Continuano le
operazioni di casting per Star
Wars Episodio VII di J.J. Abrams
e proprio come disse Saoirse Ronan poco più di un
mese fa, “Ad Hollywood stanno provinando chiunque!” Ed è
proprio così, visto che la Disney prenderà in
considerazione la candidatura di chiunque provenga dal territorio
nazionale. L’invito è infatti rivolto a tutti coloro che vorranno
inviare un video per proporre una propria performance, nella
speranza di essere scelti per un ruolo all’interno del film.
Nel frattempo vanno avanti le
audizioni nel Regno Unito ed in alcune città degli Stati Uniti dove
la Disney sarebbe attualmente alla ricerca di due
giovani attori per le parti di Rachel e Thomas (che probabilmente
sono nomi in codice). Di seguito vi proponiamo la descrizione dei
due personaggi pervenuta attraverso il casting-call del film:
RACHEL: Giovane donna sui 17-18
anni. Deve essere bella, intelligente ed atletica. Apertura a tutte
le etnie (tra cui bi-e multi-razziale). Era molto giovane
quando ha perso i suoi genitori. Essendo sola al mondo, è stata
costretta a crearsi la propria strada da sola in una città dura e
pericolosa. Ora a 17 anni è diventata intelligente e forte. E’ in
grado di prendersi cura di se stessa usando umorismo e coraggio per
tirare avanti. Sempre una sopravvissuta, mai una vittima, le
rimane la speranza dii potersi allontanare da questa dura esistenza
per una vita migliore. Pensa sempre a ciò che può fare per andare
avanti.
THOMAS: Giovane uomo tra i 19 ed
i 23 anni. Deve essere bello, intelligente ed atletico. Deve avere
oltre i 18 anni. È cresciuto senza l’influenza di un padre.
Senza un modello di come essere un uomo, non ha un forte senso di
se stesso. Nonostante questo, è intelligente, capace e mostra
coraggio quando è necessario. Può apprezzare le assurdità della
vita e capisce che non si può prendere la vita troppo sul
serio.
C’è da credere che, con un invito
come quello di cui vi abbiamo parlato poco sopra, saranno molti i
giovani aspiranti attori che tenteranno l’impresa. Impresa ancora
più ardua per la Disney e per la direzione del
casting, che probabilmente dovranno visionare filmati a valanga
cercando di scovare volti nuovi da inserire nell’assemble di
Star Wars Episodio VII.
Ecco l’immagine che ci regala un primo
sguardo a Charlize Theron nel nuovo thriller a
tinte drammatiche da lei interpretato: Dark
Places, atteso per il 2014 e diretto da
Gilles Paquet-Brenner. Di seguito vi
proponiamo la prima foto che immortala l’attice all’interno della
pellicola:
Come possiamo vedere, in questa
immagine dal film, Charlize Theron
indossa un berretto verde da camionista ed una giacca di pelle
che le conferiscono l’aria di un vero e proprio maschiaccio. In
Dark Places l’attrice e modella
sudafricana, che a questo punto della sua carriera ha ampiamente
dimostrato di essere un perfetto connubio tra bellezza e bravura,
conduce un cast impressionante che include Corey Stoll, Tye
Sheridan, Chloe Grace Moretz, Nicholas Hoult, Sterling
Jerins e Christina Hendricks con
Gilles Paquet-Brenner (La chiave di
Sara) a dettare legge da dietro la macchina da
presa.
Ecco la sinossi del film: Libby
Day (Theron) all’età di 7 anni rimane l’unica sopravvissuta di
un sacrificio a Satana in cui vede morire la madre e le due
sorelle. Durante la sua testimonianza Libby incolperà dell’accaduto
il fratello Ben, che verrà condannato all’ergastolo. Venticinque
anni dopo, mentre Ben è ancora in carcere per l’orribile delitto,
un gruppo di appassionati di crimine convincerà Libby a riesaminare
gli eventi di quella notte, così che nuovi ricordi e vecchi
sospetti improvvisamente irrompono di nuovo nella sua
vita. Mentre informazioni scioccanti vengono alla luce, Libby
inizia a mettere in discussione la propria testimonianza
proponendosi di scoprire la verità sul suo tragico passato.
Un film corale
Acrid, di Kiarash
Asadizadeh, che si muove raccontando storie di matrimoni
infelici e di personaggi che vivono in una solitudine di coppia che
trova appagamento solo nell’affetto verso i figli o verso rapporti
extraconiugali, un fallimento che riguarda ogni generazione.
La narrazione si sviluppa con
un intreccio molto ben articolato intorno a due famiglie dove
l’amore è finito, e a tenere uniti sono i figli e la rassegnazione.
I veri protagonisti però sono i sentimenti che scaturiscono dal
tradimento, filo conduttore che permette al regista di raccontare
una società ipocrita, quella iraniana, dove le persone non si
sentono libera di seguire il proprio istinto, impedendo a se stessi
e chi è accanto di essere felice. La speranza non vive neanche
nelle nuove generazioni, dove la fiducia mal riposta mette in
dubbio oltre l’amore anche le amicizie, e non lascia ai giovani
nessun appiglio se non quei genitori che tra loro non riescono a
comunicare e a donarsi più amore, ma fortunatamente riescono a
trasmetterlo ai propri figli. Una denuncia dura all’ipocrisia della
società e del peso che la tradizione può avere sulla felicità delle
persone.
Quello che il regista con la sua
pellicola lancia è un messaggio forte, che non lascia speranze e
via di fuga se non con un percorso fatto di sofferenze e sensi di
colpa, dove paura del giudizio del prossimo e di andare contro
quella che è la morale di un modo di vivere della cultura con la
quale si è cresciuti sono in certi casi più forte del
raggiungimento della propria felicità. Acre è il titolo perfetto
per un film che riesce a descrivere e a trasmettere al pubblico
tutta l’amarezza e la sofferenza del tradimento.
Acrid è stato presentato in Concorso all’ottava edizione del
Festival Internazionale del Film di Roma.
Il regista del
bellissimo Acrid, Kiarash
Asadizadeh, insieme al suo straordinario cast di
bellissime attrici (Roya Javidnia, Ehsan Amani, Pantea
Panahiha, Saber Abar, Shabnam Moghadami, Mahsa Alafar, Mahana
Noormohammadi, Sadaf Ahmadi, Nawal Sharifi, Mohammadreza
Ghaffari) ha presentato oggi alla stampa festivaliera il
suo film, che gareggia nel Concorso e si candida a pieno titolo per
portarsi a casa un premio per la migliore interpretazione femminili
(di gruppo).
Che difficoltà ci sono state
in Iran per produrre un film come Acrid?
“Nessuna difficoltà maggiore
rispetto a tutte le altre proiezioni. Abbiamo avuto dei problemi
per la distribuzione con la vecchia amministrazione, ma il nuovo
Governo sembra più aperto al dialogo e siamo in trattativa e penso
che non ci saranno problemi poi ad avere il permesso per le
sale”.
Questo è un film sulla famiglia, ma
anche soprattutto un film sulle donne della famiglia che sembrano
avere una coscienza maggiore?
“Le donne hanno un ruolo
importantissimo nella famiglia, ma il mio intento era di raccontare
anche i cambiamenti della struttura familiare e del cambiamento dei
valori. Osservando le famiglie iraniane, soprattutto nell’ultimo
decennio in cui ho cominciato a fare cinema, ho l’impressione che
la struttura familiare si stia allentando, i componenti della
famiglia hanno sempre meno rispetto reciproco. Ma non credo che sia
una cosa solamente iraniana, da quello che vedo in giro credo sia
un problema esteso a tutto il mondo”.
Il filo conduttore nelle
storie narrate sembra essere il tradimento.
“Il tema del tradimento nel mio
Paese sta crescendo a vista d’occhio. Io da cittadino e da cineasta
non posso fare a meno di mostrare ciò che accade intorno”.
Il cast di attrici, coinvolte in
prima persona, ha raccontato l’interessante lavoro sul set e anche
l’attualità del film, sottolineando anche come in alcuni casi la
condizione dell’attrice coincidesse proprio con la condizione del
personaggio che stava interpretando in quel momento in scena.
Quest’oggi presso l’AuditoriumArte
si è tenuta la conferenza stampa del film Fuori Concorso
Il venditore di medicine di Antonio
Morabito. In sala oltre al regista era presente il cast,
composto da Claudio Santamaria, Isabella Ferrari
e Ignazio Oliva ed il produttore Matteo
Pagani.
Come è stato pensato il
personaggio di Bruno?
Antonio Morabito: Stiamo parlando di una persona che
all’interno di una situazione dilagante, di corruzione non
rappresenta uno dei primi artefici, cioè uno dei vertici che
muovono i fili di questa dinamica, ma rappresenta anche la vittima
di questo ingranaggio, questo perché volevo assolutamente far
vedere come questo problema, la corruzione tra la farmaceutica e la
sanità, sia un qualcosa di vicinissimo a noi, non stiamo parlando
dei grandi soprusi che le nazionali del farmaco fanno nel sud del
mondo. Ma stiamo parlando del nostro medico di fiducia, il medico
di base. Volevo porre l’accento di quanto fosse un qualcosa di
molto prossimo a noi.
Il film nasce da quale
esigenza? A.M.:Nasce da un’esigenza personale perché
io purtroppo mi sono trovato a con necessità di trovare un farmaco
per una malattia rara che colpì mio padre, prima che questo farmaco
fosse messo in commercio in Italia ed in occidente. Questo farmaco
già esisteva in altre parti del mondo ma l’FDA non dava il permesso
di entrare nel mercato. Siccome vengo da una famiglia di medici, i
miei zii, i miei nonni erano medici, ho sempre visto la malattia e
il farmaco come un qualcosa di molto regolato. Non riuscendo a
trovare questo farmaco ho provato a interessarmi personalmente sul
perché e perciò ho scavalcato quella linea immaginaria che c’è tra
la sanità e la farmaceutica, per vedere tutti le fasi di un farmaco
e lì mi si è aperto un mondo. Che ho approfondito conoscendo una
marea di informatori del farmaco delle più disparate case
farmaceutiche, ma anche medici che operano oggi nel settore, e lì
sono arrivato a capire come funzionano le cose, purtroppo
sottolineo che questo non si tratta solo di poche “mele marce” ma
purtroppo si tratta dell’andazzo del sistema.
Claudio tu sei protagonista di
questo film, sei vittima e carnefice C.S.: Il film
prende il punto di vista da questa figura che è l’ultima ruota del
carro, colui che conta meno di tutti, ma rappresenta non solo
dell’informato scientifico ma una classe molto precisa, l’uomo con
la valigetta, il rampante, colui che cerca di raggiungere un certo
status sociale della ricchezza, ed è proprio questo il meccanismo
che funziona tanto nel film, perché è il carnefice e anche vittima,
perché di fatto per sostenere questo ritmo e questa pressione che
viene dall’alto è costretto di fatto a drogarsi, quello che gli
prescrive il suo medico non è altro che cocaina legale, anfetamina.
Non solo questo ma attraverso i suoi strumenti, fa del male anche
alla sua famiglia, distrugge ciò che ama, sua moglie, ritrovandosi
dall’altra parte e forse capisce davvero e profondamente di cosa si
tratta il suo lavoro.
Isabella e Ignazio siete due lati
opposti dello stesso sistema. Isabella Ferrari: Mii
sono resa conto di avere un personaggio che comunque era tanto che
non mi veniva offerto, lontano dai ruoli fatti ultimamente, quindi
c’era una curiosità d’attrice che si muoveva, inoltre è un opera
prima, in qualche modo, è un film di denuncia, un film che
socialmente e politicamente ha un senso farlo oggi. Poi portato da
Matteo Pagani un produttore che io stimo e seguo da sempre
quindi non ho avuto dubbi. Ho avuto un po’ di dubbi quando l’ho
letto perché mi sembrava, terribilmente forte, che non poteva
essere reale, questa capo area con una totale mancanza di umanità.
La mia preoccupazione era capire se era reale lo script, ho preso
le mie informazioni, ho incontrato due capo area, è molto difficile
parlare di queste cose, quindi ho sentito una sorta di fastidio,
perciò ho fatto leggere solo le mie battute. E loro mi hanno
confermato questo sistema. Inseguito mi sono buttata nella
direzione che mi ha dato il regista. Ignazio Oliva: Io rappresento la parte etica ed è stata
abbastanza facile farla, perché siamo più o meno tutti sulla stessa
onda, il regista ha voluto fare il film per denunciare la
situazione che per me è oggettiva ed è vera. Ed io rappresento
secondo me quel tipo di medici, che secondo me esistono, che ci
sono, che vanno valorizzati, quelli che si rifiutano di stare al
gioco, rischiando il lavoro, la vita e tutto quello che ne
consegue. Per me è stato un grande piacere ed onore lavorare con
tutti loro.
Data la forza del
messaggio che viene trasmesso dal film, siete mai stati ostacolati
durante la produzione? Matteo Pagano: Ti ringrazio
ma non c’è stato nessun coraggio, è stata una necessità. Antonio mi
ha portato questa storia ed è interessantissima, non credo che
serva tanto coraggio per dire la verità. Tengo a precisare che
tutto quello che c’è nel film è assolutamente vero. Non c’è un
minimo di esagerazione, anzi c’è una forma di riduzione
dell’evidenza. A.M: Si ci sono state, a parte le varie lettere al limite
della protesta, ci sono arrivati insulti…anche fantasiosi, di
informatori e medici indignati, che “la sanità venga sempre dipinta
in questo modo” oppure “diamo una brutta immagine dell’Italia”.
Infatti, quando abbiamo fatto la conferenza stampa a Bari tre
giorni prima delle riprese, il direttore sanitario dell’ospedale
che già avevamo contattato per usare l’ospedale per girare,
inseguito a questa conferenza, revocato l’utilizzo dell’ospedale.
Così come anche i tre medici che ci avevano dato il loro studio
privato. E questi tre medici lavorano nello stesso ospedale di quel
direttore sanitario….sicuramente sarà stato un caso!
Qual’è la sua posizione sulle
staminali? A.M: Fare questo film fa male proprio
perché la sanità Italiana avrebbe un grosso potenziale, ci sono
paesi al mondo che non hanno sistemi sanitari come il nostro, per
cui vederlo distrutto e stracciato fa ancora più male. Per
quanto riguarda le staminali non capisco perché la ricerca venga
così frenata.
Quanto sei stato costretto a
censurarti? A.M.: A me è piaciuto molto The
Costant Gardner, però guardando quel film lo sento un po’
protetto dalla distanza, quello è anche un film d’inchiesta che fa
vedere questi grandi meccanismi a livello dei vertici, io volevo
fare un’altra cosa, volevo far vedere che noi questi livelli ce li
abbiamo in casa e ci viene presentato dal nostro dottore, e questa
cosa secondo me si può fare solo se si rimane appiccicati al suo
personaggio e si diventa la sua ombra, facendogli pressione con la
macchina da presa.
Il regista danese Nils
Malmros ci accompagna con Sorrow and Joy (Sorg og Glaede) in un
viaggio nei ricordi e nella vita di un regista cinematografico,
alle prese con la revisione della sua storia d’amore con Signe, sua
compagna da due anni, che durante una fortissima crisi psicotica,
ha ammazzato la loro figlioletta di nove mesi, Maria.
Siamo negli anni ’80 e di ritorno
da una prestigiosa conferenza universitaria, Johannes,
acclamato regista danese, trova la sua casa immersa nel lutto. In
un momento particolarmente difficile della sua vita, la sua
compagna affetta da depressione ha ucciso con un coltello da cucina
la figlia di soli nove mesi.
A partire dalla constatazione
della tragedia e dal ricovero in una clinica psichiatrica della
donna, Johannes inizierà un percorso interiore che lo porterà
a raccontarsi e raccontarci il suo incontro con Signe, la sua vita
con questa donna complicata e il lento sprofondare della donna, non
adeguatamente curata, in un baratro che presto, come purtroppo
sappiamo, la inghiottirà.
Il tronfio regista protagonista
della pellicola di Malmros fa un resoconto apparentemente oggettivo
della sua relazione con questa donna, mostrandosi inconsapevolmente
inadeguato ad avere a che fare con una psicologia così fragile. In
maniera speculare però anche il regista di Sorrow and
Joy si ritrova ad essere completamente inadeguato nell’inquadrare,
raccontare e commentare il disagio mentale e le dinamiche che
intorno ad esso proliferano con una complessità davvero difficile
da raccontare in maniera assoluta, e non solo per il cinema.
Nel tratteggiare il personaggio di
Signe, il regista sembra voler ricondurre la nascita del suo
disagio all’adolescenza, periodo notoriamente complicato e
formativo per tutti gli esseri umani. Allo stesso modo diversi
accenni si fanno al background familiare in cui è presente il
disagio mentale, vissuto come macchia, come vergogna e come
(ovviamente) portatore di grande sofferenza. Anche se le fondamenta
del racconto sono gettate con cognizione di causa, il film naufraga
in un abisso di irrealismo. L’immensa sofferenza che dovrebbe
trasmettere la situazione narrata sembra scivolare sugli interpreti
che appaiono freddi, inconsistenti e forse inadeguati a raccontare
una storia potenzialmente molto potente ma sciupata da un’eccessiva
lunghezza del film e da un’approssimativa messa in scena di quei
sentimenti fondativi dell’essere umano che si vorrebbero invano
mettere in mostra.
Presentato in Concorso all’ottava
edizione del Festival di Roma, Sorrow and Joy ha il sapore
dell’occasione persa, dell’idea sprecata, dell’approssimazione con
cui troppo spesso viene affrontato al cinema l’insondabilità della
mente umana.
Al Festival Internazionale
del Film di Roma è stato proiettato oggi il film
La Santa, diretto da Cosimo
Alemà,
che abbiamo recensito qui. A seguire c’è stata la
conferenza stampa del film, alla quale ha
partecipato tutto il cast principale, il regista e i
produttori.
Visto che la carriera professionale
del regista Alemà è nata con i video musicali, gli è stato chiesto
come mai poi fosse approdato al cinema. “Si tratta di un
passaggio naturale. Tutti i registi che vogliono fare film partono
da altro, come dalla pubblicità”. Il regista ha poi espresso
una considerazione sul genere e sull’ambientazione del film:
“Questo è un film di genere, anzi direi che è un meltin-pot di
generi. Considero l’ambientazione come uno dei protagonisti. La
“pietra leccese” è sempre presente”.
A tutti gli attori è stata poi
rivolta una domanda sul rapporto con il regista durante le riprese
e se quest’ultimo avesse lasciato più o meno libertà.
Francesco Siciliano, uno dei protagonisti, ma
anche produttore del film, ha dichiarato: “Cosimo ha
diretto in maniera straordinaria una troupe molto giovane. Lo
considero un regista colto, nelle sue riprese nulla è lasciato al
caso, tutto viene costruito alla perfezione. Il nostro era un
progetto low-budget, abbiamo realizzato il film con 180.000
euro e per fare questo serve una grande
organizzazione”.
Anche Marianna di
Martino ha espresso parole di elogio per il regista e per
il progetto in generale: “Proprio perché si trattava di un
progetto con un budget limitato, tutti mettevano il 100%. Io sono
entusiasta di Cosimo. Mi ha messo alla prova con scene molto forti
sia fisicamente che emotivamente. Mi ha lasciato fare e ha lasciato
che il mio flusso emotivo venisse fuori fino alla fine“.
Il regista ha preso nuovamente la
parola alla fine, chiudendo la conferenza con una considerazione
sul film stesso: “La Santa vuole essere una sorta di metafora.
Lo scopo era quello aprire una parentesi dove entrassero uomo e
natura. Quando queste due realtà di scontrano è inevitabile che
nasca qualcosa di forte. L’epilogo è quasi psichedelico“.
Scarlett Johansson, Joaquin Phoenix e
Rooney Mara hanno infiammato il terzo girno
del Festival di Roma 2013, ottava
edizione dell’evento diretto da Marco Muller,
al secondo anno al timone della kermesse capitolina ha accolto
nella bellissima cornice dell’Auditorium le tre star
internazionali, ecco tutte le foto sul red carpet:
Fuori Concorso al Festival del Film
di Roma è stato presentato oggi Romeo e Giulietta
diretto da Carlo Carlei e adattato da
Julian Fellowes, scrittore dell’acclamata serie tv
della ITV britannica Dowtown Abbey.
La storia è conosciuta da gli
amanti della letteratura inglese e no, anche grazie a gli
adattamenti cinematografici fatti in precedenza, ma ripassiamola
insieme! Un odio antico divide le due famiglie di Verona i
Montecchi e i Capuleti, sempre pronti a darsi battaglia ,
disobbedendo al volere de Il Principe di Verona (Stellan
Skarsgard). Il giovane Romeo (Douglas
Booth) erede dei Montecchi invece non pensa a combattere,
ma all’amore. Per seguire Rosalina (Nathalie Rapti
Gomez) la sua amata, Romeo insieme a Benvoglio
(Kodi Smit-McPhee ) e Mercuzio (Christian
Cooke) finisce ad un ballo in maschera a casa dei
Capuleti. La festa è stata organizzata da Lord e Lady Capuleti
(Damian
Lewis e Natascha McElhone) per
presentare in sposa la loro figlia Giulietta (Hailee
Steinfeld) al facoltoso Paride (Tom
Wisdom). Ma Giulietta è ancora piccola e non è pronta per
il matrimonio, cosa di cui è convinta anche la sua balia
(Lesley Manville).
Romeo e Giulietta recensione del
film di Carlo Carlei
Uno scambio di sguardi tra Romeo e
Giulietta e i giovani si dimenticano di tutto, rimanendo incantati
all’istante. Il cugino di Giulietta,Tebaldo (Ed
Westwick) accecato dall’odio per i rivali Montecchi
riconosce subito gli ospiti sgraditi e lo comunica alla famiglia,
facendo arrivare la notizia anche ai due amanti che nel frattempo
erano riusciti a scambiarsi un veloce bacio e una promessa d’amore.
Con l’aiuto di Frate Lorenzo (Paul
Giamatti) e della balia, Romeo e Giulietta si sposano
in segreto, convinti che l’unione annienterà l’odio tra le
famiglie, ma è solo l’inizio della più tragica storia d’amore mai
raccontata. Ora la domanda è : c’era bisogno di un’ennesima
versione del dramma d’amore Shakespiriano per eccellenza? La
risposta è probabilmente no.
Probabilmente no perché per quanto
ci sia la buona volontà di mantenere il testo originale di
Shakespeare, nel 2013 un linguaggio del genere non funziona per un
prodotto di due ore. L’idea di riproporre il dramma
nell’ambientazione originale Rinascimentale è apprezzabile, per
quanto una nota stonata di moderno avrebbe movimentato le cose.
Sarà che il Romeo+Juliet di Baz
Lhurman del 1996 aveva dato tutta un’altra interpretazione
e una svolta alla storia, che questo adattamento risulta lento e
tedioso, per quanto fedele all’originale. Certi personaggi, in
particolare il Tebaldo interpretato da Ed Westwick a volte sfocia nel ridicolo, non
riuscendo a risultare credibile. Mentre Hailee Steinfeld, Douglas
Booth e Christian Cooke mostrano una
maturità nella recitazione che può essere applaudita oltre il film.
Paul Giamatti e Damien Lewis da grandi attori riescono a dare
la loro impronta, ma anche qui si parla di una piccola nota
positiva.
La regia di Carlo
Carlei risulta più televisiva che cinematografica,
ricordando a tratti addirittura Fantaghirò , non brillando
particolarmente. Mentre va un applauso ai costumi , realizzati nei
minimi dettagli da Carlo Poggioli che nel suo
curriculum vanta anche l’ultimo “Abrham Lincoln” e “Seta”. La
ricostruzione degli abiti Rinascimentale è precisa fino all’ultimo
brillantino Swarosky (che con la Swarowsky Enternainement è alla
sua prima intera produzione di un film ), con classe e ottima
fattura. Milena Canonero, la costumista vincitrice
di diversi premi tra cui Academy Awards è co-produttrice per Romeo
e Giuletta, ma sicuramente c’è una sua collaborazione anche nella
supervisione dei costumi.
La riproposizione del testo
originale di Shakespeare nei dialoghi può essere positiva solo per
un pubblico giovane che si avvicina al dramma per la prima volta e
quindi può esserci uno scopo educativo, ma a parte questo è un film
che non coinvolge più di tanto essendo il soggetto conosciuto e
privo di colpi di scena che potrebbero tenere lo spettatore
sveglio.
Twitt dal Festival, 140 caratteri
istantanei per le opinioni a caldo del nostro collega e
collaboratore Prof. Marco
Stancatiche ci indirizzeranno il pubblico verso
i titoli di maggir richiamo. Oggi è il giorno di due
titolo, WHO IS Dayani Cristal? e SORROW AND JOY..
#Romaff8,
WHO IS Dayani Cristal? Centro America – USA: un’altra immigrazione,
un’altra Lampedusa, un’altra repressione. E morti senza fine.
#Romaff8,
SORROW AND JOY. Regista in carriera e moglie psicotica: amore così
forte da superare un dramma sconvolgente. E sarà l’ultimo film.
Vi ricordiamo che le opinioni dell’esperto in comunicazione
Marco Stancati si possono anche leggere sul suo
profilo Twitter.
Presentato Fuori Concorso al
Festival Internazionale del Film di Roma, Il Venditore
di Medicine di Antonio Morabito è un film che
attraverso le vicende fittizie di Bruno risalta uno spaccato di
vita italiano ben noto ma poco approfondito dal mondo
cinematografico. Difatti viene portata in scena più che un episodio
di “mala sanità”, un vero e proprio sistema contraddistinto
dal mero baratto, che non riguarda le sale operatorie ma piuttosto
illustra ciò che lega le case farmaceutiche e i medici. Seppur i
personaggi e i luoghi siano fittizi, nella storia è evidente
l’impronta documentaristica con cui viene sviluppata e intrecciata
la storia di Bruno. Egli è interpretato da un bravo
Claudio Santamaria, la cui funzione principale è di stare
sulla soglia di questo mondo e indirizzare lo sguardo dello
spettatore.
In Il venditore di
medicine Bruno è un informatore medico. La sua azienda, la
Zafer, sta vivendo un momento difficile. Pur di non perdere il suo
posto di lavoro, Bruno è disposto a corrompere medici, a ingannare
colleghi, a tradire la fiducia delle persone a lui più vicine. E se
alcuni dottori si rifiutano di prestarsi a questo gioco, molti di
loro non si sottraggono affatto.
Il venditore di medicine, il film
Quando indossa il suo completo e la
valigetta con i campioni omaggio, viene rappresentata l’intenzione
della sceneggiatura di fare luce in questo mondo. Quindi,
assistiamo Bruno nella sua giornata tipo, portando in rilievo un
mondo fatto di medici-regine e di primari-squali il cui pregio più
rilevante è di essere corrotti e amorali. In queste scene lo
vediamo sfoderare le sue doti di “venditore” che asseconda i vezzi
e i desideri dei dottori che parlano di “piazzare” prodotti o
“spingere” determinati medicinali. Nell’altro aspetto, quello
fittizio, assistiamo alla sua vita familiare; preoccupato di un
amico malato e di sua moglie, che gli mostrano il contraddittorio
della sua doppia vita e come questo lavoro lo ha reso un uomo
disposto a tutto per mantenersi un lavoro che lo porta ad assumere
pillole per l’ansia per placare i suoi dubbi di coscienza.
Sarà proprio questa sfera a frenare
un potenziale thriller; poiché seppure la vicenda sia lineare e ben
dettagliata con i suoi gerghi e i suoi intrallazzi, tiene comunque
lo spettatore lontano, fuori dal disincanto della storia facendo
risultare di troppo le vicende private che portano il bilanciamento
nella storia senza aggiungere nulla di nuovo; mentre invece sarebbe
stato interessante seguire altri percorsi narrativi, come quelli
del Dr. Sebba (Ignazio Oliva), che potevano
esaurire il quadro narrativo.
Il venditore di
medicine è un buon film che porta una storia inedita nella
nostra cinematografia ma che perde nella seconda parte tutta la
tensione ben costruita nella prima. Il regista riesce comunque a
far passare le vicende sulle multinazionali farmaceutiche e sul
vero costo della salute, reso un semplice prodotto
“commerciale”.
Quasi tutto il cast al completo è
arrivato al Festival del Film di Roma per
presentare in conferenza stampa il film Song’e
Napule dei Manetti Bros.
Antonio e Marco Manetti,
Giampaolo Morelli, Alessandro Roja, Serena Rossi e Paolo
Sassanelli hanno divertito la sala stampa con la loro
goliardia e genuinità trasmessa anche nel film.
Prima di iniziare è stato dedicato
un doveroso applauso al produttore Luciano Martini
che voleva a tutti i costi che Song’e Napule venisse realizzato, e
così è stato prima della sua scomparsa : “Luciano ha fortemente
voluto questo film.” commenta Antonio Manetti del duo di
registi romani. “Siamo orgogliosi di aver fatto
l’ultimo film di Luciano Martini e si può dire che questo film è
più suo che nostro.”.
Giampaolo Morelli
spiega poi come gli è venuta l’idea del film : “A me piace molto
questo genere e io vengo dal’Arenella, un quartiere di Napoli che
si trova diciamo nel mezzo. Mi intrigava l’idea di mettere un
napoletano borghese in mezzo ad un tessuto sociale più popolare –
il personaggio di Paco – e cosa c’è di più popolare del neo
melodico? Volevo fortemente raccontare di questo mondo
fatto di videoclip pieni di cuori e sentimenti e soprattutto
sfatare il mito dei cantanti neo melodici che vanno a braccetto con
la camorra. Ma soprattutto volevo mostrare Napoli ai Manetti Bros,
perchè secondo me la vedevano nello stesso modo in cui la vedevo io
e così è stato. Diciamo che non la sentivo rappresentata a
dovere dai film degli ultimi anni come Gomorra o i film di Nanni
Loi.”
L’altro protagonista,
Alessandro Roja racconta che “questo era un
ruolo troppo succulento per lasciarmelo sfuggire, per uno come me
sempre a caccia di ruoli diversi e interessanti” , mentre
Serena Rossi, che in Song’e Napule interpreta la
sorella di Morelli, è stata contentissima di questa sua prima
esperienza cinematografica e si trova nella situazione di Roja
“visto che lui da romano ha interpretato un napoletano, io da
napoletana interpreterò una romana” nella nuova produzione di
Rugantino a teatro a fianco di Enrico Brignano.
La Santa
di Cosimo Alemà è stato presentato al
Festival Internazionale del Film di Roma 2013
nella categoria “fuori concorso”.
Quattro persone, differenti per età,
carattere, abitudini, si recano in un paesino della Puglia per
rubare la statua della santa patrona, di grande valore, convinti
che sia un gioco da ragazzi. Ci riescono, ma non hanno fatto i
conti con il paese: dopo meno di un minuto, tutti i cittadini sanno
cosa i quattro hanno rubato e che stanno scappando. Comincia la
caccia, senza pietà.
Con un cast non altisonante
(intendiamoci, parliamo di nomi), dove spicca il più giovane
Gianluca Di Gennaro e talvolta la protagonista
femminile Marianna Di Martino, La
Santa parte da un’idea interessante, sviluppando una
trama originale e riuscendo a mantenere sempre viva l’attenzione,
seguendo quattro storie distinte, visto che il gruppo si separa,
pur figlie di una stessa madre. Dentro c’è un po’ di tutto:
dall’azione alla drammaticità, ad una piccola dose di humour
“scuro”, con un tocco di noir, specie nel raccontarsi dei
personaggi.
Il furto della santa colpisce
l’animo del paese, non certo per il presunto valore economico che
dovrebbe avere, quanto per una profonda ferita nell’orgoglio, un
discorso di “principio”, doversi riprendere ciò che è proprio a
qualsiasi costo, fucili compresi. Una violenza inaspettata,
diabolica, talmente eccessiva da risultare alla fine veritiera e
una delle cose più riuscite del film.
Alemà però si rifugia troppo dentro
una citazione che pronuncia uno dei suoi attori nei minuti
iniziali: “È un film, per forza deve andare così”, riferendosi ad
un’altra pellicola, in una stravagante conversazione tra i
personaggi. Come a dire che nei film qualcosa deve succedere per
forza ed è normale che alcuni passaggi servano per arrivare ad
altri. Difficile non essere d’accordo in senso assoluto e
ragionando solo in quest’ottica è possibile giustificarli
tutto. Ma il discorso vale solo quando non se ne sente il peso.
Uscendo dallo schema, o almeno prendendolo con le molle, si tocca
con mano uno script forzato e uno svilupparsi dei personaggi che
sembra costruito ad hoc per arrivare a determinate conclusioni,
anche fini a se stesse. Così, si accelera e si frena a seconda del
momento e sembra che la frase citata sia un espediente per
giustificare e mettere le mani avanti su ciò che arriverà.
Non mancano frecciatine al mondo
religioso, a partire dal furto della santa, ma anche immagini
visuali più o meno sacre e sequenze in compagnia di suore e scuole
cattoliche.
Alemà ha creato un prodotto dove
l’azione risulta anche avvincente e mai noiosa, aiutata dalle
quattro storie che si alternano; ma si avverte il peso di una
sceneggiatura troppo indirizzata, rinchiusa dentro al concetto: “è
un film, per forza deve andare così”.
Sole a Catinelle domina il box office
con incassi stellari, seguito dalle new entry Planes e Prisoners. Ma decisamente non c’è
concorrenza.
Dopo l’exploit del primo weekend,
Sole a Catinelle conferma ovviamente
la prima posizione con un incasso altrettanto stellare. Negli
ultimi quattro giorni, il film con Checco Zalone ha incassato ben
11 milioni di euro in oltre 1000 sale, giungendo alla bellezza di
34,5 milioni di euro in appena undici giorni. E’ evidente che il
campione di incassi sarà in grado di superare i 44 milioni globali
registrati a fine corsa da Che bella giornata, con un
passaparola e un andamento impressionante in pochissimi giorni.
Neppure Avatar di James Cameron, che primeggia nella
classifica italiana dei maggiori incassi di tutti i tempi, riuscì a
incassare una cifra di questa portata in così poco tempo.
Il resto della classifica registra
risultati decisamente al di sotto per via del dominio incontrastato
di Sole a Catinelle al box office italiano. Gli altri due
gradini del podio sono occupati da due new entry. Il film della
Disney Planes apre al secondo posto con 1,4
milioni incassati in 536 copie, mentre il thriller Prisoners con Hugh Jackman esordisce
in terza posizione con 609.000 euro in circa 270 sale a
disposizione.
Cattivissimo Me 2 scende al quarto
posto con altri 531.000 euro, arrivando a quota 15,3 milioni.
Captain Phillips – Attacco in mare
aperto perde due posizioni rispetto all’esordio,
giungendo a 1,3 milioni totali con altri 402.000 euro.
Seguono altre due novità del fine
settimana. Machete Kills di Robert Rodriguez
apre al sesto posto con 360.000 euro incassati in 193 copie, mentre
la commedia romantica Questione di tempo di Richard Curtis
debutta con 345.000 euro in 218 sale disponibili.
Alle posizioni successive troviamo
pellicole in calo, ossia Ender’s Game (214.000 euro) e
La Vita di Adele (175.000 euro),
giunti rispettivamente a 928.000 euro complessivi e 1,3
milioni.
Chiude la top10 un’altra new entry.
Presentato all’ultimo Festival
di Cannes, Giovane e Bella esordisce in coda
della top10 con 156.000 euro. Il film di François Ozon è stato
lanciato in appena 62 copie, ottenendo una buona media di poco
inferiore ai tremila euro.
Si chiama come Leonardo Da
Vinci perché ha dato il primo calcio nel pancione mentre la
mamma ammirava un dipinto del celebre artista. E il nome ha portato
fortuna a Leonardo Di Caprio, che esordisce a soli 3 anni in
uno show per bambini e, dopo la gavetta in TV, nel ‘93 debutta al
cinema con De Niro in Voglia di ricominciare.
Nello stesso anno è anche il fratello handicappato di Johnny
Depp in Buon compleanno Mr. Grape, per cui si
becca le nomination al Golden Globe e all’Oscar.
Anche i personaggi successivi sono
impegnativi – vedi il tossico di Ritorno dal nulla e
il tormentato Rimbaud in Poeti dall’inferno –
per non parlare dell’eroe shakespeariano in Romeo +
Giulietta di Baz Luhrmann, con cui conquista il
Festival di Berlino e milioni di ragazze. La sua faccia monopolizza
diari e pareti, e le cose peggiorano quando nel ‘97 esce
Titanic. Jack Dawson è il re del mondo, ma anche dei
cuori delle spettatrici che assistono impotenti al tragico
epilogo.
Quanti accidenti si è presa la
povera Rose! È vero, quella zatterella bastava per tutti e due, ma
la licenza artistica dove la mettiamo? Il colossal di
Cameron lancia Leo nell’olimpo di Hollywood, eppure,
malgrado la scia del Titanic, La maschera di
ferro e The beach non fanno faville, e Di
Caprio vira verso progetti più tosti, dando il via al suo sodalizio
con Scorsese, che nel 2002 lo dirige in Gangs of New
York, per poi riconfermarlo come protagonista in The
aviator (2004), The departed (2006),
Shutter Island (2010) e l’imminente The wolf of Wall Street.
Ma Leo collabora anche con altri
registi DOC come Spielberg (Prova a
prendermi), Edward Zwick (Blood
Diamod), Ridley Scott (Nessuna
verità), Sam Mendes (Revolutionary
Road, dove torna a lavorare con la naufraga Kate
Winslet), Christopher Nolan (Inception),
Clint Eastwood (J. Edgar), e
Tarantino, che finalmente lo convince a fare il cattivo in
Django Unchained (dopo il no di Leo all’Hans Landa di
Bastardi senza gloria – p.s. Christoph Waltz
ringrazia per l’Oscar). Ultimamente lo abbiamo rivisto al servizio
di Luhrmann nelle bianche vesti di Gatsby, che si
strugge d’amore per la Daisy di Carey Mulligan; nella vita
vera, invece, frequenta una modella tedesca appena ventenne,
Toni Garnn, l’ultima di una lunga serie di top. Ci si
potrebbe organizzare un defilé con le sue ex: Gisele
Bundchen, BarRafaeli, Erin Heatherton;
magari lasciamo fuori Aretha Wilson, una modella che nel
2005 a un party gli ha tirato in testa una bottiglia rotta (= 17
punti di souvenir), ma buttiamo in passerella un’altra fiamma di
Leo, l’attrice Blake Lively (ora Mrs
Reynolds).
Ha buon gusto Di Caprio (pur
essendo vegetariano) e di certo gradirà la nostra torta. Speriamo
che ci inviti nella sua isola del Belize con gli amichetti del
cuore – Winslet, Haas, Maguire – per spegnere
le candeline (rigorosamente eco-compatibili). HAPPY BIRTHDAY
LEO!
Arrivano i primi
character poster per The Railway Man di
Jonathan Teplitzky (Gettin’ Square,
Better than Sex),film tratto dall’autobiografia di
Eric Lomax, tenente dell’esercito inglese portato
in Giappone durante la seconda guerra mondiale come prigioniero di
guerra.
La pellicola che uscirà in Australia e Regno Unito tra la fine del
2013 e inizio 2014 vede protagonisti Colin Firth, Nicole
Kidman,Stellan Skarsgard,Hiroyuki Sanada e Jeremy
Irvine.
Di seguito potete ammirare i poster
La sinossi del film: Fin
dall’infanzia Eric Lomax era appassionato di treni. Per uno scherzo
del destino, è stato catturato dai giapponesi durante la seconda
guerra mondiale e mandato in Thailandia a lavorare alla ferrovia
Burma-Siam, il progetto barbarico che ha richiesto le vite di 250
mila uomini. Lì costruii una radio per ricevere notizie sulla
guerra e in segreto disegnò una mappa della ferrovia. Per questo,
Lomax è stato sottoposto a torture e interrogatori estenuanti. In
mezzo a tutto ciò c’era Nagase Takashi. un giovane soldato
giapponese che traduceva le domande del suo aguzzino e le risposte
di Lomax. Trenta anni dopo, Lomax ha cercato il suo molestatore
giapponese, incontrandolo su una collina sul fiume Kwai. Ma il
motivo per cui Takashi voleva voleva incontrare Takashi non era la
vendetta. Era la riconciliazione.
A poche settimane
dall’uscita nei cinema USA, cresce l’attesa per vedere in sala
Oldboy di Spike
Lee,remake del classico di Park
Chan-Wook,con Josh Brolin nei panni di
Joe Doucett.
Di seguito trovate il greenband
trailer(in cui non vi sono scene di violenza esplicite) e tre nuove
clip.
Il film, remake dell’omonima
pellicola di Park Chan-wook, è diretto
da Spike Lee ed è atteso nei cinema
statunitensi il 27
novembre. Oldboy è un thriller
provocatorio e viscerale che racconta la storia di Joe Doucette, un
uomo che senza alcuna ragione apparente, viene improvvisamente
rapito e tenuto in ostaggio in completo isolamento, per vent’ anni.
Al momento del suo rilascio inaspettato, e senza alcuna
spiegazione, inizia una missione ossessiva per scoprire chi lo ha
imprigionato, anche se quel che emergerà è che il vero mistero è il
motivo della sua liberazione.
Nel remake firmato Spike Lee vedremo un
cast
comprendente gli attoriJosh
Brolin, Elizabeth Olsen, Sharlto Copley, Samuel L.
Jackson e James Ransone.
Dopo il grandissimo successo
ottenuto da
L’Evocazione – The
Conjuring(oltre 300 milioni di dollari
incassati a fronte di una spesa di soli 20), New Line Cinema ha
deciso di mettere in cantiere almeno due spin-off per il film di
James Wan.
Se su uno dei due il segreto è
ancora massimo(o più probabilmente ancora senza un preciso
soggetto),per l’altro sappiamo che John Darko e
John R. Leonetti(quest’ultimo ha fotografato, con
uno splendido lavoro,il film originale di Wan) avranno una
co-regia. Il progetto dovrebbe intitolarsi The
Annabelle Story(chiaro il rimando alla bambola
demoniaca con cui si apre l’horror originale) e sarà un prequel
rispetto alle vicende narrate nell’evocazione. Per ora non sono
stati forniti ulteriori dettagli per quanto riguarda trama, budget,
cast ma le riprese dovrebbero iniziare già il mese prossimo.
Insieme a questi spin-off, New line
sta sviluppando anche il seguito di The Conjuring sulla base di una
sceneggiatura di Chad e Carey Hayes;anche qui però
non sono disponibili altri dettagli e probabilmente non ce ne
saranno ulteriori finché James Wan non avrà terminato
Fast and Furious 7.
Arrivano altre tre grandi star di
Hollywood ad animare il red carpet del festival di Roma 2013, la
bellissima Scarlett Johansson, Joaquin
Phoenix e Rooney Mara, che insieme al
regista Spike Jonze presentano in concorso
Her (recensione).
Per tutti gli appassionati di toys
LEGO, ecco che grazie al sito The Brick Fan
oggi vi mostriamo una nuova scatola gioco che raffigura due diversi
set del film Lo Hobbit la Desolazione di
Smaug: La Battaglia di Dol
Guldur e Agguato a Dol
Guldur.
Inoltre grazie al sito theonering.net ecco
gli occhiali 3D che verranno indossati da alcuni fortunati
frequentatori di cinema selezionati. Gli occhiali sono disegnati da
Look3D:
Trama: Le avventure di Bilbo
Baggins e della compagnia di dodici nani di Thorin Scudodiquercia,
formata da Balin, Dwalin, Kili, Fili, Dori, Nori, Ori, Oin, Gloin,
Bifur, Bofur e Bombur. Il gruppo deve recuperare il tesoro posto
nel cuore della Montagna Solitaria, sorvegliato dal drago
Smaug.
Manca davvero poco alla premier
romana, in occasione dle Festival di Roma, di Hunger
Games la Ragazza di Fuoco, ed ecco che è stato
diffuso via internet un nuovo spot tv del film con protagonista
Jennifer Lawrence:
La trama del film:
Katniss Everdeen torna a casa incolume dopo aver vinto la 74ª
edizione degli Hunger Games, insieme al suo amico, il “tributo”
Peeta Mellark. La vittoria però vuol dire cambiare vita e
abbandonare familiari e amici, per intraprendere il giro dei
distretti, il cosiddetto “Tour di Victor”. Lungo la strada Katniss
percepisce che la ribellione sta montando, ma che il Capitol cerca
ancora a tutti i costi di mantenere il controllo proprio mentre il
Presidente Snow sta preparando la 75ª edizione dei giochi (The
Quarter Quell), una gara che potrebbe cambiare per sempre le sorti
della nazione di Panem.
L’incontro con Alex De La
Iglesia prende vita dopo la proiezione di una serie di
sequenze tratte dai suoi film più famosi, Acciòn
Mutante, Perdida Durango, El Dia de la Bestia, La Comunidad, El
Crimen Perfecto, The Oxford Murders, La Chispa de la vida, Balada
Triste de Trumpeta e il nuovissimo Las
Brujas de Zugarramurdi.
Il regista catalano comincia la
chiacchierata raccontando la genesi del suo ultimo film parlando
della sequenza iniziale, nella quale un rapinatore, camuffato da
Cristo, con tanto di croce sulle spalle, assalta un banco dei pegni
trasformandosi in feroce assassino. De La Iglesia racconta che
aveva avuto questa idea vent’anni prima, per un film che poi non è
mai stato realizzato perché ritenuto troppo estremo e demenziale,
all’interno del quale trovavano spazio anche le figure di
alcune streghe, divenute poi il punto centrale del suo ultimo
film.
La scelta di ambientare
la storia nel piccolo paese di confine tra Spagna e Francia
chiamato Zagarramurdi è stata pressochè obbligata, poiché tale
luogo sembra essere l’equivalente della cittadina americana di
Salem, nota per le sue oscure vicende legate alla stregoneria. A
Zagarramurdi sembra prendere origine tutta la stregoneria del
vecchio continente ed in particolare, in una grotta limitrofa al
paesino, sembra che avvenissero sabba di dimensioni incredibili,
che coinvolgevano centinaia, forse migliaia di adoratrici del
demonio. De La Iglesia racconta divertito di aver girato la
sequenza finale del film proprio in quella grotta e di aver
scoperto durante le ricerche per sviluppare la storia del film le
vere origini di alcune abitudini stregonesche, come quella di
cavalcare le scope, pratica legata ad una forma di autoerotismo al
fine di assimilare una mistura a base di veleno di rospo e altre
sostanze allucinogene spalmate sul manico dell’utensile; il volare
altro non sarebbe che una visione metaforica dell’orgasmo
allucinatorio raggiunto attraverso tale pratica.
Poi si è lungamente soffermato su
uno dei temi principali del suo ultimo film, ma anche di tante
altre sue opere, ovvero il difficile, se non impossibile, rapporto
tra uomo e donna, ma anche sull’ipocrisia che a suo avviso è insita
nella convivenza quotidiana tra esseri umani, molte volte basata su
una subdola forma educazione superficiale quasi sempre malcelata. A
proposito di tali dichiarazioni non si può non pensare ai rapporti
degenerati tra condomini bellicosi de La
Comunidad, o quello che avveniva tra i commessi del
grande magazzino de El Crimen Perfecto.
Alex De la Iglesia definisce gli esseri umani
degli animali feroci, ma stupidamente intelligenti, che stentano a
convivere e faticano a non sbranarsi l’uno con l’altro.
Torna poi nuovamente a sottolineare
la dipendenza inconsapevole degli uomini dalle donne e il continuo
loro bisogno di fare ritorno a l’utero materno e sentenzia beffardo
che l’egoismo e la sopravvivenza sono la vera natura dell’amore e
ciò che di conseguenza alimenta l’animo di tutti i suoi personaggi
e motore di molte delle sue storie.
Alla domanda di come faccia ad avere
uno stile così particolare e riconoscibile, lui semplicemente
risponde che quello è il suo occhio e che naturalmente lui racconta
ciò che lo circonda. Afferma che quella che si vede nei suoi film è
la sua visione della vita, senza sforzarsi di voler costruire una
sua originalità autoriale. Un buon regista, sostiene, deve essere
come un barman, ovvero bravo a miscelare gli ingredienti già
esistenti, senza dover necessariamente inventare chissà cosa. E’
convinto che non esista l’innovazione, ma che tutto è ricordo del
futuro, che le idee differenti tra loro lottano, ma al tempo stesso
si sostengono. Dice che andare avanti, significa guardare
indietro.
In conclusione e in maniera
simpaticamente provocatoria si autodefinisce un immorale e
prostituto mentale, che farebbe di tutto per soldi, ma ride
sornione, e noi sappiamo bene che non è così.
Josè in compagnia di un
gruppo di balordi compie una rapina in un banco di pegni e ruba
venticinquemila fedi nuziali. Porta con sé il figlio di appena otto
anni, facendolo partecipare attivamente al colpo all’insaputa della
moglie, in lotta con lui per l’affidamento del bambino. Ma qualcosa
va storto, la rapina si trasforma in una caneficina e Josè, con il
figlio, un altro strampalato rapinatore, un ignaro tassista e un
ostaggio, fuggono verso il confine francese. Ma nella loro fuga
approdano a Zugarramurdi, un piccolo paese popolato da streghe
bellicose che non hanno nessuna intenzione di lasciarli andare
via.
Dopo Balada
triste de trumpeta, film molto personale e apice
indiscusso della sua poetica, Alex De La Iglesia
torna a realizzare un film più leggero e scanzonato, ma non per
questo meno riuscito. La libertà espressiva di cui ormai dispone
gli permette di confezionare un piccolo gioiellino che si barcamena
disinvoltamente tra generi diversi e che stupisce lo spettatore con
continue sorprese e cambi di rotta improvvisi. Si parte con un
action-movie rutilante, al cardiopalma, che immediatamente si
trasforma in commedia per poi scivolare nell’horror, con punte di
puro splatter, ma senza mai perdere di vista significati e
riflessioni importanti, disseminate di citazioni colte camuffate
sapientemente con elementi pop.
E’ un turbinio di continue
invenzioni, a cominciare da Gesù Cristo rapinatore che nasconde un
fucile a pompa nella croce, il lercio omino che vive imprigionato
sotto al cesso pubblico, le bislacche abitudini goderecce delle
streghe, fino ad arrivare ad un sabba infernale rivisitato come un
moderno rave debitore delle pitture nere di Goya e pregno di
fondatissime ricerche folkloristiche e antropologiche.
La sceneggiatura è una macchina ben
oliata, che scorre disseminando battute a raffica che ironizzano e
fanno riflettere sui rapporti tra uomo e donna e tra esseri umani
in generale. E quando il discorso sembra farsi troppo serio ecco
che arrivano a sorpresa folgoranti sequenze visionarie colme
d’azione e trovate strabilianti, personaggi improbabili e creature
uscite direttamente da un libro di fiabe. Gli interpreti sono tutti
azzeccati e in grande sintonia, in particolare una divertita
Carmen Maura e i due protagonisti Hugo
Silva e Carolina Bang.
Ne Las brujas de
Zugarramurdi si respira l’aria migliore del nuovo
cinema iberico, si sente lontano l’eco di Almodovar (suo primo
produttore), si intravede nella nebbia l’affabulazione gotica di
Del Toro, ma soprattutto si gusta la stupefacente esibizione
poetica e stilistica di Alex De La Iglesia.
Oggi pomeriggio il Festival
di Roma 2013 ha dato l’opportunità al pubblico di
partecipare all’incontro col grande regista americano
Jonathan Demme. L’autore di film come
Il silenzio degli innocenti e
Philadelphia, solo per citare i due più
famosi e premiati, non ha perso occasione per mettere in luce la
sua passione per il cinema e per far trasparire la sua ironia.
Dopo una breve filmato
iniziale, Jonathan Demme ha iniziato a
rispondere alle domande, la prima delle quali piuttosto generica,
sul concetto di comunicare con il cinema e sulla sensazione che si
prova:
“Io ho sempre riflettuto sulla
dimensione narrativa del cinema. Raccontare storie è sempre
primario per me. Se non hai una storia forte o non la sai
raccontare, sei nei guai. Tutti le persone che ruotano intorno al
film raccontano una storia e hanno una responsabilità completa.
Dagli attori all’operatore, tutti con il loro lavoro raccontano
storie”.
La discussione si è poi spostata
sugli inizi cinematografici di Demme e non è potuto mancare il
riferimento al regista e produttore Roger
Corman:
“Posso considerarlo un maestro.
Io adoro fare cinema e incontrare Corman è stato un momento unico,
di quelli che ti capitano una volta nella vita. Corman mi fece
scrivere una sceneggiatura e io ero agli inizi. Mi propose di
andare a Los Angeles e lavorare al film. Dissi di si senza neanche
far passare un secondo”.
Inevitabile poi la domanda
riguardante Fear of Falling, un film che
andrà in onda domani 11 Novembre 2013 al Festival
del Cinema di Roma in anteprima mondiale. Si tratta di un progetto
particolare, poiché è un film basato su un progetto teatrale, un
mondo con il quale Demme non si era mai confrontato:
“Pensavo sarebbe stato facile
trasportare il teatro al cinema. Invece mi sono reso conto, quando
ho cominciato il lavoro, che non è affatto semplice perché il tipo
di performance teatrale non è adatta per il cinema. Posso dire che
Fear of Falling sia il progetto più coraggioso che abbia mai
realizzato. Alcuni amici che l’hanno già visto mi hanno detto che
assomiglia ad un film di Bergman però visto sotto l’effetto di
Lsd”…
Poi Demme ha continuato, spiegando
perché dopo aver raggiunto grandi traguardi cinematografici, sia
tornato un po’ agli albori, voltando le spalle alle grandi
industrie:
“Non mi piace dire che ho
voltato le spalle. Quando si inizia la propria carriera come
regista indipendente, si hanno budget limitatissimi, ho fatto un
film anche con 125.000 dollari. Quando poi vai avanti e fai
successo, sai come gestire meglio dei budget più elevati, anche
milioni di dollari. Ma sai anche che hai delle responsabilità,
ovvero fare un film che debba almeno pareggiare il bilancio. Ecco,
io non avevo più voglia di queste responsabilità. A me piace
lavorare con cifre minori e lavorare in tempi più
stretti”.
In ultimo, anche al pubblico è stato
concesso un piccolissimo spazio ed in particolare una domanda ha
fatto scatenare le risate della sala,vista la risposta tanto secca
quanto esplicativa di Demme:
Se qualcuno mi ha mai chiamato
per girare un film di supereroi che tanto hanno successo negli
ultimi anni? Semplicemente, no.
La nostra foto gallery del Festival:
[nggallery id=325]
Presentato in Concorso alla ottava
edizione del Festival Internazionale del Film di Roma,
Entre Nos racconta la storia di un gruppo
di giovani, spensierati e ottimisti, che passano insieme una parte
della lroo vita prima che questa cambi radicalmente. Isolati dal
resto del mondo in una magnifica tenuta di campagna, i giovani
amici decidono di scrivere delle lettere indirizzandole ai se
stessi che diventeranno da li ai dieci anni successivi, e di
seppellirle con la promessa di ritornare in quel luogo al tempo
stabilito per rileggerle insieme. Il giorno stesso, però, in
seguito a un tragico e imprevisto incidente automobilistico, ognuno
di loro prende strade diverse. Contro ogni previsione il gruppo
affiatato all’inizio si perde di vista, e la loro vita prenderà una
piega completamente diversa. A dieci anni di distanza però i
protagonisti si ritroveranno, riuniti a causa della morte di uno di
loro e da un mistero che li tiene involontariamente uniti.
Riaffioreranno così vecchie passioni, nuove frustrazioni e un
oscuro segreto sepolto nel passato.
A dirigere il film Paulo
Morelli, italiano per metà, che ci racconta un tipo di
storia che è stato già affrontato, anche se con toni nelle
intenzioni pià leggeri, dal nostro cinema con Immaturi. Come nel
film di Paolo Genovese, un gruppo di amici si ritrova
dopo aver trascorso anni senza vedersi, e così la loro vita cerca
di riprendere in qualche modo lì dove si era interrotta. Purtroppo
però le intenzioni del regista vengono ostacolate da un plot
banale, da una sceneggiatura piatta e da una serie di cliché
ripetuti, che contribuiscono a fare di Entre
Nos un film non riuscito.
I personaggi stessi del racconto
sono appena abbozzati, riducendosi a sagome che inscenano schemi
interpersonali fissi. Nel cast Caio Blat, Carolina
Dieckmann, Maria Ribeiro, Paulo Vilhena, Martha Nowill, Julio
Andrade, Lee Taylor. Il film non manca di una certa
leggerezza che, unita alla durata ragionevole, aiuta lo spettatore
a procedere nella visione; ma il prodotto finale rimane patinato e
scontato, come in un lungo spot televisivo.
E’ stato presentato Fuori Concorso
al Festival Internazionale del Film di Roma
l’ultima impresa dei Manetti Bros ,
Song’e Napule. Tra il comico, il noir e
il poliziesco, il film è un cocktail di generi a cui i registi
romani si sono affezionati particolarmente con la serie tv
L’Ispettore Coliandro interpretato da Giampaolo Morelli. Il loro
attore-feticcio torna protagonista di questa storia, riunendo le
forze con i fratelli Antonio e Marco per raccontare una Napoli
diversa, diversa anche da quella raccontata da Gomorra e co. senza
troppa angoscia e rifiuti, ma con un film rilassato e positivo.
Song’e Napule
segue le vicende di Paco Spillo (Alessandro
Roja), un pianista diplomato in conservatorio che si
ritrova a fare il poliziotto per sfuggire alla disoccupazione. La
sua dote musicale tornerà utile quando all’Ispettore Cammarota
(Paolo Sassanelli) dell’anticrimine serve un
infiltrato al matrimonio della figlia del boss di Somma Vesuviana
per acchiappare il famoso latitante O’ Fantasma. Paco, non con poca
riluttanza ,si trasformerà da signorino del conservatorio a tamarro
cafone per entrare a far parte della band di Lollo Love (Giampaolo
Morelli), un famoso cantante neo melodico ben inserito
nel giro delle feste. Suo malgrado, Paco in arte Pino Dynamite, si
troverà a rischiare la sua vita incappando in piacevoli rapporti di
amore e amicizia.
Song’e Napule, il film
Con un cast costellato di tanti
amici , oltre che a Roja, Morelli e Sassanelli troviamo
Serena Rossi,
Carlo Buccirosso, Antonio Pennarella e un cammeo di
Peppe Servillo, sempre centratissimo nel
personaggio. I Manetti Bros realizzano quasi una serenata a Napoli
con le canzoni di Lollo Love interpretate da Morelli, arrangiamenti
di musiche degli Avion Travel e tanti altri omaggi
alla canzone napoletana grazie a Franco Ricciardi, Ivan
Granatino, Antonio Buonomo,
Serena Rossi, Pino Moccia e Rosario Miraggio.
Raccontato in modo semplice e vero,
Song’e Napule regala risate dall’inizio alla fine, senza mai
scadere nella comicità demenziale ma facendo affidamento a gli
unici tempi comici della “lingua napoletana”. Un
bell’affresco di Napoli che mostra non solo la parte brutta “della
fogna dell’Italia” ma anche la parte onesta senza troppo buonismo
del , sempre più generalizzato , Napoletano medio.
Questo è stato l’ultimo film
prodotto da Luciano Martino, fermo sostenitore
dell’idea di Morelli.
Nella terza giornata
del Festival di Roma 2013 è stato presentato e accolto
calorosamente dalla stampa Her di Spike Jonze
di con Joaquin Phoenix, Amy Adams, Rooney Mara, Olivia Wilde
e la calorosa voce di Scarlett Johansson. Nella sezione
Fuori Concorso è stato presentato Las brujas de
Zugarramurdi di Álex de la Iglesia, il regista che
aveva segnato il festival di Venezia con La ballata
dell’odio e dell’amore, nel cast troviamo Javier Botet,
Mario Casas, Carmen Maura, Hugo Silva e Carlos
Areces.
Di seguito il video commento dei film con i trailer:
E’ stato presentato nella selezione
ufficiale in Concorso alla ottava edizione del Festival
Internazionale del Film di Roma Her,
ultimo film di Spike Jonze in cui un magnifico
Joaquin Phoenix si innamora della voce sensuale di
Scarlett Johansson. Sono arrivati a Roma
per presentare il film il regista Spike Jonze, il
protagonista Joaquin Phoenix e Rooney
Mara, che nel film interpreta l’ex moglie del
protagonista. L’incontro con la stampa è stato, come c’era da
aspettarsi, atipico, essendo note a tutti le stranezze di Phoenix e
la sua ritrosia verso i giornalisti e le domande sul suo
lavoro.
Ciò nonostante l’attore si è
mostrato insolitamente loquace, anche se ha prevalentemente
scherzato sul suo ruolo e con i suoi colleghi. Il regista Jonze ha
commentato così la sua esigenza di raccontare il
film: “Volevo raccontare questa storia perché tratta temi
sui quali ho riflettuto, nei confronti delle quali ho una
valutazione un po’ confusa. Il modo in cui viviamo e gestiamo i
nostri rapporti, che non sempre sono semplici.”
In una delle poche risposte
esaurienti concesse, Joaquin Phoenix ha accennato
alla complicità di sua sorella (e sua manager) nella partecipazione
al progetto: “E’ stata mia sorella e mia agente a passarmi la
sceneggiatura. Mi ha detto che Spike aveva una sceneggiatura per
me, l’ho letta e ci siamo innamorati.”
Rooney Mara ha
invece dovuto lottare per ottenere il suo ruolo: “Mi hanno
inviato la sceneggiatura e volevo partecipare al film, solo che
Spike diceva che ero troppo giovane. Quando ci siamo incontrati
però sono riuscita a convincerlo che la forza interiore del
personaggio era senza tempo e che quindi ero adatta al
ruolo.”
I costumi e gli arredi sono
vintage ma il film è ambientato in un vicino futuro. Può motivare
questa scelta?
SJ: “L’obbiettivo era creare un
mondo accogliente, e questo mi sembrava il modo migliore per
mettere in scena questa esigenza di gradevolezza e facilità della
vita. Tuttavia ci sono ancora personaggi che desiderano qualcosa, a
cui manca qualcosa.”
In che modo Joaquin e
Scarlett hanno interagito sul set per parlarsi senza che la
Johansson fosse presente?
SJ: “Quando abbiamo girato il
film c’era un’altra attrice, Samantha Morton, che ci ha
accompagnati nella lavorazione. Era sul set e parlava con Joaquin.
Poi in post produzione è arrivata Scarlett che è stata accompagnata
da entrambi per registrare le sue parti e creare
un’intimità.”
Spike Jonze ci ha
da sempre abituati a viaggiare in mondi straordinari, che con
profonda malinconia coinvolgono lo spettatore, trasportandolo in
una realtà parallela e deliziandolo con storie magistralmente
raccontate. Il suo ultimo film Her non fa
eccezione. Interpretato da Joaquin Phoenix, il film racconta di Theodore,
un uomo dal cuore spezzato che sta cercando di metabolizzare la
separazione e l’imminente divorzio dall’amata moglie (Rooney
Mara).
In una Los Angeles futuristica ed
insieme straordinariamente malinconica, Theodore trascorre le sue
giornate tra il lavoro e il suo solitario appartamento, fino a che
non incontra Samantha, un sistema operativo senziente e intuitivo
(cui da la voce Scarlett Johansson), e in grado di evolversi
con l’uso, con la quale Theo comincia una relazione particolare che
trasformerà sia l’umano che l’artificiale fino a giungere ad un
epilogo inevitabile e struggente.
La domanda che ci pone Jonze è
semplice e complessa insieme: si può amare qualcuno nel corso di
tanti anni, accettandone e consentendone i cambiamenti fondativi di
un essere umano in continuo divenire? Si può amare ed essere
ricambiati anche attraverso il tempo di una vita che cambia e
trasforma?
Her, il film
Il caro Theodore, personaggio con
il quale non si può non entrare in sintonia, ci conduce con mesta
compostezza nella sua vita, e noi impariamo molto su di lui e su
possibili risposte alle domande dello stesso regista. Mattatore
incontrastato del film è Joaquin Phoenix, attore straordinario, uno dei
migliori della propria generazione, che ad ogni nuova prova
d’attore riesce a scavare in se stesso e nell’animo dello
spettatore, completamente rapito dai suoi occhi, dalle sue movenze,
da questo essere romantico e triste che l’attore dipinge sullo
schermo.
A dare voce al sistema operativo
c’è Scarlett Johansson, che per una volta rinuncia
a sfruttare la sua prorompente presenza scenica e ci regala solo il
suono della sua sensuale voce, creando con pochi mezzi un
personaggio artificiale per natura ma allo stesso tempo
estremamente umano. Completano il cast una diafana Rooney Mara e Amy Adams, che riesce con pochi sguardi a dare
profondità anche al più piccolo dei personaggi.
Il film di Spike
Jonze è un viaggio nella coscienza di un uomo che può
essere ognuno di noi, è un viaggio nell’amore e nella sua
trasformazione in quanto sentimento tanto universale quanto privato
e mutevole, un viaggio ambientato in una bellissima Los Angeles
delicatamente futuristica che funge da perfetta cornice per il
nostro malinconico protagonista.
Her è un racconto coinvolgente e
struggente, romantico, tenero e profondamente devastante, che
emoziona lo spettatore e lo induce a riflettere con inquietante
profondità ed urgenza sulla propria vita.
The Invisible Life (A
Vida Invisìvel) è un film diretto
da Vítor Gonçalves presentato in Concorso
alla ottava edizione del Festival Internazionale del film di
Roma.
È notte fonda e Hugo, un impiegato
statale, siede sui gradini del Ministero in cui lavora. Non ha il
coraggio di tornare a casa e non riesce a togliersi dalla mente le
immagini di un misterioso filmino in 8mm che ha ritrovato in casa
del defunto Antonio. Ricorda quindi il giorno in cui Antonio, suo
superiore al Ministero, gli rivelò che stava per morire. Hugo ha
sempre creduto che Antonio volesse in realtà confidargli qualcosa
che lo riguardava direttamente. Spinto dal desiderio di comprendere
questo segreto inconfessato, rispolvera ricordi sepolti da tempo. E
ripensa all’ultima volta che ha visto Adriana, la donna che amava.
Ancora una volta lo assale il pensiero che la sua è stata una vita
non vissuta.
Gonçalves sceglie la strada del
racconto a posteriori per mostrarci il viaggio interiore del
protagonista Hugo (Filipe Duarte); un racconto in
voce fuori campo in cui seguiamo in una serie di accavallamenti
temporali il percorso del personaggio, tra ricordo del passato e
indagine nel futuro alla ricerca di un misterioso messaggio che
forse non è mai stato scritto.
Il racconto, il ricordo e la ricerca
sono però raccontati attraverso uno stile statico, che non fa nulla
per coinvolgere lo spettatore, addentrandosi in un racconto
autoreferenziale e complesso, difficilissimo da comprendere a
ancora più difficile da gradire. Nonostante Duarte sia un
interprete molto intenso, la scelta registica di utilizzare
prevalentemente la camera fissa non fa altro che ostacolare
ulteriormente la fluidità di un racconto che non decolla mai.
Completano il
cast Maria João Pinho, João Perry, Pedro
Lamares e Susana Arrais.
The Invisible
Life è un racconto pretensioso e poco interessante di
una vita misteriosa sì, ma chiusa in se stessa e che non ha nessuna
voglia di mostrarsi benevola nei confronti dello spettatore.