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Mr. Morfina: recensione del film con Jack Quaid

Mr. Morfina recensione film

Di vendicatori privati e agenti speciali il cinema è sempre stato pieno, trovando ad ogni nuova generazione i propri più intrepidi esemplari di uomini o donne in grado di ottenere giustizia con le loro sole mani. In anni recenti è toccato a personaggi come John Wick, il Robert McCall di The Equalizer, il Bryan Mills di Taken o alla Lorraine Broughton di Atomica bionda ricoprire tale ruolo, affermandosi come macchine da guerra pronte a combattimenti di ogni sorta pur di portare a termine la propria missione. È dunque interessante che a loro faccia ora seguito un personaggio tanto improbabile quanto quello protagonista di Mr. Morfina.

Nel film diretto da Dan Berk e Robert Olsen – duo affermatosi per gli horror Malvagi e Non siamo soli – l’eroe di turno ha infatti il solo merito di non provare il benché minimo dolore per via di una particolare patologia. È questo il suo unico “superpotere”, presentandosi per il resto come una persona con un coraggio tanto esile quanto il suo fisico. Eppure, è un personaggio che presenta diversi elementi inaspettati, all’interno di un film che, pur muovendosi su un terreno narrativo quantomai semplice, riesce a regalare più di qualche momento di buon intrattenimento.

La trama di Mr. Morfina: farsi male per amore

Protagonista del film è dunque Nathan Caine (Jack Quaid), un introverso affetto da insensibilità congenita al dolore, che lavora come vicedirettore in una cooperativa di credito di San Diego. Qui lavora anche Sherry Margrave (Amber Midthunder), dalla quale Nathan è attratto ma si tiene a distanza per via della sua condizione e della sua inesperienza con le donne. Quando però anche Sherry dimostra di essere romanticamente interessata a lui, la vita di Nathan sembra prendere un’inaspettata piega positiva. A spezzare questo idillio arriva però una rapina in banca che culmina con il rapimento di Sherry. A quel punto, Nathan deciderà di sfruttare la sua condizione per andare a salvare la donna di cui si è innamorato.

Vogliamo vedere il sangue!!!

Come si può intuire da questa sinossi, il film è di base il racconto di un uomo che si lancia al salvataggio della donna amata e rapita. Tutto qui. Non ci sono ulteriori elementi narrativi che complicano la cosa (se non un colpo di scena ben organizzato) nella sceneggiatura di Lars Jacobson, qui alla sua prima volta con un grosso film di Hollywood. Su questo modello – a partire dal quale si sono costruiti innumerevoli film – Jacobson applica però la particolarità di un protagonista incapace di sentire dolore. È ovviamente questo che rende il film intrigante e avvincente, tolto il quale resterebbe ben poco.

Nella visione di Mr. Morfina non bisogna dunque aspettarsi acrobazie narrative o un particolare spessore dei personaggi. Gli stessi villain, d’altronde, sono dei semplici criminali – guidati però da un convincente Ray Nicholson (figlio di Jack Nicholson). Siamo piuttosto qui per il sangue, per godere o rabbrividire dinanzi alle situazioni mortali in cui si caccia questo improbabile eroe. Insomma, è chiaro che il solo interesse che si può avere nei confronti di questo film per vedere quanto male può ridursi il povero Nathan.

Jack Quaid perfetto protagonista di Mr. Morfina

E da questo punto di vista il film certamente non delude. Pur con il preciso intento dei registi di non allontanarsi mai dal reale, ma anzi di far sì che ogni colpo inferto a Nathan sia premeditato e ben rappresentato, Mr. Morfina offre una convincente sequela di situazioni che, tra il divertente e il raccapricciante, tengono alta l’attenzione e l’interesse nei confronti del film. Su tutte, le trappole che Nathan fa scattare all’interno dell’abitazione di uno dei criminali, o ancora sequenza – forse la più dolorosa da vedere – nel laboratorio di tatuaggi che lo vede diventare un improbabile “Wolverine”.

Momenti che confermano, come si diceva, che il primario obiettivo del film è quello di offrirci questo protagonista e il suo corpo martoriato in tutte le sale, facendo volentieri dimenticare tutto il resto. Il merito è anche di Jack Quaid, perfetto everyman scelto dai registi grazie alla serie The Boys, dove interpreta un Hughie continuamente coperto di sangue e maltrattato ma anche dotato di una sua esplosiva carica energica. Quaid, con il suo fisico slanciato ma esile e i suoi modi di fare gentili, si dimostra l’interprete giusto per un ruolo di questo tipo, favorendo quel contrasto che rende ancor più intrigante e riuscito il film.

Indubbiamente, come si diceva, Mr. Morfina non propone molto altro oltre questo (se non un’altra bella prova attoriale di Amber Midthunder dopo Prey) e si notano una serie di lungaggini che rallentano talvolta il ritmo, ma risate e intrattenimento sono assicurati. Si potrebbe infine guardare a Nathan come ennesimo rappresentante di una generazione che si sta finalmente allontanando dallo stereotipo del maschio duro e spietato (qui presente con il personaggio di Nicholson), abbracciando piuttosto quelle fragilità umane troppo spesso nascoste. Un elemento che, questo sì, conferisce al film qualcosa su cui riflettere.

LEGGI ANCHE: Mr. Morfina, la spiegazione del finale: il colpo di scena e quello che accade a Nathan Caine

 
 

Sons: recensione del film di Gustav Möller

I centri di detenzione nascondono in tutto il mondo delle realtà parallele, in cui sembrano vigere regole diverse, in cui spesso è la forza ad avere la meglio. Questo è un tema che merita certamente l’attenzione del pubblico e viene presentato con tutta la sua crudezza in Sons (titolo originale Vogter). La pellicola, presentata e candidata per l’orso d’oro al Festival del cinema di Berlino, porta alla luce la quotidianità di una prigione danese, tra conflitti di potere tra detenuti e polizia penitenziaria.

Sons, diretto da Gustav Möller (Il colpevole-The guilty, da cui il remake di Netflix The guilty), presenta nel cast alcune figure già note nel panorama cinematografico internazionale. Tutto il film ruota intorno a Eva, guardia interpretata da Sidse Babett Knudsen (Westworld, Inferno), e Mikkel, uno dei detenuti interpretato da Sebastian Bull. Sons, presentato ai Firebirds awards nel Hong Kong film festival, è uscito vincitore nella categoria Cinema Giovani (mondo).

Sons: la vendetta del carceriere

Eva svolge una vita tranquilla e abitudinaria: svolge i suoi turni presso il penitenziario in cui lavora, in un padiglione in cui si trovano detenuti con reati minori, cerca di rendere la vita dei carcerati più normale possibile, favorendone la riabilitazione. Poco sa lo spettatore della sua vita al di fuori del carcere, finché dei nuovi detenuti vengono trasferiti nel penitenziario dove lavora. Uno nello specifico colpisce l’attenzione di Eva: si tratta di Mikkel, il responsabile della morte del figlio, Simon. Mikkel aveva brutalmente assassinato il ragazzo mentre si trovavano entrambi detenuti in un altro carcere.

La rabbia e la sete di vendetta guidano Eva a chiedere il trasferimento nel padiglione in cui si trova Mikkel, quello dedicato ai detenuti di massima sicurezza. Qui inizia un gioco di giustizia perversa da parte di Eva contro il detenuto. Ogni azione però non sembra soddisfare Eva, la quale non trova nella sofferenza di Mikkel nessun vero sollievo dalla sua perdita. Dopo un culmine a questo climax di violenza, Eva sembra credere, sperare in una possibile riabilitazione di Mikkel, finendo però con lo sbagliarsi.

Sons: poliziotto o criminale?

“Quando avevo la tua età, i preti ci dicevano che potevamo diventare poliziotti o criminali. Oggi quello che ti dico io è questo: quando hai davanti una pistola carica, qual è la differenza?”

Questa celebre citazione del film The Departed: il bene e il male permette di riflettere sulla contrapposizione, talvolta troppo marcata, tra la polizia, rappresentante nobili valori di giustizia e ordine, e i detenuti, simbolo di criminalità e violenza. Pian piano che si procede con la narrazione, però, in Sons questa differenza tende ad affievolirsi sempre di più.

Mikkel, da pericoloso assassino quale è, diventa quasi una vittima nelle mani di  Eva, la quale pur di vendicare la morte del figlio porta avanti una strategia di veri e propri “dispetti” nei confronti del detenuti, passando dal sputargli nel cibo, a non garantirgli l’uso del bagno, per culminare nella brutale violenza.

Eva si lascia pervadere totalmente dalla rabbia nei confronti di Mikkel, dimostrando una ferocia e un disprezzo non indifferenti. Ma proprio le prime scene mostrano come la donna non sia di per se una persona violenta e spregevole. Proprio per questo motivo, dopo un culmine di violenza, Eva sembra cambiare totalmente il proprio atteggiamento nei confronti di Mikkel, sia per le minacce di sporgere denuncia ma forse anche per un sentimento di vergogna. In fin dei conti, anche Mikkel è un giovane come lo era suo figlio, e può essere meritevole di una nuova possibilità dalla vita.

La prigione: da punizione a riabilitazione

Fin dal Panopticon dell’utilitarista inglese Jeremy Bentham nel XVIII secolo, la prigione è stata ipotizzata dai filosofi e realizzata negli stati democratici come un luogo di riabilitazione, non solo di detenzione. I paesi del nord Europa sono notoriamente conosciuti per l’alto livello di risocializzazione e servizi che vengono garantiti nelle carceri, e ciò viene facilmente dedotto anche in Sons, nella prima parte del film in cui Eva si trova in un settore con detenuti condannati per reati meno gravi. Si vede come tutti vengano trattati quasi alla pari, come gli venga garantito di girare liberamente fuori dalle loro celle durante il giorno, e come questi possano svolgere lavori o corsi vari, come quello di yoga tenuto da Eva. Quest’ultima infatti sembra credere molto nel reindirizzare e rieducare i detenuti, creando un rapporto molto stretto con i ragazzi della sua sezione e cercando anche a seguire di salvare Mikkel.

Diverso è certamente il caso della sezione con i detenuti più gravi: qui la polizia stessa si comporta in maniera più dura e severa, ricorrendo a brutali costrizioni come l’uso cinghie e costrizioni fisiche. Sons si afferma come una pellicola molto efficace nel presentare una realtà non sempre ben nota, e lo fa in maniera talvolta cruda e diretta.

 
 

The Studio: recensione della serie con Seth Rogen

The Studio

Dopo il successo di critica e pubblico ottenuto dalle varie versioni di Call My AgentApple TV+ risponde a modo suo con questa serie in dieci puntate diretta dalla coppia consolidata Seth Rogen e Evan GoldbergThe Studio racconta le peripezie dell’executive Matt Remick (Rogen), improvvisamente messo a capo della Continental, Major di Hollywood che ha bisogno di realizzare il nuovo Barbie per risollevare le proprie sorti commerciali. Ed è proprio questo il dilemma che renderà impossibile la vita a Remick nel corso dei vari episodi: si può realmente fare cinema di qualità tentando di rispettare, anzi elevare la visione artistica di chi viene messo al timone di un progetto? La risposta per Matt, ora attento più che mai a far quadrare i conti dell’azienda, diventa quanto mai problematica da trovare…

The Studio è una goduria per ogni cinefilo accanito

Partiamo immediatamente con lo scrivere che The Studio è pura, lussureggiante goduria per chiunque sia un cinefilo accanito. Basta sapere che nel funambolico episodio pilota recita  addirittura la leggenda vivente Martin Scorsese in un ruolo decisamente non secondario. Altra chicca ultra cinefila: quanti spettatori hanno riconosciuto il nome del personaggio interpretato dal “boss dei boss” Bryan Cranston? Nel caso lo abbiate fatto, avrete senza dubbio capito che anche l’idea di girare tutte le puntate attraverso lunghissimi, sinuosi pianosequenza deriva allo stesso modo da quel grandioso film su Hollywood diretto da un maestro  di cinema come nessun altro. Ok, forse stiamo flirtando un po’ troppo con il rischio spoiler, il che però serve a testimoniare ancora una volta quanto Rogen e Goldberg siano due enormi conoscitori della storia del cinema. Del buon cinema.

Stracolmo di guest star famosissime, di inside-jokes azzeccate e di almeno un paio di episodi scritti con notevole lucidità per una commedia che vuole essere comunque anche frizzante e ridanciana quando possibile, The Studio soffre però di una certa ripetitività quando indulge troppo nello schema narrativo che vede Remick rischiare (o riuscire) di mandare tutto alla malora a causa delle sue insicurezze. Diamo che i primi episodi sono tutto sommato più efficaci degli ultimi tre o quattro, i quali invece si poggiano appunto su delle idee già esplorate con intelligenza e senso del genere negli episodi precedenti. A proposito delle singole puntate, oltre al già citato pilot se dovessimo scegliere le nostre preferite opteremmo senza dubbio per quelle che vedono protagoniste Sarah Polley e Olivia Wilde, molto spiritosa e piuttosto coraggiosa nel giocare con il suo recentemente acquisito status di “regista difficile” dopo le controversie relative al suo ultimo Don’t Worry Darling.

Un grande ensemble

The Studio

Altro elemento prezioso che rende The Studio uno show a dir poco sfizioso è il suo cast di attori che compone il team principale. Come protagonista Seth Rogen si rivela capace di tratteggiare un personaggio in linea con le sue corde e quindi con i suoi precedenti ruoli, ma anche dotato di una malinconia e una coscienza delle proprie mancanze prima sconosciute, segno che come attore e autore Rogen sta certamente maturando. Accanto a lui troviamo uno scatenato e ugualmente coinvolgente Ike Barinholtz, finalmente in un ruolo consistente dopo anni di piccole apparizioni non in grado di testimoniare in pieno la bravura. Se poi aggiungiamo due “Regine” della commedia contemporanea come Catherine O’Hara e Kathryn Hahn, ecco che il gruppo di caratteristi assemblato per guidare la serie non può che essere meritevole di plauso.

Ci si diverte, a tratti davvero molto, ad assistere alle squinternate peripezie dei personaggi di The Studio, show che porta dietro le quinte di cosa significhi produrre e realizzare un film a Hollywood. In maniera disincantata e sbarazzina. Seth Rogen e Evan Goldberg hanno girato una serie che forse la tira un po’ troppo per le lunghe, magari avrebbe funzionato meglio con otto puntate invece di dieci, ma rimane un guilty-pleasure realizzato con evidente intelligenza e notevole volontà dissacrante. Si può tranquillamente fare binge-watching con The Studio, anzi forse è consigliabile farlo – vista anche la durata contenuta di molti episodi – per passare una giornata all’insegna del sorriso talvolta ironico, altre volte grossolano e sfacciato. Comunque sempre sorriso.

 
 

Tre rivelazioni: la spiegazione del finale del film Netflix

Tre rivelazioni spiegazione finale
Foto di Cho Wonjin/Netflix © 2025

Netflix ha recentemente aggiunto al suo catalogo il thriller sudcoreano Tre Rivelazioni, che pone diverse domande scottanti sulla moralità e sul crimine, ma la più importante è cosa sia successo ad A-yeong. Diretto da Yeon Sang-ho, regista dell’acclamato Train to Busan, Tre Rivelazioni segue le vicende di tre personaggi unici: un pastore troppo zelante, un detective traumatizzato e un criminale incompreso. Quando una giovane ragazza scompare, tutti e tre i personaggi vengono coinvolti in una rete contorta di segreti, violenza e, naturalmente, rivelazioni.

Il thriller coreano inizia con Min-chan, un pastore appassionato che accoglie nella sua congregazione un criminale incallito, Yang-rae. Tuttavia, quando Min-chan scopre che suo figlio potrebbe essere scomparso, sospetta immediatamente di Yang-rae e cerca di dargli la caccia, provocando però la sua scomparsa. Il giorno seguente, si scopre che il figlio di Min-chan è stato ritrovato, ma che in realtà è stato rapito un altro bambino. La detective Yeon-hee indaga, turbata dal caso di Yang-rae perché dietro la morte di sua sorella c’è proprio lui. Da qui, Yeon-hee tenterà dunque a scoprire il ruolo di Min-chan e Yang-rae nella scomparsa di A-yeong.

Cosa è successo ad A-yeong?

Il mistero più grande di Tre Rivelazioni è dunque cosa sia successo ad A-yeong. La dodicenne A-yeong appare per la prima volta nel film mentre si reca in chiesa, seguita da Yang-rae. Dopo la funzione, sembra tornare a casa con i suoi amici, ma la volta successiva che si parla di lei, si scopre che è stata rapita. Considerando l’inseguimento di Yang-rae, sembra chiaro che il colpevole sia lui. Solo alla fine del film il pubblico si accorge però che A-yeong è tenuta prigioniera in una casa destinata a essere demolita. Fortunatamente, poco prima che la casa venga distrutta, Yeon-hee salva la ragazza.

Nonostante la scomparsa di A-yeong sia il perno che lega Min-chan, Yeon-hee e Yang-rae, la ragazza è più un personaggio simbolico che una vera protagonista. Il rapimento non riguarda tanto A-yeong in sé, quanto piuttosto l’effetto che ha sugli altri personaggi. L’effetto più importante della situazione di A-yeong è che simboleggia ciò che è accaduto alla sorella di Yeon-hee, la quale si rimprovera di non essere stata in grado di salvare la sorella e, quando salva A-yeong, riesce finalmente a perdonarsi per il passato.

Shin Hyeon-bin in Tre rivelazioni
Shin Hyeon-bin in Tre rivelazioni. Foto di Cho Wonjin/Netflix © 2025

Il ruolo di Min-chan con Yang-rae nella vicenda

Uno degli elementi più complicati di Tre Rivelazioni è però il coinvolgimento di Min-chan con Yang-rae. Inizialmente, Min-chan vuole aiutare Yang-rae come membro della chiesa. Tuttavia, la sua buona volontà si trasforma rapidamente quando sospetta che Yang-rae abbia rapito suo figlio. Min-chan segue allora Yang-rae nel bosco e si scontra con lui, facendolo cadere in un burrone e provocandogli una grave ferita. Min-chan è terrorizzato, ma alla fine decide di spingere Yang-rae giù da un dirupo e sembra che lo faccia dopo aver visto un segno di Dio.

In definitiva, questa è la parte più importante della storia di Min-chan. Dopo aver visto un simbolo sul fianco di una montagna, Min-chan crede di dover uccidere Yang-rae perché è la volontà di Dio. Il suo pensiero è che sta liberando il mondo da un peccatore. Pertanto, quando Yang-rae finisce per sopravvivere e tornare, Min-chan è determinato a ucciderlo una volta per tutte. La situazione è ulteriormente complicata dal fatto che Yang-rae è l’unico a sapere dove si trova A-yeong, quindi una volta che Min-chan lo avrà ucciso, la polizia avrà meno possibilità di trovare A-yeong viva.

Perché Yeon-hee ha avuto le visioni di sua sorella

Mentre Min-chan si occupa di Yang-rae, Yeon-hee cerca di capire come questi due uomini siano collegati al rapimento di A-yeong. Nel corso di questa indagine, la detective è perseguitata dai suoi demoni, in particolare dal fantasma di sua sorella. Cinque anni prima, la sorella di Yeon-hee era stata rapita e torturata da Yang-rae. Riuscì a fuggire, ma alla fine si tolse comunque la vita. Yeon-hee ritiene dunque che sia colpa sua non aver salvato la sorella. Per questo motivo, il fantasma di lei le urla continuamente contro, chiedendo di sapere perché non era presente quando aveva più bisogno di lei.

La crescita di Yeon-hee in Tre Rivelazioni è forse una delle parti migliori del film. Yeon-hee è chiaramente angosciata dalla morte della sorella e dalla ricomparsa di Yang-rae. Tuttavia, approfondendo il caso di A-yeong, si rende conto che l’assassino è un essere umano proprio come lo era sua sorella e merita maggiore empatia. Di conseguenza, cerca di saperne di più su Yang-rae, il che la aiuta a capire dove è tenuta prigioniera A-yeong. Inoltre, si trova a fare i conti con il fatto che la morte di sua sorella non è avvenuta per mano sua, ma per qualcosa che è sfuggito al suo controllo.

Ryu Jun-yeol in Tre rivelazioni
Ryu Jun-yeol in Tre rivelazioni. Foto di Cho Wonjin/Netflix © 2025

La spiegazione del passato di Yang-rae e del suo tragico destino

Nella prima metà di Tre Rivelazioni, Yang-rae è dunque caratterizzato come un essere umano malvagio. È un noto criminale che ha torturato la sorella di Yeon-hee e rapito A-yeong. Tuttavia, al culmine del film, si scopre che Yang-rae ha sofferto di un’infanzia traumatica, che lo ha portato a questi comportamenti orribili. Lo psicologo di Yang-rae spiega che il padre lo picchiava ogni giorno, lasciandogli innumerevoli bruciature e cicatrici. Mentre queste percosse avevano luogo, la madre stava fuori dalla porta, cantando inni e pregando per lui. Questo ha lasciato Yang-rae in uno stato psicologico profondamente turbato.

Il dilemma morale con cui ci si confronta è dunque se Yang-rae possa essere perdonato o meno. Non c’è dubbio che abbia agito in modo malvagio quando ha commesso i suoi crimini; tuttavia, il film suggerisce che non era necessariamente in uno stato mentale sano. A causa del suo trauma infantile, Yang-rae potrebbe meritare la stessa compassione delle sue vittime. Yeon-hee sembra alla fine perdonarlo, mentre Min-chan rimane convinto che sia un peccatore senza possibilità di redenzione. Alla luce di ciò, gli spettatori sono quindi chiamati a dare il proprio giudizio su Yang-rae.

La verità sul “mostro con un occhio solo”

Al centro della tragica storia di Yang-rae c’è poi il “mostro con un occhio solo”. Quando le autorità visitano per la prima volta il suo appartamento, trovano un disegno terrificante di questo presunto “mostro con un occhio solo”, che sembra contenere diverse persone al suo interno. All’inizio si pensa che Yang-rae sia semplicemente pazzo, ma quando poco prima di morire dice a Yeon-hee che A-yeong è stata inghiottita dal “mostro con un occhio solo”, la detective si mette alla ricerca di cosa significhi. Alla fine, si rende conto che il mostro rappresenta le case con un’unica finestra a forma di occhio di pesce.

Sebbene il “mostro con un occhio solo” sia un luogo fisico e non un vero e proprio mostro come gli zombie di Train to Busan, ha un significato simbolico per Yang-rae. In gioventù, egli è stato maltrattato in una stanza con una sola finestra e il trauma subito ha trasformato un normale elemento abitativo in un vero e proprio mostro. Yang-rae credeva davvero che questo mostro fosse un pericolo per lui e forse sentiva di dovergli offrire più violenza per tenerlo a bada, motivo per cui ha commesso i suoi crimini.

Shin Hyeon-bin e Ryu Jun-yeol in Tre rivelazioni
Shin Hyeon-bin e Ryu Jun-yeol in Tre rivelazioni. Foto di Cho Wonjin/Netflix © 2025

La spiegazione dell’apofenia di Min-chan

In Tre Rivelazioni, Yeon-hee e la polizia scoprono che Min-chan ha tentato di uccidere Yang-rae. Viene quindi mandato in prigione per il suo crimine, nonostante le sue proteste sul fatto che Dio lo abbia influenzato. Più tardi, lo psichiatra di Yang-rae spiega a Yeon-hee che Min-chan probabilmente soffriva di apofenia, un fenomeno per cui le persone vedono schemi in cose che in realtà non esistono. Quando Min-chan vedeva i suoi segni da parte di Dio, in realtà non c’era nulla. Questa diagnosi viene confermata alla fine del film, quando Min-chan trova un altro “segno” nella sua cella.

Tre Rivelazioni conferma quindi che Min-chan soffre di apofenia, ma il pubblico potrebbe chiedersi se questa sia una copertura per il vero male di Min-chan. Forse Min-chan ha sviluppato l’apofenia solo come modo per permettersi di compiere atti di violenza. Questo avrebbe senso se si considera che la moglie lo tradiva, il che probabilmente gli ha fatto aumentare la rabbia e lo stress. In questo modo, i suoi crimini potrebbero essere stati anche peggiori di quelli di Yang-rae.

Il vero significato di Tre Rivelazioni

In definitiva, Tre Rivelazioni è un film tanto emozionante quanto illuminante. Attraverso le storie di Min-chan, Yang-rae e Yeon-hee, gli spettatori sono costretti a fare i conti con le proprie convinzioni sulla moralità. Devono decidere se chi commette un crimine è una persona veramente malvagia o se sta accadendo qualcosa di più complicato dentro di loro. Inoltre, il pubblico vede come un trauma possa avere un impatto pericoloso sulla vita di una persona. In definitiva, Tre Rivelazioni mette in crisi l’idea di bene e male puro.

 
 

Daredevil: Rinascita – Stagione 2: nuove foto dal set rivelano che l’eroe finalmente indosserà il suo costume nero

Daredevil: Rinascita - Stagione 2

L’eroe protagonista interpretato da Charlie Cox nella seconda stagione di Daredevil: Rinascita sta per rinnovare il suo costume nero, come rivelano le nuove foto dal set del Marvel Cinematic Universe che mostrano Matt Murdock con un look tutto nuovo. Mentre la prima stagione di Daredevil: Rinascita è attualmente in corso, la seconda stagione è già in lavorazione, poiché la Marvel Studios continua le avventure del Diavolo di Hell’s Kitchen. Anche se i dettagli della trama della seconda stagione di Daredevil: Rinascita non sono stati ancora annunciati ufficialmente, stanno iniziando ad emergere ulteriori indizi attraverso varie foto e video dal set.

Anche se la seconda stagione di Daredevil: Rinascita non arriverà prima del 2026, i fan di lunga data della Marvel Comics potranno finalmente vedere Cox con il suo famoso costume nero. Mentre la produzione della seconda stagione di Daredevil: Born Again è attualmente in corso, nuove foto dal set (tramite @petergcornell) rivelano il veterano dell’MCU con il suo costume nero, mentre esce dall’acqua.

Clicca qui per vedere le foto dal set della seconda stagione di Daredevil: Born Again con Charlie Cox nel costume nero.

Cosa rivelano le foto dal set della seconda stagione di Daredevil: Rinascita con Charlie Cox

Al momento della pubblicazione delle foto dal set della seconda stagione di DDaredevil: Rinascita, Cox sembra essere l’unico personaggio coinvolto nella scena, circondato dai membri della troupe. Resta da vedere se altri personaggi faranno parte di questa scena, ma con Matt che emerge dall’acqua, potrebbe trattarsi di una sequenza di combattimento in cui è stato costretto a fuggire. È difficile dire se il nuovo costume nero di Cox abbia o meno il logo DD, poiché sembra essere una variante del costume Shadowland dei fumetti.

Anche se la seconda stagione potrebbe non essere un adattamento di Shadowland, i trailer della prima stagione di Daredevil: Rinascita hanno già indicato che Matt aveva almeno un costume nero realizzato dopo la terza stagione di Daredevil. Considerando che altre foto dal set della seconda stagione di Daredevil: Rinascita mostrano Matt in modalità incognito, il passaggio a un costume nero ha perfettamente senso. Dato che le attività dei vigilanti sono una delle cose che il sindaco Fisk sta cercando di tenere sotto controllo, la seconda stagione di Daredevil: Rinascita si preannuncia chiaramente ancora più impegnativa per Matt.

 
 

The Alto Knights – I due volti del crimine: recensione del film con Robert De Niro

L’ormai ultraottantenne Robert De Niro ritorna sul grande schermo per sorprendere il pubblico interpretando il personaggio che più gli si addice: il boss criminale. Diretto dal noto regista Barry Levinson (premio Oscar alla regia per Rain Man- L’uomo della pioggia), The Alto knights – I due volti del crimine è infatti il nuovo gangster movie ispirato alla vera storia dei due storici capi mafiosi Frank Costello e Vito Genovese. Il  film, ideato già negli anni 70, è entrato effettivamente in produzione solo nel 2022, subendo anche diversi rallentamenti collegati agli scioperi SAG AFRA nel 2023.

Oltre al già citato De Niro, il quale interpreta qui entrambi i boss mafiosi, sono presenti nel cast figure già ampiamente note nel panorama cinematografico internazionale. Debra Messing (Will & Grace) interpreta Bobbie, la moglie di Frank Costello, mentre Katherine Narducci (The irishmanI soprano) qui è nel ruolo di Anna, moglie di Vito. Ma tutte le attenzioni, ovviamente, sono rivolte alla duplice interpretazione di De Niro, che si sdoppia per dar volto alle molteplici facce del crimine.

La trama di The Alto knights – I due volti del crimine: la fratellanza mafiosa

Il film si apre in medias res: Frank Costello sta aspettando l’ascensore per salire nel suo attico, quando gli arriva un colpo di pistola dritto alla testa. Il sicario, il gangster Vincent Gigante, scapperà subito dopo, senza accorgersi di non aver completato il suo lavoro: Frank è ancora vivo. Da qui parte la narrazione vera e propria, affidata allo stesso Frank di alcuni anni dopo, in  forma di flashback. Tutto nasce a Manhattan, dove, all’inizio del ventesimo secolo, Frank Costello e Vito Genovese, figli entrambi di operai immigrati italiani, sognano un  futuro più florido per loro e cercano di ottenerlo ad ogni costo. Abbandonata  la scuola, i due si dedicano a traffici illegali, tra cui nell’epoca del proibizionismo, anche gli alcolici.

Per Frank sarebbe abbastanza aprire un attività, un bar magari, ma Vito vuole di più. Dopo essere stato condannato per duplice omicidio, Vito è costretto a lasciare l’America, per poi farci ritorno solo alcuni decenni dopo, alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Nel frattempo, la gestione di tutti gli affari ricade sulle spalle di Frank, il quale governa il suo regno mafioso nella maniera più cauta e pacifica possibile. Ma Frank doveva essere solo un reggente: al suo ritorno, Vito vuole che gli venga restituito tutto il suo potere e il suo ruolo di boss. Dopo diversi decenni, però, il mondo non è più lo stesso e il comportamento di Vito può creare grandi rischi per tutti.

Frank Costello, il gangster gentleman

Già noto al grande pubblico e descritto dalla stampa dell’epoca come il primo ministro della malavita, Costello è certamente un personaggio molto peculiare. Si tratta di un gangster cauto e astuto, capace di comprendere a pieno la società in cui vive e di rispettarne le regole, in modo da poter trarre profitto da tutto. Frank non si dedica solamente a traffici clandestini, ma cerca anche di creare legami con politici, sindaci e poliziotti, in modo tale da poter agire in maniera indisturbata, e soprattutto senza bagni di sangue. Con Frank al potere, la pace e la prosperità regna in tutto il territorio di New York.

Frank si presenta pubblicamente come un uomo pulito, totalmente avulso dal mondo mafioso: vive in un lussuoso attico con la moglie, con cui è sposato da più di trent’anni, organizza e partecipa a eventi di beneficienza. Il suo obiettivo principale è proprio mantenersi spettabile davanti al vigile occhio sociale. Dopo il ritorno di Vito in America, continuare a mantenersi dissociato dalla vita da gangster diventa sempre più difficile per Frank, anche per i coinvolgimenti creati dalla moglie di Vito, Anna. Ma con la sua furbizia, Costello trova sempre una soluzione.

Vito Genovese, l’altra faccia di Robert De Niro

Siete cresciuti insieme, giocavate insieme, rubavate insieme.

Vito Genovese sembra invece essere in The Alto knights – I due volti del crimine una figura uguale e opposta a Frank: cresciuto come lui in una famiglia di immigrati italiani, convertito alle attività clandestine. Ma Vito ha sviluppato fin da ragazzo un’avidità, una fame di potere maggiore rispetto al suo amico d’infanzia. Vito è disposto a tutto pur di raggiungere i suoi obiettivi, e proprio per questo si aspetta che gli altri  facciano lo stesso. Frank giustifica il comportamento quasi paranoico di Vito con le sue origini: il gangster è nato in un piccolo comune della provincia di Napoli, alle pendici del Vesuvio, e questo lo ha portato a stare sempre all’erta.

E’ certamente interessante notare come due personaggi così diametralmente diversi siano contemporaneamente frutto della bravura dello stesso attore: Robert De Niro riesce facilmente a dare una connotazione diversa alle due performance interpretative dei due protagonisti del film, mettendo a segno un altro convincente ritratto di gangster dopo quelli recenti di The Irishman Killers of the Flower Moon, entrambi sotto la guida del fidato amico Martin Scorsese.

La verve comica di The Alto knights – I due volti del crimine

Nonostante si tratti di un gangster movie, anche in The Alto knights – I due volti del crimine sono presenti degli elementi più ironici: molti di questi sono collegabili allo stesso personaggio di Vincent Gigante. Il ragazzo, alle prime armi nelle attività mafiose, è riuscito a fallire nell’attentato a Frank, sparandogli un solo colpo poco mirato alla testa, e non controllando che l’uomo fosse effettivamente morto. Il dialogo con cui Vito gli rimprovera la sua incompetenza, rimarcata anche verso la fine del film, è certamente molto ironico. In definitiva, pur appartenendo a un filone cinematografico molto sfruttato negli anni, The Alto Knights – I due volti del crimine riesce a trovare una sua individualità, affermandosi come un ottimo gangster movie.

 
 

The Four Seasons: trailer della nuova serie Netflix remake del film

The Four Seasons

Il trailer di The Four Seasons rivela che Tina Fey e Steve Carell tornano insieme nella serie Netflix con un cast stellare, remake della commedia classica di Alan Alda. Basata sul film omonimo del 1981 scritto, diretto e interpretato da Alda, la miniserie Netflix in arrivo è stata creata e scritta da Tina Fey, Lang Fisher e Tracey Wigfield, già autrici di 30 Rock. Fey recita anche nella serie al fianco di Steve Carell, con cui torna a recitare dopo Date Night del 2010. Il cast include anche Colman Domingo, Erika Henningsen, Kerri Kenney-Silver, Will Forte e Marco Calvani.

Ora, Netflix ha svelato il primo teaser trailer ufficiale di The Four Seasons. Il trailer presenta una storia simile a quella del film del 1981, seguendo sei amici di lunga data nel corso di quattro vacanze stagionali in primavera, estate, autunno e inverno. Il gruppo di amici, composto da tre coppie, affronta gli alti e bassi della vita mentre intraprende quattro diverse fughe. Guarda il trailer qui sotto:

Cosa significa il trailer di The Four Seasons per la serie

Innanzitutto, il trailer di The Four Seasons rivela la reunion sullo schermo di Tina Fey e Steve Carell. I due hanno recitato insieme per la prima volta nel film romantico-comico del 2010 Date Night, nei panni di una coppia sposata annoiata che cerca di riaccendere la fiamma del romanticismo con una serata glamour, ma finisce per ritrovarsi in un’avventura inaspettata e pericolosa. Questa volta, Fey e Carell non interpretano una coppia in The Four Seasons, poiché la prima è in coppia con Will Forte e Carell con Kerri Kenney-Silver. Tuttavia, l’intesa tra Fey e Carell sullo schermo dovrebbe comunque trasparire come amici.

Il trailer di The Four Seasons rivela come il remake della serie Netflix aggiorna il film di Alan Alda del 1981. Da notare l’inclusione di una coppia gay, Danny e Claude, interpretati da Colman Domingo e Marco Calvani. Nel film, tutte e tre le coppie erano eterosessuali. Per il resto, la maggior parte dei personaggi sembrano ispirati al film originale, rendendo abbastanza facile indovinare chi interpreta ogni ruolo.

Ad esempio, il ruolo di Tina Fey sembra essere quello originariamente interpretato da Carol Burnett. Tuttavia, il primo teaser non rivela quale delle tre coppie sia in difficoltà.

 
 

The Handmaid’s Tale – Stagione 6: il final trailer della serie!

The Handmaid’s Tale 6

Hulu ha rilasciato il trailer definitivo della sesta e ultima stagione di The Handmaid’s Tale, che anticipa ciò che June Osborne (Elisabeth Moss) deve ancora affrontare prima che le luci si spengano su questo dramma distopico. La stagione debutterà l’8 aprile con i primi tre episodi. La serie ha ormai adeguatamente preparato gli spettatori a una rivoluzione e in questa stagione essa non è più una promessa, ma una realtà.

Nel trailer, June è in giro con Luke (O-T Fagbenle) in direzione di Gilead, il che porta a molte domande. Come e dove si sono riuniti dopo che June e sua figlia sono partite su un treno dal Canada mentre la polizia arrestava Luke? June è visibilmente combattuta tra i due amori della sua vita: Luke e Nick (Max Minghella), il quale continua a rischiare tutto per salvarla, a prescindere dalle conseguenze.

Poi c’è la grande rivelazione: Serena (Yvonne Strahovski) non solo ha ritrovato la strada per Gilead, ma sta anche percorrendo la navata di una chiesa indossando un abito azzurro, mentre le ancelle la circondano. Chi è il suo sposo? Più avanti nel trailer, si scopre che è il nuovo personaggio di Josh Charles quando porta la sua nuova sposa oltre la soglia della loro nuova casa. Ad ogni modo, una volta scoppiata la guerra, le ancelle si dimostreranno armate e disposte a uccidere chiunque ostacoli la loro libertà.

Quello che sappiamo su The Handmaid’s Tale – Stagione 6

Hulu ha fissato la data della première della sesta e ultima stagione di The Handmaid’s Tale per l’8 aprile, con i primi tre episodi. I successivi seguiranno ogni martedì fino al finale del 27 maggio.

Nella stagione finale, lo spirito inflessibile e la determinazione di June (Elisabeth Moss) la riportano nella lotta per distruggere Gilead. Luke e Moira si uniscono alla resistenza. Serena cerca di riformare Gilead, mentre il Comandante Lawrence e la zia Lydia fanno i conti con ciò che hanno provocato e Nick affronta una difficile prova di carattere. Questo capitolo finale del viaggio di June sottolinea l’importanza della speranza, del coraggio, della solidarietà e della resilienza nella ricerca della giustizia e della libertà.

La sesta stagione è interpretata da Elisabeth MossYvonne StrahovskiBradley Whitford, Max Minghella, Ann Dowd, O.T. Fagbenle, Samira Wiley, Madeline Brewer, Amanda Brugel, Sam Jaeger, Ever Carradine e Josh Charles.

La serie è prodotta da MGM Television. La sesta stagione è prodotta da Bruce Miller, Warren Littlefield, Eric Tuchman, Yahlin Chang, Elisabeth Moss, Sheila Hockin, John Weber, Frank Siracusa, Steve Stark, Kim Todd, Daniel Wilson e Fran Sears. La serie è distribuita a livello internazionale da Amazon MGM Studios Distribution.

 
 

The Residence: recensione della serie Netflix con Uzo Aduba

The Residence recensione serie tv netflix

Netflix e Shondaland tornano a collaborare con The Residence, una serie mistery in otto episodi creata da Paul William Davies e ispirata al libro The Residence: Inside the Private World of the White House di Kate Andersen Brower. Tra intrighi, omicidi e un cast corale di personaggi stravaganti, la serie si posiziona a metà tra la classica detective story e la commedia satirica, con una vena di assurdità che la rende irresistibile. 

La storia intricata di The Residence

La vicenda prende il via durante una cena di stato alla Casa Bianca, organizzata per rinsaldare i rapporti con l’Australia. Mentre gli ospiti si godono la serata e la performance di Kylie Minogue, un urlo squarcia l’aria: il Capo Usciere della Casa Bianca, A.B. Wynter (Giancarlo Esposito), è stato trovato morto nella sala del biliardo. L’indagine viene affidata alla detective Cordelia Cupp (Uzo Aduba), un’investigatrice eccentrica con una passione per il birdwatching e le sardine in scatola. Accompagnata dal riluttante agente dell’FBI Edwin Park (Randall Park), Cordelia si addentra nei segreti dell’edificio più sorvegliato d’America, interrogando ospiti e membri dello staff per ricostruire gli eventi della fatidica notte.

Cordelia Cupp è un personaggio memorabile

Il fascino della serie risiede nel suo tono ironico e nel cast eccezionale. Aduba regala una performance magnetica, Cordelia è un personaggio memorabile: brillante, bizzarra e sempre un passo avanti agli altri. Al suo fianco spiccano Giancarlo Esposito nel ruolo della vittima, Susan Kelechi Watson nei panni della sua ambiziosa vice Jasmine Haney e Jane Curtin, l’esilarante suocera alcolizzata del Presidente. La presenza di Al Franken nei panni di un senatore cinico aggiunge un ulteriore strato di satira politica.

La narrazione si sviluppa su due linee temporali: da un lato, l’indagine di Cordelia, arricchita da flashback e versioni contrastanti degli eventi; dall’altro, un’audizione al Congresso in cui Jasmine e altri testimoni tentano di chiarire il mistero. Questo doppio livello di racconto mantiene alta la tensione, anche se a volte la serie sembra perdersi nei suoi stessi intrecci. Il numero elevato di personaggi e sottotrame può risultare dispersivo, aspetto aggravato da alcuni flashback dedicato alla passione di Cordelia per l’ornitologia e il birdwatching. Il ritmo risulta rallentato in questi frangenti, ma il personaggio si arricchisce, diventando sempre più bizzarro e approfondito.

Una residenza di lusso per un Cluedo contemporaneo

Visivamente, The Residence è un gioiello. La Casa Bianca viene trasformata in un gigantesco puzzle, con stanze nascoste e corridoi segreti che amplificano il senso di mistero e rendono più complessa la risoluzione del crimine. La regia di Liza Johnson e Jaffar Mahmood gioca con prospettive insolite e un montaggio vivace, mentre la colonna sonora omaggia il cinema noir e i classici del giallo, senza dimenticare le derive più moderne dei classici whodunit, come la serie di Knives Out di Rian Johnson o gli ultimi adattamenti da Agatha Christie con Kenneth Branagh (tutti che vengono esplicitamente citati dai personaggi).

La satira sociale

Nonostante il tono leggero, che struttura l’indagine con intriganti svolte e con le piacevoli digressioni di Cordelia che si orienta nel mondo degli esseri umani grazie agli insegnamenti del comportamento degli uccelli che ama avvistare, The Residence non si risparmia quando si parla di satira sociale e di critica alle alte cariche della società. Il cast corale  rappresentativo e variegato e si confronta alla fine con la meschinità del mondo moderno, che concentra potere e autorità nelle mani di pochi, ma non quelli che ci aspetteremmo, per cui la serie mantiene una componente di imprevedibilità che la rende ancora più divertente, fino al confronto finale, con tanto di atteso ma necessario spiegone su “come sono andate davvero le cose”.

In definitiva, The Residence è una serie con una trama coinvolgente e con dei protagonisti sopra le righe, che unisce il fascino di un giallo alla Agatha Christie con l’umorismo dissacrante tipico di ShondalandUzo Aduba brilla nel ruolo della detective Cordelia Cupp, e il cast di supporto contribuisce a rendere ogni episodio un’esperienza spassosa e avvincente. Un whodunnit in salsa comica da divorare in un binge-watching senza rimpianti.

 
 

Biancaneve: recensione del live-action Disney con Rachel Zegler

Biancaneve recensione film

Biancaneve è il classico dei classici. Primo film d’animazione a colori Disney, nonché uno dei suoi maggiori successi al botteghino, è riuscito a entrare nell’immaginario collettivo come una delle fiabe più amate, con una delle principesse più memorabili. Nell’era dei live-action, prodotti ormai con continuità, era quindi impensabile escludere proprio il primo lungometraggio che segnò un’epoca straordinaria per la Casa di Topolino e per generazioni di bambini. E così, dopo un iniziale stop dovuto alla pandemia, le riprese hanno preso il via nel 2022 sotto la direzione di Marc Webb.

Come accaduto per La Sirenetta, anche questo live-action non è stato esente da critiche e polemiche, legate alla scelta della protagonista. Non è cambiato nulla rispetto alle accuse rivolte alla produzione per aver selezionato un’attrice che non rispecchiasse nella carnagione la piccola sirenetta, polemica poi messa a tacere dalla performance di Halle Bailey, che ha dimostrato come il valore di una storia emerga ben oltre il colore della pelle. Lo stesso destino è toccato a Rachel Zegler, criticata per una carnagione ritenuta troppo scura per interpretare Biancaneve, rinomata per la pelle bianca come la neve e le labbra rosse. Eppure, nel film, che si apre sfogliando il classico libro delle favole, viene subito spiegato l’origine del suo nome: è nata durante una bufera di neve e, nonostante il gelo, questa neve, lei, è riuscita “a dominarla”, come sottolinea la narrazione più volte.

La pellicola, in uscita nelle sale il 20 marzo, è scritta da Erin Cressida Wilson, con canzoni originali curate da Pasek & Paul.

La trama di Biancaneve

In un regno lontano, circondato da amore e serenità, la regina dà alla luce una bambina, in una giornata di neve. E poiché la piccola dimostra una straordinaria forza, non lasciandosi indebolire dal gelo, le viene dato il nome di Biancaneve. Cresce felice, ballando e infornando torte per i sudditi, con la promessa ai genitori di rimanere sempre impavida, buona, e giusta.

Ma la sua vita è destinata a cambiare: alla morte della madre, una donna bellissima arriva a palazzo, ammaliando il re. Ben presto la sua natura si rivela, e, quando convince il sovrano a partire per una missione volta a salvare alcune terre, la Regina Grimilde prende il potere, gettando il regno nell’oscurità e nel terrore. Biancaneve viene relegata nell’ala più alta del castello, come serva, ignara che Grimilde, invidiosa di lei, stia progettando di ucciderla. Seguendo la storia del film d’animazione, Biancaneve, una volta fuggita, si ritrova nella casa dei sette nani, ma questa volta sceglie di combattere, affiancata da Jonathan, un ribelle ladro che, anziché essere un principe, lotta in nome del re ormai scomparso.

Scenografie sontuose, fotografia magica. I sette nani? Una sorpresa

I trailer diffusi nel 2024 avevano già dato un’idea di ciò che sarebbe stato il film, e la visione completa conferma molte delle impressioni iniziali. La ricostruzione degli interni del castello, del regno e persino della dimora dei sette nani riesce a restituire quella magia tipica delle fiabe Disney, merito senza dubbio di una scenografia sontuosa e di una fotografia elegante dai toni caldi, che avvolge lo spettatore trasportandolo in un mondo di sogni, speranze e meraviglia. Il grande impegno produttivo è evidente anche nei costumi, realizzati con cura per evitare il famigerato effetto cosplay, ma purtroppo, il celebre abito blu e giallo di Biancaneve, indossato da Rachel Zegler, risulta il meno incisivo tra tutti.

Per quanto riguarda invece i sette nani, al centro di numerose discussioni, dobbiamo ricrederci: sebbene la CGI non sia impeccabile e il loro design non brilli per bellezza – al punto che alcuni potrebbero persino risultare inquietanti – la loro caratterizzazione è riuscita. Sono loro il vero cuore emotivo del film, con un’energia che li rende autentici e, a conti fatti, anche i più divertenti. Simpatici, buffi, genuini: i sette nani si rivelano la sorpresa di un film che, invece, non trova il suo punto di forza nei protagonisti principali.

Il punto debole di Biancaneve

E qui arriviamo al problema principale: attori e sceneggiatura, due pilastri fondamentali per il successo di un film. Se nelle prime scene la narrazione sembra funzionare, tutto inizia a vacillare dopo la canzone Waiting On a Wish, che, va detto, non ha la stessa potenza sonora in doppiaggio. Dal momento in cui Biancaneve fugge nel bosco, la pellicola prende una piega differente. Diversi passaggi narrativi risultano poco chiari, con dinamiche affrettate e scene che si interrompono bruscamente, creando un ritmo spezzato che finisce per distanziare il pubblico dalla storia.

A rafforzare questo distacco è la performance di Rachel Zegler, che in molte sequenze carica troppo le espressioni facciali, rendendo evidente la finzione. Anche Gal Gadot, pur mostrando impegno, fatica a trasmettere appieno la crudeltà e l’invidia di Grimilde. Questo perché, pur avendo assorbito il fascino del personaggio con sguardi intensi e sorrisi malvagi, si scontra con uno script che non valorizza a dovere la villain. Grimilde avrebbe potuto avere maggiore profondità, ma la sceneggiatura la priva di sfumature, rendendo il climax finale debole e respingente nello scontro con la sua rivale in bellezza.

Il valore del grande classico

Se alcuni aspetti lasciano l’amaro in bocca, Biancaneve riesce comunque a regalare momenti di nostalgia grazie ai numerosi riferimenti al classico del 1937, che conquisteranno gli amanti della pellicola originale e i fan Disney. La riproduzione di scene iconiche – come la trasformazione di Grimilde, la fuga nel bosco e i sette nani al lavoro in miniera – è un omaggio commovente. Sono questi i momenti che creano il legame più forte con il passato, suscitando quel senso di familiarità per chi, da bambino, ha visto e rivisto Biancaneve e i sette nani in VHS accoccolato sul divano, premendo il tasto rewind ogni volta che finiva. Un tuffo, perciò, nei ricordi d’infanzia. Una scelta forse prevedibile, ma anche profondamente sentita, che per le vecchie generazioni diventa un motivo in più per rimanere a guardare.

 
 

The Equalizer 2 – Senza perdono: la spiegazione del finale del film

The Equalizer 2 - Senza perdono spiegazione finale
Denzel Washington in The Equalizer 2 – Senza perdono © 2018 – Sony Pictures

The Equalizer – Il vendicatore è il thriller d’azione del 2014 che ha visto Denzel Washington interpretare Robert McCall, un marine letalmente pericoloso diventato ufficiale della DIA. Nel teso film, diretto da Antoine Fuqua, il personaggio di Washington torna in azione con riluttanza per salvare un adolescente dalla mafia russa. Dato il successo di questo lungometraggio, è poi stato realizzato un sequel, The Equalizer 2 – Senza perdono, in cui Robert e il suo ex collega Dave York indagano sull’omicidio di un’altra collega, Susan Plummer, uccisa da assalitori non visti durante quella che sembrava una rapina a Bruxelles.

Nell’indagare su questo omicidio, non ci vuole poi molto perché l’antieroe incallito di Washington scopra la scioccante verità che ha porta al finale. Nel frattempo, un artista adolescente problematico di nome Miles si è offerto di dipingere un murales nell’appartamento di Robert. Queste due trame convergono nelle scene finali di The Equalizer 2 – Senza perdono, quando Miles viene rapito dall’assassino di Susan e Robert deve tornare nella sua città natale per affrontare gli assassini. Nel frattempo, il finale fornisce anche nuove informazioni sulla visione del mondo di Robert, sulle sue lotte e sul percorso che lo ha portato a una vita di protezione degli innocenti.

La spiegazione del finale di The Equalizer 2 – Senza perdono, chi ha ucciso Susan Plummer?

È scioccante apprendere che èstato l’apparentemente dolce e onesto Dave York interpretato da Pedro Pascal a uccidere Susan in The Equalizer 2 – Senza perdono. La donna era stata incaricata di risolvere un caso a Bruxelles dove un agente della CIA ha ucciso la moglie per poi spararsi. Tuttavia, è stata eliminata prima di poter stabilire cosa effettivamente fosse successo. A farla fuori è stato proprio Dave, responsabile di quel crimine. Insieme agli altri ex colleghi di Robert, Kovak, Ari e Resnik, si è infatti dato al crimine dopo essere stati abbandonati dalla DIA nonostante anni di fedele servizio. Sapendo che Susan sarebbe arrivata ad incastrarli, hanno dunque deciso di eliminarla.

Alla luce di ciò, anche se Dave ha trascorso la maggior parte del film cercando di trovare l’assassino di Susan insieme a Robert, si è alla fine rivelato proprio lui il colpevole dell’omicidio. Robert se ne rende conto quando vede il numero di Dave nell’elenco delle chiamate di un assassino che ha tentato, senza riuscirci, di uccidere Robert. A questo punto il sequel diventa veramente brutale: Dave e i suoi soci rapiscono Miles e seguono Robert fino alla sua città natale in riva al mare. Lì, usando la torre di guardia locale come base, Robert li fa però fuori usando una forte tempesta come copertura, per poi affrontare Dave in un combattimento uno contro uno.

Denzel Washington e Pedro Pascal in The Equalizer 2 – Senza perdono
Denzel Washington e Pedro Pascal in The Equalizer 2 – Senza perdono © 2018 – Sony Pictures

Perché c’è un uragano nel finale di The Equalizer 2 – Senza perdono?

L’uragano nel finale di The Equalizer 2 – Senza perdono è un classico caso di fallacia patetica, in cui la natura diventa l’incarnazione delle emozioni dei personaggi. L’omicidio di Susan da parte di Dave ha sconvolto i ricordi di Robert sul periodo trascorso insieme alla DIA e lo ha costretto a confrontarsi con gli orrori del suo passato. Così, la sua città natale è stata letteralmente fatta a pezzi mentre, interiormente, Robert sentiva che anche la sua meritata pace era stata interrotta e fatta a pezzi. L’immagine dell’uragano esteriorizza quindi l’agitazione interna di Robert, che si rende conto che non si può mai tornare veramente a casa dopo aver vissuto gli orrori della guerra. Robert deve invece accettare brutalmente di aver fatto parte della squadra di Dave e di dover uccidere i suoi ex amici.

Il significato della morte di Dave, Kovak, Ari e Resnik

Robert attirato quindi Kovak, Ari e Resnik nella sua città natale e li uccide con un fucile subacqueo, dei coltelli e un’esplosione di polvere. In termini pratici, Robert ha ucciso questi scagnozzi uno alla volta per rendere più facile la resa dei conti finale. A livello metaforico, Robert aveva bisogno di tornare nella sua casa d’infanzia e di infliggere questi destini violenti ai suoi colleghi per uccidere le parti di sé che volevano trasformare la sua rabbia in una vendetta omicida. Robert, come i suoi colleghi, si sentiva ingannato e tradito da un governo noncurante dopo anni di fedele servizio. Per questo motivo, aveva bisogno di ucciderli per assicurarsi di non diventare come loro.

Infine, Robert ha lentamente pugnalato a morte Dave con il suo stesso coltello, utilizzando le tecniche che entrambi hanno imparato alla DIA. Dave si è appoggiato alla sua rabbia, amarezza e risentimento per diventare un assassino, mentre Robert ha rivolto la lama su Dave (e, per estensione, sul suo stesso risentimento). The Equalizer 2 – Senza perdono è stato il primo sequel nella carriera di Denzel Washington e questo pesante finale spiega perché. Quando Robert ha ucciso Dave, ha scelto la strada del perdono piuttosto che quella della vendetta violenta. Questo gli ha conferito un senso di responsabilità che mancava nel finale dell’originale The Equalizer – Il vendicatore.

Denzel Washington e Ashton Sanders in The Equalizer 2 – Senza perdono
Denzel Washington e Ashton Sanders in The Equalizer 2 – Senza perdono © 2018 – Sony Pictures

Il significato del murales di Miles

Per quanto riguarda la linea narrativa dedicata a Miles, nel finale di The Equalizer 2 – Senza perdono, il ragazzo dipinge un’idilliaca scena rurale sul lato dell’edificio in cui vive Robert. Il murale raffigura una comunità che si prende cura dei propri raccolti, riflesso dell’orto comune del condominio e testimonianza del potere della riabilitazione comunitaria. Dopo tanti spargimenti di sangue e morti, Robert non avrebbe potuto trovare uno scopo nella sua vita se non fosse stato per il potere riparatore della comunità. Offrendosi come mentore di Miles, Robert ha incarnato l’approccio olistico alla vita, incentrato sulla comunità, descritto nella visione utopica di Miles. Tuttavia, l’incapacità di Robert di offrire la stessa guida ai suoi colleghi lo perseguita dopo la loro morte per mano sua.

Il vero significato del finale di The Equalizer 2 – Senza perdono

Anche se il finale di The Equalizer 2 – Senza perdono non è del tutto tragico, c’è un forte senso di tristezza. Robert riunisce un sopravvissuto all’Olocausto con il fratello perduto da tempo grazie alle sue capacità, ma non riesce a costringere Dave a vedere un percorso per la sua vita che non sia definito dalla violenza e dalla punizione. Come dice il Nuovo Testamento, “È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno di Dio”, e Robert se n’è reso conto quando si è dimostrato più facile cavare gli occhi a Dave che fargli capire l’errore dei suoi modi.

Robert avrebbe potuto facilmente diventare un altro mercenario scontento come Dave, Kovak, Ari e Resnik, e nel finale di The Equalizer 2 – Senza perdono è stato costretto a fare i conti con questo fatto. Incoraggiando Miles a perseguire l’arte invece di una vita criminale, Robert ha trasmesso la sua saggezza alla generazione successiva. Tuttavia, non è riuscito a salvare gli uomini con cui ha combattuto e, alla fine, è stato lui a doverli uccidere. Nonostante i suoi tentativi di aiutare i bisognosi, Robert McCall è dunque ancora turbato dai suoi limiti nel finale di questo film, poiché si rende conto che avrebbe potuto essere tentato dal crimine proprio come i suoi fratelli in armi. Forse è anche per questo che in The Equalizer 3 – Senza tregua, cerca pace lontano da quei luoghi.

 
 

The Monkey: recensione del nuovo film del regista di Longlegs

Dopo aver trasformato Nicolas Cage nel suo incredibile LonglegsOsgood – detto Oz – Perkins rilancia con il nuovo The Monkey, distribuito al cinema da Eagle Pictures a partire dal 20 marzo 2025. Un film che riunisce parte di un ipotetico Gotha dell’horror, nel quale non potrebbero mai mancare James Wan (il padre delle saghe di The Conjuring e Saw, qui produttore) e Stephen King, autore del racconto (contenuto nella raccolta “Scheletri“) dal quale nasce questo adattamento, interpretato da Theo James, nel doppio ruolo del tormentato e disperato protagonista, e diretto appunto dal figlio dell’Anthony Perkins di Psycho.

Da Psycho a Stephen King

Che abbiamo visto muovere i primi passi su un set nel 1983, come ‘giovane Norman’ nel Psycho II di Richard Franklin, ed esordire alla regia nel 2015, con February – L’innocenza del male nel 2015, prima dell’interessante Sono la bella creatura che vive in questa casa nel 2016 e la versione personale del poco fiabesco Gretel e Hansel nel 2020, prima del citato Longlegs. E che per questo gradito ritorno sceglie di attingere alla storia “La scimmia“, pubblicata dal Re del Brivido nel novembre del 1980, dopo che in passato era stato Kenneth J. Berton, nel 1984, a farne un film con il suo Il dono del Diavolo (The Devil’s Gift).

La trama di The Monkey

Nel 1999, Petey Shelburn tenta di restituire, e distruggere, una scimmia giocattolo in un negozio di antiquariato, ma il congegno meccanito tutto è tranne che un gioco. Come dimostra la reazione a catena che si scatena, solo la prima stazione di una interminabile via crucis disseminata di morti incredibili che sembrano funestare la famiglia Shelburn e i due piccoli figli di Petey, Hal e Bill. Sono loro a sospettare del potere nefasto della scimmia e a disfarsene… ma per quanto? Venticinque anni dopo, infatti, i due, ormai separati dalla vita e dalla precisa intenzione di non avere nulla a che fare l’uno con l’altro, sono costretti a riavvicinarsi dall’inatteso riapparire del “giocattolo”. Ma se non fosse un caso? Come potrebbe Hal evitare che la maledizione ricada su suo figlio Petey?

Il destino è quel che è

Tutti muoiono, il film ce lo ricorda, ma accettato questo assunto tanto vale sbizzarrirsi. Chissà che non sia stato questo il pensiero di Oz Perkins nell’architettare questo adattamento infarcendolo di invasioni di vespe assassine, donne che esplodono e incidenti mortali di ogni tipo, nel quale il pericolo è dietro ogni angolo, dalla piscina al ristorante, sia che si resti in casa sia che si vada a fare shopping. Morti talmente assurde, esagerate ed esplicite da fargli andare stretto persino il collegamento – spontaneo, a vedere il film – con il franchise di Final Destination, e che probabilmente faranno la gioia di molti appassionati del genere.

Il Dark Humour in The Monkey

Questo senso dell’umorismo ‘malato’ è in fondo la cifra principale del film, nel bene e nel male, visto che spesso, a fronte della grande creatività omicida e dell’abilità del regista a costruire gradualmente la tensione, viene a mancare proprio quella che dovrebbe essere la spina dorsale dell’horror. La forza evocativa e inquietante del giocattolo ha molta meno intensità e presa di altri suoi simili, sostanzialmente ridotto a osservatore silente e trasformato in una sorta di innesco di quello che è il vero conflitto, quello tra i due fratelli.

Una scelta spiazzante, che spezza in due il film, dopo un prologo avvincente e una premessa promettente, affidandosi spesso a cliché e a una storia debole nella sua rappresentazione, anche come mero tessuto connettivo tra sequenze emozionanti e visivamente di impatto, che finisce per dilungarsi eccessivamente prima della definitiva conclusione. Anche questo effetto della libertà che Perkins dimostra di prendersi nella trasposizione del racconto, insieme alla fondamentale aggiunta di un fratello gemello, elemento che gli permette di fare proprio il film e approfondire le dinamiche familiari (dal rifiuto della paternità al senso di colpa per quanto vissuto nell’infanzia) e i traumi che uniscono Hal e Bill, fino ad assumere i tratti di una vera e propria maledizione, da affrontare, accettare o scontare.

Un tentativo di catarsi personale per Perkins

Tutto ciò, unito alla relazione fratturata affidata al doppio Theo, aggiunge profondità al racconto e un peso specifico particolare al cercarsi e confrontarsi dei due gemelli. Forse non quella desiderata dallo spettatore medio, che certo non si aspetterà Bergman, ma si ritroverà di fronte a un progetto decisamente personale per il regista, che ha pubblicamente ammesso di continuare a sfruttare i propri film – almeno Longlegs e The Monkey – per affrontare la depressione causata dalla morte “mediatica” dei suoi genitori (il padre a causa dell’AIDS e la madre Berinthia “Berry” Berenson negli attentati dell’11 settembre 2001) e mettere in scena genitori assenti, le drammatiche conseguenze di certi segreti familiari, il desiderio di vendetta e la paura di una distruttiva coazione a ripetere il passato.

Attenti al gorilla

Attenzione a fraintendere, The Monkey è sufficientemente divertente, splatter e grottesco da appartenere a buon titolo al genere e da poter essere apprezzato dallo stesso King (nonostante il tradimento del suo originale), a patto di possedere lo stesso humour del regista e sceneggiatore. Che, come detto, a scelte convincenti di stile (dai titoli ‘western’ a una fotografia desaturata e un commento musicale ben calibrato) e una pletora di personaggi di contorno surreali, unisce uno sviluppo non sempre di livello. Per ritmo e coerenza. Che rischierà di annoiare qualcuno, forse i poco impressionabili, ma che per lo meno non si prende sul serio. Decisamente.

 
 

Sconfort Zone: la recensione della serie Prime Video di Maccio Capatonda

Marcello Macchia, meglio noto come Maccio Capatonda, torna con Sconfort Zone, una serie disponibile dal 20 marzo su Prime Video che rappresenta una svolta nella sua carriera, quasi una auto analisi che Macchia trasforma in racconto semi serio di una sua difficoltà personale. Conosciuto per il suo stile comico surreale e dissacrante, Capatonda questa volta si spinge oltre i confini della semplice parodia, esplorando il lato più intimo e vulnerabile della sua creatività.

Di cosa parla Sconfort Zone?

La serie segue Maccio Capatonda nei panni di sé stesso, alle prese con una profonda crisi creativa. Incapace di scrivere una nuova sceneggiatura, si affida alle cure del Professor Braggadocio (Giorgio Montanini), uno psicologo dai metodi non convenzionali che lo sottopone a una serie di esperimenti per aiutarlo a riscoprire la propria ispirazione. Quello che inizia come un percorso di rinascita artistica si trasforma presto in una vera e propria ridefinizione della sua identità, portandolo a mettere in discussione non solo la sua carriera, ma anche la sua intera esistenza.

Un esperimento metatestuale

Fin dalle prime immagini, Sconfort Zone si presenta come un’opera metatestuale, giocando con la realtà e la finzione. Il protagonista affronta prove che affondano in riflessioni su temi profondi come la malattia, la morte e il senso della propria arte. In un primo momento, questa virata verso un tono più drammatico può lasciare spiazzati i fan abituati alle gag esilaranti dell’attore abruzzese, ma man mano che la storia si sviluppa, emerge un perfetto equilibrio tra momenti di riflessione e la sua inconfondibile vena comica, mai del tutto abbandonata. Anche nei momenti più drammatici risulta difficile non stare allerta in attesa della prossima intrusione nel surrealismo tipico della comicità di Maccio.

Uno degli elementi più riusciti della serie è la presenza di Valerio Desirò nei panni di un infermiere esuberante e sarcastico, capace di alleggerire i momenti più tesi con battute taglienti e una efficace cadenza romana. Il suo personaggio non è solo un elemento comico, ma anche una figura che incarna il precariato e le difficoltà della generazione contemporanea che si aggrappa alla risata come esorcismo nei confronti della difficoltà. Il cast di supporto, composto da Francesca Inaudi (compagna di Maccio nella finzione), Luca Confortini, Camilla Filippi, e il trio di comici Valerio Lundini, Edoardo Ferrario e Gianluca Colucci, che interpretano gli amici intimi del protagonista (uno specchio deformato in cui Marcello/Maccio riflette le proprie insicurezze) arricchisce ulteriormente il tessuto narrativo della serie, offrendo interpretazioni autentiche e sfumate, continuamente tentate dal superare la linea di demarcazione tra tono drammatico e surreale

Citazioni pop accanto a riflessioni sull’arte e sulla vita

Se Sconfort Zone si distingue per il suo coraggio tematico, altrettanto audace è il suo approccio stilistico. Maccio Capatonda fonde la sua tipica ironia con un linguaggio più cinematografico, impreziosendo la narrazione con riferimenti alla cultura pop e citazioni colte. Alcune scene, tra cui una toccante sequenza che richiama Ritorno al Futuro, dimostrano una maturità registica sorprendente (Macchia dirige a quattro mani con Alessio Dogana, che viene dal documentario). La serie riesce a bilanciare il suo umorismo con momenti di pura introspezione, creando un’esperienza coinvolgente e stratificata.

Ma ciò che rende Sconfort Zone davvero speciale è la sua capacità di parlare a un pubblico trasversale. Dietro la trama autobiografica e i riferimenti ironici al mondo dello spettacolo, si cela una riflessione più ampia sulla pressione creativa e sull’identità nell’era della sovraesposizione digitale, quando la necessità di creare contenuto a tutti i costi sovrasta l’estro naturale e ispirato che alimenta la creatività di artisti e attori. Capatonda non si limita a intrattenere, ma solleva interrogativi su cosa significhi essere un artista oggi, in un mondo in cui l’originalità sembra sempre più soffocata dalle logiche di mercato.

Marcello Macchia dimostra con Sconfort Zone di riuscire a gestire sia la sua nota vocazione comica fondendola con un registro insolito per lui, che mira a un’analisi più profonda, un viaggio dentro la mente di un artista in crisi, che riesce in egual misura a divertire e emozionare, offrendo spunti di riflessione e aprendo porte sul mondo privato dell’autore.

 
 

A Different Man, recensione del film con Sebastian Stan

Un’opera audace che gioca con il concetto di identità, percezione e bellezza, A Different Man è il nuovo film scritto e diretto da Aaron Schimberg. Con una trama che riecheggia il classico Operazione diabolica (1966) di John Frankenheimer, il film segue Edward (interpretato da Sebastian Stan), un attore newyorkese con neurofibromatosi, una condizione che gli causa vistosi tumori facciali e lo relega a ruoli marginali come quelli nei video aziendali sulla diversità e l’inclusione. La sua vita cambia quando accetta di sottoporsi a un trattamento sperimentale che lo trasforma radicalmente, dandogli l’aspetto di una star del cinema. Ma il cambiamento esteriore non si traduce in una nuova vita felice: Edward scopre che il suo senso di inadeguatezza non era solo una questione estetica.

Il fascino di una narrazione complessa

La forza di A Different Man risiede nella sua capacità di esplorare il concetto di identità in modo sfumato e spesso ironico. Schimberg non tratta Edward con condiscendenza, evitando la tipica rappresentazione di personaggi diversi come esseri straordinariamente virtuosi o saggi. Edward è insicuro, mediocre come attore e non particolarmente brillante. Il suo desiderio di cambiare aspetto non nasce da un bisogno di accettazione sociale, ma da una cieca ambizione artistica. Tuttavia, quando il cambiamento avviene, le cose non migliorano come sperava: il suo nuovo aspetto lo porta solo a una crisi ancora più profonda.

L’ironia sottile che percorre tutto il film e l’estetica vintage ottenuta anche grazie alla pellicola Super 16mm scelta dal direttore della fotografia Wyatt Garfield contribuiscono a rendere credibile l’atmosfera da cinema indipendente anni ’70 e coniuga l’omaggio stilistico al senso di intimità e contraddizione che il protagonista porta avanti nella sua turbolenta parabola personale.

Un cast brillante e performance straordinarie

Sebastian Stan, noto per il suo ruolo di Bucky Barnes nel MCU, dimostra ancora una volta il suo talento nelle produzioni più rischiose. La sua interpretazione di Edward/Guy non si basa solo sul cambiamento estetico, ma su una profonda trasformazione fisica e vocale. La sua postura rimane esitante, il suo tono di voce incerto, mostrando che l’insicurezza è radicata nella sua personalità, non nel suo aspetto. Stan mette a segno un’altra performance di grande spessore nella stagione cinematografica che gli è valsa la sua prima nomination agli oscar con l’interpretazione del giovane Donald Trump in The Apprentice – Alle origini di Trump.

Accanto a lui, Renate Reinsve (già acclamata per La persona peggiore del mondo) offre un’altra interpretazione affascinante. Il suo personaggio, Ingrid, è una drammaturga norvegese che si trasferisce a New York con grandi sogni e una personalità carismatica ma ambigua. Il suo rapporto con Edward è inizialmente di supporto, ma si complica quando lei scrive un’opera teatrale ispirata alla loro amicizia e alla sua trasformazione, creando una dinamica di potere intrigante.

Il vero fulcro emotivo del film è però Adam Pearson nel ruolo di Oswald. Pearson, che nella realtà convive con la neurofibromatosi, incarna un personaggio diametralmente opposto a Edward: sicuro di sé, affascinante e dotato di una magnetica presenza scenica. Oswald rappresenta tutto ciò che Edward avrebbe voluto essere, nonostante condividano la stessa condizione fisica. Questa dicotomia genera una tensione psicologica che diventa il cuore pulsante del film.

A Different Man è una satira sull’autenticità

A Different Man è una satira oscura sulla bellezza e sull’autenticità. Il film suggerisce che la società ha una visione ristretta di ciò che è desiderabile e normale, ma va oltre la semplice critica. Schimberg scava più a fondo, mettendo in discussione anche la rappresentazione della disabilità nel cinema. Edward e Oswald dimostrano che una condizione fisica può portare a percorsi di vita molto diversi, smentendo il cliché della persona diversamente abile come vittima o come esempio di forza sovrumana.

Un finale aperto in linea con lo spirito del film

Nella seconda parte, il film si fa sempre più surreale, con una narrazione frammentata che riflette la crisi d’identità del protagonista. Quando Edward/Guy si rende conto di non essere comunque felice, la sua ossessione per Oswald cresce fino a diventare autodistruttiva. Il film lascia molte domande senza risposta, preferendo suggerire piuttosto che spiegare. Questo senso di sospensione potrebbe risultare frustrante per alcuni spettatori, ma è coerente con il tono della storia che non si ferma mai a un giudizio univoco e lascia sempre spazio per discussione e contraddittorio.

A Different Man è un film stimolante, che sfugge alle convenzioni del genere e propone una riflessione profonda sul rapporto tra aspetto fisico, autostima e percezione sociale. Grazie a una regia intelligente, un’estetica ricercata e interpretazioni memorabili, Schimberg firma un’opera unica nel suo genere. Non tutto funziona perfettamente, soprattutto nella seconda parte, ma il film rimane un’esperienza intrigante e provocatoria, da vedere e discutere.

 
 

Adolescence, la spiegazione del finale: Jamie ha davvero ucciso Katie?

Adolescence

Il finale della miniserie Netflix Adolescence, visivamente impressionante ed emotivamente straziante, rivela la verità su chi ha ucciso Katie. Stephen Graham è il protagonista del cast di Adolescence nel ruolo di Eddie Miller, il padre devastato di Jamie Miller, un ragazzo apparentemente normale che viene accusato di aver accoltellato a morte la sua compagna di classe, Katie. Graham, che ha sviluppato la serie thriller culinaria del 2023 Boiling Point, ha anche co-creato la miniserie in quattro parti con Jack Thorne. Adolescence ha ricevuto un raro punteggio del 100% da parte della critica su Rotten Tomatoes, diventando una delle nuove serie più acclamate dalla critica del 2025.

Adolescence è realizzata in modo brillante e si svolge come uno spettacolo teatrale, con ogni episodio girato in un unico piano sequenza. Mentre l’aspetto visivo della serie Netflix è un’impresa a sé stante, la storia di Adolescence rimane la parte più avvincente del dramma psicologico. Dopo che l’episodio 1 segue Jamie attraverso il protocollo della polizia dopo il suo intenso arresto e il primo interrogatorio, l’episodio 2 dà uno sguardo alla scuola frequentata da lui e Katie, mentre l’episodio 3 rivisita il tormentato Jamie mentre entra e esce dal controllo con uno psicologo. L’episodio 4 si svolge 13 mesi dopo che Jamie è stato accusato dell’omicidio di Katie e si conclude con una tragica nota definitiva su ciò che è realmente accaduto.

La scelta di Jamie di dichiararsi colpevole è la prova che ha ucciso Katie

Jamie confessa finalmente di aver ucciso Katie con la sua dichiarazione di colpevolezza

L’episodio 4 di Adolescenza si svolge il giorno del 50° compleanno di Eddie, motivo per cui riceve un biglietto di auguri da Jamie, che è detenuto da oltre un anno in attesa di processo. L’episodio mostra come la famiglia Miller abbia superato in parte il trauma causato da Jamie, ma non del tutto. Dopo aver avuto a che fare con alcuni teppisti che vandalizzano il suo furgone, Eddie perde la calma fuori da un negozio di bricolage, causando una scenata. Eddie riceve una telefonata da Jamie, che gli augura buon compleanno e gli dà una notizia allarmante: si dichiara colpevole. Questo conferma essenzialmente che Jamie ha effettivamente pugnalato Katie sette volte e l’ha uccisa, come mostrato dalle prove video delle telecamere a circuito chiuso nell’episodio 1.

Perché Eddie non riusciva a credere che Jamie fosse un assassino dopo aver visto le prove video

Adolescence

Eddie era spinto dal rifiuto di proteggere suo figlio a tutti i costi

Uno degli aspetti più affascinanti del personaggio di Jamie era quanto fosse convincente nel mentire e manipolare. Questo aspetto viene messo in piena evidenza con il suo terapeuta nell’episodio 3. Anche se Eddie ha visto le immagini innegabili di Jamie che accoltellava e uccideva Katie, non riusciva a crederci completamente.

Dopo aver finalmente ascoltato la confessione di Jamie, Eddie capisce di essere stato ingannato per tutto il tempo e la realtà finalmente affiora nella sua mente e in quella della sua famiglia.

Negli ultimi 13 mesi, sembrava che la famiglia Miller avesse ancora qualche speranza che il figlio non fosse un assassino, probabilmente come misura difensiva perché il dolore di una tale verità sarebbe stato troppo grande. Dopo aver finalmente ascoltato la confessione di Jamie, Eddie capisce di essere stato ingannato per tutto il tempo e la realtà finalmente affiora nella sua mente e in quella della sua famiglia.

La spiegazione della conversazione emotiva di Eddie e Manda su Jamie

Adolescence

Si sentono in colpa per aver creato un assassino, ma hanno anche cresciuto una figlia fantastica

Dopo la notizia scioccante della decisione di Jamie, Eddie e Manda hanno una conversazione emotiva e riflessiva sul figlio, che dovrà sicuramente affrontare anni di prigione. Ricordano i giorni migliori, analizzando anche cosa avrebbero potuto fare diversamente, assumendosi la colpa e la responsabilità di averlo “creato”.

Eddie dice che ha cercato di avvicinarlo allo sport, ma Jamie non era interessato, mentre Manda ricorda come Jamie tornava a casa da scuola, si metteva al computer e rimaneva sveglio fino a tarda notte. Mentre Eddie e Manda si assumono la responsabilità di averlo reso un assassino, la loro figlia Lisa entra e ricorda loro che hanno creato anche lei e che non possono incolpare se stessi per il lato oscuro di Jamie.

Perché alcuni ragazzi hanno scritto “Nonse” sul furgone di Eddie

Adolescence episodio 4 inizia con Eddie che scopre che il suo furgone di lavoro è stato vandalizzato, con alcuni ragazzi che hanno scritto “Nonse” con vernice spray gialla affinché tutti i vicini di Eddie potessero vederlo. In gergo britannico, un “nonce” si riferisce a un molestatore sessuale, in particolare uno che coinvolge bambini. Lisa vede la scritta e dice a sua madre di essere confusa su chi sia il “nonse”, se Eddie o Jamie. Jamie ha rivelato nell’episodio 3 di essere stato tentato di toccare Katie in modo inappropriato, ma di non averlo mai fatto. D’altra parte, è impossibile sapere quanto Jamie fosse sincero.

L’episodio 4 evidenzia anche il fatto che Eddie sta avendo qualche difficoltà a gestire la situazione di Jamie e la sua continua lotta contro la rabbia. Quando Eddie affronta l’adolescente che ha vandalizzato il suo furgone, gli urla “Non prendermi in giro”, che può essere interpretato come una leggera ammissione di colpa, come se sapesse che “nonse” era riferito a lui. Mentre Lisa non ha idea della questione, Manda potrebbe sapere qualcosa sul passato di Eddie che non viene necessariamente alla luce alla fine di Adolescenza. Forse i ragazzi che hanno scritto “nonse” hanno sentito dire che Eddie aveva abusato sessualmente di Jamie. In ogni caso, l’accusa di “nonse” nei confronti di Eddie o Jamie sembra infondata.

Chi è Jenny e perché Manda continua a parlarne

Manda menziona “Jenny” più volte durante la sua discussione con Eddie, ricordandogli ciò che lei ha detto su alcuni suoi comportamenti. Anche se Jenny non appare nella serie, è lecito supporre che sia la terapista di Eddie e potrebbe anche essere una consulente di coppia per Eddie e Manda.

Eddie ha chiaramente dei difetti e il suo problema più evidente è la rabbia incontrollabile: chiede a sua moglie se lui ha “trasmesso” questo a Manda, che nega, quando in realtà è una domanda a cui è impossibile rispondere. Sicuramente i bambini esposti all’idea che gli uomini esercitano il dominio o il controllo attraverso la rabbia e la violenza potrebbero implementare queste nozioni nella loro personalità e percezione.

Spiegato il motivo per cui Jamie ha ucciso Katie

Adolescence

Adolescence esplora diversi aspetti della mentalità malsana di Jamie

Jamie lo ha reso ufficiale nell’episodio finale di Adolescence, ma era già chiaro fin dalla fine del primo episodio. Attraverso la visione giovanile di suo figlio, Bascombe scopre che Jamie era vittima di bullismo subliminale da parte di Katie, che usava determinate emoji nei commenti sui suoi post Instagram per insinuare che lui fosse un “incel”. Si parla anche della “manosfera” e di altri pilastri della mascolinità tossica, perpetuati da figure controverse come Andrew Tate, che viene persino menzionato direttamente nella serie.

Questi elementi, combinati con la scuola turbolenta di Jamie, la sua patologica propensione alla menzogna, la storia familiare di rabbia e la profonda insicurezza, dipingono un quadro comprensibile del perché qualcuno che è stato rifiutato e vittima di bullismo da una ragazza che gli piaceva avrebbe potuto vendicarsi con la forza bruta, potenzialmente senza rendersi conto della gravità delle sue azioni.

Il vero significato del finale di Adolescenza

Adolescence fa un ottimo lavoro non solo nel sollevare le questioni relative alle aggressioni con arma da taglio tra adolescenti nella vita reale, che hanno ispirato la serie, ma anche nell’offrire alcune circostanze applicabili e vie verso la comprensione. Graham e Thorne presentano l’esperienza dell’adolescenza stessa come enigmatica e spesso irrazionale, alimentata sempre più dal gergo di Internet, dai cosiddetti influencer e da ingegnosi espedienti di cyberbullismo. Considerando il contesto completo della situazione di Jamie, è chiaro che aveva molte difficoltà sociali e personali che non sapeva come elaborare o esprimere a un adulto di fiducia. Gli spettatori di Adolescenza decidono quindi a chi attribuire la colpa.

Con un argomento così confuso e indescrivibile, Adolescenza offre brillantemente una prospettiva empatica, avviando al contempo un dibattito sociale fondamentale.

Jamie non era in terapia fino a dopo aver ucciso Katie, il che gli avrebbe almeno aiutato a chiarire in anticipo alcuni dei suoi sentimenti intensi e violenti. Jamie è senza dubbio tragico in un certo senso e solleva ogni sorta di domande e dibattiti, come ad esempio se fosse davvero destinato a diventare un assassino e, in tal caso, cosa lo abbia condizionato: i suoi genitori, i suoi coetanei, il mondo esterno (Internet)? L’ultima frase di Eddie sullo schermo, “Avrei dovuto fare di meglio”, mostra il suo dolore naturale, ma l’indagine di Bascombe rivela che c’erano alcune cose che sfuggivano al controllo di Eddie e Manda. Con un tema così confuso e indescrivibile, Adolescenza offre brillantemente una prospettiva empatica, avviando al contempo un dibattito sociale fondamentale.

 
 

The Electric State: la recensione del film Netflix con Millie Bobby Brown

Immagina una Eleven ancora più solitaria e arrabbiata, con un biondo ossigenato da vera ribelle e un’energia da outsider in rotta col mondo. Affiancale ora uno Star-Lord più trasandato e disilluso del solito, spogliato della sua ironia sfacciata, e catapulta entrambi in un universo dove il retrò e il futuristico si fondono in un’estetica nostalgica e intrigante. Sulla carta, The Electric State dei fratelli Russo sembrerebbe un mix esplosivo, il perfetto road movie sci-fi capace di conquistare cuore e mente. Eppure, qualcosa non torna del tutto.

Basato sull’omonimo romanzo illustrato del 2018 di Simon StålenhagThe Electric State è il nuovo emozionante film Netflix diretto da Anthony e Joe Russo, con una sceneggiatura firmata da Christopher Markus e Stephen McFeely. Il cast è stellare: accanto a Millie Bobby Brown e Chris Pratt troviamo il premio Oscar® Ke Huy Quan, Jason Alexander, Giancarlo Esposito, il candidato all’Oscar® Stanley Tucci e Woody Norman. The Electric State è disponibile dal 14 marzo su Netflix.

Cosa racconta The Electric State?

The Electric State è ambientato in un’America rétro-futuristica degli anni ’90, segnata dalle conseguenze di una guerra devastante tra umani e robot. In questa versione alternativa del passato, le macchine senzienti erano state inizialmente accolte come strumenti essenziali per la società, occupandosi di compiti di pubblica utilità e supportando gli esseri umani nella vita quotidiana. Nonostante ciò, la loro richiesta di diritti e riconoscimento ha scatenato un conflitto inevitabile tra umani e macchine, culminato nella sconfitta di questi ultimi e nel loro esilio.

Il mondo che ne è scaturito è profondamente mutato: la tecnologia permea ogni aspetto della vita, ma invece di avvicinare le persone, le ha rese sempre più isolate, immerse in realtà digitali attraverso i loro neurocaster. In questo scenario, Michelle (Millie Bobby Brown – Stranger ThingsEnola HolmesDamsel), un’adolescente segnata dalla perdita dei genitori e del fratellino Christopher in un incidente stradale avvenuto anni prima, fatica ad adattarsi a una società ormai disumanizzata. Nel frattempo, i robot senzienti, un tempo pacifici e dalle sembianze quasi giocose, sono stati relegati in un fatiscente paesino, un limbo di rottami e sogni infranti dopo la loro ultima, fallita ribellione.

Ma la vita di Michelle cambia di nuovo quando, all’improvviso, riceve la visita di Cosmo, un misterioso e affettuoso robot che sostiene di essere controllato da Christopher, il fratellino che ha perduto. Con lui si riaccende la speranza di riunire la sua famiglia, o almeno ciò che ne resta. Determinata a scoprire la verità, Michelle intraprende un viaggio pericoloso verso la Zona Interdetta nel sud-ovest americano, decisa a capire chi li ha separati e perché, dopo quel tragico incidente. Ad accompagnarla in questa avventura sarà Cosmo, ma anche Keats (Chris PrattGuardiani della GalassiaJurassic World), un contrabbandiere dal carattere ruvido, e il suo inseparabile compagno robotico Herman, doppiato nella versione originale da Anthony Mackie.

Ritrovare l’umanità che abbiamo perso

Può un ammasso di metallo e circuiti provare più empatia e lealtà di un essere umano? D’istinto, verrebbe da rispondere con un no secco. Eppure, la storia nata dall’immaginazione di Simon Stålenhag ci porta a riconsiderare questa certezza. La commovente avventura di Michelle e Keats dipinge un mondo in cui gli esseri umani si sono fatti più freddi, distanti e alienati di qualsiasi macchina. Nel loro lungo viaggio attraverso un’America fatiscente e nostalgica, i due trovano ben poco calore tra le persone, ad eccezione di Keats stesso, che condivide con Michelle un senso di inadeguatezza, ribellione e solitudine.

Paradossalmente, il vero rifugio lo scopriranno in un villaggio dimenticato, un luogo dove i robot dotati di coscienza sono stati esiliati e abbandonati, scartati dalla società umana nonostante il loro desiderio di restare accanto alle persone. In questo angolo di rottami e malinconia, Michelle e Keats realizzeranno che forse l’umanità non risiede più nelle persone, ma in ciò che loro stesse hanno creato e poi respinto.

Ed è proprio attraverso la tragica storia familiare di Michelle che Stålenhag sembra rivolgere al pubblico una domanda silenziosa ma potente: quando abbiamo smesso di essere umani? Mentre la giovane determinata protagonista cerca di ricostruire ciò che ha perduto, il film invita lo spettatore a guardare dentro se stesso e riflettere su quanto l’umanità abbia sacrificato sull’altare della tecnologia. In un mondo dove le connessioni reali si sono assottigliate e l’empatia sembra sempre più un’illusione, The Electric State diventa un monito: forse non sono i robot a voler essere più umani, ma siamo noi a dover riscoprire cosa significhi davvero esserlo.

Un cast stellare e un’ambientazione che rapisce

Al di là della sua emozionante storia e del profondo messaggio sottostante, The Electric State conferma ancora una volta la maestria dei fratelli Russo nel miscelare sentimentalismo, avventura e azione, regalando due ore di puro intrattenimento. Il film scorre con un equilibrio perfetto tra emozione e spettacolo visivo, riuscendo a coinvolgere il pubblico sia a livello narrativo che estetico.

Il cast hollywoodiano brilla, con una coppia protagonista che funziona alla perfezione. Millie Bobby Brown e Chris Pratt dimostrano fin dalle prime scene un’alchimia vincente, riuscendo a conquistare la scena grazie al loro carisma e talento. I loro personaggi, apparentemente opposti, si rivelano in realtà molto più simili di quanto sembri inizialmente, dando vita a un rapporto che evolve in modo naturale e convincente.

Ma non sono solo gli eroi a spiccare: anche gli antagonisti lasciano il segno. Stanley Tucci (Amabili resti, Il diavolo veste Prada) è impeccabile nel ruolo di Ethan Skate, il folle magnate della tecnologia a capo della Sentre, una corporazione tanto potente quanto inquietante. Al suo fianco, Giancarlo Esposito (Captain America: Brave New World, Breaking Bad) regala un’interpretazione memorabile nei panni del Colonnello Bradbury, detto Il Macellaio, un uomo spietato che ha guadagnato il suo soprannome sterminando robot senzienti durante la guerra. Il loro carisma e la loro presenza scenica elevano il film, offrendo antagonisti credibili e sfaccettati, che incarnano perfettamente le tematiche di potere e disumanizzazione esplorate dalla storia.

Anche l’ambientazione gioca un ruolo chiave nell’immergere il pubblico in un mondo che mescola passato e futuro con un tocco di malinconia. La nostalgia degli anni ’90 – un decennio ormai mitizzato da un’intera generazione – si intreccia con un futuro distopico fin troppo plausibile, creando un’atmosfera unica. La fusione tra elementi vintage, colonna sonora pop e tecnologie obsolete si integra perfettamente con la presenza di dispositivi futuristici come i neurocaster e le imponenti macchine da guerra telecomandate dagli umani, comodamente seduti nel salotto di casa. Il risultato è un universo visivo che non solo affascina, ma che fa anche riflettere sul rapporto sempre più alienante tra uomo e tecnologia.

Non è tutto oro ciò che luccica

Che i fratelli Russo sappiano come sfruttare al meglio il mezzo cinematografico per dare vita a storie che restano impresse è ormai una verità consolidata. Con The Electric State, continuano a dimostrare il loro talento nel creare un’esperienza visiva coinvolgente, arricchita da emozioni forti e momenti che lasciano il segno. Tuttavia, nonostante la bellezza estetica e l’intensità delle emozioni che cercano di suscitare, il film manca di quella profondità e della tensione drammatica che ci si aspetterebbe da una storia così ricca e un cast altrettanto vincente.

Il film, purtroppo, sembra seguire la stessa sorte di un soufflé: cresce e si eleva nelle prime scene, mostrando la sua forma più affascinante e ben costruita, per poi sgonfiarsi e perdere di consistenza nel corso della narrazione. Il viaggio emotivo e di formazione che Michelle intraprende all’inizio, segnato da una ricerca di riscatto e dalla necessità di elaborare il lutto, trova nella seconda parte del film una trasformazione che, seppur significativa, manca di quella potenza che ci si aspetterebbe in un racconto così carico di potenziale. La sua presa di coscienza e l’accettazione del dolore sembrano troppo snelle e prive di un percorso davvero coinvolgente, lasciando lo spettatore con una sensazione di incompiutezza.

Pur toccando le corde giuste, The Electric State fallisce nel mantenere alta la tensione emotiva necessaria per trasformare questo viaggio in una vera e propria rivelazione

 
 

Scissione – Stagione 2, episodio 9, la spiegazione del finale:

Scissione - Stagione 2, episodio 9

L’episodio 9 della seconda stagione di Scissione (Severance) prepara perfettamente il terreno per il finale, dando un assaggio di come potrebbe concludersi la storia di ogni personaggio principale. Nei primi minuti, l’episodio 9 della seconda stagione rivela le grandi aspettative che Jame Eagan ripone in Helena. Tuttavia, qualunque cosa lei faccia, lui sembra deluso e persino infastidito dal fatto che lei non mangi le uova crude come Kier. Dopo aver mostrato come Helena sia schiacciata dalle aspettative del padre e dall’eredità della sua famiglia, l’episodio 9 della seconda stagione di Severance fa empatizzare gli spettatori con Huang, accennando al suo futuro alla Lumon. Anche Dylan, l’innie, attraversa una delle fasi più difficili della sua vita quando incontra di nuovo la moglie del suo outie.

Nel frattempo, gli outie di Burt e Irving parlano finalmente della relazione dei loro innies e vivono una serie di emozioni complesse prima di separarsi. L’episodio della seconda stagione di Scissione (Severance) si conclude finalmente con l’arrivo di Cobel, Mark e Devon al Damona Birthing Retreat, dove Cobel spera di poter parlare con l’innie di Mark.

Perché Cobel vuole parlare con l’innie di Mark nel finale dell’episodio 9 della seconda stagione di Severance

Quasi per tutto l’episodio 9 della seconda stagione di Severance, Mark non può fare a meno di sospettare che Cobel voglia aiutarli. Il suo sospetto ha senso, dato che Cobel è stata cresciuta da Lumon. Tuttavia, Mark alla fine cede quando Cobel rivela che Gemma potrebbe essere ancora viva se il suo innie non avesse finito di elaborare il file Cold Harbor. Rendendosi conto che solo un ex insider come Cobel può aiutarli a salvare Gemma, Mark accetta di seguire il suo consiglio.

Nell’ultima scena dell’episodio 9 della seconda stagione di Severance, Mark entra in una capanna del Ramona Birthing Retreat e si trasforma nel suo alter ego. Con sua grande sorpresa, trova Cobel ad aspettarlo, che gli suggerisce di aiutare Gemma a fuggire dalla Lumon. Dopo essere stata tradita e abbandonata da Lumon, Cobel sembra finalmente aver capito quanto l’azienda si preoccupi poco del benessere delle persone. Tuttavia, dato che non può più entrare nell’edificio Lumon, non può fare molto per aiutare direttamente Mark. Pertanto, sembra sperare di convincere l’innie di Mark ad aiutarli a salvare Gemma.

Il futuro della signora Huang in Lumon spiegato: perché Milchick le chiede di interrompere il gioco

Milchick annuncia il completamento della borsa di studio Wintertide della signorina Huang, che avrebbe dovuto determinare il suo futuro alla Lumon. Proprio come Cobel è diventata una dipendente a tempo pieno della Lumon dopo aver completato la sua borsa di studio, anche Huang sembra poter fare lo stesso. Milchick conferma che sarà trasferita al Gunnel Eagan Empathy Center, dove continuerà a lavorare per la Lumon. Sebbene la signorina Huang lavori duramente per completare la sua borsa di studio, è triste per il trasferimento perché significa che dovrà allontanarsi dai suoi genitori.

Il processo di distruzione del totem non solo serve come simbolo per segnare la fine dell’infanzia di Huang, ma è anche parte del processo di indottrinamento di Lumon per spogliare le persone della loro identità e renderle parte del culto che venera Kier.

Il suo tragico futuro alla Lumon evidenzia come l’azienda costringa molti minori a lavorare mascherando il lavoro minorile come un’opportunità di crescita professionale. Anche Cobel ha vissuto un’esperienza simile quando era molto più giovane. Milchick le fa anche capire la gravità del suo ruolo alla Lumon facendola distruggere il suo amato gioco. Il processo di distruzione del totem non solo serve come simbolo per segnare la fine dell’infanzia di Huang, ma è anche parte del processo di indottrinamento di Lumon per privare le persone della loro identità e renderle parte del culto che venera Kier.

Cosa intende Jame Eagan quando dice di vedere Kier in Helly

Jame Eagan ha detto la stessa cosa a Helly e Harmony

Nell’arco narrativo finale dell’episodio 9 della seconda stagione di Severance, Jame Eagan si intrufola nel piano separato della Lumon e sembra voler affrontare Helly. Tuttavia, più le parla, più diventa evidente che vorrebbe che sua figlia fosse più simile a lei. Afferma di aver visto Kier in Helena una volta, ma ora fatica a vedere la stessa cosa.

La sua insoddisfazione nei confronti della figlia emerge anche nei primi minuti dell’episodio, quando la guarda con disappunto e afferma che vorrebbe che mangiasse le uova crude come Kier.

La ribellione di Helly e la sua volontà di costruirsi una propria strada e identità sembrano ricordare a Jame Eagan Kier, suggerendo che preferirebbe avere lei come erede al posto di Helena. Dato che Helena è già gelosa della sorella, diventerà ancora più invidiosa di Helly se scoprirà come la vede suo padre. Questo potrebbe non solo esacerbare ulteriormente il rapporto già teso tra Helena e suo padre, ma anche complicare il rapporto di Helly con Mark.

Perché il destino di Gemma dipende dal completamento di Cold Harbor

Cobel dice a Mark che i numeri dei file MDR sono sua moglie, suggerendo che il destino di Gemma è sempre dipeso dal lavoro di Mark con l’MDR. Questo ha senso, dato che l’episodio 7 della seconda stagione di Scissione (Severance) ha stabilito che il nome di ogni stanza del piano di test corrispondeva al nome di un file su cui Mark aveva lavorato in precedenza. Gli sviluppi della trama dell’episodio 7 sembrano aver stabilito che Mark stava “creando” le innies individuali di Gemma lavorando sui file nel reparto MDR.

Severance ha rivelato finora i nomi delle seguenti stanze del piano di test:

  • Allentown
  • Dranesville
  • Siena
  • Lucknow
  • Loveland
  • Wellington
  • St. Pierre
  • Zurich
  • Cold Harbor

Per questo motivo, è difficile non credere che il completamento di Cold Harbor creerà un altro innies per Gemma, che si attiverà dopo che Gemma entrerà nella stanza Cold Harbor nel piano di test. Cobel continua a insinuare che Gemma sarebbe viva solo se l’innies di Mark non avesse completato il file Cold Harbor. Questo potrebbe significare che una volta che Lumon avrà testato la stanza finale su Gemma, la uccideranno invece di liberarla? Il finale della seconda stagione di Severance probabilmente fornirà ulteriori risposte.

Perché Burt costringe Irving a lasciare la città di Kier

Burt rivela la sua storia con Lumon nell’episodio 9 della seconda stagione di Severance, confessando di non aver mai fatto del male direttamente a nessuno. Ha solo accompagnato delle persone a Lumon, ma ha sempre saputo che l’azienda stava facendo qualcosa di sbagliato. Si sente in colpa perché ha facilitato le azioni illecite di Lumon. Come spiega, è entrato a far parte di Lumon come dipendente separato perché credeva che gli avrebbe dato l’opportunità di trovare una parvenza di redenzione.

Irving prova empatia per lui e non lo giudica per il suo passato. Si rende anche conto che raccontandogli del suo passato con Lumon, Burt sta rischiando la vita. Irv spera di esplorare il suo rapporto con Burt nel mondo esterno, credendo che potrebbero potenzialmente avere lo stesso rapporto che avevano da “innies”. Tuttavia, con suo grande disappunto, Burt lo incoraggia ad andarsene, rendendosi conto che Lumon è a conoscenza della sua operazione segreta contro di loro.

Sebbene Irv cerchi di convincerlo a lasciare la città di Kier con lui, Burt rifiuta l’offerta di restare con il suo partner, Fields.

La decisione di Dylan di dimettersi

Come altri lavoratori MDR, Dylan era inizialmente motivato dai vantaggi che Lumon offriva a tutti i dipendenti con prestazioni elevate. Tuttavia, il suo mondo è crollato quando l’incidente dell’Overtime Contingency gli ha fatto capire di avere una famiglia al di fuori dell’ufficio Lumon. Per mantenerlo motivato, Milchick capì che avrebbe dovuto fargli incontrare sua moglie, Gretchen. Poco dopo aver incontrato la moglie del suo outie, Dylan trovò un nuovo motivo per rimanere fedele alla Lumon. I suoi incontri occasionali con Gretchen divennero il momento clou della sua vita, mentre gradualmente si innamorava di lei.

Anche Gretchen gli ha dato speranza quando lo ha baciato. Purtroppo, l’outie di Dylan non ha gradito quando Gretchen gli ha detto di aver baciato il suo innie. Di conseguenza, Gretchen ha deciso di interrompere gli incontri. Con questo, l’unica cosa che spingeva Dylan a lavorare per Lumon dopo gli eventi della prima stagione di Severance gli è stata portata via. Pertanto, ha deciso di porre fine alla sua esistenza scrivendo una lettera di dimissioni. Se le sue dimissioni saranno accettate nel finale della seconda stagione di Severance dipenderà interamente dal suo outie.

 
 

FBI – stagione 6: uscita, trama, cast, episodi e streaming

FBI - stagione 6

FBI 6 è la sesta stagione della serie tv FBI creata da Dick Wolf e Craig Turk per CBS. La serie è prodotta da Wolf Entertainment, CBS Studios e Universal Television, con Dick Wolf, Arthur W. Forney, Peter Jankowski e Turk come produttori esecutivi.

 La serie presenta un cast corale che include Missy Peregrym , Zeeko Zaki , Jeremy Sisto, Ebonée Noel , Sela Ward , Alana de la Garza , John Boyd Katherine Renee Turner

FBI 6: quando esce e dove vederla in streaming

FBI 6 ha debuttato negli USA il 13 febbraio 2024 su CBS. In Italia FBI 6 debutterà su RAI 2 in chiaro e FBI 6 in streaming sarà disponibile su RAIPLAY

FBI 6: trama e cast dei nuovi episodi

Nella sesta stagione di FBI La squadra entra in azione per sconfiggere l’organizzazione terroristica responsabile dell’esplosione di un autobus.

Nella sesta stagione di FBI Missy Peregrym riprende il ruolo di Maggie Bell, agente speciale dell’FBI. Zeeko Zaki riprende il ruolo di Omar Adom “OA” Zidan, agente speciale dell’FBI e partner di Maggie. Jeremy Sisto riprende il ruolo di Jubal Valentine, assistente agente speciale incaricato dell’FBI (ASAC). Alana de la Garza riprende il ruolo dell’agente speciale in carica (SAC) Isobel Castille.

John Boyd riprende il ruolo di Stuart Scola, agente speciale dell’FBI e partner sul campo di Kristen, e più tardi, di Tiffany. Katherine Renee Kane riprende il ruolo di Tiffany Wallace, agente speciale dell’FBI ed ex ufficiale della polizia di New York e agente della White Collar Division.

Nei ruoli ricorrenti troviamo Roshawn Franklin nel ruolo di Trevor Hobbs (stagioni 2-6), un agente speciale dell’FBI e un analista dell’intelligence. Vedette Lim nel ruolo di Elise Taylor (stagione 2-presente), un’analista dell’intelligence dell’FBI.

 
 

Mare Fuori 5: recensione dei primi 6 episodi

Mare Fuori 5 episodio 6

Mare Fuori 5 deve gestire un finale di stagione della stagione precedente che ha lasciato tutti con il fiato sospeso, ancora più di quello sparo nel buio che aveva chiuso invece il terzo cicloRosa Ricci lascia Carmine Di Salvo all’altare, il matrimonio tra le due grandi famiglie come promessa di pace non si celebra, mentre Edoardo Conte trova la sua morte per mano sconosciuta sul fondo della cripta dei Ricci, tra la bara di Ciro e quella di Don Salvatore, che proprio lui aveva a sua volta ucciso.

“Voglio che tu sappia che sei l’unico che sia riuscito a vedere la luce in me. Sei puro, sei luce ed esplodi come un vulcano ogni volta che ami. Per salvarti ti sei aggrappato alla cosa più bella che esista: l’amore. E io non sono quella cosa bianca limpida che pensavi tu. Io sono rossa e nera, sono passione e vendetta. Mi hai insegnato che l’amore salva e io ti ho salvato dall’unica cosa che ti poteva uccidere: da me.” Con queste parole di addio, Rosa giustifica il suo addio all’amore e a una vita normale, quella che è quasi una poesia liquida in apertura la scelta di Rosa. E Carmine diventa un ricordo… per ora.

Un’alleanza al femminile per Mare Fuori 5

La giovane vuole ora prendere le redini del regno criminale ereditato dal padre e si rende subito conto che Carmela, moglie e vedova di Edoardo, è l’unica alleata che le resta. Entrambe hanno fatto qualcosa per ferire l’altra, ma perdonarsi e fare squadra sembra l’unico modo per sopravvivere contro Donna Wanda Di Salvo.

Il loro scopo è ovviamente riprendere possesso delle piazze di spaccio, ma anche scoprire chi ha ucciso Edoardo. Come spesso accade nella serie, la risposta arriva dall’interno dell’IPM, dove nuovi sconvolgimenti sono pronti ad avvenire per portare scompiglio nel delicato equilibrio all’interno della struttura. Simone (Alfonso Capuozzo) e Tommaso (Manuele Velo) di Napoli, e Samuele (Francesco Alessandro Luciani) e Federico (Francesco Di Tullio), di Milano, arrivano a turbare le sorti dei protagonisti, in particolare i due ragazzi del nord, che si rivelano spregiudicati e violenti. Completano il cast Elisa Tonelli e Rebecca Mogavero, rispettivamente nei ruoli di Sonia e Marta, che nella prima parte della serie non hanno ancora avuto un ruolo importante ma che, lo immaginiamo, verranno raccontate meglio nella seconda parte.

Volti vecchi e nuovi

Il mondo esterno all’IPM porta nel flusso del racconto di Mare Fuori 5 anche Assunta, madre di Rosa e Ciro, creduta morta perché così aveva dichiarato Don Salvatore, e che il pubblico sa essere viva, vegeta e libera dalla quarta stagione, dove si scopre che è stata aiutata da Ciro a rimettersi in sesto dopo che il marito l’aveva fatta rinchiudere in un ospedale psichiatrico. La donna vorrebbe riallacciare i rapporti con la figlia, visto che era presente al suo non-matrimonio? Lo scopriremo…

Tornano ovviamente tutti i volti noti e amati della serie: Pino, Cardiotrap, Mimmo, Cucciolo e Micciarella, Milos, Dobermann, Silvia, Alina, ma anche gli adulti Massimo, Sofia, Beppe con le loro storie, i loro drammi e le loro aspirazioni.

Messo da parte il grande dramma romantico di Rosa e Carmine, Mare Fuori 5 torna a raccontare storie di violenza, soldi, vendetta e difficoltà, riportando la serie alle sue origini, e relegando ai margini del racconto l’aspetto soapoperistico che tanto aveva fatto innamorare il pubblico. Ogni personaggio è chiamato verso la salvezza, ma questa non arriverà per tutti, come si scopre man mano che gli episodi vanno avanti. Il ritorno alle origini con la centralità di determinati temi però non corrisponde alla replica di quello che era il tono delle prime stagioni, in cui c’era una forte aspirazione alla speranza e al cambiamento per i giovani protagonisti. Quel mare fuori era davvero una metafora radicata anche nel modo di raccontare le aspirazioni di ciascuno.

Mare Fuori 5 la speranza è bandita

In Mare Fuori 5 la speranza è bandita. Rosa, emblema “romantica” della quarta stagione, diventa qui un oscuro angelo di vendetta, sopraffatta dai compiti oscuri che ha scelto di ereditare. Ludovico Di Martino, che prende il posto di Ivan Silvestrini alla direzione degli episodi, cambia ancora una volta le carte in tavola e preferisce una regia presente, invasiva, drammatica, quasi solenne, così come sono solenni le minacce, le frasi stentoree e le parole dei protagonisti. Il risultato è un tono artefatto che in qualche modo strano trova comunque la sua armonia, perché più che empatia genera distacco dalle disavventure che guardiamo sullo schermo.

Non sappiamo dove ci porterà la seconda parte di stagione di Mare Fuori 5, ma senza dubbio si tratta di un cammino oscuro, in cui il confine tra bene e male verrà oltrepassato e confuso più volte.

 
 

The Breaking Ice, recensione del film di Anthony Chen

Il regista e sceneggiatore singaporeano Anthony Chen torna con The Breaking Ice, presentato a Cannes 76, un’opera intensa e poetica che esplora il senso di smarrimento, solitudine e desiderio di evasione di tre giovani in una gelida città cinese al confine con la Corea del Nord. Il film si distingue per la sua atmosfera malinconica e contemplativa, in cui la neve e il ghiaccio diventano elementi simbolici di uno stato emotivo sospeso tra l’immobilità e il cambiamento.

The Breaking Ice è un racconto di anime perdute

La pellicola si apre con un’immagine evocativa: uomini intenti a tagliare blocchi di ghiaccio, una rappresentazione visiva del titolo stesso. Subito dopo incontriamo Li Haofeng (Haoran Liu), un giovane che partecipa con distacco al ricevimento di nozze di un collega coreano. La sua alienazione si manifesta nella solitudine con cui mastica il ghiaccio del suo drink, rompendolo sotto i denti, di nuovo si evoca il titolo e si racconta una difficoltà a inserirsi dentro un contesto vitale, come può essere un matrimonio. La sua esistenza si intreccia presto con quella di Nana (Dongyu Zhou), una guida turistica che accompagna visitatori alla scoperta della comunità coreana della regione, e Han Xiao (ChuxiaoQu), cuoco di un ristorante coreano che nutre sentimenti irrisolti per Nana.

Un incontro casuale e una notte di alcol e confidenze fanno nascere tra i tre una connessione insolita e temporanea, trasformandoli in una sorta di famiglia improvvisata. Il loro legame si cementa attraverso momenti di fuga dalla realtà: balli sfrenati, escursioni pericolose, sfide insensate e un viaggio fino al remoto e innevato sentiero che porta al Lago del Paradiso. Questo cammino non è solo fisico, ma anche metaforico: ciascuno di loro è alla ricerca di una via di fuga dalla propria esistenza stagnante e irrisolta.

Un film d’atmosfera

Chen si affida a un racconto fatto di frammenti, momenti sospesi e silenzi che parlano più delle parole, realizzando una composizione visiva che evoca più che raccontare, ricordando il cinema della Nouvelle Vague francese, con riferimenti espliciti a “Bande à part” e “Jules e Jim”. Le immagini costruite dal regista sono costantemente costruite per rimandare a un altro significato oltre a quello che mostrano: una gabbia di animali in uno zoo riflette la prigionia interiore dei protagonisti, mentre un orologio costoso che smette di funzionare sottolinea l’inesorabile scorrere del tempo in qualsiasi condizione socio economica si possa vivere. Quel ghiaccio che Li Haofeng mastica all’inizio del film diventa di nuovo un riferimento al titolo ma questa volta viene condiviso dagli altri, acquista una ulteriore simbologia: connessione e vulnerabilità.

Tre protagonisti magnetici

A dare forma a questo cinema di suggestioni, intervengono i tre protagonisti: Dongyu Zhou dona a Nana un’intensità struggente, un personaggio che cerca di soffocare il dolore tra alcool e sesso privo di intimità. Haoran Liu interpreta Haofeng con una delicatezza toccante, incarnando il disagio di chi si sente fuori posto ovunque vada. Chuxiao Qu, nel ruolo di Han Xiao, trasmette una mascolinità ruvida ma ferita, mostrando il conflitto tra il desiderio di fuggire e l’incapacità di farlo. Tre voci che si uniscono in un coro di disagio e inadeguatezza, specchio di una generazione Z che chiede aiuto ma non sa a chi rivolgersi.

Chen dimostra ancora una volta la sua capacità di catturare i dettagli più sottili e significativi, come nel modo in cui posiziona i personaggi in un’ambientazione che ricorda il quadrante di un orologio, suggerendo ancora una volta l’inesorabile avanzare del tempo. Uno sforzo di composizione che viene accentuato dalla fotografia, con le sue tonalità fredde e una composizione meticolosa, che enfatizza il senso di isolamento.

The Breaking Ice ha un grande fascino visivo ma soprattutto emotivo, capace di trasmettere con estrema sensibilità la condizione di giovani che si sentono intrappolati nelle loro vite. Il film non manca di incongruenze, ma rimane un’opera di grande valore artistico. Il finale suggerisce poi una circolarità alla narrazione che sembra voler indicare che il senso di inadeguatezza e incertezza verso la strada da prendere non si supera, ma si impara a dare valore alla ricerca del cammino, non più alla destinazione del viaggio.

The Breaking Ice è un’opera che cattura con delicatezza la vulnerabilità dei suoi personaggi, immergendoli in un paesaggio invernale che riflette le loro anime alla deriva. Con una regia evocativa, Anthony Chen conferma la sua capacità di raccontare storie intime e profonde, regalandoci un film che lascia il segno con la sua bellezza visiva e il suo toccante ritratto di giovani alla ricerca di un senso di appartenenza.

 
 

Yellowjackets – Stagione 2, la spiegazione del finale: dove andranno i sopravvissuti?

Yellowjackets 2 stagione

Il finale della seconda stagione di Yellowjackets ha portato la storia in una direzione inaspettata, aprendo la strada a una terza stagione ricca di suspense. La seconda stagione di Yellowjackets è stata piena di sorprese e rivelazioni scioccanti, fornendo risposte a misteri di lunga data come il significato del biglietto di Travis a Natalie, l’idea che la natura selvaggia sia un’entità influente e molto altro ancora. Il finale è iniziato con l’ipotesi che uno degli adulti sopravvissuti dovesse morire per soddisfare il crescente bisogno della natura selvaggia nella linea temporale del 2021. Tuttavia, le cose non sono andate necessariamente secondo i piani.

In questo contesto, si sono svolti altri intrecci ad alto rischio che hanno portato a conclusioni soddisfacenti. La polizia ha dato la caccia all’adulta Shauna per l’omicidio di Adam Martin per gran parte della stagione, è stato spiegato cosa stava realmente tramando Walter Tattersall, il “fidanzato” di Misty, e il rituale ufficiale di cannibalismo sacrificale descritto nella linea temporale del 1996 è stato finalmente svelato nella sua interezza. Tutto questo è confluito nell’episodio 9 della seconda stagione di Yellowjackets, che ha visto trionfi e delusioni in egual misura per i sopravvissuti adulti rimasti. Dopo la fine della seconda stagione di Yellowjackets, solo una cosa è certa: la natura selvaggia non ha finito il suo lavoro, né nel passato né nel presente.

Perché Travis ha mangiato il cuore di Javi

Quando le ragazze sono tornate con il corpo di Javi dopo che era annegato nell’episodio 8 della seconda stagione di Yellowjackets, nessuno era più sconvolto di Travis. Natalie aveva sicuramente il proprio senso di colpa da placare dopo averlo lasciato morire, ma Travis era davvero quello che aveva sofferto di più per la perdita. Ha cercato di spiegare la portata della distruzione che stavano causando a Van, il quale, a sua volta, lo ha convinto che la morte di suo fratello era un sacrificio per salvare i sopravvissuti e che avrebbe dovuto onorare il sacrificio e la morte di Javi. Travis ha quindi preso a cuore questa conversazione e si è unito al cannibalismo del resto del gruppo.

Shauna ha offerto a Travis il cuore di suo fratello da mangiare per primo, quasi come un segnale al resto del gruppo che se Travis era d’accordo a consumare Javi, allora anche gli altri avrebbero dovuto farlo. Travis ha mangiato il cuore di Javi per dimostrare la sua lealtà al gruppo e onorare il sacrificio di suo fratello. Quel momento ha dimostrato che Travis era completamente caduto nella sua convinzione che la natura selvaggia fosse un’entità e che questi sacrifici fossero necessari e vantaggiosi per la loro sopravvivenza. Ha visto Javi come un martire piuttosto che come una tragica vittima e ha giustificato il fatto di aver mangiato suo fratello gettandosi in questa convinzione.

Come Natalie è diventata la regina delle corna

Uno dei colpi di scena più grandi del finale della seconda stagione di Yellowjackets è stato che Natalie era la vera regina delle corna, non Lottie. Sembrava che tutta la serie suggerisse e preparasse Lottie come regina delle corna, ma quando sarebbe stata rivelata per la prima volta nel suo abito ufficiale, non sarebbe stato poi così sorprendente. Tuttavia, nella seconda stagione di Yellowjackets, Lottie ha deciso di dimettersi e cedere la leadership a Natalie, lasciando Shauna un po’ gelosa. Guardando indietro, le insicurezze di Lottie come leader erano cresciute, come dimostrato dalla sua visione al centro commerciale in precedenza, ma nessuno si aspettava che passasse la mano.

Lottie ha scelto Natalie perché credeva che Nat fosse sempre stata la “preferita” della natura selvaggia. Ha citato il fatto che il gruppo aveva cercato di ucciderla quando aveva pescato la Regina di Cuori, ma la natura selvaggia non glielo aveva permesso. C’erano segni che indicavano che la natura selvaggia favoriva Natalie, come il fatto che fosse la cacciatrice principale. Sebbene Lottie fosse stata la prima a comunicare con la wilderness, tutti i sopravvissuti avevano imparato a farlo, quindi non avevano più bisogno della sua guida. È possibile che il fatto che Natalie non fosse così influenzata dal pensiero di gruppo la rendesse una leader più naturale di una seguace, il che potrebbe essere un altro motivo per cui Lottie le ha dato la precedenza.

Il piano di Walter per porre fine alle indagini su Adam Martin

Walter ha ideato un piano elaborato per salvare Misty e i suoi amici dall’essere scoperti dalla polizia, che prevedeva la corruzione della polizia. Dopo averlo ucciso con il fenobarbital, Walter è riuscito a collegare una grande quantità di documenti bancari e telefonici relativi ad Adam a Kevyn Tan. Ha poi sparato a Kevyn con la pistola di Saracusa e gli ha proposto di aiutarlo a incastrare Kevyn per gli omicidi di Adam e Jessica Roberts, utilizzando una storia secondo cui Saracusa aveva “scoperto” una massiccia corruzione nella polizia e aveva quasi perso la vita per questo. Ha poi aggiunto che tutte queste informazioni potevano essere ricondotte a Saracusa se non avesse accettato.

Il piano di Walter aveva diverse funzioni importanti in Yellowjackets. In primo luogo, dimostrava la sua fedeltà a Misty, cosa discutibile per gran parte della stagione, soprattutto quando lui la paragonava a Sherlock e se stesso a Moriarty. In secondo luogo, dimostrava che Walter stesso non era al di sopra dell’omicidio e probabilmente condivideva le tendenze psicopatiche della sua “ragazza”.

Infine, dimostrava le abilità di Walter come hacker e detective dilettante. Essere in grado di manomettere le prove in modo tale da incastrare qualcuno che non c’entrava nulla era davvero impressionante.

Il gruppo avrebbe davvero ucciso Shauna nella nuova caccia?

Shauna ha avuto la sfortuna di scegliere la Regina di Cuori nella linea temporale del 2021, ed è possibile che il gruppo stesse preparando la sua uccisione. Durante le scene culminanti del rituale rivissuto dagli adulti e l’inseguimento con le maschere che ne è seguito nel finale della seconda stagione di Yellowjackets, il tono oscillava tra il gruppo che vedeva la realtà e il gruppo che cadeva preda della natura selvaggia. Sebbene inizialmente fossero d’accordo sul fatto che Lottie volesse soddisfare la natura selvaggia fosse una cattiva idea, le cose si sono complicate quando Van ha convinto Taissa a chiamare la squadra di crisi che avrebbe dovuto interrompere il rituale e portare Lottie al sicuro.

Lo sguardo affamato dell’adulta Van durante l’inseguimento era particolarmente terrificante, e il fatto che abbia chiamato le autorità ha sicuramente dipinto le sue intenzioni in una luce negativa. Lottie era pronta a sacrificare Shauna, completamente assorbita dal compito di nutrire la natura selvaggia. Misty, Natalie e Taissa, invece, sembravano le più combattute. Se Lottie avesse raggiunto Shauna per prima, sarebbe sicuramente morta, e lo stesso avrebbe potuto accadere a Van, visto quanto sembrava presa durante l’inseguimento.

Il sacrificio e la morte di Natalie spiegati

Sfortunatamente, la natura selvaggia ha mietuto un’altra vittima tra gli adulti sopravvissuti, e si è trattato di Natalie. Il momento scioccante ha visto Misty cercare di pugnalare Lisa con una siringa, ma Natalie si è sacrificata e si è gettata davanti a lei. Il sacrificio di Natalie e la reazione straziante di Misty all’aver ucciso (di nuovo) la sua “migliore amica” hanno fatto riferimento a diversi momenti chiave di Yellowjackets. Natalie si è sacrificata perché il senso di colpa più grande che portava con sé dal suo periodo nella natura selvaggia era quello di essersi fatta da parte e aver lasciato morire Javi. Se si fosse sacrificata nella stagione 2, episodio 8 di Yellowjackets, non sarebbe mai diventata la prima Antler Queen.

Natalie probabilmente provava molto più senso di colpa di quanto Yellowjackets lasciasse inizialmente intendere per essere stata l’Antler Queen e aver dato il via agli eventi del resto della serie. La rivelazione del suo status elevato nel 1996 e il senso di colpa che ne è seguito hanno anche contribuito a spiegare le sue difficoltà nella vita adulta e il suo successivo tentativo di suicidio. Pertanto, quando ha visto l’opportunità di salvare qualcuno che era stato buono con lei, ha pagato per i suoi peccati passati sacrificandosi per loro. Anche la reazione di Misty ha dimostrato la sua devozione verso Natalie. È possibile che fosse stata così affascinata e ossessionata da lei per tutto questo tempo perché Natalie era la sua leader.

Dove Taissa e Van hanno mandato Lottie adulta (verrà mandata via?)

Lottie è stata mandata in una struttura di salute mentale conosciuta come Whitmore alla fine della seconda stagione di Yellowjackets a causa della sua convinzione irrefrenabile che l’entità della natura selvaggia fosse tornata e volesse uno dei sopravvissuti. Il resto dei sopravvissuti adulti non ha preso troppo bene il piano di Lottie con il fenobarbital ed era comprensibilmente preoccupato per la sua salute mentale quando ha voluto ripetere il rituale cannibalistico sacrificale di Yellowjackets. Lottie ha orchestrato la caccia, che ha portato i sopravvissuti a chiamare una squadra di crisi per portarla via, ma era ormai troppo tardi. Lottie trascorrerà molto probabilmente la terza stagione di Yellowjackets in un istituto psichiatrico.

Taissa ha promesso che lei e il resto dei sopravvissuti avrebbero fatto visita a Lottie al Whitmore. Tuttavia, Lottie è rimasta convinta che il sacrificio di Natalie abbia nutrito la natura selvaggia e che tutti ne vedranno i risultati positivi. L’episodio 9 della seconda stagione di Yellowjackets ha chiarito che i sopravvissuti, Van in particolare, si sentono in colpa per il deterioramento dello stato mentale di Lottie. I flashback alla linea temporale del 1996, comprese le coerciioni di Misty, la storia di Van sulla natura selvaggia e il fatto che Lottie non abbia mai voluto che il rituale fosse istituito, indicano che le ragazze hanno contribuito a rendere possibile la psicosi di Lottie e il suo crollo finale da adulta.

Perché il coach Ben ha dato fuoco alla capanna dei sopravvissuti

Gli ultimi momenti della seconda stagione di Yellowjackets hanno visto le ragazze fuggire mentre la loro casa nella natura selvaggia bruciava completamente, e solo una persona non era con loro: Ben. Ben ha dato fuoco alla capanna perché era terrorizzato da ciò che era diventata la squadra e le vedeva come mostri privati della loro umanità. La sanità mentale del coach Ben era andata scemendo come quella del resto del gruppo. Tuttavia, aveva chiarito fin dall’inizio che non avrebbe oltrepassato il limite del cannibalismo e vedeva in Natalie un’anima gemella. Purtroppo, Natalie ha respinto i suoi tentativi di nascondersi con lui nella grotta di Javi per il resto dell’inverno.

Dopo aver assistito alla dissezione del cadavere di Javi, aver capito che l’unica persona con cui aveva trovato un’affinità era passata al lato oscuro, aver rivissuto in visioni tormentate la vita che avrebbe potuto avere e aver visto che la squadra ora si stava sacrificando a vicenda, Ben ne aveva finalmente avuto abbastanza. Credeva che la squadra fosse ormai troppo lontana per ragionare e fermare lo spargimento di sangue, e che fosse diventata una setta cannibale in grado di compiere atti di estrema violenza. Per la sua sicurezza, ha deciso di bruciare la capanna per impedire che la follia continuasse e presumibilmente si nasconde nella caverna di Javi.

Il vero significato del finale della seconda stagione di Yellowjackets

Yellowjackets, stagione 2, episodio 9, è intriso di un significato molto più profondo rispetto alle paure in superficie, sebbene sia anche uno show horror efficace nella sua semplicità. Il finale della seconda stagione di Yellowjackets è stato una sorta di punto di svolta per i personaggi, poiché non solo ha risposto alle domande, ma ha anche sollevato ulteriori misteri per il futuro. Ma soprattutto, il finale ha dimostrato che c’è qualcosa di speciale nei giovani sopravvissuti, qualcosa che continua a perseguitarli nel presente. Se Yellowjackets ha rivelato qualcosa di sé, è che quasi nulla è come sembra.

Come il finale della seconda stagione di Yellowjackets prepara la terza

Il finale della seconda stagione di Yellowjackets ha preparato il terreno per numerosi filoni narrativi per la terza stagione e una serie di nuovi misteri. Innanzitutto, i sopravvissuti adulti dovranno affrontare le conseguenze del sacrificio e della morte di Natalie. Misty sembrava inconsolabile per il suo ruolo nella vicenda e, anche se la terza stagione dovrebbe vederla coinvolta in una relazione romantica con Walter, dovrà lottare con qualcosa che non ha mai provato prima: il senso di colpa. La terza stagione vedrà anche Natalie nel passato come nuova leader del gruppo e la sua discesa verso il diventare la Yellowjackets‘ Antler Queen. Il finale ha lasciato intendere che Shauna è gelosa del fatto che Natalie sia diventata la leader, quindi questo sicuramente entrerà in gioco.

La setta di Lottie adulta molto probabilmente verrà sciolta ora che lei è in un istituto psichiatrico, e probabilmente riceverà la visita di Taissa, affetta da sonnambulismo.

Il culto dell’adulta Lottie verrà probabilmente sciolto ora che lei è in un istituto psichiatrico, e probabilmente riceverà la visita di Taissa, affetta da sonnambulismo. La terza stagione di Yellowjackets potrebbe finalmente vedere un po’ di pace nella famiglia Sadecki, dato che l’indagine su Adam Martin è stata portata a termine da Walter. Tuttavia, le cose si surriscalderanno notevolmente nel 1996 con l’incendio della baita. I sopravvissuti adolescenti potrebbero scoprire che è stato Ben ad accendere il fiammifero, dato che è l’unico a non essere presente, ma dovranno comunque trovare una nuova casa. Speriamo che non trovino Ben nascosto nel rifugio di Javi, così potrà sopravvivere un altro giorno in Yellowjackets.

Come è stato accolto il finale della seconda stagione di Yellowjackets

Nel complesso, il finale della seconda stagione di Yellowjackets è stato accolto bene. Il nono e ultimo episodio della seconda stagione di Yellowjackets, “Storytelling”, ha attualmente un punteggio di 7,1/10 su IMDb e un punteggio Tomatometer del 70% su Rotten Tomatoes. Tuttavia, il finale della prima stagione ha ottenuto un punteggio di 8,2/10 su IMDb (anche se non ha una valutazione individuale su Tomatometer) e, in generale, il finale della prima stagione di Yellowjackets è considerato superiore. Tuttavia, questo non significa che il finale della seconda stagione di Yellowjackets sia stato brutto, ma semplicemente che la seconda stagione della serie non ha avuto lo stesso impatto della prima.

Questo è stato sottolineato da molti critici nelle loro recensioni, e i paragoni tra il finale della seconda stagione di Yellowjackets e quello della prima si estendono al resto degli episodi in generale. È opinione della maggior parte degli spettatori e dei critici che la prima stagione di Yellowjackets sia stata più coerente. Tuttavia, ci sono stati molti momenti degni di nota nella seconda stagione, specialmente durante il finale, che hanno più che eguagliato il primo capitolo della storia, e questi sono stati sottolineati in molte recensioni. Ad esempio, Esther Zuckerman del New York Times scrive:

La seconda stagione di “Yellowjackets” è stata discontinua, cosa non insolita per una serie di successo che cerca di trovare il proprio equilibrio dopo un primo giro sensazionale. Ma ci sono stati frequenti momenti di trascendenza. L’addio alla Natalie adulta è stato uno di questi. È stato tragico e in qualche modo catartico e sarà difficile da dimenticare man mano che la serie andrà avanti.

Tuttavia, mentre molti critici non sono riusciti a superare l’incoerenza della seconda stagione rispetto alla prima, altri hanno avuto solo parole di elogio per “Storytelling”. In particolare, sono stati elogiati il modo abile con cui il finale della seconda stagione di Yellowjackets ha sovvertito le aspettative degli spettatori e riposizionato molte delle “verità” su cui i fan avevano fatto affidamento fino all’arrivo dell’episodio 9 del secondo capitolo. A riassumere incredibilmente bene questa prospettiva è Hattie Lindert di AV Club, che scrive:

Una lezione magistrale sia nel sovvertire la propria etica che nel coltivare i semi di una nuova stagione, il finale della seconda stagione di Yellowjackets prende le rivelazioni limitate che la stagione ha costruito e le ricontestualizza ancora una volta, ricordando ai sopravvissuti (e di conseguenza al pubblico) che la verità della loro esperienza – ciò che era reale e ciò che non lo era, e ciò che è rimasto reale nel tempo – è malleabile quanto la loro bussola morale. Ciò che è sempre stato più importante, sia nel proteggersi dalla polizia da adulti che nel giustificare le loro azioni da bambini, è la storia che hanno scelto di raccontare, una storia di selvaggio che hanno scolpito con sangue, sudore, lacrime e merda.

Quindi, il finale della seconda stagione di Yellowjackets è stato all’altezza di quello della prima? Probabilmente no. Tuttavia, è stato comunque un finale incredibilmente solido per la serie, e ha funzionato più che bene per creare l’hype e lo slancio necessari per l’attesissima terza stagione di Yellowjackets.

 
 

Le donne al balcone – The Balconettes: recensione del film di e con Noémie Merlant

Le donne al balcone – The Balconettes di Noémie Merlant non è solo un film, è un affascinante viaggio attraverso un racconto femminista stratificato e punk, che sa essere tanto divertente quanto provocatorio. Presentato a Cannes 77 con il titolo originale Les Femmes au Balcon, questo film esplora la vita di tre donne – Nicole, Ruby ed Elisa – legate da una profonda amicizia e da un’intensa ribellione contro i dogmi della società patriarcale, il tutto ambientato in un appartamento e un balcone condiviso nel caldo di Marsiglia.

La dichiarazione di intenti di Le donne al balcone – The Balconettes

Fin dall’inizio, Merlant ci introduce in un’atmosfera sospesa e surreale, grazie a un piano sequenza che spazia tra due palazzi. La macchina da presa sembra fluttuare, stabilendo una distanza tra il pubblico e la storia, come se fossimo anche noi osservatori dietro una finestra, abbracciando così il più classico dei contesti voyeuristi e impiantandoci sopra il suo racconto. In questo primo momento vediamo una donna, riversa a terra e coperta di lividi, incalzata da un marito che la accusa di essere “esageratamente drammatica.” La scena, che mescola dramma e sarcasmo, offre una chiave di lettura per comprendere la portata del film: un’opera che sfida le convenzioni, trascendendo i generi e mescolando commedia, thriller, e un femminismo mai didascalico. Questa scena fondamentale, un cortometraggio dentro al film: una specie di riassunto di quello che la storia vuole significare e di quello che racconterà.

Le protagoniste di Le donne al balcone – The Balconettes

Al centro della storia ci sono Nicole (Sanda Codreanu), Ruby (Souheila Yacoub) ed Elisa (Noémie Merlant). Ognuna di queste donne ha una storia unica: Nicole è una scrittrice che prova a tratte ispirazione dalla vita delle sue amiche, sempre più divertente e sfrenata della sua; Ruby è una cam girl fiera della propria sessualità, esibizionista almeno quanto Nicole è pudica; Elise invece è un’attrice che cerca di sfuggire da un innamorato opprimente, sembra svampita, ma trova il suo ancoraggio alla realtà grazie alle sue coinquiline. Insieme, condividono momenti di complicità e confidenze, esplorando una libertà autentica e quasi sfacciata, che include un’esposizione del corpo sincera, svincolata da giudizi.

Merlant dimostra una grande padronanza del mezzo cinematografico, mostrando una disinvoltura sorprendente per una regista al suo secondo lungometraggio. La narrazione sembra muoversi disordinata, riflettendo però un caos ben calibrato che rispecchia la vitalità e la libertà delle tre protagoniste. E infatti nulla è lasciato al caso: la scrittura coadiuvata da Céline Sciamma e il montaggio di Julien Lacheray conferiscono alla trama una coerenza interna che esplode solo alla fine, lasciando lo spettatore in una sorta di estasi visiva e narrativa.

Una delle grandi trovate di Le donne al balcone – The Balconettes è il modo in cui affronta la questione della mascolinità tossica senza mai scivolare nella retorica. L’aitante vicino di casa (interpretato da Lucas Bravo), ad esempio, inizialmente oggetto dei sogni di Nicole, si rivela poi un predatore mascherato da principe azzurro. La svolta narrativa è feroce e geniale: un incontro apparentemente innocente si trasforma in una lotta disperata, e le tre protagoniste devono difendersi dalla violenza inaspettata, optando per un’autodifesa radicale e liberatoria. La loro “vendetta” non è solo una reazione istintiva, ma anche un simbolo di una ribellione.

La mescolanza di generi

La commistione di generi è una caratteristica distintiva di questo film: da commedia grottesca e horror leggero si passa a un thriller crudo e spietato, fino a un gore che strizza l’occhio a Tarantino, pur rimanendo sempre vitale e libero, come il primo cinema di Almodovar. Merlant evira il corpo maschio della storia per affermare la femminilità come unica forza vitale, e nonostante questo è sempre ironica e leggera, non perde mai di vista il fuoco del suo racconto. Questo rende Le donne al balcone – The Balconettes un’esperienza visivamente affascinante e emotivamente coinvolgente. La violenza viene messa in scena in modo iperbolico, ma il vero nucleo del film è la ferita invisibile che la violenza infligge all’animo femminile.

La fiera esposizione del corpo femminile

Merlant si dimostra non solo una regista di talento, ma una narratrice coraggiosa, pronta a infrangere le convenzioni e a esplorare i confini della rappresentazione cinematografica del femminile. In questo film, i corpi delle protagoniste non sono mai oggetto di sguardi esterni/giudicanti; sono corpi che si espongono con fierezza, rivendicando il diritto di esistere senza compromessi. Le donne al balcone – The Balconettes non è solo un film che parla di emancipazione femminile: è un atto di insurrezione, un’opera che si rivolge allo spettatore con uno spirito di sorellanza feroce e libera.

 
 

Lee Miller: recensione del film con Kate Winslet

Il 13 marzo arriva nelle sale Lee Milleril film dedicato alla straordinaria fotografa americana interpretata da Kate Winslet, qui anche in veste di produttrice. Per la sua performance intensa e coinvolgente, l’attrice ha ottenuto una candidatura ai Golden Globes come Miglior Attrice drammatica (il premio è andato poi a Fernanda Torres). Diretto da Ellen Kuras, alla sua prima regia cinematografica dopo una lunga carriera come direttrice della fotografia, il film trae ispirazione dall’opera Le molte vite di Lee Miller di Antony Penrose, figlio della fotografa e del surrealista Roland Penrose.

Il film ripercorre la vita di Miller, una donna che ha rifiutato ogni etichetta: da modella di successo a fotografa d’avanguardia, fino a diventare corrispondente di guerra per Vogue durante la Seconda Guerra Mondiale. Unica fotografa donna a documentare la liberazione dei campi di concentramento di Dachau e Buchenwald, ha lasciato un segno indelebile nella storia con le sue immagini di straordinaria potenza. Intorno a Winslet, ruota un cast di supporto che vanta nomi del calibro di Alexander SkarsgårdMarion CotillardAndrea RiseboroughJosh O’ConnorNoémie Merlant ma anche Andy Samberg alla sua prima performance drammatica (molto riuscita).

La trama di Lee Miller

La narrazione inizia nel 1977 con un’intervista tra Lee e un giovane giornalista (Josh O’Connor), che desidera conoscere la verità dietro le sue fotografie. O almeno è quello che sembra all’inizio del film. Questo espediente narrativo introduce la lunga retrospettiva sulla vita della Miller, dal suo lavoro come modella e artista surrealista fino alla sua esperienza sul fronte di guerra. Tuttavia, il film fatica a mantenere un equilibrio tra il ritratto intimo della protagonista e la sua carriera professionale, risultando a tratti distaccato. Il finale si apre all’emozionante rivelazione della vera identità di quel giornalista, offrendo un interessante omaggio a quello che è veramente successo dopo la morte di Lee, tuttavia è troppo tardi per sentire anche il pur minimo gancio emotivo con i protagonisti.

Kate Winslet regala una delle sue interpretazioni più intense, riuscendo a restituire la determinazione e il coraggio di Miller. Tuttavia, la sceneggiatura non offre un ritratto completamente sfaccettato del personaggio e il film si concentra più sul suo lavoro come fotografa di guerra, lasciando in secondo piano la sua vita personale e le sue fragilità. Le relazioni con il partner Roland Penrose (Alexander Skarsgård), l’amicizia con David Scherman (Andy Samberg) e il rapporto con la direttrice di Vogue Audrey Withers (Andrea Riseborough) vengono accennate senza un vero approfondimento, facendo sì che molti personaggi appaiano come semplici comparse o sponde su cui Lee rimbalza.

Regia realistica e fotografia desaturata

Dal punto di vista registico, Kuras adotta un approccio visivo potente, sfruttando il contrasto cromatico tra il mondo vibrante e saturo del pre-guerra e le tonalità spente e cupe del periodo bellico. La scelta di integrare le fotografie reali di Miller nel film conferisce autenticità alla narrazione, restituendo con forza il peso delle immagini chela donna ha catturato e consegnato alla Storia.

Uno degli aspetti più riusciti del film è la capacità di mostrare la Miller come una testimone della storia, capace di cogliere dettagli che i suoi colleghi uomini spesso trascuravano. La sua sensibilità nel ritrarre la sofferenza e l’umanità dietro il conflitto è un elemento centrale del film, ben interpretato da Winslet. Tuttavia, il film manca di quel pathos che avrebbe potuto renderlo memorabile, risultando a tratti troppo schematico, un biopic che non sfrutta le potenzialità del materiale originale.

Un biopic innocuo anche se visivamente affascinante

Nel complesso, Lee Miller è un’opera visivamente affascinante e impreziosita da una grande interpretazione di Kate Winslet, ma che non riesce a scavare a fondo nella complessità della sua protagonista risultando quindi innocuo. Il film si limita a raccontare la sua carriera senza esplorare appieno le sue contraddizioni e le sue battaglie interiori, rendendo il racconto più informativo che emozionale.

 
 

Seven: la spiegazione del finale del film di David Fincher

Seven film

Quando si pensa al genere del thriller contemporaneo, uno dei primi nomi che vengono in mente è certamente quello di David Fincher. Oggi conosciuto per opere di grande prestigio come The Social Network e Il curioso caso di Benjamin Button, questi diede vita nel 1995 a quello che è ancora oggi considerato uno dei thriller per eccellenza. Si tratta di Seven, film che ha contribuito a riscrivere le regole del genere, gettando la base per numerose opere simili realizzate in seguito. Pur avendo una classica storia con uno psicopatico serial killer, un maligno gioco da questi orchestrato, e due detective a seguirne le tracce, il film presenta così tante originalità da essersi affermato da subito al di sopra della media.

L’idea nasce dall’esperienza di Andrew Kevin Walker, il quale agli inizi degli anni Novanta stava cercando di affermarsi come sceneggiatore a New York. Qui si imbatté nello squallore dei vizi capitali, decidendo così di costruire una storia a partire da questi. Il progetto venne poi proposto dalla New Line Cinema a Fincher, il quale era reduce dalla terribile esperienza di Alien³. Il regista vide in Seven la possibilità di realizzare un film più piccolo, attraverso il quale riscoprire la propria passione per quel mestiere. Attratto dall’intreccio, egli decise così da subito di iniziarne la lavorazione, componendo un cast di grandi attori.

Una volta arrivato in sala, il film si affermò come un successo assoluto. A fronte di un budget di soli 33 milioni di dollari, arrivò ad incassarne circa 327 in tutto il mondo. In Italia si classificò al quarto posto tra i film più visti della stagione cinematografica 1995/96. Seven fu un successo anche di critica, la quale elogiò l’atmosfera cupa e violenta, la sceneggiatura e le interpretazioni dei protagonisti. Particolarmente apprezzato, infine, fu anche il macabro finale. Tutto ciò, insieme anche a numerosi premi vinti, portò il film ad affermarsi come un cult, segnando un vero e proprio momento di transizione all’interno del genere thriller. Dopo Seven, questo non sarebbe più stato lo stesso di prima.

Seven cast

La trama di Seven

Protagonista del film è il detective William Somerset, saggio e anziano, egli si ritrova ora a vivere una profonda disillusione nei confronti di un mondo sempre più violento e degradato. Ad una settimana dalla pensione, si ritrova poi affiancato dal giovane e impulsivo agente David Mills, il quale prenderà poi il suo posto. Somerset inizia così ad insegnare al giovane i trucchi del mestiere, anche se date le differenze caratteriali tra i due non scorre da subito buon sangue. I due si ritrovano però improvvisamente ad indagare su un particolare omicidio. Un obeso è infatti stato costretto a mangiare fino a morire. A tale episodio segue quello di un avvocato corrotto orrendamente mutilato. Sul cadavere di questo i due agenti ritrovano scritta la parola “avarizia”.

Somerset e Mills sospettano che dietro tali omicidi vi sia un unico serial killer, e che quanto da lui compiuto sia connesso da uno strano rapporto. Ben presto, con il susseguirsi di ulteriori omicidi, i due capiranno di trovarsi di fronte ad un pazzo che punisce con la morte persone colpevoli dei sette vizi capitali. Mentre cercano di prevedere le prossime mosse di questo, Somerset e Mills stringono una buona amicizia, e quest’ultimo arriva a presentare al collega la bella moglie Tracy. Nel momento in cui il killer farà però capire loro di sapere chi sono, la vita dei due agenti e di quanti a loro cari finirà con l’essere in pericolo.

Il cast del film

Il film ha come protagonista nei panni del detective Somerset il premio Oscar Morgan Freeman. Il giovane Mills è invece interpretato da Brad Pitt, qui alla sua prima collaborazione con Fincher. L’attore accettò il ruolo desideroso di togliersi di dosso l’etichetta da “sex symbol” ed evidenziò così gli aspetti meno affascinanti del personaggio. Nei panni di Tracy, moglie di Mills, vi è invece la premio Oscar Gwyneth Paltrow. Inizialmente non interessata, su consiglio di Pitt, all’epoca suo compagnò, decise infine di accettare. L’attore Kevin Spacey, infine, è Jon Doe, il killer della storia. Per mantenere un’aura di mistero a riguardo, egli chiese che il proprio nome non venisse pubblicizzato, così da far diventare una vera e propria sorpresa il suo ingresso in scena.

La spiegazione del finale del film

Il finale di Seven è ormai uno dei più noti e scioccanti di sempre. È la perfetta conclusione di una storia cupa e senza apparente speranza. Proprio per via della sua grande drammaticità, i produttori del film non volevano che fosse questo il finale, e decisero dunque di cambiarlo. Fincher, però, si oppose fermamente a tale decisione e dalla sua parte si schierò anche Pitt, il quale si rifiutò di recitare nel film se il finale non fosse stato quello con la celebre scatola. Alla fine, i produttori dovettero cedere alle pressioni, permettendo così di realizzare un finale che ha poi effettivamente contribuito alla fama del film. Con questo, viene definitvamente alla luce il piano di Joe Doe, il quale sta sostanzialmente conducendo un gioco con il detective Mills, all’insaputa di quest’ultimo.

Seven film

Sia Doe che Mills fanno infatti parte dei sette peccati capitali e l’assassino è pronto a dimostrarlo facendo sì che Mills getti via la sua maschera da persona per bene per soccombere al rabbia, uccidendo Doe. Così facendo, fa però il suo gioco, dimostrando dunque che non sembra esserci via di fuga dai sette peccati capitali. Nonostante ciò, il detective Sommerset chiude il film con quella che è divenuta una delle più grandi battute finali della storia del cinema: “Ernest Hemingway una volta scrisse: ‘Il mondo è un bel posto e vale la pena di lottare per esso’. Sono d’accordo con la seconda parte”. Questa citazione finale evidenzia in realtà un cambiamento significativo anche in Somerset.

Unita al fatto che egli assicura al suo capitano che “resterà in giro”, dimostra innanzitutto che non intende più ritirarsi come aveva fatto in precedenza. Ma è importante soprattutto perché dimostra ulteriormente che le azioni di John Doe hanno avuto l’effetto desiderato sui suoi avversari. Non solo è riuscito a manipolare Mills, ma ha anche scosso Somerset dalla sua stessa apatia, costringendo il detective più anziano a rivalutare la sua scelta di ritirarsi. I momenti finali di Seven sono lasciati relativamente aperti all’interpretazione, ma la citazione di Hemingway implica che Somerset ha deciso di combattere per il mondo, anche se non lo ritiene un bel posto. Anzi, forse è proprio nel tentativo di farcelo diventare che bisogna lottare con più forza.

Il finale di Seven è dunque particolarmente interessante perché non solo permette al suo cattivo di vincere, ma sembra giustificare alcune delle sue azioni nel processo. Manipolando il detective Mills affinché lo uccida e portando a compimento il suo piano, John Doe vince e dimostra che nessuno, anche la persona più ammirevole, è al di sopra del peccato. Ciò è ulteriormente dimostrato dalla decisione di Somerset di non ritirarsi, in quanto è sconvolto dalla sua apatia, a cui si fa riferimento in una scena precedente in cui discute con Mills le sue ragioni per ritirarsi. Questo dipinge John Doe come un personaggio “nel giusto”, poiché il finale convalida le sue intenzioni.

Il finale, inoltre, vede i sette peccati rappresentati in modo appropriato e consolida l’ambientazione del film come un luogo simile al purgatorio, con Somerset che rimane come detective per continuare a lottare contro il male che John Doe incarna. Per tutto il film, Mills è considerato il successore di Somerset e il fatto che Doe prenda di mira il giovane detective sembra essere un modo per costringere Somerset a fare un bilancio di se stesso. In realtà Somerset rappresenta l’ultimo (e ottavo) “peccato” di Se7en: l’apatia. Il piano di John Doe vede quindi Somerset continuare a svolgere il suo ruolo di detective, intrappolandolo di fatto nel purgatorio e rendendolo una vittima finale del film.

LEGGI ANCHE: David Fincher rivela cosa c’era davvero nella scatola di Seven

Il trailer del film e dove vederlo in streaming e in TV

Per gli appassionati del film è possibile fruire di questo grazie alla sua presenza su alcune delle più popolari piattaforme streaming presenti oggi in rete. Seven è infatti disponibile nel catalogo di Infinity+ e Amazon Prime Video. Per vederlo, basterà sottoscrivere un abbonamento generale, avendo così modo di guardare il titolo in totale comodità e al meglio della qualità video. Il film sarà inoltre trasmesso in televisione il giorno sabato 8 marzo alle ore 21:00 sul canale Iris.

 
 

Holy Spider: la spiegazione del finale del film

Holy Spider storia vera
Zar Amir Ebrahimi in Holy Spider.

Diretto da Ali Abbasi (regista anche di Border – Creature di confine e del recente The Apprentice), Holy Spider è un film in lingua persiana che presenta una ricostruzione fittizia di eventi reali accaduti a Mashhad, in Iran. Nell’arco di circa undici mesi, nel 2000-2001, un uomo di nome Saeed Hanaei ha adescato e ucciso sedici donne che lavoravano come lavoratrici del sesso e piccole spacciatrici di droga nelle strade della città. Il regista Abbasi ha detto chiaramente che la sua intenzione con questo film non era solo quella di raccontare la macabra storia del serial killer, ma di concentrarsi maggiormente sulla misoginia che esisteva, e esiste ancora, nella società iraniana.

Abbasi era infatti principalmente interessato ad approfondire la storia di questo serial killer e il fatto che per buona parte della popolazione fosse diventato un eroe, offrendo così anche un ritratto inedito della condizione femminile in Iran. Ciò è evidente in tutto il film, poiché Holy Spider si assicura di includere il fanatismo religioso e il sostegno sessista a un assassino lungo tutta la narrazione. Nel complesso, si tratta di un’ottima esperienza di visione, con immagini e momenti lodevoli che si dipanano con precisione. Il suo finale, inoltre, risulta l’apice di un racconto particolarmente scioccante, tanto da richiedere una spiegazione generale.

La trama e di Holy Spider

Ambientato in Iran nel 2001, il film racconta la storia di un uomo di nome Saeed, un padre di famiglia alle prese con la propria ricerca religiosa. Saeed è intenzionato a compiere una sacra missione: purificare la città santa di Mashhad, sradicando del tutto la prostituzione, simbolo di immoralità e corruzione. Il modo che sceglie per portare a termine questa impresa è l’eliminazione fisica delle donne. Dopo l’ennesima vittima, una giornalista di Teheran, Arezoo Rahimi, giunge in città per indagare sullo spietato serial killer, rendendosi conto che le autorità locali non sembrano avere fretta di trovare il colpevole. Si scontra infatti con pregiudizi sessisti ed una polizia apatica e potrà contare solo sul reporter locale Sharifi.

Holy Spider trama film
Mehdi Bajestani in Holy Spider.

La spiegazione del finale: come fa Arezoo a scoprire l’identità dell’assassino?

La lotta di Arezoo Rahemi per scoprire di più sul serial killer e gli ostacoli che deve affrontare riassumono la posizione di una donna nella società dei primi anni 2000. L’unica ragione per cui potrebbe non assomigliare esattamente al presente è che il presente è ancora peggiore. Senza entrare nello specifico, la società e la cultura che Abbasi presenta in Holy Spider, in piena somiglianza con la realtà, sono estremamente dure nei confronti delle donne. Nella primissima scena di Arezoo, dopo essere scesa da un autobus che l’ha portata a Mashhad, la donna fa il check-in in un hotel dove ha prenotato una stanza. Tuttavia, l’impiegato dell’hotel non è disposto a farla entrare perché è una donna single e non sposata, sottintendendo che una donna senza una figura maschile di riferimento non dovrebbe stare fuori casa.

All’inizio Arezoo non vuole ostentare i suoi diritti, ovviamente, perché le viene negato un servizio di base, ma quando la situazione le sfugge di mano, mostra all’impiegato il suo tesserino da giornalista. Il fatto che sia una giornalista costringe l’impiegato a cambiare la sua decisione, ma fa subito notare che Arezoo dovrebbe coprire di più i capelli e la testa con il suo foulard. Questo comportamento categorico e sessista è qualcosa che Arezoo, purtroppo, affronta per tutto il film e diventa parte del suo personaggio in senso positivo. L’unico contatto che sembra avere a Mashhad per iniziare il suo lavoro è un uomo di nome Sharifi, che lavora come direttore editoriale della sezione penale del giornale locale.

Sharifi è perlopiù contenuto e ben educato con Arezoo, ad eccezione dell’unica volta in cui ricorda di aver sentito parlare del licenziamento di Arezoo da un lavoro a Teheran. Anche se Sharifi non sembra avere intenzioni sbagliate nel parlarne, il modo in cui lo presenta irrita Arezoo, perché anche questa storia è carica di ingiusto sessismo. Il capo di Arezoo nel suo precedente posto di lavoro voleva avere una relazione sentimentale con lei e, quando lei ha negato il suo approccio, la donna è stata licenziata. Non solo Arezoo ha perso il lavoro, ma il capo ha anche diffuso la falsa notizia che il licenziamento era dovuto al fatto che lei aveva avuto una relazione sentimentale con lui, il che è contrario alle regole del posto di lavoro.

La giornalista cerca ora di mettere da parte tutto questo e di concentrarsi sul suo lavoro, ma si trova di nuovo di fronte a un comportamento simile quando incontra l’ufficiale di polizia che si occupa del caso. L’agente, un uomo orgoglioso del suo lavoro e della sua statura, a un certo punto chiede ad Arezoo di uscire e ha una reazione inappropriata e al limite dell’abuso quando lei lo rifiuta. Nella sua ricerca del serial killer, Arezoo è quindi spinta da una preoccupazione simile a quella di tutte le donne di questa società, perché sa che probabilmente a nessun altro interesserà molto di quest’uomo in preda a una furia omicida. È importante notare che, sebbene Holy Spider sia basato su eventi e personaggi reali, il personaggio di Arezoo è in realtà completamente inventato, ed è un’aggiunta creativa di Abbasi.

Va anche detto che questa aggiunta è semplicemente meravigliosa, ed è Arezoo a rendere il film ancora più stratificato e degno di nota. La giornalista inizia a studiare il carattere di questo assassino attraverso le telefonate che egli fa a Sharifi dopo ogni suo omicidio, vantandosi di informare lui e il mondo su dove trovare il corpo della sua ultima vittima. L’autrice si concentra sui fili comuni che legano tutti i crimini: tutte le donne erano lavoratrici del sesso e la maggior parte di loro erano anche spacciatrici e abusatrici di droga, oltre al fatto che tutte sono state strangolate con le loro stesse sciarpe. Arezoo e Sharifi capiscono dunque che si tratta di una questione religiosa.

Holy Spider cast
Forouzan Jamshidnejad in Holy Spider.

Per questo Sharifi era stato cauto nel riferire la notizia, perché i suoi superiori gli avevano ordinato di non mettere in cattiva luce i crimini religiosi. Dopo numerosi omicidi da parte dell’assassino, però, Arezoo e Sharifi vanno a incontrare uno dei leader religiosi, chiedendogli di aiutarli a scoprire l’assassino. Con grande sorpresa, il leader concede loro i suoi migliori auguri e il suo sostegno, ma è anche diretto nel dire che non si fida di Arezoo per denunciare i crimini nel modo esatto in cui sono stati commessi. All’epoca, c’erano pressioni politiche su questi leader per non tollerare tali crimini contro la legge, ma anche la pressione sociale di essere moralisti non ha mai lasciato la scena.

Successivamente, Arezoo decide di incontrare le donne che si prostituiscono per strada ogni notte, ma nessuna di loro è disposta a parlare con lei. Aiuta poi una donna di nome Soghra quando questa è malata in un caffè e all’inizio fa amicizia con lei, ma le domande sulla droga e sull’assassino la allontanano immediatamente. Nel giro di pochi giorni, però, Soghra viene ritrovata cadavere, ultima vittima dell’a. Questo non solo commuove Arezoo oltremisura ma le dimostra che ha cercato nel posto giusto. Avendo ormai oltrepassato tutti i limiti e rendendosi conto che, sebbene tutti le assicurino di aver trovato l’assassino ma che nessuno ha realmente intenzione di farlo, Arezoo decide di prendere in mano la situazione.

Si finge una prostituta per strada per farsi prendere dall’assassino, ed è proprio quello che succede. Ma una volta entrata nella casa dell’assassino, Arezoo non demorde e riesce in qualche modo a fuggire. È la sua denuncia alla polizia, il giorno seguente, a far arrestare Saeed, perché è l’unica donna sopravvissuta alla presa dell’assassino. Negli ultimi minuti del film, l’attenzione si concentra sul se Saeed sarà punito dalla legge o meno. All’epoca tutti sapevano che l’arresto dell’assassino era avvenuto solo perché c’erano pressioni politiche dovute alle imminenti elezioni. Tuttavia, c’era anche la convinzione generale, sostenuta fino alla fine anche da Arezoo, che Saeed sarebbe stato lasciato fuggire o tenuto al sicuro.

L’avvocato difensore dell’uomo vuole presentare Saeed in tribunale come affetto da problemi di salute mentale, ma Saeed si rifiuta di accettarlo. In modo piuttosto drammatico, dice a tutti in tribunale che aveva il pieno controllo delle sue azioni e che la sua unica follia era l’amore per Dio e per l’Imam Reza. Nelle sue conversazioni private, Saeed afferma di essere consapevole di quante persone nella società lo ammirino e di non volerle deludere dichiarando di essere un pazzo. È chiaro che Saeed stesso crede di fare la cosa giusta perché è spronato da una società che glielo faceva credere. Così, quando il suo migliore amico Haji lo va a trovare in carcere dopo l’udienza della sentenza definitiva e gli dice che è in atto un grande piano per farlo evadere prima della pena di morte, Saeed si sente immensamente sollevato.

L’uomo è estremamente spaventato dalla morte, ma è spronato alle sue azioni solo dalla religione e dalla società. Alla fine, però, questo grande piano non viene portato a termine e Saeed Azeemi viene impiccato. Il motivo esatto di questo cambiamento di piani o della falsa promessa di Haji non viene chiarito, ma sembra che sia stata Arezoo a garantire che l’uomo fosse consegnato alla giustizia. Dopo aver concluso il suo lavoro a Mashhad, Arezoo Rahimi sale su un autobus diretto a Teheran e, durante il tragitto, guarda l’intervista che aveva fatto al figlio di Saeed, Ali, in cui il ragazzo esprime il suo orgoglio per le azioni del padre. Holy Spider si conclude con la triste constatazione che numerosi altri Saeed sono spuntati nella società, spinti da cieche convinzioni e dal fanatismo religioso.

 
 

Beauty in Black – Parte 2, la spiegazione del finale: Horace e Kimmie si sposeranno davvero?

Beauty in Black - Parte 2

Beauty in Black ha pubblicato il resto della sua prima stagione e il finale della seconda parte ha portato alcune delle rivelazioni più sconvolgenti della serie drammatica di Tyler Perry. Beauty in Black parte 1 si è conclusa con un finale scioccante: Horace ha sventato un furto nella sua casa, Rain è finita in ospedale con un destino incerto e la sorella minore di Kimmie, Sylvie, è stata rapita. La seconda parte riprende proprio da questo finale sospeso, con Kimmie che intraprende una guerra senza quartiere per trovare Sylvie e farla pagare ai suoi rapitori (naturalmente, facendosi molti nemici pericolosi lungo il percorso).

Nei primi otto episodi, Beauty in Black ha lasciato molte domande senza risposta che saranno esplorate nei prossimi otto. La seconda parte della prima stagione di Beauty in Blackè uscita su Netflix il 6 marzo e si tuffa a capofitto in quelle domande. Si arriva a un finale emozionante, l’episodio 16, “Now Make It Thunder”, in cui un Horace malato fa un’ultima mossa di potere contro la sua famiglia doppia. Kimmie riceve una proposta inaspettata, Olivia fa una mossa spietata contro Lena e il palcoscenico è pronto per una seconda stagione emozionante.

Perché Horace vuole sposare Kimmie nel finale di Beauty in Black – Parte 2

Horace non vuole che i suoi figli ereditino i suoi soldi

All’inizio del finale di Beauty in Black – Parte 2, Kimmie va a trovare Horace in ospedale, dove lui le dice che sta morendo e che vuole sposarla. Ma non vuole sposarla perché è innamorato di lei o perché non vuole morire da solo; ha un motivo molto più pratico. Quando morirà, Horace vuole assicurarsi che la sua fortuna guadagnata con fatica non vada ai suoi figli fannulloni – che sono “fottuti perdenti”, secondo le sue parole – e l’unico modo per farlo è sposarsi.

Beauty in Black è la prima serie drammatica di Tyler Perry per Netflix.

Horace è impegnato in un’intensa lotta finanziaria con la sua famiglia e non vuole perdere, nemmeno con la morte. È disposto a sposare una quasi sconosciuta per tenere i suoi soldi lontani dalle loro mani. Kimmie non accetta di sposare Horace a meno che lui non le spieghi perché odia così tanto i suoi figli, e lui le dice che non hanno mai lavorato un giorno in vita loro, quindi non pensa che meritino di diventare ricchi per caso. Kimmie chiede di quanto denaro si tratta e Horace risponde in modo criptico: “Abbastanza perché tu non debba più lavorare in vita tua”.

Perché Kimmie accetta davvero la proposta di Horace

Kimmie non accetta subito la proposta di Horace, ma ci pensa su per qualche minuto, prima di accettare di sposarlo. Quando racconta della proposta alla sua amica Rain, Rain cerca subito su Google il patrimonio netto di Horace e scopre che vale ben 376 milioni di dollari. Questo rende sicuramente più allettante l’offerta, dato che Kimmie pensa che sarà più che sufficiente per pagare i suoi debiti e liberarsi delle persone pericolose che la perseguitano. Ma non è l’unico motivo per cui Kimmie accetta di sposare Horace.

Quando Kimmie sposerà Horace, diventerà una Bellarie, che nel mondo di Beauty in Black è come essere una Kennedy o una Vanderbilt.

Quando Kimmie sposerà Horace, diventerà una Bellarie, che nel mondo di Beauty in Black è come essere una Kennedy o una Vanderbilt. Potrà ottenere tutto ciò che desidera semplicemente cambiando il proprio cognome da sposata. Quando un’infermiera entra nella stanza d’ospedale di Sylvie in fondo al corridoio e cerca di cacciarla per trasferirla in un ospedale meno prestigioso, Kimmie le dice che è fidanzata con un Bellarie, e l’infermiera cambia immediatamente atteggiamento e lascia Sylvie nella stanza. Questo matrimonio porterà con sé alcuni vantaggi piacevoli.

Il piano di ricatto di Olivia contro Lena spiegato

Fin dalla prima parte, l’avvocato Lena ha costruito un caso contro l’impero dei prodotti per capelli Bellarie. Nel finale, finalmente consegna alla matriarca Olivia Bellarie un mandato di comparizione per avviare il procedimento giudiziario. Tuttavia, Olivia ricatta rapidamente Lena affinché ritiri il caso. Provoca Lena affinché la schiaffeggi, la filma e minaccia di diffondere il video se lei porta avanti la causa collettiva. Per provocarla, Olivia schiaffeggia Lena ripetutamente, ma dato che Olivia è così potente, l’unico testimone chiude un occhio. Questo è un commento interessante su come lo Stato di diritto non si applichi ai super ricchi.

Perché i Bellarie si oppongono così tanto al matrimonio

Non appena i Bellary vengono a sapere del matrimonio, fanno di tutto per impedirlo. Mallory corre all’ospedale per fare casino, Olivia chiede a Roy e Charles di raggiungerla e Jules si unisce a loro. Horace ha previsto tutto, quindi ha chiesto alla sicurezza dell’ospedale di chiudere il suo reparto e di tenere i Bellary nella hall. Alla fine, i Bellary si coalizzano contro la guardia di sicurezza e la spintonano per entrare nell’ala e vedere Horace. Ma quando arrivano, è troppo tardi: il matrimonio è già stato celebrato.

Ci sono un paio di ragioni per cui i Bellary sono così determinati a impedire a Horace di sposare Kimmie. Per cominciare, non vogliono che il denaro esca dalla famiglia e finisca nelle mani di una persona che non è un Bellarie. Come la maggior parte delle persone ricche, non hanno mai abbastanza e vogliono tenersi ogni singolo centesimo a cui sentono di avere diritto. E soprattutto non vogliono che il denaro vada a Kimmie, una loro nemica di lunga data, che ha causato loro problemi per 16 episodi.

Perché l’avvocato di Horace ha fatto uscire Kimmie dalla sua stanza d’ospedale

Mentre Horace sta sostenendo il test cognitivo necessario per il matrimonio, il suo avvocato porta Kimmie nel corridoio per rispondere a tutte le sue domande. Ma lui inizia subito a comportarsi in modo sospetto. Inventa ogni tipo di scusa per portare Kimmie nella hall, e Kimmie capisce subito il trucco. L’avvocato voleva attirare Kimmie nella hall, dove si trovavano i Bellary, in modo che potessero affrontarla. Ma ciò che rende Kimmie il miglior personaggio di Beauty in Black è che non cade facilmente in trucchi del genere.

Il vero significato del finale di Beauty in Black – Parte 2

Beauty in Black è stata fin dall’inizio una soap opera sul classismo, e il finale mette in evidenza la banalità della divisione di classe. Esplora l’idea che alcune persone che lavorano duramente, come Kimmie, passano la vita sommerse dai debiti, mentre altre che non hanno mai mosso un dito, come i figli di Horace, sono nate in famiglie benestanti e possono godersi lussi che non si sono guadagnate. Il finale tocca il tema del “non puoi portarlo con te”, quando Horace, dopo aver accumulato ricchezze per anni, cerca di lasciare la sua fortuna nelle mani giuste alla fine della sua vita.

 
 

La città proibita, recensione del film di Gabriele Mainetti

Gabriele Mainetti torna al cinema con La città proibita, un’opera ambiziosa che mescola generi e suggestioni con la consueta consapevolezza, confermando la sua intenzione di portare avanti un’idea di cinema spettacolare e profondamente radicato nella contemporaneità. Dopo Lo chiamavano Jeeg Robot e Freaks Out, il regista romano ci accompagna in una Roma ibrida, viva, in perenne trasformazione, raccontando una storia di vendetta, amore e riscatto, vibrante di adrenalina.

La trama de La città Proibita

In un villaggio tra le montagne della Cina, due bambine si allenano con il padre che insegna loro delle mosse di kung fu. Molto anni dopo incontriamo Mei, una delle due ormai cresciuta, protagonista di una scena d’azione mozza fiato degna del miglior Bruce Lee, mentre si difende da un gruppo di malavitosi e cerca sua sorella. Sembra di essere in un qualsiasi localaccio di Shanghai, e invece siamo nel coloratissimo all’Esquilino, nel cuore di Roma. Mei incontra Marcello e, involontariamente, il loro destino si lega per quella che sarà l’avventura che cambierà per sempre le loro vite.

Il più grande pregio di la città Proibita è quello di trovare un buon equilibrio tra l’anima romanesca che il regista aveva già raccontato nei suoi film precedenti, così come le persone che vivono ai margini, e la sua grande passione per i film di kung fu e i revenge movie, elemento che costituisce poi il centro action del racconto.

Un equilibrio trai generi non sempre al servizio della storia

Il film ha la grande capacità di passare senza soluzione di continuità dalla commedia al dramma, dal melodramma al film di arti marziali, sempre con grande coerenza e senza mai risultare forzato. La scrittura, firmata da Mainetti stesso insieme a Stefano Bises e Davide Serino, diventa più sincera e lineare, rispetto ai film precedenti, anche se spesso si nota un compiacimento per la bellezza e l’adrenalina di alcune scene che però non servono la storia, sfociando nel risultato opposto di allontanare lo spettatore anziché tenerlo incollato allo schermo.

Le scene di combattimento, curate dal fight coordinator Liang Yang, elevano le scene d’azione a un livello tecnico competitivo con chi questi film li realizza continuamente, anche perché quando si tratta di azione, Mainetti sa il fatto suo: le scene in cui il protagonista è il kung fu sono fluide, creative e perfettamente integrate nella narrazione, anche se talvolta troppo lunghe e compiaciute.

Mei e Marcello protagonisti irresistibili

In questo crogiolo di riferimenti, sfumature e culture, Gabriele Mainetti sceglie due volti memorabili: Enrico Borello e Yaxi Liu, come eroi semi-romantici di questa storia. Lui, visto in molti altri progetti, tra cui Lovely Boy e il recente Familia, sorprende con una dolcezza e un incanto negli occhi che fanno tenerezza al primo sguardo, non si può non fare il tifo per il suo Marcello. Lei, letale e sottile, è stata la controfigura di Liu Yifei nel Mulan in live action della Disney e “mena come un fabbro”. Non solo, il suo viso pulito sono una rappresentazione perfetta della grinta e della dedizione che Mei, il suo personaggio, mette nel perseguimento dei suoi obbiettivi. Due opposti che trovano il modo di incontrarsi e incrociarsi, in mezzo a un inferno che nessuno dei due ha cercato. A completare il cast intervengono Sabrina Ferilli e Marco Giallini.

Ma Roma nei film di Mainetti è sempre protagonista e così da quella multietnica dell’Esquilino a quella da cartolina dei Fori Imperiali, la Città Eterna fa bella mostra di sé, diventando lo scenario perfetto per questa narrazione. L’Esquilino, con le sue bancarelle, i ristoranti cinesi e le trattorie romane, diventa il palcoscenico perfetto per raccontare un mondo in continua evoluzione. E Mainetti non si limita a rappresentare questa realtà, ma la esalta, mostrandone la bellezza e la complessità.

La città proibita non è solo un film d’azione o una storia d’amore: è un manifesto di come Gabriele Mainetti intende il suo cinema. E nel bene e nel male è ormai una cifra stilistica distintiva, con la sua ricchezza di riferimenti ma anche l’autocompiacimento, lo stile impeccabile e la mancanza di umiltà per mettersi al servizio della storia. Il film si impone come uno dei più interessanti delle prossime settimane al cinema, dal 13 marzo in sala con PiperFilm con anteprime l’8 marzo in anteprima.

 
 

L’orto americano: recensione del film di Pupi Avati

Dopo il sincero omaggio a Dante Alighieri e il malinconico La quattordicesima domenica del tempo ordinarioPupi Avati torna a confrontarsi con il genere che ha segnato la sua carriera: l’horror gotico. Con L’orto americano, tratto dall’omonimo romanzo da lui stesso scritto, il regista bolognese confeziona un’opera densa di riferimenti letterari e cinematografici, in bilico tra la memoria storica e il perturbante.

La trama di L’orto americano

La storia segue un giovane aspirante scrittore bolognese (interpretato da Filippo Scotti) che, poco dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, si innamora perdutamente di una giovane infermiera americana incontrata per caso in una bottega di barbiere. Il loro fugace incontro segna l’inizio di un’ossessione amorosa che lo porterà fino in Iowa, dove il protagonista si trasferisce per scrivere il suo romanzo. Lì, accanto alla casa della ragazza, si trova uno strano orto abbandonato, nel quale rinviene una teca di vetro contenente i genitali di una donna e una criptica citazione del poeta greco Bacchilide. Da quel momento, il giovane si troverà invischiato in un inquietante mistero che lo costringerà a fare ritorno in Italia, dove l’orrore troverà la sua compiutezza.

L’orto americano riprende molte delle tematiche care ad Avati: la follia come varco tra il reale e il soprannaturale, la memoria storica come terreno fertile per l’orrore, il gotico padano come cifra stilistica inconfondibile. Il protagonista, segnato da un ricovero in un istituto psichiatrico perché sosteneva di parlare con i defunti, incarna un’umanità fragile e tormentata ma comunque aperta alla meraviglia e al richiamo dello extra-ordinario, anche lui porta d’accesso verso un mondo in cui si può trovare la pace solo nelle “vie di mezzo”, “tra l’acqua dolce del Po e il mare”. Un personaggio delicato e sfumato che Scotti ritrae con grande sensibilità.

Il bianco e nero: narrazione e esperimento

Visivamente, Avati compie una scelta audace adottando il bianco e nero, che conferisce al film un’estetica espressionista e sospesa nel tempo. Le atmosfere oniriche e inquietanti, arricchite da un sapiente uso delle ombre e delle inquadrature, rimandano ai maestri del gotico, da Mario Bava a Carl Theodor Dreyer e la scelta fotografica, un unicum nella carriera di Avati, segnala non solo un’esigenza legata al racconto ma anche una volontà di sperimentare viva e propositiva. La fotografia diventa fondamentale per amplificare il senso di straniamento e la tensione narrativa, sostenendo il costante contrasto tra lirismo e brutalità.

Uno degli aspetti più interessanti di L’orto americano è la sua natura metaforica che ripercorre una discesa agli inferi, un percorso di discesa nel lato oscuro dell’animo umano che richiama la tradizione dantesca (un ritorno!). Il protagonista si muove tra l’amore idealizzato e la crudele realtà della morte, tra il Midwest americano e la Bassa Padana, tra il mito dei testi classici e la cronaca nera. Un continuo ossimoro che trova un equilibrio perfetto in un racconto avvincente, oltre che ammaliante.

Con L’orto americanoPupi Avati rappresenta ancora una volta quanto sia importante raccontare l’inspiegabile, firmando un film che si impone come uno dei suoi migliori lavori in assoluto. Un’esperienza cinematografica sospesa tra sogno e allucinazione, come quegli incubi confusi, che si dissipano al mattino, ma che lasciano un segno di sé sul cuore.

 
 

Scissione – Stagione 2, Episodio 8, la spiegazione del finale: Harmony Cobel sta cercando di distruggere Lumon?

Scissione - Stagione 2, Episodio 8

L’ottavo episodio della seconda stagione di Scissione non è come gli altri episodi della serie Apple TV+, in quanto si concentra esclusivamente su Harmony Cobel, sul suo passato e sui suoi piani futuri per abbattere Lumon. Anche se Cobel è stata ritratta come uno dei personaggi chiave nella prima stagione della serie di fantascienza di Apple TV+, dopo i primi episodi della seconda stagione ha avuto pochissimo tempo sullo schermo. Dopo non essere stata autorizzata a gestire nuovamente il piano reciso, Cobel si è rivoltata contro l’azienda che aveva lealmente adorato ed è scomparsa prima che qualcuno potesse rintracciarla.

Anche se la seconda stagione inizialmente accennava al fatto che si stava dirigendo verso un luogo chiamato Salt’s Neck, non rivelava mai perché Cobel si stava dirigendo lì e cosa aveva intenzione di fare dopo la sua partenza da Lumon. Dopo aver mantenuto un’aria di ambiguità sulla sorte di Cobel, la seconda stagione di Scissione le dedica un intero episodio, rivelando tutto, dalla sua storia in Lumon al vero motivo per cui si sentiva tradita dall’azienda. Una grande rivelazione sul passato di Harmony Cobel in Lumon cambia tutto ciò che si sapeva su di lei e sul suo contributo all’azienda.

Perché Cobel accetta di incontrare Mark nel finale dell’ottavo episodio della seconda stagione di Scissione

Cobel è rimasta devastata quando Lumon l’ha licenziata nel finale della prima stagione di Scissione. Nonostante fosse stata licenziata, mantenne la sua lealtà e aiutò Lumon a contenere il caos causato dalla contingenza degli straordinari che ne seguì nell’arco finale della prima stagione. Con suo sgomento, anche dopo aver dimostrato la sua dedizione al servizio dell’azienda, Helena non accettò di averla a bordo come responsabile del piano licenziata e le offrì solo un profilo di lavoro alternativo in azienda.

Questo creò un senso di dissonanza nella mente di Helena, che si rese conto di come avesse sprecato tutta la sua vita rimanendo fedele a un’azienda che l’aveva buttata fuori come uno strumento scartato. Con questo, Cobel poteva finalmente vedere quanto fosse malvagia Lumon, spingendola a scappare a Salt’s Neck, la piccola città in cui era cresciuta. Dopo aver ottenuto ciò che voleva dalla sua casa d’infanzia, si allontana da Salt’s Neck e riceve una chiamata da Devon. Invece di ignorare Devon e Mark e rimanere fedele a Lumon, Cobel non si trattiene dall’aiutarli.

Nella scena finale dell’episodio 8 della seconda stagione di Scissione si rende conto di essere stata programmata per credere nella visione di Lumon per tutta la vita. Tuttavia, come i lavoratori tagliati fuori, anche lei era un burattino che l’azienda sfruttava a proprio vantaggio. Questa consapevolezza le fa odiare Lumon e la incoraggia a collaborare con coloro che sono determinati a distruggerla.

Chi arriva a casa di Sissy Cobel nel finale dell’ottavo episodio della seconda stagione di Scissione

Dopo essere arrivata a Salt’s Neck nell’ottavo episodio della seconda stagione di Scissione, Cobel teme di essere seguita. Inoltre, teme che Sissy non la faccia entrare in casa se vede la sua auto parcheggiata fuori. Pertanto, chiede aiuto a Hampton e gli chiede di lasciarla in silenzio a casa di Sissy. Verso la fine dell’episodio, Cobel trova finalmente ciò che stava cercando, ma Hampton vede da lontano un’auto che si avvicina alla casa di Sissy. Anche se l’episodio non rivela chi è arrivato a casa di Sissy, sembra ovvio che si trattasse di qualcuno della Lumon.

Sissy Cobel aveva precedentemente rivelato che dopo che Harmony aveva lasciato Lumon, Drummond l’aveva chiamata per raccontarle della sfida di Harmony. Mentre Harmony trascorre del tempo nella stanza di sua madre e ricorda la sua tragica scomparsa, Sissy sembra tradirla informando le autorità di Lumon del suo arrivo a casa sua. Questo spiegherebbe come Lumon sia venuta a conoscenza di dove si trovasse Cobel. Poiché anche Hampton sembra aver avuto una storia traumatica con Lumon, esprime il suo odio verso l’azienda dicendo “Venite a domare questi temperamenti, stronzi”, mentre l’auto di Lumon si avvicina alla casa di Sissy.

Cosa cerca Harmony nella casa di Sissy Cobel

Harmony cerca in particolare un taccuino nella casa di Sissy che apparentemente contiene intricati disegni di qualcosa che ha creato lei. Dopo aver cercato in tutta la sua stanza e in quella di sua madre, Cobel si rende conto che Sissy non avrebbe mai buttato via le sue cose. Con questo, si rende conto che Sissy potrebbe aver conservato le sue cose in cantina. Quando va in cantina, trova finalmente il taccuino che stava cercando, che contiene intricati disegni di tutti i protocolli e le procedure di override che Lumon utilizza per creare le barriere di separazione nei cervelli dei propri dipendenti.

I disegni nel taccuino di Cobel spiegati: perché James Eagan li ha rubati?

I progetti nel taccuino di Cobel rivelano che la procedura di separazione e le sue numerose componenti erano frutto del suo ingegno. Era la mente dietro tutte le procedure che Lumon utilizza sui suoi lavoratori. Tuttavia, non le è mai stato dato il merito che meritava per il suo lavoro. Invece, Jame Eagan ha rivendicato come sue le sue invenzioni e si è preso tutto il merito per i suoi contributi a Lumon. La storia di Cobel e Jame Eagan ricorda la leggenda che circonda Thomas Edison e Nikola Tesla.

La rivelazione di Cobel spiega perché Harmony si sentì così distrutta dopo che Lumon la allontanò dal piano di separazione. Era orgogliosa di aver contribuito alla crescita di Lumon inventando e studiando la procedura di separazione, ma l’azienda glielo portò via.

È opinione diffusa che Thomas Edison abbia brevettato le invenzioni di Tesla solo a suo nome e le abbia presentate agli azionisti senza dare a Tesla il giusto merito per i suoi contributi. Anche se non ci sono prove che Edison abbia rubato a Tesla, il retroscena di Cobel mette in evidenza come le potenti forze dietro Lumon gestiscano l’azienda come una setta. Manipolano lavoratori come Cobel facendogli credere che il loro unico scopo è servire Kier, mettendo a tacere qualsiasi riconoscimento dei loro contributi individuali.

La spiegazione della storia di Harmony Cobel alla Lumon

L’ottavo episodio della seconda stagione di Scissione non solo rivela la verità sui contributi di Harmony Cobel alla Lumon, ma svela anche come è stata assunta dall’azienda quando era solo una bambina. Come la signorina Huang, anche Cobel era minorenne quando fu assunta dall’azienda come stagista. Come la Huang, anche lei partecipò al prestigioso programma Wintertide Fellowship di Lumon e fu ritenuta meritevole di tale borsa di studio solo dopo aver dimostrato quanto fosse laboriosa durante il suo periodo di lavoro in una fabbrica Lumon.

Sebbene l’episodio non approfondisca i dettagli del viaggio di Cobel a Wintertide, suggerisce che anche Hampton abbia lavorato con lei nella fabbrica Lumon. Hampton continua a sottolineare come Lumon li abbia costretti a lavorare come bambini, rivelando la triste verità sulla storia di sfruttamento di giovani menti impressionabili da parte dell’azienda. Quando Cobel e Hampton si drogano, Cobel ricorda anche di aver fumato etere per la prima volta quando aveva solo nove anni. Questo suggerisce che Cobel e Hampton erano costantemente esposte all’etere e ai suoi effetti inebrianti quando lavoravano nelle fabbriche di etere della Lumon da bambine.

La spiegazione del ruolo di Celestine “Sissy” Cobel nella Lumon 

Anche se l’episodio 8 della seconda stagione di The Divide non menziona esplicitamente il ruolo di Sissy Cobel in Lumon, mette in evidenza come anche lei sia accecata dalla sua devozione all’azienda. Per alcuni secondi, l’episodio mostra anche una foto di una targa su una delle pareti della casa di Sissy, che rivela che lei era la “Maestra apprendista dei giovani”. Mostra anche che era stata etichettata come la “Quarterly Striver” nel “4th Quarter”, suggerendo che aveva legami profondi con l’azienda come sua dipendente per un bel po’ di tempo.

Cosa è successo alla madre di Harmony Cobel

L’episodio 8 della seconda stagione di Scissione rivela che la madre di Cobel aveva una malattia terminale. Cobel accettò di lavorare per Lumon in giovane età perché credeva che l’azienda l’avrebbe aiutata a pagare le cure per sua madre. Tuttavia, mentre era via per lavoro per Lumon, sua madre morì. Come si vede nell’episodio di Scissione – stagione 2, Cobel rimane traumatizzata dalla morte di sua madre e porta persino con sé il suo tubo per la respirazione.

La stagione 2 di Scissione dovrebbe avere un totale di 10 episodi, con l’ultimo episodio in uscita il 21 marzo 2025.

Cobel cerca di incolpare Celestine per la morte di sua madre sostenendo che non si è presa cura di lei. Tuttavia, con grande sorpresa di Harmony, Celestine sostiene che sua madre è morta dopo che lei stessa ha scollegato il tubo di respirazione dal suo macchinario di supporto vitale. Sebbene Harmony si rifiuti di credere alle affermazioni di Sissy Cobel, la rivelazione la sconvolge profondamente.

L’impatto e l’influenza di Lumon su Salt Neck spiegati

Anche se l’ottavo episodio della seconda stagione di Scissione non approfondisce l’influenza di Lumon su Salt’s Neck, accenna a come l’azienda abbia distrutto la città. Molti cittadini sembrano soffrire di gravi problemi di salute e utilizzare tubi per respirare, il che suggerisce che Lumon abbia fortemente inquinato l’aria e l’acqua. Per fare spazio alla sua crescita, l’azienda sembra anche aver costretto molte persone a trasferirsi, mentre quelle rimaste sono state costrette a lavorare per Lumon.

 
 

Mickey 17, spiegazione del finale: cosa significa lo sci-fi di Bong Joon-ho

Robert Pattinson in Mickey 17 (2025)
Robert Pattinson in Mickey 17 (2025). Foto di © 2024 Warner Bros. Entertainment Inc.

L’attesissimo Mickey 17 di Bong Joon-ho è finalmente in sala (qui la nostra recensione), ed ecco di seguito un’analisi sul finale del film, nel tentativo di spiegare cosa succede in questo bizzarro approccio alla fantascienza del regista premio Oscar. Basato sul romanzo Mickey 7, Mickey 17 costruisce un nuovo mondo fantascientifico in cui le persone, previo consenso, possono diventare “sacrificabili”. Il protagonista (interpretato da Robert Pattinson) è uno di questi, che vengono sacrificati per fare degli esperimenti e capire come e quando un uomo muore. Dopo OGNI SINGOLA MORTE, Mickey viene ristampato, con tutte le sue emozioni pregresse. Il problema insorge quando Mickey 17 non muore come dovrebbe, mentre dalla centrale operativa stampano un nuovo Mickey 18.

Alla fine del film, le cose sono degenerate a un livello pericoloso. Mickey 18 ha tentato di assassinare il capo della colonia Kenneth Marshall (Mark Ruffalo), mentre lui e i suoi seguaci radicali si stanno preparando a spazzare via le specie native del pianeta, i creepers, che però Mickey sa essere pacifiche, dal momento che è proprio grazie al loro intervento che non è morto. Fortunatamente, Mickey 17, Mickey 18 e Nasha (Naomi Ackie) riescono a sventare il piano di Marshall. E alla fine Mickey 18 si sacrifica per uccide Marshall e liberare Nilfheim.

Mickey 17 elimina il programma dei “sacrificabili” dopo il sacrificio di Mickey 18

Il programma dei sacrificabili è l’amo principale del film, l’intera storia è incentrata sulla pratica di clonare Mickey dopo ogni sua morte. Nel mondo di Mickey 17, il programma è incredibilmente controverso, essendo stato reso illegale sulla Terra. Anche mentre è a Nilfheim, molti coloni guardano dall’alto in basso Mickey per la sua iscrizione al programma. Tuttavia, Marshall ritiene che sia una necessità, perché Mickey viene inviato in tutti i tipi di missioni pericolose e sottoposto a tutti i tipi di esperimenti.

Alla morte di Marshall, Nasha viene promossa in una posizione politica di potere su Nilfheim. Così, Mickey e Nasha colgono questa opportunità per porre fine al programma dei sacrificabili. Durante una cerimonia, a Mickey viene permesso di far esplodere l’unica stampante per umani di Nilfheim, gesto che rende illegale il programma anche su altri pianeti, così come lo è sulla Terra. Poiché Mickey 18 è morto poco prima, Mickey 17 è l’ultimo Mickey. Quindi, quando inevitabilmente morirà, la sua morte rimarrà permanente.

I Creepers possono davvero uccidere tutta l’umanità?

L’atto finale di Mickey 17 è piuttosto intenso, incentrato su uno scontro tra i coloni umani di Nilfheim e i creepers. Marshall ha rapito un cucciolo di creeper e ha intenzione di sterminare tutti i creeper in una volta sola mentre circondano la base umana. Quando i deu Mickey vengono mandati a parlare con i creeper, scoprono che i creeper possono emettere una frequenza che ucciderà tutta l’umanità, minacciando di farlo se il cucciolo di creeper non verrà riportato indietro.

Dopo che Marshall viene ucciso e il programma dei sacrificabili termina, il protagonista riesce ad avere un’altra conversazione con i creeper. Durante questa conversazione, lui scopre che i creeper non possono effettivamente uccidere tutta l’umanità. La minaccia della frequenza era un bluff, dato che sono per lo più innocui. Tuttavia, questo bluff è esattamente ciò di cui avevano bisogno per salvare la loro specie.

Perché Kenneth Marshall voleva spazzare via i Creepers e colonizzare Nilfheim

Kenneth Marshall è il principale antagonista del film e, mentre la performance di Mark Ruffalo è satirica, il piano del potente politico è invece genocida. Come spiega il film, Kenneth Marshall è un politico popolare che ha perso un’elezione. Per questo motivo, Marshall e i suoi seguaci hanno iniziato la missione Nilfheim, con la colonizzazione di un pianeta lontano in grado di supportare la vita. Una volta arrivato, Marshall vuole che Nilfheim sia interamente per gli umani. Ecco perché vuole uccidere tutti i Creepers, ottenendo un pianeta in cui lui è l’autorità suprema.

Cosa significa in realtà la sequenza onirica di Mickey 17

Sebbene Mickey 18 uccida Marshall e sua moglie Ylfa venga imprigionata, questa non è la fine del conflitto di Mickey 17. Verso la fine del film, Mickey sogna che la stampante umana è ancora in funzione. Vede Ylfa lì, che gli dice di provare una nuova salsa. Poi, Ylfa inizia a stampare un’altra versione di Marshall, che apparentemente torna in vita. Sebbene questa sia una sequenza onirica, il pubblico non se ne accorge subito.

I sogni di Mickey 17 mettono in luce la sua paranoia e, sebbene sia impossibile che Kenneth Marshall stesso torni, Mickey ha paura che qualcuno come lui salga al potere. Questa è la chiave del commento politico di Mickey 17. Anche se quel politico fascista, un’altra persona come lui potrebbe facilmente ribellarsi e destabilizzare di nuovo le cose. La stampante in sé dovrebbe essere un simbolo di questo ciclo e Mickey dovrà continuare a combattere per impedire che questo sogno si avveri.

Mickey 17 imposta il libro sequel, Antimatter Blues?

Mickey 17 è basato sul romanzo di Edward Ashton Mickey 7 e, sebbene molti spettatori potrebbero non saperlo, il libro ha in realtà un sequel. Ashton ha anche scritto il romanzo del 2023 Antimatter Blues, che si svolge due anni dopo gli eventi di Mickey 7. Nel libro, Mickey scopre che una bomba è stata nascosta a Nilfheim e deve trovarla per rifornire la base dei coloni evitando il conflitto con i creepers.

È improbabile che si realizzi un sequel del film Mickey 17, poiché Bong Joon-ho non è noto per aver realizzato sequel. Sebbene sia possibile, poiché la storia potrebbe basarsi sul finale di Mickey 17, probabilmente non accadrà a meno che Mickey 17 non sia un enorme successo finanziario (e sembra improbabile).

Il vero significato di Mickey 17

Come altri film di Bong Joon-ho, Mickey 17 è pieno di riflessioni su classe, politica, potere e capitalismo. Il programma dei sacrificabili è pensato per essere parallelo a quanto siano sacrificabili molti lavoratori, con l’atteggiamento indifferente di Nilfheim nei confronti di Mickey che è simile agli atteggiamenti di molti superiori nei confronti dei loro dipendenti. Kenneth Marshall è anche chiaramente ispirato da alcuni politici della vita reale, con la sua retorica e i suoi obiettivi non lontani da alcune ideologie politiche nonostante l’ambientazione fantascientifica del film.