Nella notissima intervista fatta da
Truffaut a Hitchcock, il regista francese sostiene che nei film del
maestro britannico sia fortemente presente il tema della colpa
dell’uomo, che ha quasi il sapore di un peccato originale. Se
l’uomo è innocente, è tale solo in rapporto alle accuse che gli
vengono fatte, mentre è colpevole nelle intenzioni: James Stewart è
colpevole di essere voyeur ne La finestra sul cortile, ad
esempio.
Per essere più specifici, nei film
di Hitchcock ricorre spesso il tema dell’individuo ingiustamente
accusato o dichiarato colpevole che cerca di provare la sua
innocenza. Questo sin dal muto The lodger, del ’26, passando per
Downhill (1927), fino ai più noti Io confesso (1953), Delitto
perfetto (1954), Caccia al ladro (1955), Il ladro (1956), Intrigo
Internazionale (1959), Frenzy (1972)…
Più raramente si ha a che fare con
colpevoli che cercano di “diventare” innocenti: Blackmail (1929),
Marnie (1964)…
È interessante notare come tale
tema della colpevolezza agisca in rapporto alla sessualità, in
alcuni film in particolare.
Nei film di Hitchcock raramente si mostra un amore “sereno” e
quando ciò accade, esso non è che uno soltanto tra altri, più
rilevanti, elementi della storia (La finestra sul cortile, Intrigo
Internazionale, Il sipario strappato).
Viceversa, quando l’amore è un tema più rilevante della trama, esso
non è affatto “sereno”, ma appunto tormentato, perverso, mortuario.
È cosi, ad esempio ne La donna che visse due volte (che in
originale ha il più evocativo titolo Vertigo).
Ne riassumo brevemente la
trama.
Scottie (James Stewart) è un ex
poliziotto che soffre di vertigini che viene incaricato dall’amico
Gavin di sorvegliare sua moglie Madeleine (Kim Novak), che soffre
di problemi psichici, nel timore che possa commettere il
suicidio.
Scottie pedina la donna, la salva
da un tentativo di annegamento, se ne innamora, ma a causa delle
vertigini non riesce a fermarla quando si butta da un
campanile.
L’uomo attraversa un periodo di
depressione, finché incontra in strada una donna incredibilmente
somigliante a Madeleine.
La ragazza sostiene di chiamarsi
Judy e cerca di respingere l’uomo. Apprendiamo da un flashback che
Judy è in realtà la Madeleine conosciuta da Scottie. La donna era
l’amante di Gavin, e ad essere precipitata dal campanile fu la vera
moglie di costui. Questo progetto era stato ordito dagli amanti per
liberarsi della moglie di Gavin facendo leva sulle vertigini di
Scottie, che gli avrebbero impedito di raggiungere la donna fino al
campanile. Gavin aveva però poi abbandonato Judy.
Scottie porta Judy a comprare degli
abiti, a tingere i capelli, a modificarne l’aspetto fino a
riprodurre Madeleine. I due si baciano: anche Judy è innamorata di
Scottie. L’uomo, avendo intuito come andarono le cose, costringe la
donna a tornare con lui sul luogo del delitto. Salgono insieme sul
campanile, Scottie vince le sue vertigini. I due si abbracciano, si
baciano: è l’amore. Dal buio, compare la sagoma di una suora. Judy
ne ha paura, perde l’equilibrio e precipita.
A Scottie non importa sapere che la
Madeleine da lui conosciuta non è mai esistita. Madeleine è poco
più di un’ombra, l’immagine di una donna creata a regola d’arte,
donna resa (fintamente) fragile da problemi psichici,
fintamente (auto)distruttiva, fintamente inconsapevole della sua
animalesca e indolente carica erotica.
Quel che a Scottie importa è
poterla riavere.
Riavere quella inesistente creatura
(meglio: creazione), che ha un qualcosa di misterioso, di negativo,
e come tutto ciò che è negativo e misterioso, come ogni tabù,
attrae. Pur avendo il compito di proteggerla da se stessa, egli se
ne lascia incantare.
Scottie si ricrea da sé e per sé la
sua Madeleine a partire da Judy. Vorrebbe fare l’amore con una
morta (e infatti Hitchcock parla, forse un po’ scherzosamente, di
necrofilia a questo proposito), o per essere più precisi con una
donna mai vissuta. Con la donna che non visse neppure una volta, se
non come immagine mentale di Scottie.
Di questa donna egli si era
innamorato. Per amare di nuovo, Scottie ha bisogno, perversamente e
forse masochisticamente, che la volgare e comune Judy sia di nuovo
la “fatale” e sofisticata Madeleine: in questa intenzione è la sua
“colpa”, che fatalmente conduce di nuovo alla morte (vera, questa
volta) della donna.
C’è un altro amore, più
evidentemente “perverso” di qualche anno successivo, nella
filmografia Hitchcockiana e si tratta di Marnie.
Marnie (Tippi Hedren) è una ragazza
affascinante che si fa assumere da varie imprese per svaligiarne la
cassa cambiando di volta in volta identità e fornendo false
referenze. La assume un uomo d’affari di Filadelfia, Mark Rutland
(Sean Connery), che si innamora di lei. Marnie svaligia ancora la
cassaforte, Mark l’insegue e le propone di essere denunciata o di
sposarlo. Marnie non ha scelta. In viaggio di nozze Mark scopre che
la ragazza è frigida e quando lui cerca di possederla con la forza
lei tenta il suicidio. La cleptomania della donna, che rivela anche
altre nevrosi e la paura del colore rosso, è una compensazione
della sua frigidità. Mark rintraccia la madre di Marnie, una ex
prostituta e vi si reca con la moglie. Si scopre il segreto delle
nevrosi della donna: a cinque anni Marnie aveva ucciso con un
attizzatoio un marinaio che infieriva sulla madre: di qui i suoi
problemi col sesso e il suo terrore per il rosso. Marito e moglie
escono, con la speranza che grazie a questa rivelazione la ragazza
guarisca.
Anche qui un uomo attratto da una
donna misteriosa con un che di negativo.
Mark è interessato a Marnie in
quanto è una ladra e al contempo cerca di liberarla dai suoi
conflitti, come Scottie è interessato a Madeleine in quanto
(auto)distruttiva.
Entrambi i film hanno al proprio
centro il tema di un amore feticistico.
Sono il profondo, il recondito, ciò
che viene celato e proibito a innescare la seduzione in maniera più
potente, e spesso, dunque, distruttiva. Non è così solo per
l’esperienza erotica, ma anche per il delitto: ai personaggi
hitchcockiani a volte non interessa compiere il delitto per un
qualche scopo preciso, ma solo perché esso costituisce l’infrazione
di una regola, la rottura di una proibizione, di un tabù. Così è
per gli studenti strangolatori di Nodo alla gola. Spesso si prova
piacere non per una azione in se stessa, ma nella misura in cui
essa costituisce, appunto, la violazione di una proibizione
autoritaria. Tutto ciò doveva saperlo bene Hitchcock, che aveva
avuta educazione cattolica dai gesuiti, e che confessava di avere
il terrore, da bambino, delle punizioni corporali per mezzo del
frustino di gomma.
Ecco perché forse nei suoi film si
ritrova così tanto spesso l’innocente perseguitato che tenta di
discolparsi, ecco perché il concetto di colpa è così presente, al
di là del fatto che quasi mai i soggetti dei film del regista siano
originali.
Il senso di colpa (e la punizione,
anche) doveva apparirgli come strettamente connesso alla fisicità.
Del resto, notava lo stesso regista una sorta di feticismo da parte
dei giornali nel voler mostrare i delinquenti ammanettati. Le
stesse manette sono uno strumento usato dalla giustizia come in
certe aberrazioni sessuali.
Egli, uomo timido e pauroso,
educato rigidamente, solitario fino a guardare con sdegno e
disprezzo i suoi coetanei in gioventù, sposatosi vergine a
venticinque anni, doveva voler raccontare, dissimulandole, le sue
proprie ossessioni, verso la società pronta ad accusare e
colpevolizzare e verso la sessualità torbida, quasi trattando il
tutto in chiave di lotta di principi morali o quasi metafisici in
cui comunque l’innocente e il colpevole, a dispetto di tutte le
complicazioni, vengano riconosciuti come tali anche da chi, come la
società e la giustizia, li avevano accusati.
La risoluzione di alcuni film di
Hitchcock, costruiti su situazioni assurde, quasi kafkiane di
ingiustamente (o incomprensibilmente) accusati avviene quasi in
maniera casuale, anche essa quasi per assurdo: come al commissario
di Frenzy accade di cogliere casualmente l’assassino in
flagrante.
E questo perché, forse, il
non-torbido, la serenità, non possono che essere remoti nella
società. Forse il non-torbido è un po’ simile ai love birds
inseparabili de Gli uccelli (1963): mansueti, chiusi nella
loro gabbietta sono gli unici “lovely” birds del film, e ciò
finisce per innescare spesso delle situazioni ironiche, derivanti
dal contrasto con gli altri uccelli del film che “lovely” non sono
affatto.
Gli “attacchi” degli uccelli
cominciano e finiscono (ma nel film non appare la parola “fine”, e
ciò è inquietante perché gli uccelli non sono andati via, ma anzi
coprono l’intera superficie di terra delle ultime, cupe
inquadrature, dovunque e per sempre presenti), non a caso, su
Melanie, la donna sensuale amata da Mitch e respinta dalla madre
possessiva di lui, che è invece, curiosamente, il personaggio meno
“attaccato”. Qualcuno ha visto infatti gli attacchi dei volatili
come un riflesso dell’astio della madre di Mitch per la “ipotetica
nuora”, la “nuova” donna del figlio che scalzerebbe la madre, prima
donna. Qui non c’è la perversione di una coppia o di uno dei suoi
membri, ma piuttosto di un singolo personaggio, che è poi quello
che agisce come “proibizione” nei confronti della coppia. Un po’
come la “finta” madre di Norman (circondato, curiosamente da
uccelli impagliati) in Psyco (1960) “interveniva” a proibire
l’interesse del figlio per Marion Crane, uccidendola.
Anche in questi finali, come
altrove, la vicenda si risolve (anche se non è detto che ne Gli
uccelli vi sia risoluzione definitiva) indipendentemente dagli
sforzi della legge e termina con il ritorno dell’assurdo: la
vittoria della madre di Norman sulla personalità del figlio,
l’invasione degli uccelli.
Di fronte a tutte queste
ossessioni, un po’ come certi pensatori medioevali della scolastica
che spendevano tante parole contro le creature e le situazioni
oscene nelle pagine di autori pagani o raffigurati nelle facciate
delle cattedrali, subendone però in realtà la fascinazione, così
Hitchcock è interessato al torbido pur demonizzandolo. Si direbbe
quasi che egli abbia cercato di esorcizzare le sue proprie
ossessioni attraverso quei film che solo a uno sguardo superficiale
sembrerebbero prodotto di fabbrica scaturito da soggetti non
originali.