Non esiste un vero e proprio protagonista nel film Timbuktu che il regista mauritano ha presentato a Cannes. Nella città di sabbia occupata dai talebani si incrociano i ritratti di diversi personaggi e delle loro contrastanti personalità in conflitto, creando così un film corale, ironico e spietato come i suoi personaggi. Nella città islamica gli jihadisti impongono alle donne del deserto di indossare guanti e calzini, proibiscono thé, sigarette e ogni forma di divertimento. La jihad contro l’occidente è grottescamente condotta in una regione multietnica legata profondamente alla ruralità, ma le persone vengono arrestate perché suonano musica (anche se inneggiante ad Allah) o perché giocano a calcio. Surreale ma allo stesso tempo struggente la scena in cui un gruppo di ragazzi intraprende una partita di football, ma senza il pallone. Tuttavia gli stessi miliziani fingono di sapere parlare arabo, comunicano con smartphone, entrano in moschea addobbati di Kalashnikov e discutono di Messi e Zidane.
Sullo sfondo di una natura selvaggia e incontaminata anche Kidane, il personaggio più simile a un protagonista, è ricoperto da un velo opaco (come quelli della tenda in cui vive attraverso cui è spesso inquadrato) che mistifica la sua personalità di buon padre e buon Mussulmano: uccidendo accidentalmente in una rissa Amadou che ha abbattuto la sua mucca preferita (chiamata GPS) si trova ad affrontare la “legge di Dio” importata dai talebani, che opprime tutti quanti, e difronte alla quale non esiste difesa.
Lo sguardo nostalgico di Sissako in Timbuktu ci mostra una realtà ancora carica di misticismo selvaggio che vive le contraddizioni della modernità filtrate da un potere talebano schizofrenico che non è in grado di convincere nemmeno chi lo esercita.
Timbuktu è un film carico di mistero e sospensione, emozionante come l’Africa che rappresenta, decisamente apprezzato con quindici minuti di applausi e tante recensioni positive che lo indicano tra i favoriti.
Di Enrico Baraldi














La trama di X-Men giorni di un futuro passato, tratta dall’omonimo fumetto del 1981, ripercorre un arco temporale ambientato in un imprecisato futuro in cui gli USA sono dominati dalla Sentinelle, mentre i mutanti vivono confinati in campi di concentramento. Kitty Pride torna indietro nel tempo e impedisce dal passato che gli eventi precipitino a tal punto da trasformare la vita dei mutanti del futuro in un inferno di reclusione.


Pur non avendo dalla sua i verdi panorami del Devon e il fango delle Trincee presenti nel film di Spielberg, War Horse trova la sua dimensione in un allestimento quasi del tutto privo di scenografie, sovrastato da una lunga pagina strappata sulla quale si proietta lo scorrere del tempo e la dolorosa discesa che vede il purosangue inglese Joey separarsi dal padroncino Albert; le marionette compiono il miracolo, conquistano la nostra attenzione con spavalderia e tenerezza e non mancano di strapparci qualche lacrima quando a sfidare il coraggio indefesso dei cavalli arriva il più temibile dei rivali, un carro armato che avanza senza pietà contro l’ombra di una Guerra romantica che muore sotto i colpi dell’artiglieria.

