento assai interessante sotto
molti punti di vista. Innanzitutto, perché propone mito e teatro
insieme, assumendosi l’onere del passaggio, sempre rischioso, al
grande schermo. I puristi del cinema rileveranno senz’altro i segni
di questa matrice teatrale (in primo luogo la forma del monologo,
scelta anche per il film, poi alcuni momenti particolarmente
“teatrali”). A noi interessa piuttosto il risultato, ossia se il
lavoro funzioni. E possiamo rispondere di sì.
Un altro motivo d’interesse è che
riunisce attorno al regista, Pressburger, e all’autore del testo,
Claudio Magris, nomi noti e importanti del nostro panorama
culturale, un cast di giovani, con la loro voglia di fare e
mettersi in gioco: gli attori, Sarah Maestri e Gabriele Geri, per
citare solo i protagonisti; i produttori della Sine Sole Cinema. E’
un film a basso budget, girato in due settimane, che non può certo
contare sui potenti mezzi delle grandi produzioni, ma riesce a
coinvolgere soprattutto per il suo carattere evocativo e
visionario.
La si può considerare una
rielaborazione del mito greco di Orfeo ed Euridice, ma non è solo
questo. Il mito, qui attualizzato, dei due amanti – il poeta e
cantore Orfeo e la ninfa Euridice, separati dalla prematura morte
di lei, finché Orfeo, pazzo di dolore, ottiene il permesso di
andare a riprenderla nell’Ade. I due potranno tornare sulla terra a
condizione che lui non si volti mai a guardarla lungo il cammino –
è certamente la traccia nota da seguire. Ma ci dà poi la
possibilità di immergerci in un universo onirico e visionario,
quello dell’aldilà pensato da Claudio Magris, un
universo claustrofobico e angosciante, cui Pressburger dà corpo,
anche con l’aiuto di Paolo Magris
co-sceneggiatore: al centro di questo universo, una “casa di cura”,
o come viene definita nel film “casa per il riposo”, che ha i
caratteri di un ospedale psichiatrico (le riprese sono state
effettuate a Gorizia, nell’istituto che fu diretto da Basaglia),
così come i suoi ospiti dai volti assenti sono simili a dei
pazienti psichiatrici. Vagano infatti come reclusi senza sapere
nulla, ignari e soli, ma costantemente controllati dall’ombra del
Signor Presidente. L’ambiente finisce così per diventare anch’esso
protagonista del film. La similitudine tra la prigionia del defunto
nell’aldilà e quella della persona affetta da disagio
mentale-fisico nell’istituto di cura risulta molto efficace e
suggestiva.
In questo universo risuonano solo
le parole di Euridice che, nel testo come nel film Dietro
il buio, per la prima volta racconta in prima persona la
sua storia. Anche lei una “paziente” che, più che raccontare,
sembra lasciarsi andare a un monologo simile al flusso di
coscienza. La giovane Sarah Maestri, che la interpreta, è chiamata
qui a una difficile prova, dovendo portare sulle sue spalle il peso
di un monologo teatrale. Dimostra grinta e talento, e alla fine
porta a casa il personaggio. La recitazione verbale è molto
modulata e diversificata, e ben si adatta alle varie sfaccettature
del personaggio. A questa s’accompagna l’espressività del corpo e
del viso, seguita con grande attenzione dal regista, che scruta
movimenti ed espressioni della sua protagonista. Ricorderemo certo
la vivezza di alcuni sguardi assenti, o persi nel ricordo, come di
certi gesti (i movimenti delle mani o dei piedi), ma anche qualche
scivolata, qualche momento meno convincente.
Le atmosfere inquietanti che
caratterizzano la pellicola sono abilmente create dal regista
attraverso l’alternanza di luce ed ombra, sole e buio, in continua
contrapposizione (alternanza che ci permette di seguire anche il
cammino verso la decisione di Euridice); come attraverso la
circolarità dello spazio: Orfeo ed Euridice prima vagano a lungo
dentro e fuori la casa. Ma sembrano tornare sempre allo stesso
punto, destinati a non incontrarsi mai. Poi s’incontrano, ma
l’impresa di trovare la via d’uscita sarà altrettanto ardua, come
in un labirinto. Ed infine Euridice dovrà scegliere se seguire o no
il suo amato (interpretazione ardua anche per Gabriele Geri/Orfeo,
perché privato di molte possibilità espressive, riesce a rendere
comunque una tensione che si scioglie solo nel finale. Il senso del
personaggio è, d’altronde, fortemente legato alla scelta registica
che Pressburger opera su di lui).
Un aldilà quello di Magris e
Pressburger, che ci porta lontano dai territori della religione o
della fede, verso una dimensione agnostica, dove dominano dubbio e
angoscia. Lo spettatore è portato così a porsi a sua volta l’eterno
quesito esistenziale cui i due danno qui la loro risposta.
Interessante a questo proposito anche la rilettura finale del mito,
legata alla natura del poeta e più in generale dell’artista.
Steven Soderbergh
caratterizza tutta la sua filmografia (quella che firma, senza
contare i lavori sotto pseudonimo) da un continuo alternarsi di
pellicole importanti con film a basso budget o con esiti poco
felici. Con Dietro i Candelabri, in
concorso all’ultima edizione del Festival
di Cannes, il regista si conferma capace di raccontare storie
complesse e sopra le righe, con grande profondità e
naturalezza.
Prima di Elvis, di Elton John, di
Madonna, Bowie e Lady Gaga, c’è stato Liberace: pianista virtuoso,
intrattenitore stravagante e figura originale del palcoscenico, del
music hall, della televisione. Wladziu Valentino Liberace (il nome
all’anagrafe del musicista nato in America da padre italiano e
madre polacca) ha rappresentato in scena come nella vita privata
tutto l’eccesso, il glamour e il kitsch che solo un
entertainer totale come lui poteva permettersi negli anni Cinquanta
e Sessanta. Nell’estate del 1977 Liberace conosce il giovane Scott
Thorson e, nonostante la differenza di età e l’appartenenza a mondi
decisamente lontani, i due diverranno amanti per 5 anni.
Dietro i
Candelabri racconta la storia d’amore, proibita e
tenuta sempre segreta, tra Lee (come si faceva chiamare dagli amici
il performer) e Scott, ruvido ragazzo cresciuto in un ranch. A dare
volto e corpo a questi due personaggi ci pensano due signori
attori: Michael Douglas, che senza alcuna inibizione e
con grandissimo talento, mette da parte il suo machismo per
interpretare un personaggio complesso, colorito e sfaccettato;
Matt Damon, praticamente perfetto nel ruolo dei toy
boy della grande star.
Soderbergh
realizza un film opulento, perfettamente curato nella messa in
scena e nei costumi, soprattutto, veri e propri tributi ad uno
stile inconfondibile e (per fortuna) passato di moda. Il racconto,
senza sbavature, procede in maniera lineare, concentrandosi su
questa strana convivenza tra due persone che si amano ma che alla
fine non riescono a rimanere insieme, tentando di ferirsi a
vicenda.
Il film, lontano da toni
propriamente drammatici, ha un che di beffardo e di intimamente
divertito, caratterizzandosi per la rappresentazione di un
personaggio profondamente e palesemente omosessuale, che però cerca
di mantenere una parvenza di eterosessualità che poco gli si
addice. Lo spettatore, rapito dal luccichio dei diamanti sui
costumi di Liberace e abbagliato dal gusto per il trash che pervade
tutto il film, rimane abbagliato per 117 minuti con una
disposizione d’animo a metà tra il divertito e l’imbarazzato, senza
avere il coraggio di distogliere lo sguardo dalla performance di un
Michael Douglas davvero in forma
smagliante.
Il film, nato come progetto
televisivo ma che uscirà il prossimo 5 dicembre in Italia, ha fatto
incetta di Primetime Emmy Awards riportando alla ribalta
Steven Soderbergh, da troppo tempo succube della
sua iperattività cinematografica.
Ecco il trailer
dell’ultimo premiato lavoro di Steven Soderberg,
Dietro i Candelabri, film con
protagonisti degli eccezionali Michael Douglas e
Matt Damon.
Prima di Elvis, di
Elton John, di Madonna, Bowie e Lady Gaga, c’è stato Liberace:
pianista virtuoso, intrattenitore stravagante e figura appariscente
sia sul palcoscenico che in televisione. Primo vero performer
famoso in tutto il mondo, con il suo
stile ha affascinato un pubblico
sterminato per tutti i 40 anni di carriera. Wladziu
Valentino Liberace (il nome all’anagrafe del musicista nato in
America da padre italiano e madre polacca) ha rappresentato in
scena come nella vita privata tutto l’eccesso, il glamour e il
kitsch che solo un entertainer totale come lui poteva
permettersi negli anni Cinquanta e Sessanta.
Nell’estate del
1977 Liberace conosce il giovane e affascinante Scott Thorson e,
nonostante la differenza di età e l’appartenenza a mondi
decisamente lontani, i due saranno amanti per 5 anni. Dietro i
candelabri è la storia di questa stupefacente relazione amorosa –
dal primo incontro in un teatro di Las Vegas all’amara separazione
finale.
“Troppo gay per il
grande schermo”. Con queste parole si è sentito rispondere
Steven Soderbergh quando ai produttori di
Hollywood propose il soggetto per Dietro i
Candelabri, un film sulla vita di
Liberace, iconico pianista che tra gli anni ’50 e
’70 fu molto famoso negli Stati Uniti, soprattutto per i suoi
eccessi nella vita e nel look, che contrastavano con il suo essere
ultraconservatore nel privato, tanto da non uscire mai dal
cosiddetto “closet” per tutta la vita.
Soderbergh, in un intervista a
Hollywood Reporter, sottolinea come la frase dei
produttori lo avesse fatto sorridere, visto che questo film veniva
dopo Brokeback Mountain, molto esplicito nella
relazione che nasce tra i due cowboy, e soprattutto dopo tutta una
cinematografia che in effetti non si era mai curata della “gayezza”
del soggetto, come nel caso del Rocky horror picture
show, del 1975 o del più recente Piume di
struzzo, remake americano de Il vizietto
con Robin Williams.
Così mentre il cinema europeo si
mostra più libero a mostrare storie e storie d’amore non canoniche
con libertà, La vita di Adèle a guidare il gruppo,
il paese dove per primo negli ultimi dieci anni è diventato legale
il matrimonio tra persone dello stesso sesso, sembrava non essere
pronto alla visione della storia dello showman più importante dei
venti anni tra il ’50 e il ’70.
Dietro
i Candelabri viene quindi portato ai
produttori televisivi dove ha un trattamento completamente diverso,
la HBO, vedendoci lungo come al solito, lo produce e il
film viene poi portato a Cannes nel 2013, trasmesso e poi premiato
come miglior miniserie e miglior attore protagonista,
Michael Douglas, agli ultimi Emmy awards.
Ma la linea temporale non è così
semplice come viene raccontata, la gestazione
di Dietro i
Candelabri inizia 10 anni fa, subisce uno
stop molto lungo perchè Michael Douglas voleva
assolutamente avere questa parte, ma, allo stesso tempo, doveva
anche combattere il cancro alla gola che gli era stato
diagnosticato. Douglas supera la chemio e la cura, al suo fianco,
nel ruolo dell’amante mai riconosciuto di Liberace, viene chiamato
Matt Damon, che per interpretare il ruolo del
ventenne Scott porta tutto il tempo una parrucca, al contrario di
Douglas che invece chiede che vengano usati solo i suoi veri
capelli.
Insomma una vera realizzazione
barocca per questo film, così come fu la vita del pianista: nato da
immigrati italo-polacchi (il suo vero nome è infatti
Wladziu Valentino Liberace) fu il primo,
addirittura negli anni ’40 a proporre i primi videoclip sfruttando
la sperimentazione del sonoro da poco scoperto e abbinato
all’immagine filmata, e fu il primo a realizzare spettacoli con una
vera e propria scenografia di abbellimento: i candelabri del titolo
erano infatti presenti ad ogni suo spettacolo, diventando un “prop”
ricorrente.
Il film esce nelle sale italiane il
prossimo 5 Dicembre, ma chissà se il pubblico nostrano non sia
troppo lontano dal conoscere chi sia questo showman
americano per apprezzare la pellicola. La fiducia è tutta riposta
nelle grandi capacità registiche di Soderbergh e l’attrattiva del
binomio Matt Damon – Michael Douglas nel cast.
Matthew
McConaughey, che vedremo presto in Magic Mike al
top della sua forma fisica, sta perdendo tantissimo peso per
interpretare un malato di AIDS nel film The Dallas Buyer’s
Club, basato sulla storia vera di Ron Wodruff, che dopo la
terribile diagnosi decise di darsi alle medicine illegali per
vivere il più a lungo possibile.
Ecco come appare adesso
Matthew:
E’ veramente strano vedere l’attore
in questa condizione fisica, dal momento che si è costruito una
carriera sui suoi muscoli, ma è stato lui stesso a riferire che
“devo sembrare di non essere per niente in salute”.
Il periodo è particolarmente
fervido per l’attore californiano che, oltre a questoprogetto che
gli sta rivoluzionando il fisico, lo vedremo presto in splendida
forma in Magic Mike, e nel prossimo film di Martin
ScorseseThe Wolf of Wall Street, insieme
a Leonardo DiCaprio.
Divenuto celebre per alcuni famosi
film girati nel suo paese, l’attore messicano Diego
Luna si affermato negli anni anche in quel di Hollywood,
arrivando ad ottenere fama internazionale grazie alla sua
partecipazione al film Rogue One: A Star Wars
Story. Apprezzato interprete, Luna si è distinto anche
come sceneggiatore, produttore e regista, sfoggiando un talento
cinematografico completo, che gli ha permesso di ottenere numerosi
riconoscimenti da parte della critica e del pubblico.
Ecco 10 cose che non sai su
Diego Luna.
Diego Luna: i suoi film
1. Ha recitato in film di
grande successo. Dopo aver preso parte ad alcuni film
girati in Messico, l’attore diventa celebre grazie al personaggio
di Tenoch in Y tu mamá también (2001), di Alfonso
Cuarón. Da quel momento inizia a costruire la sua carriera
partecipando a film come Frida (2002), The
Terminal (2004), Dirty Dancing 2 (2004),
Mister Lonely (2007), Milk (2008),
Elysium (2013) e
Rogue One: A Star
Wars Story (2016), con cui consacra la sua popolarità.
Recita poi nei film The Bad
Batch (2016), Flatliners – Linea mortale (2017),
Se la strada potesse
parlare (2018) e Un giorno di pioggia a
New York (2019).
2. Ha preso parte ad una
celebre serie televisiva. Dopo aver recitato in alcune
serie televisive messicane, l’attore viene scelto per ricoprire il
ruolo di Mìguel Angel Félix Gallardo nella serie NetflixNarcos: Messico,
dove recita insieme a Michael
Peña.
3. Si è distinto come
regista. Luna esordisce alla regia nel 2010 con il
lungometraggio Abel, presentato al Sundance Film Festival.
Successivamente dirige l’episodio intitolato Pacifico
all’interno del film Revolución. Nel 2014 dirige invece il
film Cesar Chavez, incentrato sul sindacalista e
attivista statunitense.
4. È noto anche come
doppiatore. Tra le altre qualità sfoggiate da Luna vi è
quella per il doppiaggio. L’attore ha infatti ricoperto tale ruolo
per il film d’animazione Il libro della vita, e per le
serie animate Trollhunters (2018) e 3 in mezzo a
noi (2018-2019).
Diego Luna in Narcos: Messico
5. Ha faticato a calarsi nei
panni del personaggio. L’attore ha dichiarato che quello
di Felix Gallard è probabilmente il ruolo più difficile della sua
carriera fino ad ora. Luna ha infatti riscontrato diverse
difficoltà nel comprendere le motivazioni che spingono il
personaggio a compiere terribili atti contro altri esseri umani. Il
suo tentativo è stato quello di renderlo un personaggio
tridimensionale, cercando di coglierne l’aspetto umano.
Diego Luna in Star Wars
6. Sarà protagonista di una
serie dedicata al suo personaggio. L’attore, che in
Rogue One: A Star Wars Story interpretava il personaggio
di Cassian Andor,
ha confermato lo sviluppo di una serie incentrata su tale
personaggio. Luna si è dichiarato entusiasta di poter rivestire i
panni di un personaggio da lui tanto amato, esplorandolo in eventi
precedenti a quelli visti nel film.
Diego Luna e Woody Allen
7. È tra i protagonisti del
nuovo film del regista newyorkese. In Un giorno di
pioggia a New York, Luna interpreta il personaggio di
Francisco Vega, attore frustrato dal fatto che gli vengano proposti
sempre gli stessi ruoli, e che tenterà una via di fuga dalla
quotidianità con il personaggio interpretato dall’attrice Elle
Fanning.
Diego Luna in The
Terminal
8. Ha recitato in un film di
Steven Spielberg. L’attore è tra i
personaggi principali del film diretto da Steven
SpielbergThe Terminal, dove recita al fianco del
premio Oscar Tom
Hanks. Nel film l’attore ricopre il ruolo di Enrique
Cruz.
Diego Luna in Dirty Dancing 2
9. È protagonista del film
rivisitazione del noto film di ballo. Luna interpreta il
personaggio di Javier Suarez nel film Dirty Dancing 2 (il
cui titolo originale è Dirty Dancing: Havana Nights). Il
film non ha infatti legami con il film del 1987, ma riutilizza la
stessa trama nel contesto cubana, durante gli anni della
rivoluzione di Fidel Castro.
Diego Luna età e altezza
10. Diego Luna è nato a
Città del Messico, in Messico, il 29 dicembre 1979.
L’attore è alto complessivamente 178 centimetri.
Quando il tuo lavoro quotidiano viene
speso a pianificare una ribellione in una galassia molto, molto
lontana, è utile avere qualcosa che possa riportarti sulla Terra, o
su qualunque pianeta tu chiami casa.Quando non è il
più ricercato dell’Impero in “Andor”
di Disney+, Diego
Luna torna a teatro. È cresciuto
insieme al padre, ed è stata la costante della sua
carriera. “In un certo senso, mi ha
mantenuto sano di mente”, dice l’attore dopo una lunga
giornata sul set londinese della
seconda stagione di “Andor”. “Il
teatro è un ottimo modo per tornare indietro e mettere i piedi per
terra e ricordarti cosa questo è tutto.“
Tra la produzione delle
stagioni 1 e 2, ha trascorso due mesi su un palcoscenico di Madrid
dirigendo “Cada vez nos despedimos major“, un monologo che
presentava solo se stesso, un musicista e tre
lampade. Era molto diverso dai giganteschi set,
dalle orde di comparse e dalle altissime aspettative dell’universo
di “Star
Wars”.
Quella versatilità nella scala dei
suoi progetti ha definito l’intera carriera di Luna, per la quale
sarà onorato con un
Variety Virtuoso Award il 4 marzo al Miami
Film Festival. Da adolescente, la sua incursione
nel cinema messicano è arrivata in un momento in cui gli attori
hanno prestato i propri vestiti e auto per la parte.“Era risaputo che se ti fosse stato chiesto di
fare cinema, l’ultima cosa che avresti fatto era pensare di essere
pagato“, ammette l’attore. Alla
fine ha trovato un progetto che gli è valso il plauso e non
richiedeva i suoi effetti personali. Il classico on the road
di Alfonso Cuarón del 2001 “Y tu mamá
también” è spesso citato come un progressivo balzo in
avanti per il cinema messicano e ha lanciato la carriera di
Luna.
Nei 22 anni successivi, l’attore,
regista e produttore ha fatto di tutto, da drammi di prestigio
(“Frida” e
“Milk”), successi animati
(“Il libro della vita” e
“Maya e i tre“) e diverse serie
televisive ( “Narcos:
Messico” e “Pan y Circo”). Ma non importa il
progetto – con i piedi per terra o tra le stelle – deve esserci un
gancio personale per Luna. “Questa è
la bellezza di questo lavoro“,
dice. “Se c’è qualcosa di personale per ogni
progetto, diventano come francobolli che ti ricordano dove sei
stato.”
La serie tv
ANDOR
ANDOR
è stata ampiamente acclamata come la migliore serie TV di
Star
Wars su Disney+ e ha raccolto un
successo che sarà certamente duraturo. Nonostante le notizie
secondo cui lo show ha faticato a trovare un pubblico, siamo sicuri
che avrà tempo e modo per conquistare tutti e la storia raggiungerà
una conclusione adeguata, portandoci direttamente nella storia di
Rogue One, ora la seconda stagione sta andando
avanti come previsto. ANDOR presenta
Star
Wars da una prospettiva diversa, concentrandosi sulle
persone comuni le cui vite sono influenzate dall’Impero. Le
decisioni che prendono hanno conseguenze reali e la posta in gioco
per loro e per la Galassia non potrebbe essere più alta.
Diego Luna ritorna nei panni di Cassian
Andor
ed è affiancato dai membri del cast Genevieve O’Reilly,
Stellan Skarsgård, Adria Arjona, Denise Gough, Kyle
Soller e Fiona Shaw. I produttori
esecutivi sono Kathleen Kennedy, Tony Gilroy, Sanne
Wohlenberg,
Diego Luna e Michelle Rejwan. Tony
Gilroy è anche il creatore e lo showrunner.
Diego Luna si
prepara a tornare sulla terra. In attesa di vedere l’attore
messicano alle prese con quella galassia lontana lontana
(sarà infatti nel cast dell’atteso primo spin-off della saga di
Star
Wars, dal titolo Rogue One), arriva
da Empire la notizia che Luna affiancherà Ellen
Page (Juno, Inception, Freeheld) nell’annunciato
remake di Linea Mortale (Flatliners) ad
opera della Sony Pictures.
La pellicola sarà diretta da
Niels Arden Oplev (regista danese noto per
Uomini che odiano le donne), mentre la sceneggiatura
porterà la firma di Ben Ripley (Source
Code). David Blackman e Laurence
Mark figureranno tra i produttori. Le riprese del film
inizieranno a luglio.
Linea mortale (Flatliners)
è un film del 1990 diretto da Joel Schumacher, che
narra le vicende di un gruppo di studenti di medicina che
sperimentano su sé stessi la morte indotta chimicamente con l’unico
scopo di provare l’esistenza dell’aldilà. Il cast del film
originale include Kiefer Sutherland, Julia Roberts, William
Baldwin, Oliver Platt e Kevin Bacon.
Già la prima foto spoiler di Bradley Cooper nei panni di
Lucifero ha fatto molto parlare di sè, adesso il film di Alex
Proyas, rifacimento del Paradiso Perduto di Milton
Si è spento a 60 anni Diego
Armando Maradona. Campione della nazionale di calcio
dell’Argentina e amatissimo e in Italia, a Napoli, dove ha militato
conquistando due scudetti, il calciatore è stato una di quelle
figure larger than life, che il cinema stesso ha celebrato
più volte.
Amando a Maradona
Amando a
Maradona è un film
documentario del 2005 diretto da Javier
Vázquez. Il film è uscito in Argentina il 22
dicembre 2005 e nel 2006 (in date diverse) nel
resto del mondo.
Maradona – La Mano de Dios
Maradona – La mano de
Dios è un film del 2007 diretto
da Marco Risi, incentrato sulla vita del calciatore
argentino Diego Armando Maradona. Questo film è
riconosciuto come d’interesse culturale nazionale
dalla Direzione generale Cinema e
audiovisivo del Ministero per i beni e le attività
culturali e per il turismo italiano, in base alla delibera
ministeriale del 26 settembre 2005.
Maradona di Kusturica
Maradona di
Kusturica (Maradona by Kusturica) è
un film documentario del 2008 diretto
da Emir Kusturica, presentato il 20 maggio 2008 fuori concorso
al 61º Festival
di Cannes. Originariamente il titolo avrebbe dovuto
essere Maradona – El pibe de oro. Il film è stato
distribuito nelle sale cinematografiche italiane il 30
maggio 2008.
Maradonapoli
Il film documentario del 2017 è
diretto da Alessio Maria Federici e, forse
più di ogni altro, racconta il mito di Maradona con gli occhi degli
italiani che lo hanno amato di più.
Diego Maradona
Diego Maradona è
un documentario del 2019 diretto da Asif
Kapadia, che narra le vicende del celebre calciatore Diego
Armando Maradona nei suoi anni al Napoli.
È stata la mano di Dio
Si tratta del progetto di Paolo
Sorrentino le cui riprese si sono appena concluse. Si tratterà di
“un film intimo e personale, un romanzo di formazione allegro e
doloroso” con sullo sfondo la permanenza di Maradona al Napoli. Lo
vedremo su Netflix.
Disponibili il Trailer e le nuove
immagini di Dieci
Minuti, il film diretto da Maria Sole
Tognazzi (Viaggio Sola, Io e Lei, la serie
Petra), prodotto da Indiana Production e Vision
Distribution, in collaborazione con Sky e in collaborazione con
Netflix.
Dieci
Minuti ha come protagoniste Barbara Ronchi,
Fotinì Peluso e
Margherita Buy.
Con loro Alessandro Tedeschi, Anna Ferruzzo, Marcello
Mazzarella, Mattia Garaci, Matteo Cecchi e con la
partecipazione di Barbara Chichiarelli.
Soggetto e sceneggiatura sono di Francesca
Archibugi e Maria Sole Tognazzi, e il
film, prodotto da Marco Cohen, Benedetto Habib, Fabrizio
Donvito e Daniel Campos Pavoncelli, è
liberamente ispirato al romanzo Per Dieci Minuti di
Chiara Gamberale (edito da Feltrinelli).
Dieci Minuti sarà nei cinema dal 25
gennaio distribuito da Vision
Distribution.
La trama di Dieci
Minuti
Dieci
Minuti al giorno possono cambiare il corso della
giornata. Dieci minuti facendo qualcosa di completamente nuovo,
possono cambiare il corso di una vita. Questo è quello che scoprirà
Bianca nel pieno di una crisi esistenziale. Nuovi incontri, la
scoperta di legami speciali e l’ascolto di chi ci ha sempre voluto
bene. A volte basta poco per ricominciare e questo film ce lo
insegna, attraverso un racconto caldo e appassionante di
rinascita.
Il cinema di Maria Sole
Tognazzi è donna. La regista, che ha all’attivo cinque
lungometraggi, un documentario e un corto, ama posare gli occhi – e
la macchina da presa – su sguardi, tormenti e gioie femminili, per
affrescarne un dipinto elegante, delicato e dettagliato. Da
Viaggio da sola a
Io e lei,fino
all’ultimoDieci minuti, Tognazzi
mette al centro della sua poetica le donne, figure che, come lei
stessa dice quando era agli inizi della sua carriera, non hanno mai
ricoperto un ruolo centrale e privilegiato, ma si sono spesso
dovute accontentare di essere un supporto, comprimarie secondarie,
“costrette” a rimanere un passo indietro e mai nel cono di luce che
meritavano.
I tempi, però, stanno cambiando, non
solo nel tessuto sociale ma anche in quello cinematografico, e lo
dimostrano i recenti prodotti audiovisivi in cui non solo ci sono
più protagoniste da raccontare, ma anche più registe che esprimono
la loro unica e attenta visione. E così la cineasta si inserisce in
quella categoria di artiste che sente l’esigenza di far emergere, o
per meglio dire irrompere, voci e presenze femminili sullo schermo,
partendo da un testo di riferimento scritto da una donna,
Chiara Gamberale, e avvalendosi di una
co-sceneggiatrice, Francesca
Archibugi (La
Storia), che la aiutasse a modellare la storia di Bianca,
nel romanzo Chiara. Dieci minuti è una
produzione Indiana Production e Vision Distribution, in
collaborazione con Netflix e Sky,
ed è nelle sale dal 25 gennaio, giorno in cui –
coincidenza – debutterà un altro film che si cuce addosso a una
donna e porta sulle spalle il suo percorso di crescita e scoperta:
il Leone d’Oro Povere
Creature!
Dieci minuti, la trama
Bianca è nel periodo peggiore della
sua vita. Il marito Niccolò l’ha lasciata all’improvviso e lei non
si capacita del perché: in fondo, secondo la sua distorta visione,
andava tutto bene. Eppure lui è risentito: non si sente ascoltato e
supportato, gira tutto intorno alla moglie. Non è riuscita nemmeno
ad accorgersi che ha un’altra. Sul fronte del lavoro, le cose
procedono allo stesso modo: sul treno verso casa, Bianca viene
chiamata dal suo responsabile e licenziata in tronco. In più, in un
gioco di flashback, pare che la donna sia segnata anche da un
incidente, avvenuto poco dopo la separazione, che l’ha fatta
smettere di guidare. Tutti questi eventi l’hanno destabilizzata,
rendendola assente e inerme davanti a tutto e tutti. Non riesce a
fare molto, Bianca, se non andare dalla dottoressa Brabanti,
psicanalista che le propone una sfida per scuoterla dal suo torpore
quotidiano: tutti i giorni, una volta al giorno, Bianca deve fare
qualcosa di completamente nuovo, che fuoriesca dalla sua normalità.
Qualcosa che magari non farebbe mai. Grazie a questa terapia,
Bianca farà nuovi incontri, scoprirà legami speciali e inizierà ad
ascoltare chi le ha sempre voluto bene. Tentando di affrontare la
sua crisi.
Oltre le barriere della mente
Il quasi omonimo romanzo di Chiara
Gamberale, Per dieci minuti, è un racconto intimo e
autobiografico di una donna nel pieno della sua
(ri)fioritura. Un percorso, ma anche un processo, di ardua
rinascita che si riscontra nel film liberamente ispirato di
Tognazzi, in cui a essere messa in luce è la paura dell’abbandono e
come questa lavori sulla psiche umana tanto da disintegrarla.
Bianca è piena di fragilità, spesso immobile e cieca davanti a una
vita che le scorre e in cui c’è un crocevia di persone a cui lei
non riesce a dare la dovuta attenzione. Neppure al marito. Crede di
essere partecipe delle esistenze degli altri, ma in realtà non
ascolta, non si connette con il resto del mondo e nel frattempo,
senza accorgersene, viene risucchiata in una solitudine che, se
prima era solo prigione mentale, diventa poi fisica con la
separazione da Niccolò.
Si intersecano in lei emozioni
contrastanti, ma è l’essere inerme a dominarla nel quotidiano e a
farla sprofondare nel buio. È spenta ed egoriferita la Bianca di
una quanto più umana e tenera Barbara Ronchi, consumata dalle sue
stesse paranoie e dal timore di conoscere verità che sarebbe meglio
sigillare in un cassetto faendo finta che non esistano. Perché
spesso è più semplice crearsi una realtà immaginaria, piuttosto che
fare i conti con quella vera, più dura e complessa. Occhi smarriti,
sguardo basso e cupo, labbra spesso arricciate: rimanendo fissa sul
suo volto sofferente, la regista intercetta tutte le
sfumature di un animo travagliato, compiendo un
viaggio nelle emozioni e nei turbamenti di una donna in piena crisi
esistenziale, che tenta alla fine di tornare a galla e
rinascere dalle sue ceneri. Dandosi la possibilità di riscoprirsi e
forse proprio di conoscersi nel profondo.
Un cast ben assortito
Come dicevamo all’inizio di questa
recensione, Maria Sole Tognazzi si dedica anima corpo e cuore alle
sue protagoniste, le accarezza dolcemente, ecco perché le donne del
film, e in particolare la sua Bianca, hanno una posizione di
assoluto rilievo. Ronchi ha due comprimarie di tutto rispetto, una
più che credibile Margherita Buy nelle vesti della psicanalista,
il cui ruolo le calza a pennello, e Fotinì Peluso,
il cui personaggio è stato scritto per il film, che interpreta
Jasmine, la sorella di Bianca, una ragazza da un lato esuberante,
dall’altro bisognosa di trovare un posto (che non è un luogo bensì
una persona) da chiamare casa. Nonostante Dieci
minuti sia una storia che favorisce il punto di vista
e la solidarietà femminile, la figura maschile – in questo caso
Niccolò in primis – non è mai posta sotto la lente del
giudizio.
La regista non è intenta a fare la
morale e non vuole trasformare un racconto prevalentemente
drammatico – con deliziosi inserti divertenti – in una narrazione
femminista, tanto che empatizzare e comprendere il personaggio di
Alessandro Tedeschi è pressoché naturale. Resta sì sullo sfondo, ma
è bilanciato e ben caratterizzato e considerato, non diventando mai
oggetto di critiche. Al netto di quanto scritto, ciò che invece
sembra mancare un po’ è la completezza del gioco dei “dieci
minuti”: seppur si riesca a mostrare come una soluzione divertente
e funzionale per far uscire Bianca dall’impasse in cui si trova,
sembra che non ci si sia voluti sbilanciare troppo sui vari momenti
in cui si dedica a fare quell’altro che le fa paura, schifo o la
entusiasmi. Sarebbe stato interessante esplorare meglio questo
aspetto, e vedere fin dove la fantasia delle creatrici potesse
spingersi. Ciononostante, Dieci minuti è
un film godibile, buono, che si lascia amare nel suo essere
delicato e calibrato, e dimostra quanto Maria Sole Tognazzi si
prenda cura delle sue antieroine, facendole brillare di luce
propria nonostante le ferite che si portano addosso.
Dieci inverni è il
film del 2010 diretto da Valerio Mieli con
protagonisti
Isabella Ragonese,
Michele Riondino, Glen Blackhall, Sergej Zhigunov.
Dieci inverni
racconta la sera d’inverno del 1999 i diciottenni Silvestro e
Camilla , studenti fuori sede a Venezia , si incontrano su un
vaporetto: sarà l’inizio di un percorso lento e graduale, lungo
dieci anni in cui si avvicineranno e perderanno, sempre per pochi
attimi e sempre d’inverno, prima di riuscire a comprendere e a
rivelare i propri sentimenti.
Può un amore palesemente scritto
nel destino dover attendere dieci anni prima di sbocciare
pienamente? Dopo Harry ti presento Sally e in attesa
dell’imminente One Day di Lone Scherfig con
Anne Hathaway e
Jim Sturges, nuove passioni lente ad esprimersi
attraversano i Dieci inverni di
Valerio Mieli: ben lontano dal rischio
di cadere nelle trappole delle più tremende commedie
sentimentali, il luminoso esordio del regista romano è un
racconto pulito e spontaneo, abile nel descrivere i quadri
invernali del decennio che porta ai trent’anni senza la retorica e
le convenzioni giovanili esasperate dai romanzi di
Moccia, regalandoci un’esperienza intimamente coinvolgente e
felicemente isolata dai più recenti trend di un cinema
italiano quasi poco interessato a lavorare su un terreno più
squisitamente emotivo senza prendersi in giro e cercare la
risata.
Dieci Inverni, tra malinconia e suggestione
E’ una Venezia malinconica quella
in cui accettiamo piacevolmente di immergerci, assai più
affascinante e suggestiva nel suo abito pallido e silente che nelle
colorate e caotiche cartoline turistiche, preferendo a un rampante
motoscafo o alla solita gondola in Canal Grande un vaporetto
arrugginito dove un ragazzo con una buffa pianta e una ragazza che
porta una strana lampada si incontrano per la prima volta in una
fredda sera d’inverno; dopo una prima castissima notte
apparentemente senza seguito, le strade di Silvestro e Camilla
iniziano a incrociarsi numerose volte per pochi attimi o per
brevi periodi, in frammenti di vita in attesa come gelidi cristalli
di neve.
Attraverso un cammino perennemente
in fieri, fra frasi non dette e grandi speranze che
cedono spesso alle piccole cattiverie e vendette della
quotidianità, Camilla e Silvestro provano a cercare altre strade
verso la felicità fingendo di poter rinnegare consapevolmente sé
stessi: senza che il sole faccia mai capolino i due intraprendono
carriere differenti, vivono altre storie e si dividono fra le calli
deserte di Venezia e le rigide sere moscovite, in due città tanto
diverse quanto abili entrambe a congelare i sentimenti. Quando
le reciproche esperienze li hanno fatti finalmente crescere
dandogli il coraggio di rischiare, l’incantesimo invernale
finalmente può infrangersi e lasciare arrivare la primavera, con il
sole che illumina gli sguardi e quella casetta dove da studenti
avevano convissuto, sfiorandosi senza mai riuscire davvero a
toccarsi e a bruciare.
Un film delicato e sospeso
Valerio Mieli
costruisce dunque col suo saggio di diploma al Centro
Sperimentale di Cinematografia di Roma un film delicato e sospeso,
una finestra sul mondo dei sentimenti che nella semplicità trova il
suo punto di forza e che nonostante i tempi lenti e la fredda
ambientazione non annoia e scalda il cuore, complice il
suggestivo pianoforte di Francesco De Luca e Alessandro
Forti e la surreale fotografia di Marco
Onorato; ottime le prove di
Michele Riondino e Isabella Ragonese, bravissimi nel tratteggiare
le storie di due personaggi immaturi e inesperti ma mai eccessivi o
caricaturali, nelle cui umane insicurezze e reazioni sbagliate ma
all’apparenza inevitabili è facile identificarsi: almeno una volta
nella vita abbiamo sperato di trovare qualcuno che ci accompagnasse
lungo il percorso, abbiamo pensato che si nascondesse lontano in
qualche luogo remoto dove non siamo mai stati quando invece era lì,
così vicino a noi, senza che riuscissimo a riconoscerlo.
Sadik indossa
sempre un vecchio e logoro cappotto, gli piace dissetarsi di latte
fresco direttamente dalla bottiglia di vetro, è un ex avvocato con
un passato dietro le sbarre e ora da uomo libero si cimenta
nell’arte dell’investigazione. Lui è un investigatore privato di
Istanbul, protagonista di una nota trilogia di gialli dello
scrittore Mehmet Eroglu, un vero e clamoroso caso
letterario in Turchia, da cui è stato tratto quest’omonimo film
Dieci giorni tra il bene e il male. Questo adattamento
non è solo che il primo, di ben altri due, in arrivo nei
prossimi mesi disponibili ovviamente sempre in streaming sulla
piattaforma di Netflix che si
occupa della distribuzione nel mondo.
La trama di Dieci giorni
tra il bene e il male
Il detective Sadik (Nejat Isler) è stato
ingaggiato per trovare un ragazzo scomparso da un mese, questa
ricerca gli è stata affidata da Maide una vecchia amica di lunga
data. Il giovane di cui si sono perse le tracce è Tevfik
(Ata Artman), il figlio maggiore di Yeter, la tata
della donna che incarito del difficile compito l’investigatore di
questo film.Dieci giorni
tra il bene e il male è diviso in dieci giornate –
quelle del titolo – ed è una storia di genere giallo hard
boiled, proprio come quelli che guarda alla televisione di
continuo Sadik con per protagonista il detective Philip
Marlowe. Come in qualsiasi thriller che si rispetti la persona
ricercata non è mai quella che viene raccontata dalla madre,
ansiosa di riabbracciare il suo “passerotto”, ma si avvicina più a
quella descritta dalla sorella minore, una studentessa ribelle
Pinar (Ilayda Akdogan), escort nel tempo libero
per guadagnare soldi per pagarsi vestiti, cellulari, e altre cose
che un’adolescente potrebbe desiderare. Tevfik, non era affatto uno
stinco santo anzi, era un protettore dedito ad un giro losco tra
prostitute, immigrati clandestini fatti schiavi e anche di bambini
orfani che nessuno cerca.
Sadik, durante la sua investigazione, incontra
tante persone sinistre e malavitose come “il capo”, che usa una
strana chiave inglese a forma di artiglio, con la quale strappa le
unghie e le dita ai suoi nemici che intanto tortura, un collega di
Tevfik nella tratta degli esseri umani e pure un sicario. Per
ultimi una coppia inquietante di gemelli albini ricchi, che
sembrano i cosplay dei più noti Targaryen, che si dedicano a giochi
sadici e criminali, forse il momento più assurdo di tutte le quasi
due ore, ma che da la spiegazione alla scena iniziale del film, con
la coppia mascherata durante una caccia dove uccidono sadicamente
con un pugnale un ragazzo innocente. Nel frattempo il detective,
raccolte tutte le prove scovate, risolve il caso, ritrova il
giovane che consegna nelle mani sadiche dei gemelli e ci guadagna
un sacco di soldi oltre a far liberare, dagli amici poliziotti,
tutte le persone rapite, anche i bambini dal covo di
Tevfik.
Sadik sulla scia
dei suoi colleghi detective televisivi
Uno
dei tratti distintivi, quando si pensa ad un detective, è il suo
abbigliamento e il suo immancabile cappotto. Sadik
uscito dalla penna di Mehmet Eroglu, come ci ha insegnato lo
Sherlock di BBC interpretato da Benedict Cumberbatch o forse di più
il Cormoran Strike di Robert Galbraith – pseudomino di J.
K. Rowling – anche il nostro affascinante investigatore privato
di Istanbul ovviamente indossa sempre il suo amato soprabito
pesante e marrone. Il regista Uluc Bayraktar
consapevole del significato e dell’importanza visiva
dell’indumento, gli dedica alla fine del film, l’ultima scena in
cui Sadik finita la missione che gli era stata affidata, ha appeso
il cappotto al chiodo e finalmente parte per la tanto desiderata
vacanza al caldo, magari sull’isola tropicale che sogna da sempre
con la nuova fidanzata, la vicina di casa Fàtima.
Netflix, 2022. Fotografia: Şinasi Sparrow
Il primo film sul
detective di Sadik
Questo poliziesco turco sceneggiato da
Damla Serim, è un buon tentativo delle produzioni
turche di mostrare che non sanno fare solo le commedie romantiche o
le dizi. Il film ovviamente per la sua struttura guarda molto al
cinema hollywoodiano, con tutta una raccolta di luoghi comuni del
genere, tipo i vari personaggi che intralciano le ricerche del
detective.Il protagonista,
grazie al talento del suo interprete Nejat Isler,
rende al suo detective quel tratto dell’uomo burbero, sarcastico ma
che nasconde un lato gentile che dona esclusivamente alle giovani
donne che gli girano intorno e che chiedono il suo
aiuto.
Sadik ricorda molto i vari investigatori
privati solitari, tratti da saghe crime letterarie famose, che
hanno invaso nelle ultime stagioni televisive italiane ed
europee.Dieci
giorni tra il bene e il male – in originale İyi Adamın
10 Günü – è solo il primo film tratto dal capitolo uno che
compone la trilogia letteraria, tanto che Netflix alla fine della
visione di questo thriller, suggerisce la visione del trailer del
secondo adattamento Altri dieci giorni tra il bene e il
male, in arrivo in estate il 18 agosto di
quest’anno.
Sarà disponibile dal 31 gennaio in
esclusiva RaiPlay la serie spagnola Dieci
Capodanni, presentata in anteprima in Italia alla
Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di
Venezia. Una serie creata da Rodrigo
Sorogoyen, Sara Cano, Paula Fabra e diretta dallo stesso
Sorogoyen, regista candidato agli Oscar nel 2019
per il cortometraggio “Madre”, vincitore anche di
due Premi Goya (As bestas, Il Regno) e un premio César (As
bestas), insieme a Sandra Romero e David Martìn de los Santos. I
primi 5 episodi della serie saranno disponibili sulla piattaforma
Rai a partire dal 31 gennaio, i successivi dal 7 febbraio.
La trama di Dieci
Capodanni
Ana, interpretata da Iria del Río
(già nota per i suoi ruoli nelle serie tv Elite e Velvet) e
Óscar, interpretato da Francesco Carril (Un amor, Ramona e La
Reconquista), compiono 30 anni la notte di Capodanno, ma la loro
vita è molto diversa. Ana vive in un appartamento condiviso,
cambia spesso amici e cerca ancora la propria strada. Óscar,
medico per vocazione, sembra avere tutto sotto controllo, seppur
con una relazione instabile alle spalle. La loro storia inizia
proprio nella notte del Capodanno 2015 e si sviluppa lungo un
decennio fatto di amore, rotture e momenti di crescita personale,
intrecciando il loro viaggio verso la maturità.
Dieci Capodanni è
una serie che si distingue per il suo stile narrativo unico. Ogni
episodio, infatti, rappresenta una “istantanea” della relazione tra
Ana e Óscar, mettendo in scena una notte di Capodanno e raccontando
così, non solo la loro storia d’amore, ma anche lo sviluppo delle
loro personalità nel corso del tempo. La narrazione esplora dieci
anni cruciali nella vita dei due, dai 30 ai 40 anni, un periodo di
transizione dove si resta giovani o si cresce velocemente. La serie
Dieci Capodanni, con un approccio realistico e
contemporaneo, sviluppa la storia dei protagonisti puntando ad una
profonda connessione emotiva con il pubblico e lo fa anche
attraverso l’introduzione di un elemento meta- narrativo: Ana e
Óscar, infatti, in ogni episodio osservano coppie diverse, offrendo
agli spettatori una prospettiva intima e autentica.
Come racconta il regista,
Rodrigo Sorogoyen:“Quando ho pensato a questo
progetto, volevo mostrare l’evoluzione personale e sentimentale di
una coppia, evitando nostalgia o spiegazioni forzate. Il nostro
obiettivo era rappresentare la realtà della crescita e del
cambiamento. Le riprese in ordine cronologico hanno permesso agli
attori di immergersi completamente nei loro ruoli, rendendo
autentico il viaggio dei personaggi. Non credo di esagerare quando
dico che l’esperienza visiva e sonora che avranno gli spettatori
guardando la serie assomiglierà molto alla contemplazione della
vita e della crescita di due persone comuni”.
Los años nuevos è una serie
originale Movistar Plus+ in collaborazione con Caballo Films e in
associazione con ARTE France.
Nonostante non abbia, e forse non
abbia mai avuto, un valore artistico indiscutibile, il premio Oscar
resta ilpiù prestigioso riconoscimento a cui si possa aspirare nel
mondo del cinema. In prossimità dell’annuncio delle nomination agli
Oscar 2016, ecco 10 attori che, dopo aver vinto un Oscar, sono
stati in qualche modo ‘maledetti’ nella loro carriera, trovando poi
difficoltà a ottenere altri ruoli notevoli.
Sei persone si svegliano in
prigioni di vetro, vestiti con grezze tute di panno, si guardano
cercando di scorgere qualcosa oltre alla spessa oscurità che li
circonda. Qualche istante dopo il buio si dissolve e compare uno
sconosciuto, il suo volto sereno suscita incertezza e timore. E’
l’inizio di un incubo. Comincia così Die, thriller
psicologico diretto dal canadese Dominic James
che, sulla scia di SAW, mette in scena i folli
giochi mortiferi di un pazzo disturbato, Jacob. La prima cosa che
si nota in Die, e che ne costituisce il principale
pregio, è che pur avendone le possibilità il film non scade mai
nello splatter, pur mantenendo un carica violenta
piuttosto alta. Questo particolare lo rende sicuramente meno
appetibile per il giovane pubblico assetato di squartamenti
cinematografici, ma conferisce al film la finezza psicologica che
si ritrova soprattutto nella messa in scena del ‘gioco’ perverso,
vero protagonista del film, e nella costruzione del personaggio del
cattivo Jacob, interpretato discretamente da John
Pyper-Ferguson (X-Men – Conflitto finale).
Accanto a lui un ottimo gruppo di
attori (Emily Hampshire, Elias Koteas, Patricia
McKenzie,Fabio Fulco) nel quale spicca,
purtroppo per difetto, l’italiana Caterina Murino nel ruolo di
Sofia Valenti. All’attrice si riconosce un buon lavoro dal punto di
vista fisico ed estetico, ma la sua performance resta piatta,
ostacolata oltretutto dalla pessima scrittura del personaggio.
Buone invece la fotografia e le musiche, che contribuiscono
notevolmente ad aumentare l’efficacia della storia.
Da sottolineare il coinvolgimento,
nella produzione, di coraggiose forze italiane, che una volta tanto
sfidano il nostro mercato e la tradizione nostrana, investendo in
un film di genere (nè commedia nè dramma). Thriller psicologico
che, partendo da un presupposto commerciale, si rivela un prodotto
anomalo, Die è una produzione italo-canadese che mantiene alta la
tensione, riuscendo a coinvolgere lo spettatore.
“Prima la fisica e poi le
donne“: una battuta pronunciata da uno scienziato nel corso
del film Die Theorie Von Allem, presentato in
concorso a
Venezia 80, che strappa una risata al pubblico. Solo
il corso degli eventi del film di Timm Kröger ci
farà capire che questa frase potrebbe sintetizzare il conflitto del
suo protagonista, Johannes, un dottorando in
fisica che sta scrivendo la tesi finale da due anni con non poche
difficoltà e il cui percorso verso la laurea potrebbe venire
ulteriormente messo in crisi da una serie di doppi femminili.
Die Theorie Von Allem, la
trama
1962. Johannes
Leinert, insieme al suo consulente di dottorato, si reca a
un congresso di fisica sulle Alpi svizzere, dove uno scienziato
iraniano dovrebbe rivelare una “teoria rivoluzionaria della
meccanica quantistica”. Ma quando i fisici arrivano all’hotel a
cinque stelle, l’ospite iraniano non si trova da nessuna parte. In
assenza di una nuova teoria da discutere, la comunità dei fisici si
rivolge pazientemente allo sci. Johannes, invece,
rimane in albergo per lavorare alla sua tesi di dottorato, ma
presto si distrae, sviluppando una particolare attrazione per
Karin, una giovane pianista jazz. Qualcosa in lei sembra strano,
sfuggente. Sembra che lei sappia delle cose su di lui, cose che lui
pensava di conoscere soltanto. Quando una mattina uno dei fisici
tedeschi viene trovato morto, due ispettori arrivano sulla scena,
indagando su un caso di omicidio. Mentre nel cielo appaiono
formazioni nuvolose sempre più bizzarre, il pianista scompare senza
lasciare traccia e Johannes si ritrova trascinato
in una sinistra storia di falsi ricordi, incubi reali, amori
impossibili e un oscuro, ruggente mistero nascosto sotto la
montagna.
Una teoria di bianchi e neri
Timm Kröger, che è
stato per anni direttore della fotografia, usa la fotografia come
veicolo principale per la costruzione di un’atmosfera immersiva e
avvolgente, consacrata da un bianco e nero d’impostazione
estremamente classica. Dal punto di vista visivo e d’immaginario,
il film ha un’impronta precisa e sicura, che convince senza
sovrastare la narrazione, almeno in una prima parte.
Come la tesi di
Johannes, incentrata sulla probabilità e un’idea
venutagli in sogno, Die Theorie Von Allem ci
catapulta in un racconto di doppi, punti di vista differenti,
orbite sconosciute, intrecciando la declinazione di sci-fi che un
fortunatissimo prodotto televisivo sempre tedesco, Dark, ha portato in auge, alla
cospirazione e all’impianto da noir classico. Purtroppo, la sua
struttura sfilacciata e lacunosa, tanto quanto la tesi di Johannes
– idea di partenza più che brillante – fatica a tenere alta
l’attenzione dello spettatore, sempre più confuso sul ruolo che i
personaggi giocano nella storia.
Timm Kröger
assicura alla trama una notevole direzione degli attori, che
riescono quasi sempre a rimanere dei punti di riferimento per gli
spettatori, anche quando il tessuto narrativo inizia a vacillare.
Jan Bülow e Olivia Ross, in
particolare, convincono in una dinamica amorosa alla
Vertigo, che ci fa dubitare di ogni
immagine e parole pronunciate da questa famme fatale, una pianista
jazz, che potrebbe saperne molto più di lui di fisica. La loro
storia d’amore sopravvive all’ipertrofia semantica del film, che
sta sempre su un gradino più in alto dello spettatore, sul
cucuzzolo delle montagne svizzere, mentre rimaniamo intrappolati
nelle grotte sotteranee dove spazio e tempo divergono.
Ecco il nuovo trailer di
Die Hard: un buon giorno per morire, che
vede tornare operativo l’agente della CIA John McClane, ancora
interpretato da Bruce Willis,
Dopo il primo spot tv che vi
abbiamo mostrato ieri, ecco il secondo video per la promozione
televisiva di
Die Hard – Un buongiorno per morire, film che vede
ancora una volta John McClane (Bruce Willis)
insieme al figlio (Jai Courtney), agente operativo
della CIA, e portarli in Russia, alle prese con minacce
nucleari.
Sebastian Koch, Yulia
Snigir, Cole Hauser, Amaury Nolasco, Megalyn Echikunwoke,
Anne Vyalitsyna e Mary Elizabeth
Winstead completano il cast diretto da John
Moore.
Divenuta una delle saghe
cinematografiche d’azione più celebri di sempre, Die
Hard comprende oggi cinque titoli usciti in sala in
un arco temporale che va dal 1988 al 2013. Protagonista assoluto è
l’attore Bruce
Willis, che ricopre qui il ruolo del poliziotto John
McClane. Nel corso degli anni, questi si è trovato coinvolto in
avventure sempre più estreme e rischiose, in missioni adatte
soltanto ad un uomo “duro a morire”. Anche per merito di ciò, il
personaggio è stato indicato come uno dei più iconici del cinema,
nonché uno dei più importanti nella carriera di Willis.
Tutto ebbe inizio con il romanzo
Nulla è eterno, Joe, pubblicato nel 1979 dallo scrittore
Roderick Thorp. Il primo film della saga, Die
Hard – Trappola di cristallo, è infatti la trasposizione
cinematografica di questo. Il titolo ebbe poi un tale successo che
i produttori decisero di dar vita ad una serie di sequel. Fu così
che arrivarono 58 minuti per morire – Die Harder (1990) e
Die Hard – Duri a morire (1995). Dopo una pausa di 12
anni, la saga ha visto prendere vita il quarto film, Die Hard –
Vivere o morire (2007), seguito poi dal quinto e attualmente
ultimo capitolo, Die Hard – Un buon
giorno per morire (2013).
Complessivamente, tutti i film
della saga si sono rivelati buoni successi commerciali. A fronte di
un budget totale di circa 390 milioni di dollari, i cinque film di
Die Hard hanno fruttato un guadagno di oltre 1,4 miliardi.
Ad oggi non si conosce il destino della saga. Willis ha sempre
dichiarato di voler realizzare un sesto capitolo, con
il quale poter salutare una volta per tutte il personaggio. Dal
2013 ad oggi, tuttavia, non sono state rilasciate notizie a
riguardo. Ciò ha portato a pensare che, se ci sarà, bisognerà
attendere un po’ più del previsto per un nuovo film della
serie.
Die Hard: la trama dei film
Die Hard – Trappola di cristallo
(1988)
Con il primo film si fa la
conoscenza di John McClane, poliziotto di New York rientrato a Los
Angeles per passare la Vigilia di Natale con la propria famiglia.
Desiderando fare una sorpresa a sua moglie Holly, questo si
presenta al grattacielo Nakatomi Plaza, dove lei lavora. Qui viene
invitato ad unirsi ai festeggiamenti natalizi, ma poco incline alla
baldoria McClane tende a farsi un po’ da parte. È così che, nel
momento in cui un gruppo di terroristi invade l’ambiente, riesce a
nascondersi e architettare un piano di salvataggio. A capo
dell’operazione vi è però Hans Gruber, uomo privo di scrupoli e
dotato di grande intelligenza, che darà filo da torcere al
poliziotto.
Il suo intento è infatti quello di
rubare una serie di titoli di stato dal caveau dell’edificio,
ottenendo così una fortuna di miliardi. McClane, intanto, si aggira
per il palazzo tentando di neutralizzare i vari membri del gruppo.
La sua tenacia, come anche il desiderio di riabbracciare la moglie,
lo spingeranno a non arrendersi. Dotato di una ricetrasmittente, il
poliziotto riesce a mettersi in contatto con Gruber, facendogli
sapere che ha le ore contate. McClane, infatti, si affida al fatto
che nessuno tra i terroristi conosce il suo volto, e pertanto può
colpirli dove e quando meno se lo aspettano.
58 minuti per morire – Die Harder
(1990)
È di nuovo la Vigilia di Natale.
All’aeroporto di Washington John McClane attendo l’arrivo
dell’aereo su cui viaggia la moglie Holly. I loro piani di passare
la festività in modo tranquillo vengono tuttavia scombussolati nel
momento in cui un gruppo di terroristi assale l’aeroporto e ne
blocca il traffico aereo. Il colonello Stuart è a capo
dell’operazione. Ex membro dell’esercito espulso per via di azioni
illecite, questi punti a liberare l’ex generale corrotto, Ramon
Esperanza, il quale sta anch’egli arrivando all’aeroporto per
essere poi condotto a processo. I terroristi prendono possesso
della torre di controllo, impedendo l’atterraggio dei voli in
arrivo e lanciando la loro richiesta di liberazione.
Ancora una volta McClane riesce ad
eludere la sorveglianza, iniziando a concepire un piano per salvare
la situazione. Si troverà però a dover agire in fretta, poiché gli
aerei in volo possiedono un’autonomia limitata. Quello su cui si
trova sua moglie, in particolare, ha solo 58 minuti a disposizione
prima di precipitare al suolo. A peggiorare l’azione ci pensa anche
l’arrivo della polizia, che si dimostra impreparata a gestire la
crisi. Tutto è nelle mani di McClane, e riprendere il controllo
della torre è l’unico modo per lui di salvare la situazione.
Die Hard – Duri a morire
(1995)
I guai per McClane non finiscono
mai. Nel terzo film della saga un criminale che si fa chiamare
Simon fa esplodere un grande magazzino nel centro di New York. Nel
suo messaggio alla polizia, questi chiede espressamente di
incontrare McClane. Messosi in contatto con il terrorista, il
poliziotto scopre da lui che una serie di altre bombe sono state
piazzate in altri luoghi particolarmente frequentati della città.
Se non farà come dice, altra gente innocente morirà. Per impedire
ciò, McClane dovrà sottoporsi ad una serie di strane prove, dove il
mancato superamento di queste porterà alle conseguenze
annunciate.
Durante una di queste, arriva in
suo soccorso il commerciante Zeus Carver. Ma Simon non gradisce
l’intromissione di questi, e per punizione obbliga anche lui a
partecipare al sadico gioco. Nel frattempo, i servizi segreti
riescono a scoprire la vera identità del terrorista. Questi è il
fratello di Hans Gruber, che McClane uccise nel primo film. L’uomo
sembra dunque in cerca di vendetta, ma il poliziotto capirà presto
che dietro tale desiderio si nasconde un progetto più grande e
spietato del previsto. Scoprire la sua posizione e fermarlo sarà
l’unico modo per evitare una strage.
Die Hard – Vivere o morire
(2007)
Sono passati diversi anni dalla sua
ultima grande missione, e il poliziotto McClane è un uomo diverso,
invecchiato ma tenace come sempre. Ancora una volta, però, si trova
a dover salvare la situazione e l’intera nazione nel momento in cui
l’FBI
subisce un potente attacco informatico. Questo genera un blackout
dei sistemi di sicurezza, mandando in tilt il paese. McClane viene
così chiamato all’azione, con il compito di trovare l’hacker
Matthew Farrell. A sua insaputa questi ha infatti contribuito a
rendere operativo un progetto architettato dalla squadra di
cyber-terroristi capitanati da Thomas Gabriel. Questi era un
dipendente del Dipartimento della Difesa, e caduto in disgrazia
cerca ora la vendetta.
Affiancato da Farrell, McClane
tenta così di impedire altri attacchi, cercando allo stesso tempo
di rintracciare la base operativa di Gabriel e dei suoi uomini. Il
terrorista, però, è ben consapevole della fama del poliziotto, e
per assicurarsi un vantaggio nei suoi confronti decide di rapire
sua figlia Lucy. La faccenda diventa così personale, e McClane
torna ad essere l’inarrestabile macchina da guerra che era,
dimostrando di essere duro a morire proprio come un tempo. Nulla lo
fermerà dal trovare i rapitori di sua figlia, e lo scontro sarà più
sanguinoso che mai.
Die Hard – Un buon giorno per
morire (2013)
Nel quinto capitolo della saga,
John McClane lascerà gli Stati Uniti per recarsi a Mosca, in
Russia, dove si trova il figlio Jack. Il suo obiettivo è infatti
quello di riallacciare i rapporti con il giovane, ma prima di poter
fare ciò dovrà risolvere un rognoso problema. Jack è infatti
incarcerato e in attesa di un processo per omicidio. Nel tentativo
di salvarlo, McClane si ritrova coinvolto in un’esplosione, durante
la quale Jack e l’ex trafficante d’armi Yuri Komarov riescono a
fuggire. Il poliziotto ha così l’occasione di ricongiungersi con il
figlio, il quale però si dimostra distaccato nei confronti del
padre. Prima di risolvere le loro questioni personali, i due
dovranno prima riuscire a salvarsi da una minaccia incombente.
Ben presto, infatti, si scopre che
il mandante dell’esplosione è Caghari, ex trafficante collega di
Komarov. A causa del pentimento di quest’ultimo, ora diventato un
informatore della CIA, il terrorista è determinato a rintracciarlo
e ucciderlo. La sua paura è infatti che questi possa diffondere
informazioni compromettenti, che rischierebbero di ostacolare la
sua candidatura al Dipartimento della difesa russo. McClane, Jack e
Komarov si ritrovano così a dover scappare dai loro nemici,
cercando allo stesso tempo il modo di poter smascherare il piano
del corrotto Caghari.
Die Hard: il cast dei film
Immaginare il personaggio di John
McClane con il volto di un altro attore è ormai impossibile.
Bruce Willis ha negli anni dimostrato di essere
l’interprete giusto per la parte, sfoggiando un carisma unico e
perfetto per il ruolo. Eppure, egli non fu la prima scelta per il
ruolo, bensì la sesta. Prima di lui erano infatti stati considerati
interpreti come Arnold
Schwarzenegger, Sylvester
Stallone e Harrison
Ford. La scelta ricadde infine su Willis, il quale
però all’epoca non era ancora particolarmente noto, e lavorava più
in televisione che al cinema. La sua poca notorietà fu però allo
stesso tempo ciò che convinse i produttori. Willis poteva infatti
essere l’uomo qualunque in cui gli spettatori si sarebbero
immedesimati. La scelta si rivelò poi vincente, e Willis entrò a
far parte dell’olimpo degli eroi del cinema d’azione.
Accanto a lui, nel corso dei film
si sono alternati una serie di celebri interpreti hollywoodiani. Il
primo di questi è AlanRickman, che nel primo film dà vita allo
spietato Hans Gruber, personaggio rimasto particolarmente iconico.
Si cita poi Samule L.
Jackson nei panni di Zeus Carver, presente nel terzo
film e anch’egli personaggio molto amato dal pubblico. Nel terzo
capitolo è inoltre presente il premio Oscar Jeremy
Irons, che dà volto a Simon Gruber. Villain del quarto
film sono invece gli attori Timothy
Olyphant, nei panni di Thomas Gabriel, e Maggie
Q, in quelli di Mai Linh. Nel quinto e attualmente
ultimo film è invece presente Jai
Courtney nei panni di Jack McClane, figlio del
protagonista.
Die Hard: dove vedere i film in
streaming e in TV
Per gli amanti della saga, o per
chi volesse vederla per la prima volta, è possibile fruirne grazie
alla sua presenza su alcune delle più popolari piattaforme
streaming presenti oggi in rete. I film di Die Hard sono
infatti presenti nei cataloghi di Rakuten TV, Chili Cinema,
Infinity, Tim Vision, Google Play e Apple iTunes. Per
vederli, una volta scelta la piattaforma di riferimento, basterà
noleggiare il singolo film o sottoscrivere un abbonamento generale.
Si avrà così modo di guardarli in totale comodità e al meglio della
qualità video. Inoltre, il quarto capitolo della saga, Die Hard
– Vivere o morire, verrà trasmesso in TV sabato 3
ottobre alle 21:20 sul canale
Rete 4.
Lo scooper Daniel Richtman ha
riferito che presso i 20th Century Studios è in
sviluppo un nuovo film di Die Hard. Secondo il report, si tratterebbe di
un prequel che seguirà le vicende di un giovane John
McClane, il personaggio iconico che è passato alla storia
del cinema con il volto di Bruce
Willis. Si tratta di una voce non confermata che però
sembra sposarsi bene con le tendenze di Hollywood che attinge a PI
di grande successo e le re-immagina.
C’è stato un periodo in cui un
progetto legato a Die Hard prevedeva sia un prequel che un sequel,
con John McClane impegnato in una nuova missione nel presente,
mentre la sua storia si intrecciava con il suo passato.
Con il titolo provvisorio di
McClane, il progetto era ancora in fase di sviluppo quando la 20th
Century è stata acquisita dalla Disney nel 2019. Successivamente è
stato scartato, e anche il ritiro di Bruce
Willis in seguito alla
diagnosi di demenza frontotemporale ha sembrato mettere fine a
ogni possibilità di un altro sequel, e anche al film in stile Il
Padrino parte 2, ambientato in due linee temporali.
Un nuovo prequel molto probabilmente
eliminerebbe l’idea di presentare versioni attuali dei personaggi
di Die Hard, quindi se le voci sono vere e viene realizzato un
nuovo film, potrebbe essere più simile alla graphic novel
Die Hard: Year One. Pubblicata tra il 2009 e il
2010, la serie era ambientata nel 1976 e seguiva un giovane John
McClane nei panni di un poliziotto alle prime armi a New York.
La popolarità del film originale
continua a durare, tanto che il film è stato di recente
ridistribuito nelle sale. Uscito nel 1988, il celebre film d’azione
ha avuto quattro sequel: Die Hard 2 del 1990,
Die Hard – Duri a Morire del 1995, Live
Free or Die Hard del 2007 e A Good Day to Die
Hard del 2013.
È passato molto tempo dall’ultima
volta che abbiamo sentito parlare del prequel di Die
Hard dal titolo McClane, ma ora è stato
confermato che il film è stato vittima della fusione Disney/Fox e
che non vedrà mai la luce. Ma facciamo un passo indietro…
Il sesto capitolo della serie doveva
essere un prequel diretto da Len Wiseman e avrebbe
dovuto seguire due trama parallele: una doveva raccontare di un
giovane John McClane nel 1979, mentre l’altra avrebbe raccontato
dell’eroe action ai giorni nostri, mentre veniva onorato in
Giappone per gli eventi accaduti all’interno del Nakatomi (ossia
quelli raccontati nel primo film del 1988).
All’epoca questo doppio binario
narrativo non venne accolto positivamente dai fan, sebbene in
seguito non ci siano più stati aggiornamenti concreti in merito al
progetto. Ora però è stato il produttore Lorenzo di
Bonaventura a confermare a
Polygon che il prequel è ufficialmente morto: “Non accadrà.
Ma ciò che è stato davvero interessante è che in realtà abbiamo
avuto un’idea per farlo. Era un progetto che inizialmente non era
Die Hard ma che poi, alla fine, si è trasformato in Die
Hard.”
“La cosa interessante della
nostra idea è che ci avrebbe permesso di incontrare il giovane John
McClane e usare Bruce Willis”, ha aggiunto il produttore.
“Quindi, in questo senso, è stato davvero interessante. Avreste
avuto modo di vedere entrambe le versioni del personaggio, un po’
come accade ne Il padrino – Parte II. Al momento non so quali siano
i piani della Disney.”
Dopo l’annuncio che il sesto
capitolo della serie Die Hard, dal
titolo Die Hard Year One sarebbe
stato un prequel che avrebbe approfondito le origini di un giovane
John McLane (Bruce Willis), il
regista Len Wiseman (già pratico della serie
per aver diretto Die Hard – Vivere o
Morire) è tornato sull’argomento rilasciando una
serie di precisazioni:
“Dopo aver fatto il quarto ci
furono numerose conversazioni con Bruce circa quanto mise nel
personaggio in occasione del primo film. Il personaggio arrivava
già con un bagaglio emozionale e di esperienze carico. Era già
divorziato, amaro, il capitano lo odiava e non lo voleva indietro.
Dunque cosa aveva creato quel personaggio?”
“Non abbiamo visto la love story.
La conosciamo ma non abbiamo mai visto com’era quando conobbe Holly
o quando era un poliziotto a New York nel ’78, quando non aveva
alcuna possibilità di essere un detective. Ci ho sempre pensato su
ed ora lo faremo.”
Inoltre Len
Wiseman ha definito il film un prequel/sequel:
“Il motivo per cui lo chiamo
prequel/sequel è che non lo farei senza Bruce e tantomeno lo farei
con solo un cameo di Bruce. Tutto è ramificato nella trama, con il
passato ad avere ripercussioni sul presente […] Il film avrà luogo
nel capodanno del 1979.”
La Twentieth Century Fox è in
trattative con il regista Len Wiseman per
sviluppare Die Hard 6, sesto capitolo del
franchise che si chiamerà Die Hard Year
One. Laserie, avviata
27 anni fa, nel 1988, ha trasformato Bruce
Willis in una star cinematografica planetaria, grazie
all’ormai iconico poliziotto John McClane.
Die Hard Year
One, che sarà prodotto dallo stesso
Wiseman e da Lorenzo di
Bonaventura (l’uomo dietro ai franchise di
Transformers e G.I.
Joe), dovrebbe tornare alle origini e raccontare gli
inizi del personaggio, mostrando un giovane John McClane in azione
nella New York del 1979. L’idea di un prequel deriva da un fumetto
della Boom! Studios, intitolato proprio Die Hard: Year
One e pubblicato tra il 2009 e il 2010.
Bruce Willis, che
non ha ancora firmato alcun contratto, dovrebbe riprendere il ruolo
di McClane in sequenze ambientate nel nostro attuale presente.
Dovrà essere, quindi, ingaggiato un attore più giovane che
incarnerà il suo stesso personaggio negli anni Settanta. Del resto,
Bruce Willis è abituato a confrontarsi con altri
sé stessi, come dimostrano Looper di
Rian Johnson, L’esercito delle 12
scimmie di Terry Gilliam e
Faccia a faccia (The Kid) di Jon
Turteltaub.
Len Wiseman, che ha
già diretto nel 2007 Die Hard – Vivere
o morire, e di Bonaventura sono alla ricerca di uno
sceneggiatore che si occupi di questa nuova fase della serie,
chiamata a rinverdire i fasti del passato dopo che l’ultimo (e
deludente) Die Hard – Un buon giorno per
morire ha stentato in America al botteghino, pur
tenendo sui mercati internazionali.