Presentato in Concorso alla
settantunesima edizione del Festival
di Cannes, Yomeddine è l’opera prima
del regista egiziano A.B. Shawky, che si confronta
con un tema classico come quello del viaggio alla ricerca delle
proprie origini, costruendolo però a partire da una prospettiva che
regala interessanti spunti di riflessione su ciò che al regista, in
fondo, interessa comunicare.
In Yommedine
Bershay (Rady Gamal), uomo curato dalla lebbra ma
costretto a portarne le cicatrici sulla propria pelle, non ha mai
lasciato la propria colonia nel deserto egiziano. Successivamente
alla morte di sua moglie, decide di partire per un viaggio alla
ricerca delle proprie radici, e di quel padre di cui ha perso le
tracce sin da quando era bambino. Seguito nel suo viaggio da Obama
(Ahmed Abdelhafiz), orfano in cerca anche egli
della propria strada, attraverserà l’Egitto confrontandosi per la
prima volta con il mondo circostante e le sue meraviglie.
Shawky vola basso per il suo
esordio cinematografico, non osa né si espone a rischi, ma si
affida ad un tema classico come quello del viaggio, costellato da
incontri particolari che arricchiscono il protagonista di nuove
esperienze e punti di vista sul mondo. Si affida ad una scrittura
semplice, ben elaborata, inquadrata con precisione nelle tappe
imprescindibili del cammino dell’eroe, riuscendo infine ad
arricchire il racconto di elementi e particolari che riescono a far
brillare il film per originalità. Affidando il ruolo di
protagonista a quello che viene etichettato come un “freak”, Shawky
ci porta ad assumere il punto di vista di un emarginato, di un
reietto, costringendoci a fare nostre le sue difficoltà e
debolezze. Il risultato è quello di ritrovare nel protagonista
un’anima più universale di ciò che si possa immaginare, arrivando a
provare vero affetto verso di lui, che se all’inizio poteva
metterci a disagio, sul finire della storia è ormai divenuto a noi
familiare, tanto da non far più caso alle cicatrici che
caratterizzano il suo volto.
Merito di ciò è
anche dell’attore protagonista, ma volutamente non professionista,
Rady Gamal, che nella sua semplicità ritrae un uomo ricco di
sfumature e di profondità d’animo, costretto a vivere nascosto,
provando vergogna per il proprio aspetto. Presi per mano da lui,
veniamo condotti attraverso una scoperta di sé che porta finalmente
il protagonista ad accettarsi, consapevole che ognuno porta con sé
le proprie ferite e cicatrici, e che queste non meritano di essere
nascoste in quanto tracce del nostro percorso nel mondo.
Yommedine, con
l’inizio del viaggio del protagonista, svela la propria anima,
trattando della diversità con ironia. L’opera tuttavia con il
susseguirsi del passare del tempo cade in un pietismo che si
vorrebbe far provare allo spettatore nei confronti dei personaggi
protagonisti. Ci si trova così di fronte ad un film fragile per il
concorso principale, che si regge precariamente in equilibrio tra
sentimenti sinceri e superflui buonismi.
Tra situazioni comiche ed eventi
più drammatici, gli incontri che Bershay si ritrova a fare saranno
motivo di costante confronto con il diverso, dipingendo così un
mappamondo variegato in grado di dar voce, nel bene o nel male, a
chi di solito non ne ha. L’esordiente regista, pur con i suoi
limiti, afferma la sua genuinità, così nel racconto come nelle
immagini dal grande impatto visivo, elementi che combinati riescono
a regalare più di un’emozione.
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