Conclusa la Mostra
Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, edizione
settantacinque, e in attesa dell’annuncio dei
Leoni, è importante riportare alcune considerazioni a seguito delle
polemiche che hanno seguito l’annuncio del programma, lo scorso
luglio, e di alcune decisioni prese dall’organizzazione in merito
ai tempi di lavoro della stampa accreditata.
Quando è stato annunciato il
programma della Selezione Ufficiale, lo scorso luglio, molte
riviste straniere, in particolare The Hollywood
Reporter, si sono scagliate contro Alberto
Barbera e il suo Festival a causa della mancanza di donne
tra le file dei registi scelti per rappresentare il cinema Mondiale
in Mostra. Tale accusa, in “tempo di #MeToo”, è sembrata
pretestuosa nonché portatrice di una subdola forma di
“razzismo al contrario”, in cui per promuovere la
parità di genere sarebbe stata obbligatoria la presenza di registe
donne nella Selezione Ufficiale, mentre l’unica donna regista del
Concorso è stata Jennifer Kent con la sua opera
seconda, The Nightingale.
Il film è diventato il caso degli
ultimi giorni di Festival, a causa dell’intervento di uno
scriteriato (accreditato stampa) che, a fine proiezione, ha urlato
offese personali alla regista per manifestare di non aver gradito
affatto il film in questione. La Biennale ha provveduto
immediatamente a ritirare l’accredito al soggetto, e l’evento,
lungi dal rimanere un episodio da raccontare nei tanti discorsi dei
“ti ricordi quella volta che al Festival di Venezia…”
dovrebbe rappresentare un punto di partenza per una duplice
riflessione. Da una parte è bene riconsiderare i criteri di
assegnazione dei badge di accredito, valutando attentamente la
professionalità dei richiedenti. Distinzioni e cernite andrebbero
fatte a costo di risultare elitari, oltre a dover essere dovuto a
tutti i film (ma a tutte le opere d’arte in generale) quel rispetto
che si deve all’opera, seppure mediocre, dell’ingegno altrui, ma
che ha “molta più anima del nostro giudizio che la definisce
tale” (cit.).
La seconda riflessione che dovrebbe
stimolare il commento scellerato è quella culturale: tentare di
offendere una donna con l’appellativo che le attribuisce il
mestiere più antico del mondo appartiene a una cultura retrograda e
medievale che resta attaccata addosso a molte persone, persino
inconsapevolmente, e che smaschera la più profonda ignoranza nella
persona in questione, che pronuncia quella parola come offesa. Un
problema culturale che diventa ancora più grave nel momento in cui,
e qui torniamo al primo spunto di riflessione, quest’offesa è
urlata da una persona che, stando al badge che ha appeso al collo e
che la Biennale gli ha concesso, dovrebbe essere un critico o un
giornalista, una persona dunque incaricata di diffondere cultura e
informazione.
Allo spiacevole incidente si
aggiunge il fatto che il film della Kent è stato uno dei più brutti
(peggio accolto nel complesso dei commenti della stampa) presentati
al Lido nella Selezione Ufficiale. L’idea che potrebbe prendere
forma è che pur di prendere almeno una donna in concorso, i
selezionatori abbiano preso un film non all’altezza del resto della
rosa di film scelti, lasciando fuori l’opera magari più completa o
interessante di un regista uomo, solo per evitare una polemica che
comunque è arrivata. E se sulla carta The Hollywood
Reporter poteva avere ragione, basandosi soltanto su
numeri e nomi, alla luce della proiezione di tutti i film di
Venezia 75, è apparso cristallino che tutta la
selezione fosse straordinariamente attenta al mondo femminile, con
storie, attrici e interpretazioni che raccontano la donna e le sue
storie in diversissimi modi, linguaggi e situazioni, con grande
dignità e consapevolezza. Inoltre entrambi i film storici scelti
della commissione (One Nation One King e
Peterloo) avevano importanti riferimenti al
suffragio universale e alla parità di diritti, non un occhio di
riguardo ma una visione completa dell’umanità formata da sessi
differenti, dunque. Una polemica sterile, dunque, quella che arriva
da Oltreoceano e da una società dove il politicamente corretto dopo
lo scandalo Weinstein ha sì portato allo scoperto
il marcio di Hollywood, ma ha anche generato orrori come
l’ostracismo di Woody Allen, solo per fare un
nome. La Mostra e la Biennale (organizzazione in cui lavorano per
la maggioranza donne) sono l’emblema di come, nel mondo del cinema
e del lavoro in generale, siano importanti le competenze, non il
sesso. E non dovrebbe esserci bisogno di aggiungere altro.
La particolarità del Concorso di
quest’anno è stata la presenza di tanti film molto lunghi,
pellicole di oltre due ore, in alcuni casi anche tre ore, che hanno
incollato gli accreditati alle poltrone. I film hanno avuto in
comune anche una qualità medio alta, che sembra il filo rosso che
congiunge almeno le ultime tre edizioni della Mostra. Grandi autori
hanno scelto il Lido per presentare i loro nuovi film, di
conseguenza, i selezionatori hanno giocato sul sicuro, affidandosi
a registi del calibro di Tsukamoto, di
Leigh, di Nemes, di
Guadagnino, addirittura a Orson
Welles nel Fuori Concorso. La mancanza di coraggio
nell’andare a scovare autori sconosciuti e nel prediligere
filmografie nazionali più fruibili o già amate e conosciute è stata
compensata dalla chiara scelta di portare avanti le grandi storie
raccontate sullo schermo. E quindi i “film lunghi” tanto nemici del
pubblico da Festival, sempre alle prese con incastri di proiezioni
e orari tiranni, diventano un modo per spingere alla riflessione,
alla parola ponderata, un invito alla riscoperta del piacere di
discutere di cinema come fosse davvero arte, senza affannarsi alla
corsa al tweet (o al commento rapido su Facebook),
abitudine osteggiata anche dall’embargo sui film annunciato a
inizio festival, fino alla proiezione ufficiale con pubblico
invitato e cast.
Venezia 75 ha
quindi rivendicato il tempo della riflessione, e questa necessità
di darsi il giusto spazio per meditare e contemplare e poi parlare
sembra sempre più urgente nel momento in cui nel corso di
manifestazioni importanti come una Mostra Internazionale di Cinema,
si verificano episodi come quello, discusso prima, di scellerati
che urlano le loro offese “a caldo”, come fossero nella privacy
delle loro camere a esprimere un parere non richiesto ad amici
distratti (per cui diventa necessario alzare la voce). Il tempo
dunque come unità di misura del pensiero, della parola scritta, che
dovrebbe, nel caso della critica, non giudicare ma guidare lo
spettatore interessato. Le storie si sono prese il loro tempo con i
tanti minuti di durata dei film, le parole, grazie anche
all’embargo, sono diventate più importanti e hanno manifestato un
loro peso.
Il divieto, per la stampa, di
commentare il film prima della presentazione ufficiale è stato
mutuato dal Festival di Cannes, che a maggio ha
stravolto i ritmi di programmazione delle proiezioni per impedire
del tutto ai giornalisti di vedere i film prima di cast e invitati.
La scelta di Venezia è stata più democratica e si è affidata al
buonsenso della stampa stessa. Un festival più democratico quindi,
ma apparentemente anche più in salute, stando alla qualità dei
titoli presentati e al coraggio di abbracciare le novità
tecnologiche e le nuove piattaforme di produzione cinematografica,
quelle stesse Netflix e Amazon
allontanate dalla kermesse francese e che “rischiano” di finire
addirittura nel palmares della settantacinquesima edizione
del Festival di cinema più antico del mondo.
Non sappiamo cosa ci riserverà
Venezia 76, ma l’augurio è quello di portarci
dietro, da questa edizione, la giusta prospettiva sul concetto di
parità, il tempo adeguato che rivendica ogni opera d’arte e ogni
pensiero scritto, la bellezza di altre storie raccontate sul grande
schermo.