Di vendicatori privati e agenti
speciali il cinema è sempre stato pieno, trovando ad ogni nuova
generazione i propri più intrepidi esemplari di uomini o donne in
grado di ottenere giustizia con le loro sole mani. In anni recenti
è toccato a personaggi come John
Wick, il Robert
McCall di The
Equalizer, il Bryan
Mills di Taken o
alla Lorraine Broughton di Atomica
bionda ricoprire tale ruolo, affermandosi come
macchine da guerra pronte a combattimenti di ogni sorta pur di
portare a termine la propria missione. È dunque interessante che a
loro faccia ora seguito un personaggio tanto improbabile quanto
quello protagonista di Mr.
Morfina.
Nel film diretto
da Dan Berk e Robert
Olsen – duo affermatosi per gli
horror Malvagi e Non siamo
soli – l’eroe di turno ha infatti il solo merito di
non provare il benché minimo dolore per via di una particolare
patologia. È questo il suo unico “superpotere”, presentandosi per
il resto come una persona con un coraggio tanto esile quanto il suo
fisico. Eppure, è un personaggio che presenta diversi elementi
inaspettati, all’interno di un film che, pur muovendosi su un
terreno narrativo quantomai semplice, riesce a regalare più di
qualche momento di buon intrattenimento.
La trama di Mr.
Morfina: farsi male per amore
Protagonista del film è
dunque Nathan Caine (Jack
Quaid), un introverso affetto da insensibilità
congenita al dolore, che lavora come vicedirettore in una
cooperativa di credito di San Diego. Qui lavora
anche Sherry Margrave (Amber
Midthunder), dalla quale Nathan è attratto ma si tiene a
distanza per via della sua condizione e della sua inesperienza con
le donne. Quando però anche Sherry dimostra di essere
romanticamente interessata a lui, la vita di Nathan sembra prendere
un’inaspettata piega positiva. A spezzare questo idillio arriva
però una rapina in banca che culmina con il rapimento di Sherry. A
quel punto, Nathan deciderà di sfruttare la sua condizione per
andare a salvare la donna di cui si è innamorato.
Vogliamo vedere il sangue!!!
Come si può intuire da questa
sinossi, il film è di base il racconto di un uomo che si lancia al
salvataggio della donna amata e rapita. Tutto qui. Non ci sono
ulteriori elementi narrativi che complicano la cosa (se non un
colpo di scena ben organizzato) nella sceneggiatura
di Lars Jacobson, qui alla sua prima volta
con un grosso film di Hollywood. Su questo modello – a partire dal
quale si sono costruiti innumerevoli film – Jacobson applica però
la particolarità di un protagonista incapace di sentire dolore. È
ovviamente questo che rende il film intrigante e avvincente, tolto
il quale resterebbe ben poco.
Nella visione di Mr.
Morfina non bisogna dunque aspettarsi acrobazie
narrative o un particolare spessore dei personaggi. Gli stessi
villain, d’altronde, sono dei semplici criminali – guidati però da
un convincente Ray Nicholson (figlio
di Jack
Nicholson). Siamo piuttosto qui per il sangue, per
godere o rabbrividire dinanzi alle situazioni mortali in cui si
caccia questo improbabile eroe. Insomma, è chiaro che il solo
interesse che si può avere nei confronti di questo film per vedere
quanto male può ridursi il povero Nathan.
Jack Quaid perfetto protagonista
di Mr. Morfina
E da questo punto di vista il film
certamente non delude. Pur con il preciso intento dei registi di
non allontanarsi mai dal reale, ma anzi di far sì che ogni colpo
inferto a Nathan sia premeditato e ben
rappresentato, Mr. Morfina offre una
convincente sequela di situazioni che, tra il divertente e il
raccapricciante, tengono alta l’attenzione e l’interesse nei
confronti del film. Su tutte, le trappole che Nathan fa scattare
all’interno dell’abitazione di uno dei criminali, o ancora sequenza
– forse la più dolorosa da vedere – nel laboratorio di tatuaggi che
lo vede diventare un improbabile “Wolverine”.
Momenti che confermano, come si
diceva, che il primario obiettivo del film è quello di offrirci
questo protagonista e il suo corpo martoriato in tutte le sale,
facendo volentieri dimenticare tutto il resto. Il merito è anche
di Jack
Quaid, perfetto everyman scelto dai
registi grazie alla serie The
Boys, dove interpreta un Hughie continuamente coperto di
sangue e maltrattato ma anche dotato di una sua esplosiva carica
energica. Quaid, con il suo fisico slanciato ma esile e i suoi modi
di fare gentili, si dimostra l’interprete giusto per un ruolo di
questo tipo, favorendo quel contrasto che rende ancor più
intrigante e riuscito il film.
Indubbiamente, come si
diceva, Mr. Morfina non propone molto
altro oltre questo (se non un’altra bella prova attoriale
di Amber Midthunder dopo Prey) e si
notano una serie di lungaggini che rallentano talvolta il ritmo, ma
risate e intrattenimento sono assicurati. Si potrebbe infine
guardare a Nathan come ennesimo rappresentante di una generazione
che si sta finalmente allontanando dallo stereotipo del maschio
duro e spietato (qui presente con il personaggio di Nicholson),
abbracciando piuttosto quelle fragilità umane troppo spesso
nascoste. Un elemento che, questo sì, conferisce al film qualcosa
su cui riflettere.
I centri di detenzione nascondono in
tutto il mondo delle realtà parallele, in cui sembrano vigere
regole diverse, in cui spesso è la forza ad avere la meglio. Questo
è un tema che merita certamente l’attenzione del pubblico e viene
presentato con tutta la sua crudezza in
Sons (titolo
originale Vogter).
La pellicola, presentata e candidata per l’orso d’oro al Festival
del cinema di Berlino, porta alla luce la quotidianità di una
prigione danese, tra conflitti di potere tra detenuti e polizia
penitenziaria.
Sons,
diretto da Gustav
Möller
(Il colpevole-The
guilty,
da cui il remake di NetflixThe
guilty),
presenta nel cast alcune figure già note nel panorama
cinematografico internazionale. Tutto il film ruota intorno a Eva,
guardia interpretata da Sidse
Babett Knudsen (Westworld,Inferno),
e Mikkel, uno dei detenuti interpretato da Sebastian
Bull. Sons,
presentato ai Firebirds awards nel Hong Kong film festival, è
uscito vincitore nella categoria Cinema Giovani (mondo).
Sons: la vendetta del
carceriere
Eva svolge una vita tranquilla e
abitudinaria: svolge i suoi turni presso il penitenziario in cui
lavora, in un padiglione in cui si trovano detenuti con reati
minori, cerca di rendere la vita dei carcerati più normale
possibile, favorendone la riabilitazione. Poco sa lo spettatore
della sua vita al di fuori del carcere, finché dei nuovi detenuti
vengono trasferiti nel penitenziario dove lavora. Uno nello
specifico colpisce l’attenzione di Eva: si tratta di Mikkel, il
responsabile della morte del figlio, Simon. Mikkel aveva
brutalmente assassinato il ragazzo mentre si trovavano entrambi
detenuti in un altro carcere.
La rabbia e la sete di vendetta
guidano Eva a chiedere il trasferimento nel padiglione in cui si
trova Mikkel, quello dedicato ai detenuti di massima sicurezza. Qui
inizia un gioco di giustizia perversa da parte di Eva contro il
detenuto. Ogni azione però non sembra soddisfare Eva, la quale non
trova nella sofferenza di Mikkel nessun vero sollievo dalla sua
perdita. Dopo un culmine a questo climax di violenza, Eva sembra
credere, sperare in una possibile riabilitazione di Mikkel, finendo
però con lo sbagliarsi.
Sons: poliziotto o criminale?
“Quando avevo la tua età, i preti ci dicevano che potevamo
diventare poliziotti o criminali. Oggi quello che ti dico io è
questo: quando hai davanti una pistola carica, qual è la
differenza?”
Questa celebre citazione del
film The
Departed: il bene e il male permette di
riflettere sulla contrapposizione, talvolta troppo marcata, tra la
polizia, rappresentante nobili valori di giustizia e ordine, e i
detenuti, simbolo di criminalità e violenza. Pian piano che si
procede con la narrazione, però,
in Sons questa differenza tende ad
affievolirsi sempre di più.
Mikkel, da pericoloso assassino
quale è, diventa quasi una vittima nelle mani di Eva, la
quale pur di vendicare la morte del figlio porta avanti una
strategia di veri e propri “dispetti” nei confronti del detenuti,
passando dal sputargli nel cibo, a non garantirgli l’uso del bagno,
per culminare nella brutale violenza.
Eva si lascia pervadere totalmente
dalla rabbia nei confronti di Mikkel, dimostrando una ferocia e un
disprezzo non indifferenti. Ma proprio le prime scene mostrano come
la donna non sia di per se una persona violenta e spregevole.
Proprio per questo motivo, dopo un culmine di violenza, Eva sembra
cambiare totalmente il proprio atteggiamento nei confronti di
Mikkel, sia per le minacce di sporgere denuncia ma forse anche per
un sentimento di vergogna. In fin dei conti, anche Mikkel è un
giovane come lo era suo figlio, e può essere meritevole di una
nuova possibilità dalla vita.
La prigione: da punizione a
riabilitazione
Fin dal Panopticon dell’utilitarista
inglese Jeremy Bentham nel XVIII secolo, la prigione è stata
ipotizzata dai filosofi e realizzata negli stati democratici come
un luogo di riabilitazione, non solo di detenzione. I paesi del
nord Europa sono notoriamente conosciuti per l’alto livello di
risocializzazione e servizi che vengono garantiti nelle carceri, e
ciò viene facilmente dedotto anche in Sons,
nella prima parte del film in cui Eva si trova in un settore con
detenuti condannati per reati meno gravi. Si vede come tutti
vengano trattati quasi alla pari, come gli venga garantito di
girare liberamente fuori dalle loro celle durante il giorno, e come
questi possano svolgere lavori o corsi vari, come quello di yoga
tenuto da Eva. Quest’ultima infatti sembra credere molto nel
reindirizzare e rieducare i detenuti, creando un rapporto molto
stretto con i ragazzi della sua sezione e cercando anche a seguire
di salvare Mikkel.
Diverso è certamente il caso della
sezione con i detenuti più gravi: qui la polizia stessa si comporta
in maniera più dura e severa, ricorrendo a brutali costrizioni come
l’uso cinghie e costrizioni fisiche. Sons si
afferma come una pellicola molto efficace nel presentare una realtà
non sempre ben nota, e lo fa in maniera talvolta cruda e
diretta.
Dopo il successo di
critica e pubblico ottenuto dalle varie versioni
di Call My Agent, Apple
TV+ risponde a modo suo con questa serie in dieci
puntate diretta dalla coppia consolidata Seth
Rogene Evan
Goldberg. The Studio racconta
le peripezie dell’executive Matt Remick (Rogen), improvvisamente
messo a capo della Continental, Major di Hollywood che ha bisogno
di realizzare il nuovo Barbie per
risollevare le proprie sorti commerciali. Ed è proprio questo il
dilemma che renderà impossibile la vita a Remick nel corso dei vari
episodi: si può realmente fare cinema di qualità tentando di
rispettare, anzi elevare la visione artistica di chi viene messo al
timone di un progetto? La risposta per Matt, ora attento più che
mai a far quadrare i conti dell’azienda, diventa quanto mai
problematica da trovare…
The Studio è una goduria per ogni
cinefilo accanito
Partiamo immediatamente
con lo scrivere che The Studio è pura,
lussureggiante goduria per chiunque sia un cinefilo accanito. Basta
sapere che nel funambolico episodio pilota recita addirittura la leggenda
vivente Martin Scorsese in un ruolo decisamente non secondario.
Altra chicca ultra cinefila: quanti spettatori hanno riconosciuto
il nome del personaggio interpretato dal “boss dei
boss” Bryan
Cranston? Nel caso lo abbiate fatto, avrete senza
dubbio capito che anche l’idea di girare tutte le puntate
attraverso lunghissimi, sinuosi pianosequenza deriva allo stesso
modo da quel grandioso film su Hollywood diretto da un
maestro di
cinema come nessun altro. Ok, forse stiamo flirtando un po’ troppo
con il rischio spoiler, il che però serve a testimoniare ancora una
volta quanto Rogen e Goldberg siano due enormi conoscitori della
storia del cinema. Del buon cinema.
Stracolmo di guest star famosissime, di inside-jokes
azzeccate e di almeno un paio di episodi scritti con notevole
lucidità per una commedia che vuole essere comunque anche frizzante
e ridanciana quando possibile, The Studio soffre però di una certa
ripetitività quando indulge troppo nello schema narrativo che vede
Remick rischiare (o riuscire) di mandare tutto alla malora a causa
delle sue insicurezze. Diamo che i primi episodi sono tutto sommato
più efficaci degli ultimi tre o quattro, i quali invece si poggiano
appunto su delle idee già esplorate con intelligenza e senso del
genere negli episodi precedenti. A proposito delle singole puntate,
oltre al già citato pilot se dovessimo scegliere le nostre
preferite opteremmo senza dubbio per quelle che vedono protagoniste
Sarah Polley e Olivia Wilde, molto spiritosa e piuttosto coraggiosa
nel giocare con il suo recentemente acquisito status di “regista
difficile” dopo le controversie relative al suo
ultimo Don’t Worry Darling.
Un grande ensemble
Altro elemento prezioso che rende The
Studio uno show a dir poco sfizioso è il suo cast di
attori che compone il team principale. Come
protagonista Seth
Rogen si rivela capace di tratteggiare un
personaggio in linea con le sue corde e quindi con i suoi
precedenti ruoli, ma anche dotato di una malinconia e una coscienza
delle proprie mancanze prima sconosciute, segno che come attore e
autore Rogen sta certamente maturando. Accanto a lui troviamo uno
scatenato e ugualmente coinvolgente Ike Barinholtz, finalmente in
un ruolo consistente dopo anni di piccole apparizioni non in grado
di testimoniare in pieno la bravura. Se poi aggiungiamo due
“Regine” della commedia contemporanea come Catherine
O’Hara e Kathryn Hahn, ecco che
il gruppo di caratteristi assemblato per guidare la serie non può
che essere meritevole di plauso.
Ci si diverte, a tratti davvero molto, ad assistere
alle squinternate peripezie dei personaggi di The
Studio, show che porta dietro le quinte di cosa significhi
produrre e realizzare un film a Hollywood. In maniera disincantata
e sbarazzina. Seth
Rogen e Evan
Goldberg hanno girato una serie che forse la tira un
po’ troppo per le lunghe, magari avrebbe funzionato meglio con otto
puntate invece di dieci, ma rimane un guilty-pleasure realizzato
con evidente intelligenza e notevole volontà dissacrante. Si può
tranquillamente fare binge-watching con The
Studio, anzi forse è consigliabile farlo – vista anche la
durata contenuta di molti episodi – per passare una giornata
all’insegna del sorriso talvolta ironico, altre volte grossolano e
sfacciato. Comunque sempre sorriso.
Netflix ha
recentemente aggiunto al suo catalogo il thriller sudcoreano
Tre Rivelazioni, che pone diverse domande
scottanti sulla moralità e sul crimine, ma la più importante è cosa
sia successo ad A-yeong. Diretto da Yeon Sang-ho, regista
dell’acclamato Train to Busan, Tre Rivelazioni segue
le vicende di tre personaggi unici: un pastore troppo zelante, un
detective traumatizzato e un criminale incompreso. Quando una
giovane ragazza scompare, tutti e tre i personaggi vengono
coinvolti in una rete contorta di segreti, violenza e,
naturalmente, rivelazioni.
Il thriller coreano inizia con
Min-chan, un pastore appassionato che accoglie
nella sua congregazione un criminale incallito,
Yang-rae. Tuttavia, quando Min-chan scopre che suo
figlio potrebbe essere scomparso, sospetta immediatamente di
Yang-rae e cerca di dargli la caccia, provocando però la sua
scomparsa. Il giorno seguente, si scopre che il figlio di Min-chan
è stato ritrovato, ma che in realtà è stato rapito un altro
bambino. La detective Yeon-hee indaga, turbata dal
caso di Yang-rae perché dietro la morte di sua sorella c’è proprio
lui. Da qui, Yeon-hee tenterà dunque a scoprire il ruolo di
Min-chan e Yang-rae nella scomparsa di
A-yeong.
Cosa è successo ad A-yeong?
Il mistero più grande di Tre
Rivelazioni è dunque cosa sia successo ad A-yeong. La
dodicenne A-yeong appare per la prima volta nel film mentre si reca
in chiesa, seguita da Yang-rae. Dopo la funzione, sembra tornare a
casa con i suoi amici, ma la volta successiva che si parla di lei,
si scopre che è stata rapita. Considerando l’inseguimento di
Yang-rae, sembra chiaro che il colpevole sia lui. Solo alla fine
del film il pubblico si accorge però che A-yeong è tenuta
prigioniera in una casa destinata a essere demolita.
Fortunatamente, poco prima che la casa venga distrutta, Yeon-hee
salva la ragazza.
Nonostante la scomparsa di A-yeong
sia il perno che lega Min-chan, Yeon-hee e Yang-rae, la ragazza è
più un personaggio simbolico che una vera protagonista. Il
rapimento non riguarda tanto A-yeong in sé, quanto piuttosto
l’effetto che ha sugli altri personaggi. L’effetto più importante
della situazione di A-yeong è che simboleggia ciò che è accaduto
alla sorella di Yeon-hee, la quale si rimprovera di non essere
stata in grado di salvare la sorella e, quando salva A-yeong,
riesce finalmente a perdonarsi per il passato.
Uno degli elementi più complicati di
Tre Rivelazioni è però il coinvolgimento di
Min-chan con Yang-rae. Inizialmente, Min-chan vuole aiutare
Yang-rae come membro della chiesa. Tuttavia, la sua buona volontà
si trasforma rapidamente quando sospetta che Yang-rae abbia rapito
suo figlio. Min-chan segue allora Yang-rae nel bosco e si scontra
con lui, facendolo cadere in un burrone e provocandogli una grave
ferita. Min-chan è terrorizzato, ma alla fine decide di spingere
Yang-rae giù da un dirupo e sembra che lo faccia dopo aver visto un
segno di Dio.
In definitiva, questa è la parte più
importante della storia di Min-chan. Dopo aver visto un simbolo sul
fianco di una montagna, Min-chan crede di dover uccidere Yang-rae
perché è la volontà di Dio. Il suo pensiero è che sta liberando il
mondo da un peccatore. Pertanto, quando Yang-rae finisce per
sopravvivere e tornare, Min-chan è determinato a ucciderlo una
volta per tutte. La situazione è ulteriormente complicata dal fatto
che Yang-rae è l’unico a sapere dove si trova A-yeong, quindi una
volta che Min-chan lo avrà ucciso, la polizia avrà meno possibilità
di trovare A-yeong viva.
Perché Yeon-hee ha avuto le visioni
di sua sorella
Mentre Min-chan si occupa di
Yang-rae, Yeon-hee cerca di capire come questi due uomini siano
collegati al rapimento di A-yeong. Nel corso di questa indagine, la
detective è perseguitata dai suoi demoni, in particolare dal
fantasma di sua sorella. Cinque anni prima, la sorella di Yeon-hee
era stata rapita e torturata da Yang-rae. Riuscì a fuggire, ma alla
fine si tolse comunque la vita. Yeon-hee ritiene dunque che sia
colpa sua non aver salvato la sorella. Per questo motivo, il
fantasma di lei le urla continuamente contro, chiedendo di sapere
perché non era presente quando aveva più bisogno di lei.
La crescita di Yeon-hee in
Tre Rivelazioni è forse una delle parti migliori
del film. Yeon-hee è chiaramente angosciata dalla morte della
sorella e dalla ricomparsa di Yang-rae. Tuttavia, approfondendo il
caso di A-yeong, si rende conto che l’assassino è un essere umano
proprio come lo era sua sorella e merita maggiore empatia. Di
conseguenza, cerca di saperne di più su Yang-rae, il che la aiuta a
capire dove è tenuta prigioniera A-yeong. Inoltre, si trova a fare
i conti con il fatto che la morte di sua sorella non è avvenuta per
mano sua, ma per qualcosa che è sfuggito al suo controllo.
La spiegazione del passato di
Yang-rae e del suo tragico destino
Nella prima metà di Tre
Rivelazioni, Yang-rae è dunque caratterizzato come un
essere umano malvagio. È un noto criminale che ha torturato la
sorella di Yeon-hee e rapito A-yeong. Tuttavia, al culmine del
film, si scopre che Yang-rae ha sofferto di un’infanzia traumatica,
che lo ha portato a questi comportamenti orribili. Lo psicologo di
Yang-rae spiega che il padre lo picchiava ogni giorno, lasciandogli
innumerevoli bruciature e cicatrici. Mentre queste percosse avevano
luogo, la madre stava fuori dalla porta, cantando inni e pregando
per lui. Questo ha lasciato Yang-rae in uno stato psicologico
profondamente turbato.
Il dilemma morale con cui ci si
confronta è dunque se Yang-rae possa essere perdonato o meno. Non
c’è dubbio che abbia agito in modo malvagio quando ha commesso i
suoi crimini; tuttavia, il film suggerisce che non era
necessariamente in uno stato mentale sano. A causa del suo trauma
infantile, Yang-rae potrebbe meritare la stessa compassione delle
sue vittime. Yeon-hee sembra alla fine perdonarlo, mentre Min-chan
rimane convinto che sia un peccatore senza possibilità di
redenzione. Alla luce di ciò, gli spettatori sono quindi chiamati a
dare il proprio giudizio su Yang-rae.
La verità sul “mostro con un occhio
solo”
Al centro della tragica storia di
Yang-rae c’è poi il “mostro con un occhio solo”. Quando le autorità
visitano per la prima volta il suo appartamento, trovano un disegno
terrificante di questo presunto “mostro con un occhio solo”, che
sembra contenere diverse persone al suo interno. All’inizio si
pensa che Yang-rae sia semplicemente pazzo, ma quando poco prima di
morire dice a Yeon-hee che A-yeong è stata inghiottita dal “mostro
con un occhio solo”, la detective si mette alla ricerca di cosa
significhi. Alla fine, si rende conto che il mostro rappresenta le
case con un’unica finestra a forma di occhio di pesce.
Sebbene il “mostro con un occhio
solo” sia un luogo fisico e non un vero e proprio mostro come gli
zombie di Train to Busan, ha un significato simbolico per
Yang-rae. In gioventù, egli è stato maltrattato in una stanza con
una sola finestra e il trauma subito ha trasformato un normale
elemento abitativo in un vero e proprio mostro. Yang-rae credeva
davvero che questo mostro fosse un pericolo per lui e forse sentiva
di dovergli offrire più violenza per tenerlo a bada, motivo per cui
ha commesso i suoi crimini.
In Tre Rivelazioni,
Yeon-hee e la polizia scoprono che Min-chan ha tentato di uccidere
Yang-rae. Viene quindi mandato in prigione per il suo crimine,
nonostante le sue proteste sul fatto che Dio lo abbia influenzato.
Più tardi, lo psichiatra di Yang-rae spiega a Yeon-hee che Min-chan
probabilmente soffriva di apofenia, un fenomeno per cui le persone
vedono schemi in cose che in realtà non esistono. Quando Min-chan
vedeva i suoi segni da parte di Dio, in realtà non c’era nulla.
Questa diagnosi viene confermata alla fine del film, quando
Min-chan trova un altro “segno” nella sua cella.
Tre Rivelazioni
conferma quindi che Min-chan soffre di apofenia, ma il pubblico
potrebbe chiedersi se questa sia una copertura per il vero male di
Min-chan. Forse Min-chan ha sviluppato l’apofenia solo come modo
per permettersi di compiere atti di violenza. Questo avrebbe senso
se si considera che la moglie lo tradiva, il che probabilmente gli
ha fatto aumentare la rabbia e lo stress. In questo modo, i suoi
crimini potrebbero essere stati anche peggiori di quelli di
Yang-rae.
Il vero significato di Tre
Rivelazioni
In definitiva, Tre
Rivelazioni è un film tanto emozionante quanto
illuminante. Attraverso le storie di Min-chan, Yang-rae e Yeon-hee,
gli spettatori sono costretti a fare i conti con le proprie
convinzioni sulla moralità. Devono decidere se chi commette un
crimine è una persona veramente malvagia o se sta accadendo
qualcosa di più complicato dentro di loro. Inoltre, il pubblico
vede come un trauma possa avere un impatto pericoloso sulla vita di
una persona. In definitiva, Tre Rivelazioni mette
in crisi l’idea di bene e male puro.
L’eroe protagonista interpretato da
Charlie Cox nella seconda stagione di
Daredevil: Rinascita sta per rinnovare il suo
costume nero, come rivelano le nuove foto dal set del Marvel Cinematic Universe che
mostrano Matt Murdock con un look tutto nuovo. Mentre la prima
stagione di Daredevil: Rinascita è attualmente in corso,
la seconda stagione è già in lavorazione, poiché la Marvel Studios
continua le avventure del Diavolo di Hell’s Kitchen. Anche se i
dettagli della trama della seconda stagione di Daredevil:
Rinascita non sono stati ancora annunciati ufficialmente,
stanno iniziando ad emergere ulteriori indizi attraverso varie foto
e video dal set.
Anche se la seconda stagione di
Daredevil: Rinascita non arriverà prima del 2026, i
fan di lunga data della Marvel Comics potranno finalmente vedere Cox
con il suo famoso costume nero. Mentre la produzione della seconda
stagione di Daredevil: Born Again è attualmente in corso,
nuove foto dal set (tramite @petergcornell)
rivelano il veterano dell’MCU con il suo costume nero, mentre esce
dall’acqua.
Cosa rivelano le foto dal set
della seconda stagione di Daredevil: Rinascita con Charlie
Cox
Al momento della pubblicazione
delle foto dal set della seconda stagione di DDaredevil:
Rinascita, Cox sembra essere l’unico personaggio
coinvolto nella scena, circondato dai membri della troupe.
Resta da vedere se altri personaggi faranno parte di questa scena,
ma con Matt che emerge dall’acqua, potrebbe trattarsi di una
sequenza di combattimento in cui è stato costretto a fuggire. È
difficile dire se il nuovo costume nero di Cox abbia o meno il logo
DD, poiché sembra essere una variante del costume Shadowland
dei fumetti.
Anche se la seconda stagione
potrebbe non essere un adattamento di Shadowland, i
trailer della prima stagione di Daredevil:
Rinascita hanno già indicato che Matt aveva almeno un
costume nero realizzato dopo la terza stagione di
Daredevil. Considerando che altre foto dal set della
seconda stagione di Daredevil: Rinascita
mostrano Matt in modalità incognito, il passaggio a un costume nero
ha perfettamente senso. Dato che le attività dei vigilanti sono una
delle cose che il sindaco Fisk sta cercando di tenere sotto
controllo, la seconda stagione di Daredevil:
Rinascita si preannuncia chiaramente ancora più
impegnativa per Matt.
L’ormai ultraottantenne
Robert De Niro ritorna
sul grande schermo per sorprendere il pubblico interpretando il
personaggio che più gli si addice: il boss criminale. Diretto dal
noto regista Barry
Levinson (premio
Oscar alla regia per Rain
Man- L’uomo della pioggia), The
Alto knights – I due volti del crimine è
infatti il nuovo gangster
movie ispirato
alla vera storia dei due storici capi
mafiosi Frank
Costello e Vito
Genovese.
Il film, ideato già negli anni 70, è entrato effettivamente
in produzione solo nel 2022, subendo anche diversi rallentamenti
collegati agli scioperi SAG AFRA nel 2023.
Oltre al già citato De Niro, il quale interpreta qui entrambi i
boss mafiosi, sono presenti nel cast figure già ampiamente note nel
panorama cinematografico internazionale.
Debra Messing (Will
& Grace)
interpreta Bobbie, la moglie di Frank Costello,
mentre Katherine
Narducci (The
irishman, I soprano)
qui è nel ruolo di Anna, moglie di Vito. Ma tutte le attenzioni,
ovviamente, sono rivolte alla duplice interpretazione di De Niro,
che si sdoppia per dar volto alle molteplici facce del
crimine.
La trama di The Alto
knights – I due volti del crimine: la fratellanza
mafiosa
Il film si apre in medias
res: Frank Costello sta aspettando
l’ascensore per salire nel suo attico, quando gli arriva un colpo
di pistola dritto alla testa. Il sicario, il
gangster Vincent Gigante, scapperà subito
dopo, senza accorgersi di non aver completato il suo lavoro: Frank
è ancora vivo. Da qui parte la narrazione vera e propria, affidata
allo stesso Frank di alcuni anni dopo, in forma di flashback.
Tutto nasce a Manhattan, dove, all’inizio del ventesimo secolo,
Frank Costello e Vito Genovese, figli
entrambi di operai immigrati italiani, sognano un futuro più
florido per loro e cercano di ottenerlo ad ogni costo.
Abbandonata la scuola, i due si dedicano a traffici illegali,
tra cui nell’epoca del proibizionismo, anche gli alcolici.
Per Frank sarebbe abbastanza aprire
un attività, un bar magari, ma Vito vuole di più. Dopo essere stato
condannato per duplice omicidio, Vito è costretto a lasciare
l’America, per poi farci ritorno solo alcuni decenni dopo, alla
fine della Seconda Guerra Mondiale. Nel frattempo, la gestione di
tutti gli affari ricade sulle spalle di Frank, il quale governa il
suo regno mafioso nella maniera più cauta e pacifica possibile. Ma
Frank doveva essere solo un reggente: al suo ritorno, Vito vuole
che gli venga restituito tutto il suo potere e il suo ruolo di
boss. Dopo diversi decenni, però, il mondo non è più lo stesso e il
comportamento di Vito può creare grandi rischi per tutti.
Frank Costello, il gangster
gentleman
Già noto al grande pubblico e
descritto dalla stampa dell’epoca come il primo ministro
della malavita, Costello è certamente un personaggio
molto peculiare. Si tratta di un gangster cauto e astuto, capace di
comprendere a pieno la società in cui vive e di rispettarne le
regole, in modo da poter trarre profitto da tutto. Frank non si
dedica solamente a traffici clandestini, ma cerca anche di creare
legami con politici, sindaci e poliziotti, in modo tale da poter
agire in maniera indisturbata, e soprattutto senza bagni di sangue.
Con Frank al potere, la pace e la prosperità regna in tutto il
territorio di New York.
Frank si presenta pubblicamente come
un uomo pulito, totalmente avulso dal mondo mafioso: vive in un
lussuoso attico con la moglie, con cui è sposato da più di
trent’anni, organizza e partecipa a eventi di beneficienza. Il suo
obiettivo principale è proprio mantenersi spettabile davanti al
vigile occhio sociale. Dopo il ritorno di Vito in America,
continuare a mantenersi dissociato dalla vita da gangster diventa
sempre più difficile per Frank, anche per i coinvolgimenti creati
dalla moglie di Vito, Anna. Ma con la sua furbizia, Costello trova
sempre una soluzione.
Vito Genovese, l’altra faccia di
Robert De Niro
Siete cresciuti insieme, giocavate insieme, rubavate
insieme.
Vito Genovese sembra invece essere
in The Alto knights – I due volti del
crimine una figura uguale e opposta a Frank:
cresciuto come lui in una famiglia di immigrati italiani,
convertito alle attività clandestine. Ma Vito ha sviluppato fin da
ragazzo un’avidità, una fame di potere maggiore rispetto al suo
amico d’infanzia. Vito è disposto a tutto pur di raggiungere i suoi
obiettivi, e proprio per questo si aspetta che gli altri
facciano lo stesso. Frank giustifica il comportamento quasi
paranoico di Vito con le sue origini: il gangster è nato in un
piccolo comune della provincia di Napoli, alle pendici del Vesuvio,
e questo lo ha portato a stare sempre all’erta.
E’ certamente interessante notare
come due personaggi così diametralmente diversi siano
contemporaneamente frutto della bravura dello stesso
attore: Robert De Niro riesce facilmente
a dare una connotazione diversa alle due performance interpretative
dei due protagonisti del film, mettendo a segno un altro
convincente ritratto di gangster dopo quelli recenti
di The
Irishmane Killers
of the Flower Moon, entrambi sotto la guida del fidato
amico Martin
Scorsese.
La verve comica di The
Alto knights – I due volti del crimine
Nonostante si tratti di un gangster
movie, anche in The Alto knights – I due volti del
crimine sono presenti degli elementi più ironici:
molti di questi sono collegabili allo stesso personaggio di Vincent
Gigante. Il ragazzo, alle prime armi nelle attività mafiose, è
riuscito a fallire nell’attentato a Frank, sparandogli un solo
colpo poco mirato alla testa, e non controllando che l’uomo fosse
effettivamente morto. Il dialogo con cui Vito gli rimprovera la sua
incompetenza, rimarcata anche verso la fine del film, è certamente
molto ironico. In definitiva, pur appartenendo a un filone
cinematografico molto sfruttato negli anni, The Alto
Knights – I due volti del crimine riesce a trovare
una sua individualità, affermandosi come un ottimo gangster
movie.
Il trailer di The Four
Seasons rivela che Tina Fey e Steve Carell tornano insieme nella serie
Netflix con un cast stellare, remake della commedia
classica di Alan Alda. Basata sul film omonimo del 1981 scritto,
diretto e interpretato da Alda, la miniserie Netflix in arrivo è
stata creata e scritta da Tina Fey, Lang Fisher e Tracey Wigfield,
già autrici di 30 Rock. Fey recita anche nella serie al
fianco di Steve Carell, con cui torna a recitare dopo Date Night
del 2010. Il cast include anche Colman Domingo, Erika Henningsen,
Kerri Kenney-Silver, Will Forte e Marco Calvani.
Ora,
Netflix ha svelato il primo teaser trailer ufficiale di
The Four Seasons. Il trailer presenta una storia simile
a quella del film del 1981, seguendo sei amici di lunga data nel
corso di quattro vacanze stagionali in primavera, estate, autunno e
inverno. Il gruppo di amici, composto da tre coppie, affronta gli
alti e bassi della vita mentre intraprende quattro diverse fughe.
Guarda il trailer qui sotto:
Cosa significa il trailer di The
Four Seasons per la serie
Innanzitutto, il trailer di The
Four Seasons rivela la reunion sullo schermo di Tina Fey e
Steve Carell. I due hanno recitato insieme per la prima volta nel
film romantico-comico del 2010 Date Night, nei panni di una
coppia sposata annoiata che cerca di riaccendere la fiamma del
romanticismo con una serata glamour, ma finisce per ritrovarsi in
un’avventura inaspettata e pericolosa. Questa volta, Fey e
Carell non interpretano una coppia in The Four Seasons,
poiché la prima è in coppia con Will Forte e Carell con Kerri
Kenney-Silver. Tuttavia, l’intesa tra Fey e Carell sullo schermo
dovrebbe comunque trasparire come amici.
Il trailer di The Four
Seasons rivela come il remake della serie Netflix aggiorna il
film di Alan Alda del 1981. Da notare l’inclusione di una coppia
gay, Danny e Claude, interpretati da Colman Domingo e Marco
Calvani. Nel film, tutte e tre le coppie erano eterosessuali. Per
il resto, la maggior parte dei personaggi sembrano ispirati al film
originale, rendendo abbastanza facile indovinare chi interpreta
ogni ruolo.
Ad esempio, il ruolo di Tina Fey
sembra essere quello originariamente interpretato da Carol Burnett.
Tuttavia, il primo teaser non rivela quale delle tre coppie sia in
difficoltà.
Hulu ha rilasciato il trailer
definitivo della sesta e ultima stagione di The
Handmaid’s Tale, che anticipa ciò
che June Osborne (Elisabeth
Moss) deve ancora affrontare prima che le luci si
spengano su questo dramma distopico. La stagione debutterà l’8
aprile con i primi tre episodi. La serie ha ormai adeguatamente
preparato gli spettatori a una rivoluzione e in questa stagione
essa non è più una promessa, ma una realtà.
Nel trailer, June è in giro con Luke
(O-T Fagbenle) in direzione di Gilead, il che
porta a molte domande. Come e dove si sono riuniti dopo che June e
sua figlia sono partite su un treno dal Canada mentre la polizia
arrestava Luke? June è visibilmente combattuta tra i due amori
della sua vita: Luke e Nick (Max Minghella), il
quale continua a rischiare tutto per salvarla, a prescindere dalle
conseguenze.
Poi c’è la grande rivelazione:
Serena (Yvonne
Strahovski) non solo ha ritrovato la strada per
Gilead, ma sta anche percorrendo la navata di una chiesa indossando
un abito azzurro, mentre le ancelle la circondano. Chi è il suo
sposo? Più avanti nel trailer, si scopre che è il nuovo personaggio
di Josh Charles quando porta la sua
nuova sposa oltre la soglia della loro nuova casa. Ad ogni modo,
una volta scoppiata la guerra, le ancelle si dimostreranno armate e
disposte a uccidere chiunque ostacoli la loro libertà.
Quello che sappiamo
su The Handmaid’s Tale – Stagione 6
Hulu ha fissato la data della
première della sesta e ultima stagione di The
Handmaid’s Tale per l’8 aprile, con i primi tre
episodi. I successivi seguiranno ogni martedì fino al finale del 27
maggio.
Nella stagione finale, lo spirito
inflessibile e la determinazione di June (Elisabeth
Moss) la riportano nella lotta per distruggere Gilead.
Luke e Moira si uniscono alla resistenza. Serena cerca di riformare
Gilead, mentre il Comandante Lawrence e la zia Lydia fanno i conti
con ciò che hanno provocato e Nick affronta una difficile prova di
carattere. Questo capitolo finale del viaggio di June sottolinea
l’importanza della speranza, del coraggio, della solidarietà e
della resilienza nella ricerca della giustizia e della libertà.
La sesta stagione è interpretata
da Elisabeth
Moss, Yvonne
Strahovski, Bradley Whitford, Max
Minghella, Ann Dowd, O.T. Fagbenle, Samira Wiley, Madeline Brewer,
Amanda Brugel, Sam Jaeger, Ever
Carradine e Josh Charles.
La serie è prodotta da MGM
Television. La sesta stagione è prodotta da Bruce
Miller, Warren Littlefield, Eric Tuchman, Yahlin Chang, Elisabeth
Moss, Sheila Hockin, John Weber, Frank Siracusa, Steve Stark, Kim
Todd, Daniel Wilson e Fran
Sears. La serie è distribuita a livello internazionale
da Amazon MGM Studios Distribution.
Netflix e Shondaland tornano
a collaborare con The Residence, una
serie mistery in otto episodi creata da Paul William
Davies e ispirata al libro The Residence:
Inside the Private World of the White
House di Kate Andersen Brower. Tra
intrighi, omicidi e un cast corale di personaggi stravaganti, la
serie si posiziona a metà tra la classica detective story e la
commedia satirica, con una vena di assurdità che la rende
irresistibile.
La storia intricata
di The Residence
La vicenda prende il via durante una
cena di stato alla Casa Bianca, organizzata per rinsaldare i
rapporti con l’Australia. Mentre gli ospiti si godono la serata e
la performance di Kylie Minogue, un urlo
squarcia l’aria: il Capo Usciere della Casa Bianca, A.B. Wynter
(Giancarlo
Esposito), è stato trovato morto nella sala del
biliardo. L’indagine viene affidata alla detective Cordelia Cupp
(Uzo Aduba), un’investigatrice eccentrica con una
passione per il birdwatching e le sardine in scatola. Accompagnata
dal riluttante agente dell’FBI Edwin Park
(Randall Park), Cordelia si addentra nei segreti
dell’edificio più sorvegliato d’America, interrogando ospiti e
membri dello staff per ricostruire gli eventi della fatidica
notte.
Cordelia Cupp è un
personaggio memorabile
Il fascino della serie risiede nel
suo tono ironico e nel cast eccezionale. Aduba regala una
performance magnetica, Cordelia è un personaggio
memorabile: brillante, bizzarra e sempre un passo avanti
agli altri. Al suo fianco spiccano Giancarlo
Esposito nel ruolo della vittima, Susan
Kelechi Watson nei panni della sua ambiziosa vice
Jasmine Haney e Jane
Curtin, l’esilarante suocera alcolizzata del
Presidente. La presenza di Al
Franken nei panni di un senatore cinico aggiunge un
ulteriore strato di satira politica.
La narrazione si sviluppa su due
linee temporali: da un lato, l’indagine di Cordelia, arricchita da
flashback e versioni contrastanti degli eventi; dall’altro,
un’audizione al Congresso in cui Jasmine e altri testimoni tentano
di chiarire il mistero. Questo doppio livello di racconto mantiene
alta la tensione, anche se a volte la serie sembra perdersi nei
suoi stessi intrecci. Il numero elevato di personaggi e sottotrame
può risultare dispersivo, aspetto aggravato da alcuni flashback
dedicato alla passione di Cordelia per l’ornitologia e il
birdwatching. Il ritmo risulta rallentato in questi frangenti, ma
il personaggio si arricchisce, diventando sempre più bizzarro e
approfondito.
Una residenza di lusso per un
Cluedo contemporaneo
Visivamente, The
Residence è un gioiello. La Casa Bianca viene trasformata
in un gigantesco puzzle, con stanze nascoste e corridoi segreti che
amplificano il senso di mistero e rendono più complessa la
risoluzione del crimine. La regia di Liza
Johnson e Jaffar
Mahmood gioca con prospettive insolite e un montaggio
vivace, mentre la colonna sonora omaggia il cinema noir e i
classici del giallo, senza dimenticare le derive più moderne dei
classici whodunit, come la serie di Knives
Out di Rian Johnson o gli
ultimi adattamenti da Agatha
Christie con Kenneth
Branagh (tutti che vengono esplicitamente citati dai
personaggi).
La satira sociale
Nonostante il tono leggero, che
struttura l’indagine con intriganti svolte e con le piacevoli
digressioni di Cordelia che si orienta nel mondo degli esseri umani
grazie agli insegnamenti del comportamento degli uccelli che ama
avvistare, The Residence non si risparmia quando si parla di satira
sociale e di critica alle alte cariche della società. Il cast
corale rappresentativo e variegato e si confronta alla fine
con la meschinità del mondo moderno, che concentra potere e
autorità nelle mani di pochi, ma non quelli che ci aspetteremmo,
per cui la serie mantiene una componente di imprevedibilità che la
rende ancora più divertente, fino al confronto finale, con tanto di
atteso ma necessario spiegone su “come sono andate davvero le
cose”.
In definitiva, The
Residence è una serie con una trama coinvolgente e con
dei protagonisti sopra le righe, che unisce il fascino di un giallo
alla Agatha Christie con l’umorismo
dissacrante tipico di Shondaland. Uzo
Aduba brilla nel ruolo della detective Cordelia Cupp,
e il cast di supporto contribuisce a rendere ogni episodio
un’esperienza spassosa e avvincente.
Un whodunnit in salsa comica da divorare in un
binge-watching senza rimpianti.
Biancaneve è il classico dei
classici. Primo film d’animazione a colori Disney,
nonché uno dei suoi maggiori successi al botteghino, è riuscito a
entrare nell’immaginario collettivo come una delle fiabe più amate,
con una delle principesse più memorabili. Nell’era dei live-action,
prodotti ormai con continuità, era quindi impensabile escludere
proprio il primo lungometraggio che segnò un’epoca straordinaria
per la Casa di Topolino e per generazioni di bambini. E così, dopo
un iniziale stop dovuto alla pandemia, le riprese hanno preso il
via nel 2022 sotto la direzione
diMarc Webb.
Come accaduto per La
Sirenetta, anche questo live-action non
è stato esente da critiche e polemiche, legate alla scelta della
protagonista. Non è cambiato nulla rispetto alle accuse rivolte
alla produzione per aver selezionato un’attrice che non
rispecchiasse nella carnagione la piccola sirenetta, polemica poi
messa a tacere dalla performance di Halle
Bailey, che ha dimostrato come il valore di una storia emerga
ben oltre il colore della pelle. Lo stesso destino è toccato
a Rachel
Zegler, criticata per una carnagione ritenuta troppo
scura per interpretare Biancaneve, rinomata per la pelle bianca
come la neve e le labbra rosse. Eppure, nel film, che si apre
sfogliando il classico libro delle favole, viene subito spiegato
l’origine del suo nome: è nata durante una bufera di neve e,
nonostante il gelo, questa neve, lei, è riuscita “a dominarla”,
come sottolinea la narrazione più volte.
La pellicola, in
uscita nelle sale il 20 marzo, è scritta
da Erin Cressida Wilson, con canzoni
originali curate da Pasek & Paul.
La trama
di Biancaneve
In un regno lontano, circondato da
amore e serenità, la regina dà alla luce una bambina, in una
giornata di neve. E poiché la piccola dimostra una straordinaria
forza, non lasciandosi indebolire dal gelo, le viene dato il nome
di Biancaneve. Cresce felice, ballando e infornando torte per i
sudditi, con la promessa ai genitori di rimanere sempre impavida,
buona, e giusta.
Ma la sua vita è destinata a
cambiare: alla morte della madre, una donna bellissima arriva a
palazzo, ammaliando il re. Ben presto la sua natura si rivela, e,
quando convince il sovrano a partire per una missione volta a
salvare alcune terre, la Regina Grimilde prende il potere, gettando
il regno nell’oscurità e nel terrore. Biancaneve viene relegata
nell’ala più alta del castello, come serva, ignara che Grimilde,
invidiosa di lei, stia progettando di ucciderla. Seguendo la storia
del film d’animazione, Biancaneve, una volta fuggita, si ritrova
nella casa dei sette nani, ma questa volta sceglie di combattere,
affiancata da Jonathan, un ribelle ladro che, anziché essere un
principe, lotta in nome del re ormai scomparso.
Scenografie sontuose, fotografia
magica. I sette nani? Una sorpresa
I trailer diffusi nel 2024 avevano
già dato un’idea di ciò che sarebbe stato il film, e la visione
completa conferma molte delle impressioni iniziali. La
ricostruzione degli interni del castello, del regno e persino della
dimora dei sette nani riesce a restituire quella magia tipica delle
fiabe Disney, merito senza dubbio di una scenografia
sontuosa e di una fotografia elegante dai
toni caldi, che avvolge lo spettatore trasportandolo in un
mondo di sogni, speranze e meraviglia. Il grande impegno produttivo
è evidente anche nei costumi, realizzati con cura per evitare il
famigerato effetto cosplay, ma purtroppo, il celebre abito blu e
giallo di Biancaneve, indossato da Rachel Zegler, risulta il meno
incisivo tra tutti.
Per quanto riguarda invece
i sette nani, al centro di numerose
discussioni, dobbiamo ricrederci: sebbene la CGI non
sia impeccabile e il loro design non brilli per
bellezza – al punto che alcuni potrebbero persino risultare
inquietanti – la loro caratterizzazione è
riuscita. Sono loro il vero cuore emotivo del
film, con un’energia che li rende autentici e, a conti
fatti, anche i più divertenti. Simpatici, buffi, genuini: i sette
nani si rivelano la sorpresa di un film che, invece, non trova il
suo punto di forza nei protagonisti principali.
Il punto debole
di Biancaneve
E qui arriviamo al problema
principale: attori e sceneggiatura, due pilastri fondamentali per
il successo di un film. Se nelle prime scene la narrazione sembra
funzionare, tutto inizia a vacillare dopo la
canzone Waiting On a Wish, che, va detto, non ha la
stessa potenza sonora in doppiaggio. Dal momento in cui Biancaneve
fugge nel bosco, la pellicola prende una piega
differente. Diversi passaggi narrativi risultano poco
chiari, con dinamiche affrettate e scene che si
interrompono bruscamente, creando un ritmo spezzato che finisce per
distanziare il pubblico dalla storia.
A rafforzare questo distacco è la
performance di Rachel Zegler, che in molte sequenze carica troppo
le espressioni facciali, rendendo evidente la finzione.
Anche Gal
Gadot, pur mostrando impegno, fatica a trasmettere
appieno la crudeltà e l’invidia di Grimilde. Questo perché, pur
avendo assorbito il fascino del personaggio con sguardi intensi e
sorrisi malvagi, si scontra con uno script che non valorizza a
dovere la villain. Grimilde avrebbe potuto avere maggiore
profondità, ma la sceneggiatura la priva di sfumature, rendendo il
climax finale debole e respingente nello scontro con la sua rivale
in bellezza.
Il valore del grande classico
Se alcuni aspetti lasciano l’amaro
in bocca, Biancaneveriesce comunque a
regalare momenti di nostalgia grazie
ai numerosi riferimenti al classico del
1937, che conquisteranno gli amanti della pellicola originale e i
fan Disney. La riproduzione di scene iconiche – come la
trasformazione di Grimilde, la fuga nel bosco e i sette nani al
lavoro in miniera – è un omaggio commovente. Sono questi
i momenti che creano il legame più forte con il
passato, suscitando quel senso di familiarità per chi, da
bambino, ha visto e rivisto Biancaneve e i sette nani in VHS
accoccolato sul divano, premendo il tasto rewind ogni volta che
finiva. Un tuffo, perciò, nei ricordi d’infanzia. Una scelta forse
prevedibile, ma anche profondamente sentita, che per le vecchie
generazioni diventa un motivo in più per rimanere a guardare.
The Equalizer – Il
vendicatore è il thriller d’azione del 2014 che ha
visto Denzel Washington interpretare Robert
McCall, un marine letalmente pericoloso diventato
ufficiale della DIA. Nel teso film, diretto da Antoine Fuqua, il
personaggio di Washington torna in azione con riluttanza per
salvare un adolescente dalla mafia russa. Dato il successo di
questo lungometraggio, è poi stato realizzato un sequel,
The Equalizer 2 – Senza perdono, in cui Robert e
il suo ex collega Dave York indagano sull’omicidio
di un’altra collega, Susan Plummer, uccisa da
assalitori non visti durante quella che sembrava una rapina a
Bruxelles.
Nell’indagare su questo omicidio,
non ci vuole poi molto perché l’antieroe incallito di Washington
scopra la scioccante verità che ha porta al finale. Nel frattempo,
un artista adolescente problematico di nome Miles
si è offerto di dipingere un murales nell’appartamento di Robert.
Queste due trame convergono nelle scene finali di The
Equalizer 2– Senza perdono, quando Miles
viene rapito dall’assassino di Susan e Robert deve tornare nella
sua città natale per affrontare gli assassini. Nel frattempo, il
finale fornisce anche nuove informazioni sulla visione del mondo di
Robert, sulle sue lotte e sul percorso che lo ha portato a una vita
di protezione degli innocenti.
La spiegazione del finale di
The Equalizer 2 – Senza perdono, chi ha ucciso
Susan Plummer?
È scioccante apprendere che èstato
l’apparentemente dolce e onesto Dave York interpretato da Pedro Pascal a uccidere Susan in The
Equalizer 2 – Senza perdono. La donna era stata incaricata
di risolvere un caso a Bruxelles dove un agente della CIA ha ucciso
la moglie per poi spararsi. Tuttavia, è stata eliminata prima di
poter stabilire cosa effettivamente fosse successo. A farla fuori è
stato proprio Dave, responsabile di quel crimine. Insieme agli
altri ex colleghi di Robert, Kovak,
Ari e Resnik, si è infatti dato
al crimine dopo essere stati abbandonati dalla DIA nonostante anni
di fedele servizio. Sapendo che Susan sarebbe arrivata ad
incastrarli, hanno dunque deciso di eliminarla.
Alla luce di ciò, anche se Dave ha
trascorso la maggior parte del film cercando di trovare l’assassino
di Susan insieme a Robert, si è alla fine rivelato proprio lui il
colpevole dell’omicidio. Robert se ne rende conto quando vede il
numero di Dave nell’elenco delle chiamate di un assassino che ha
tentato, senza riuscirci, di uccidere Robert. A questo punto il
sequel diventa veramente brutale: Dave e i suoi soci rapiscono
Miles e seguono Robert fino alla sua città natale in riva al mare.
Lì, usando la torre di guardia locale come base, Robert li fa però
fuori usando una forte tempesta come copertura, per poi affrontare
Dave in un combattimento uno contro uno.
Perché c’è un uragano nel finale di
The Equalizer 2 – Senza perdono?
L’uragano nel finale di The
Equalizer 2 – Senza perdono è un classico caso di fallacia
patetica, in cui la natura diventa l’incarnazione delle emozioni dei personaggi.
L’omicidio di Susan da parte di Dave ha sconvolto i ricordi di
Robert sul periodo trascorso insieme alla DIA e lo ha costretto a
confrontarsi con gli orrori del suo passato. Così, la sua città
natale è stata letteralmente fatta a pezzi mentre, interiormente,
Robert sentiva che anche la sua meritata pace era stata interrotta
e fatta a pezzi. L’immagine dell’uragano esteriorizza quindi
l’agitazione interna di Robert, che si rende conto che non si può
mai tornare veramente a casa dopo aver vissuto gli orrori della
guerra. Robert deve invece accettare brutalmente di aver fatto
parte della squadra di Dave e di dover uccidere i suoi ex
amici.
Il significato della morte di Dave,
Kovak, Ari e Resnik
Robert attirato quindi Kovak, Ari e
Resnik nella sua città natale e li uccide con un fucile subacqueo,
dei coltelli e un’esplosione di polvere. In termini pratici, Robert
ha ucciso questi scagnozzi uno alla volta per rendere più facile la
resa dei conti finale. A livello metaforico, Robert aveva bisogno
di tornare nella sua casa d’infanzia e di infliggere questi destini
violenti ai suoi colleghi per uccidere le parti di sé che volevano
trasformare la sua rabbia in una vendetta omicida. Robert, come i
suoi colleghi, si sentiva ingannato e tradito da un governo
noncurante dopo anni di fedele servizio. Per questo motivo, aveva
bisogno di ucciderli per assicurarsi di non diventare come
loro.
Infine, Robert ha lentamente
pugnalato a morte Dave con il suo stesso coltello, utilizzando le
tecniche che entrambi hanno imparato alla DIA. Dave si è appoggiato
alla sua rabbia, amarezza e risentimento per diventare un
assassino, mentre Robert ha rivolto la lama su Dave (e, per
estensione, sul suo stesso risentimento). The Equalizer 2 –
Senza perdono è stato il primo sequel nella carriera di
Denzel Washington e questo pesante finale spiega perché. Quando
Robert ha ucciso Dave, ha scelto la strada del perdono piuttosto
che quella della vendetta violenta. Questo gli ha conferito un
senso di responsabilità che mancava nel finale dell’originale
The Equalizer – Il
vendicatore.
Per quanto riguarda la linea
narrativa dedicata a Miles, nel finale di The Equalizer 2 –
Senza perdono, il ragazzo dipinge un’idilliaca scena
rurale sul lato dell’edificio in cui vive Robert. Il murale
raffigura una comunità che si prende cura dei propri raccolti,
riflesso dell’orto comune del condominio e testimonianza del potere
della riabilitazione comunitaria. Dopo tanti spargimenti di sangue
e morti, Robert non avrebbe potuto trovare uno scopo nella sua vita
se non fosse stato per il potere riparatore della comunità.
Offrendosi come mentore di Miles, Robert ha incarnato l’approccio
olistico alla vita, incentrato sulla comunità, descritto nella
visione utopica di Miles. Tuttavia, l’incapacità di Robert di
offrire la stessa guida ai suoi colleghi lo perseguita dopo la loro
morte per mano sua.
Il vero significato del finale di
The Equalizer 2 – Senza perdono
Anche se il finale di The
Equalizer 2 – Senza perdono non è del tutto tragico, c’è
un forte senso di tristezza. Robert riunisce un sopravvissuto
all’Olocausto con il fratello perduto da tempo grazie alle sue
capacità, ma non riesce a costringere Dave a vedere un percorso per
la sua vita che non sia definito dalla violenza e dalla punizione.
Come dice il Nuovo Testamento, “È più facile che un cammello
passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno di
Dio”, e Robert se n’è reso conto quando si è dimostrato più
facile cavare gli occhi a Dave che fargli capire l’errore dei suoi
modi.
Robert avrebbe potuto facilmente
diventare un altro mercenario scontento come Dave, Kovak, Ari e
Resnik, e nel finale di The Equalizer 2 – Senza
perdono è stato costretto a fare i conti con questo fatto.
Incoraggiando Miles a perseguire l’arte invece di una vita
criminale, Robert ha trasmesso la sua saggezza alla generazione
successiva. Tuttavia, non è riuscito a salvare gli uomini con cui
ha combattuto e, alla fine, è stato lui a doverli uccidere.
Nonostante i suoi tentativi di aiutare i bisognosi, Robert McCall è
dunque ancora turbato dai suoi limiti nel finale di questo film,
poiché si rende conto che avrebbe potuto essere tentato dal crimine
proprio come i suoi fratelli in armi. Forse è anche per questo che
in The Equalizer 3 – Senza tregua, cerca pace lontano da
quei luoghi.
Dopo aver trasformato Nicolas
Cage nel suo
incredibile Longlegs, Osgood – detto Oz –
Perkins rilancia con il nuovo The
Monkey,distribuito al cinema da
Eagle Pictures a partire dal 20 marzo 2025. Un film che riunisce
parte di un ipotetico Gotha dell’horror, nel quale non potrebbero
mai mancare James Wan (il padre delle
saghe di The Conjuring e Saw, qui
produttore) e Stephen King, autore del
racconto (contenuto nella raccolta “Scheletri“) dal quale
nasce questo adattamento, interpretato da Theo
James, nel doppio ruolo del tormentato e disperato
protagonista, e diretto appunto dal figlio dell’Anthony Perkins
di Psycho.
Da Psycho a Stephen
King
Che abbiamo visto muovere i primi
passi su un set nel 1983, come ‘giovane Norman’ nel Psycho
II di Richard Franklin, ed esordire alla regia nel 2015,
con February – L’innocenza del male nel 2015,
prima dell’interessante Sono la bella creatura che vive in
questa casa nel 2016 e la versione personale del poco
fiabesco Gretel e Hansel nel 2020, prima del
citato Longlegs. E che per questo gradito ritorno
sceglie di attingere alla storia “La scimmia“, pubblicata
dal Re del Brivido nel novembre del 1980, dopo che in passato era
stato Kenneth J. Berton, nel 1984, a farne un film con il
suo Il dono del Diavolo (The Devil’s Gift).
La trama di The
Monkey
Nel 1999, Petey Shelburn
tenta di restituire, e distruggere, una scimmia giocattolo in un
negozio di antiquariato, ma il congegno meccanito tutto è tranne
che un gioco. Come dimostra la reazione a catena che si scatena,
solo la prima stazione di una interminabile via crucis disseminata
di morti incredibili che sembrano funestare la famiglia Shelburn e
i due piccoli figli di Petey, Hal e Bill. Sono loro a sospettare
del potere nefasto della scimmia e a disfarsene… ma per quanto?
Venticinque anni dopo, infatti, i due, ormai separati dalla vita e
dalla precisa intenzione di non avere nulla a che fare l’uno con
l’altro, sono costretti a riavvicinarsi dall’inatteso riapparire
del “giocattolo”. Ma se non fosse un caso? Come potrebbe Hal
evitare che la maledizione ricada su suo figlio Petey?
Il destino è quel
che è
Tutti muoiono, il film ce
lo ricorda, ma accettato questo assunto tanto vale sbizzarrirsi.
Chissà che non sia stato questo il pensiero di Oz Perkins
nell’architettare questo adattamento infarcendolo di invasioni di
vespe assassine, donne che esplodono e incidenti mortali di ogni
tipo, nel quale il pericolo è dietro ogni angolo, dalla piscina al
ristorante, sia che si resti in casa sia che si vada a fare
shopping. Morti talmente assurde, esagerate ed esplicite da fargli
andare stretto persino il collegamento – spontaneo, a vedere il
film – con il franchise di Final Destination, e che
probabilmente faranno la gioia di molti appassionati del
genere.
Il Dark Humour
in The Monkey
Questo senso
dell’umorismo ‘malato’ è in fondo la cifra principale del film, nel
bene e nel male, visto che spesso, a fronte della grande creatività
omicida e dell’abilità del regista a costruire gradualmente la
tensione, viene a mancare proprio quella che dovrebbe essere la
spina dorsale dell’horror. La forza evocativa e inquietante del
giocattolo ha molta meno intensità e presa di altri suoi simili,
sostanzialmente ridotto a osservatore silente e trasformato in una
sorta di innesco di quello che è il vero conflitto, quello tra i
due fratelli.
Una scelta spiazzante,
che spezza in due il film, dopo un prologo avvincente e una
premessa promettente, affidandosi spesso a cliché e a una storia
debole nella sua rappresentazione, anche come mero tessuto
connettivo tra sequenze emozionanti e visivamente di impatto, che
finisce per dilungarsi eccessivamente prima della definitiva
conclusione. Anche questo effetto della libertà che Perkins
dimostra di prendersi nella trasposizione del racconto, insieme
alla fondamentale aggiunta di un fratello gemello, elemento che gli
permette di fare proprio il film e approfondire le dinamiche
familiari (dal rifiuto della paternità al senso di colpa per quanto
vissuto nell’infanzia) e i traumi che uniscono Hal e Bill, fino ad
assumere i tratti di una vera e propria maledizione, da affrontare,
accettare o scontare.
Un tentativo di
catarsi personale per Perkins
Tutto ciò, unito alla
relazione fratturata affidata al doppio Theo, aggiunge profondità
al racconto e un peso specifico particolare al cercarsi e
confrontarsi dei due gemelli. Forse non quella desiderata dallo
spettatore medio, che certo non si aspetterà Bergman, ma si
ritroverà di fronte a un progetto decisamente personale per il
regista, che ha pubblicamente ammesso di continuare a sfruttare i
propri film – almeno Longlegs e The
Monkey – per affrontare la depressione causata dalla morte
“mediatica” dei suoi genitori (il padre a causa dell’AIDS e la
madre Berinthia “Berry” Berenson negli attentati dell’11 settembre
2001) e mettere in scena genitori assenti, le drammatiche
conseguenze di certi segreti familiari, il desiderio di vendetta e
la paura di una distruttiva coazione a ripetere il passato.
Attenti al
gorilla
Attenzione a
fraintendere, The Monkey è
sufficientemente divertente, splatter e grottesco da appartenere a
buon titolo al genere e da poter essere apprezzato dallo stesso
King (nonostante il tradimento del suo originale), a patto di
possedere lo stesso humour del regista e sceneggiatore. Che, come
detto, a scelte convincenti di stile (dai titoli ‘western’ a una
fotografia desaturata e un commento musicale ben calibrato) e una
pletora di personaggi di contorno surreali, unisce uno sviluppo non
sempre di livello. Per ritmo e coerenza. Che rischierà di annoiare
qualcuno, forse i poco impressionabili, ma che per lo meno non si
prende sul serio. Decisamente.
Marcello Macchia,
meglio noto come Maccio Capatonda, torna con
Sconfort Zone, una serie disponibile dal 20 marzo
su Prime
Video che rappresenta una svolta nella sua carriera, quasi una
auto analisi che Macchia trasforma in racconto semi serio di una
sua difficoltà personale. Conosciuto per il suo stile comico
surreale e dissacrante, Capatonda questa volta si spinge oltre i
confini della semplice parodia, esplorando il lato più intimo e
vulnerabile della sua creatività.
Di cosa parla Sconfort Zone?
La serie segue Maccio Capatonda nei
panni di sé stesso, alle prese con una profonda crisi creativa.
Incapace di scrivere una nuova sceneggiatura, si affida alle cure
del Professor Braggadocio (Giorgio Montanini), uno
psicologo dai metodi non convenzionali che lo sottopone a una serie
di esperimenti per aiutarlo a riscoprire la propria ispirazione.
Quello che inizia come un percorso di rinascita artistica si
trasforma presto in una vera e propria ridefinizione della sua
identità, portandolo a mettere in discussione non solo la sua
carriera, ma anche la sua intera esistenza.
Un esperimento metatestuale
Fin dalle prime immagini, Sconfort
Zone si presenta come un’opera metatestuale, giocando con la realtà
e la finzione. Il protagonista affronta prove che affondano in
riflessioni su temi profondi come la malattia, la morte e il senso
della propria arte. In un primo momento, questa virata verso un
tono più drammatico può lasciare spiazzati i fan abituati alle gag
esilaranti dell’attore abruzzese, ma man mano che la storia si
sviluppa, emerge un perfetto equilibrio tra momenti di riflessione
e la sua inconfondibile vena comica, mai del tutto abbandonata.
Anche nei momenti più drammatici risulta difficile non stare
allerta in attesa della prossima intrusione nel surrealismo tipico
della comicità di Maccio.
Uno degli elementi più riusciti
della serie è la presenza di Valerio Desirò nei
panni di un infermiere esuberante e sarcastico, capace di
alleggerire i momenti più tesi con battute taglienti e una efficace
cadenza romana. Il suo personaggio non è solo un elemento comico,
ma anche una figura che incarna il precariato e le difficoltà della
generazione contemporanea che si aggrappa alla risata come
esorcismo nei confronti della difficoltà. Il cast di supporto,
composto da Francesca Inaudi (compagna di Maccio
nella finzione), Luca Confortini, Camilla Filippi,
e il trio di comici Valerio Lundini, Edoardo
Ferrario e Gianluca Colucci, che
interpretano gli amici intimi del protagonista (uno specchio
deformato in cui Marcello/Maccio riflette le proprie insicurezze)
arricchisce ulteriormente il tessuto narrativo della serie,
offrendo interpretazioni autentiche e sfumate, continuamente
tentate dal superare la linea di demarcazione tra tono drammatico e
surreale
Citazioni pop accanto a riflessioni
sull’arte e sulla vita
Se Sconfort Zone si
distingue per il suo coraggio tematico, altrettanto audace è il suo
approccio stilistico. Maccio Capatonda fonde la
sua tipica ironia con un linguaggio più cinematografico,
impreziosendo la narrazione con riferimenti alla cultura pop e
citazioni colte. Alcune scene, tra cui una toccante sequenza che
richiama Ritorno al Futuro, dimostrano una maturità registica
sorprendente (Macchia dirige a quattro mani con Alessio
Dogana, che viene dal documentario). La serie riesce a
bilanciare il suo umorismo con momenti di pura introspezione,
creando un’esperienza coinvolgente e stratificata.
Ma ciò che rende Sconfort
Zone davvero speciale è la sua capacità di parlare a un
pubblico trasversale. Dietro la trama autobiografica e i
riferimenti ironici al mondo dello spettacolo, si cela una
riflessione più ampia sulla pressione creativa e
sull’identità nell’era della sovraesposizione digitale,
quando la necessità di creare contenuto a tutti i costi sovrasta
l’estro naturale e ispirato che alimenta la creatività di artisti e
attori. Capatonda non si limita a intrattenere, ma solleva
interrogativi su cosa significhi essere un artista oggi, in un
mondo in cui l’originalità sembra sempre più soffocata dalle
logiche di mercato.
Marcello Macchia
dimostra con Sconfort Zone di riuscire a gestire sia la
sua nota vocazione comica fondendola con un registro insolito per
lui, che mira a un’analisi più profonda, un viaggio dentro
la mente di un artista in crisi, che riesce in egual
misura a divertire e emozionare, offrendo spunti di riflessione e
aprendo porte sul mondo privato dell’autore.
Un’opera audace che gioca con il
concetto di identità, percezione e bellezza,
A Different Man è
il nuovo film scritto e diretto da Aaron
Schimberg.
Con una trama che riecheggia il classico Operazione
diabolica
(1966) di John Frankenheimer, il film segue Edward (interpretato
daSebastian Stan),
un attore newyorkese con neurofibromatosi, una condizione che gli
causa vistosi tumori facciali e lo relega a ruoli marginali come
quelli nei video aziendali sulla diversità e l’inclusione. La sua
vita cambia quando accetta di sottoporsi a un trattamento
sperimentale che lo trasforma radicalmente, dandogli l’aspetto di
una star del cinema. Ma il cambiamento esteriore non si traduce in
una nuova vita felice: Edward scopre che il suo senso di
inadeguatezza non era solo una questione estetica.
Il fascino di una narrazione complessa
La forza di A Different
Man risiede nella sua capacità di esplorare il concetto di
identità in modo sfumato e spesso ironico. Schimberg non tratta
Edward con condiscendenza, evitando la tipica rappresentazione di
personaggi diversi come esseri straordinariamente virtuosi o saggi.
Edward è insicuro, mediocre come attore e non particolarmente
brillante. Il suo desiderio di cambiare aspetto non nasce da un
bisogno di accettazione sociale, ma da una cieca ambizione
artistica. Tuttavia, quando il cambiamento avviene, le cose non
migliorano come sperava: il suo nuovo aspetto lo porta solo a una
crisi ancora più profonda.
L’ironia sottile che percorre tutto
il film e l’estetica vintage ottenuta anche grazie alla pellicola
Super 16mm scelta dal direttore della fotografia Wyatt Garfield
contribuiscono a rendere credibile l’atmosfera da cinema
indipendente anni ’70 e coniuga l’omaggio stilistico al senso di
intimità e contraddizione che il protagonista porta avanti nella
sua turbolenta parabola personale.
Un cast brillante e performance
straordinarie
Sebastian Stan, noto per il
suo ruolo di Bucky Barnes nel MCU, dimostra ancora una volta il
suo talento nelle produzioni più rischiose. La sua interpretazione
di Edward/Guy non si basa solo sul cambiamento estetico, ma su una
profonda trasformazione fisica e vocale. La sua postura rimane
esitante, il suo tono di voce incerto, mostrando che l’insicurezza
è radicata nella sua personalità, non nel suo aspetto. Stan mette a
segno un’altra performance di grande spessore nella stagione
cinematografica che gli è valsa la sua prima nomination agli oscar
con l’interpretazione del giovane Donald Trump
in The Apprentice – Alle origini di
Trump.
Accanto a lui,
Renate Reinsve (già
acclamata per La
persona peggiore del mondo)
offre un’altra interpretazione affascinante. Il suo personaggio,
Ingrid, è una drammaturga norvegese che si trasferisce a New York
con grandi sogni e una personalità carismatica ma ambigua. Il suo
rapporto con Edward è inizialmente di supporto, ma si complica
quando lei scrive un’opera teatrale ispirata alla loro amicizia e
alla sua trasformazione, creando una dinamica di potere
intrigante.
Il vero fulcro emotivo
del film è però Adam
Pearson nel ruolo di Oswald. Pearson, che nella realtà
convive con la neurofibromatosi, incarna un personaggio
diametralmente opposto a Edward: sicuro di sé, affascinante e
dotato di una magnetica presenza scenica. Oswald rappresenta tutto
ciò che Edward avrebbe voluto essere, nonostante condividano la
stessa condizione fisica. Questa dicotomia genera una tensione
psicologica che diventa il cuore pulsante del film.
A Different
Man è una satira sull’autenticità
A Different
Man è una satira oscura sulla bellezza e sull’autenticità.
Il film suggerisce che la società ha una visione ristretta di ciò
che è desiderabile e normale, ma va oltre la semplice critica.
Schimberg scava più a fondo, mettendo in discussione anche la
rappresentazione della disabilità nel cinema. Edward e Oswald
dimostrano che una condizione fisica può portare a percorsi di vita
molto diversi, smentendo il cliché della persona diversamente abile
come vittima o come esempio di forza sovrumana.
Un finale aperto in
linea con lo spirito del film
Nella seconda parte, il film si fa
sempre più surreale, con una narrazione frammentata che riflette la
crisi d’identità del protagonista. Quando Edward/Guy si rende conto
di non essere comunque felice, la sua ossessione per Oswald cresce
fino a diventare autodistruttiva. Il film lascia molte domande
senza risposta, preferendo suggerire piuttosto che spiegare. Questo
senso di sospensione potrebbe risultare frustrante per alcuni
spettatori, ma è coerente con il tono della storia che non si ferma
mai a un giudizio univoco e lascia sempre spazio per discussione e
contraddittorio.
A Different Man è
un film stimolante, che sfugge alle convenzioni del genere e
propone una riflessione profonda sul rapporto tra aspetto fisico,
autostima e percezione sociale. Grazie a una regia intelligente,
un’estetica ricercata e interpretazioni memorabili, Schimberg firma
un’opera unica nel suo genere. Non tutto funziona perfettamente,
soprattutto nella seconda parte, ma il film rimane un’esperienza
intrigante e provocatoria, da vedere e discutere.
Il finale della miniserie NetflixAdolescence, visivamente impressionante ed
emotivamente straziante, rivela la verità su chi ha ucciso Katie.
Stephen Graham è il protagonista del cast di Adolescence nel
ruolo di Eddie Miller, il padre devastato di Jamie Miller, un
ragazzo apparentemente normale che viene accusato di aver
accoltellato a morte la sua compagna di classe, Katie. Graham, che
ha sviluppato la serie thriller culinaria del 2023 Boiling
Point, ha anche co-creato la miniserie in quattro parti con
Jack Thorne. Adolescence ha ricevuto un raro punteggio del
100% da parte della critica su Rotten
Tomatoes, diventando una delle nuove serie più acclamate dalla
critica del 2025.
Adolescence è realizzata in
modo brillante e si svolge come uno spettacolo teatrale, con ogni
episodio girato in un unico piano sequenza. Mentre l’aspetto visivo
della serie Netflix è un’impresa a sé stante, la storia di
Adolescence rimane la parte più avvincente del dramma
psicologico. Dopo che l’episodio 1 segue Jamie attraverso il
protocollo della polizia dopo il suo intenso arresto e il primo
interrogatorio, l’episodio 2 dà uno sguardo alla scuola frequentata
da lui e Katie, mentre l’episodio 3 rivisita il tormentato Jamie
mentre entra e esce dal controllo con uno psicologo. L’episodio
4 si svolge 13 mesi dopo che Jamie è stato accusato dell’omicidio
di Katie e si conclude con una tragica nota definitiva su ciò
che è realmente accaduto.
La scelta di Jamie di
dichiararsi colpevole è la prova che ha ucciso Katie
Jamie confessa finalmente di
aver ucciso Katie con la sua dichiarazione di colpevolezza
L’episodio 4 di Adolescenza
si svolge il giorno del 50° compleanno di Eddie, motivo per cui
riceve un biglietto di auguri da Jamie, che è detenuto da oltre un
anno in attesa di processo. L’episodio mostra come la famiglia
Miller abbia superato in parte il trauma causato da Jamie, ma non
del tutto. Dopo aver avuto a che fare con alcuni teppisti che
vandalizzano il suo furgone, Eddie perde la calma fuori da un
negozio di bricolage, causando una scenata. Eddie riceve una
telefonata da Jamie, che gli augura buon compleanno e gli dà una
notizia allarmante: si dichiara colpevole. Questo conferma
essenzialmente che Jamie ha effettivamente pugnalato Katie sette
volte e l’ha uccisa, come mostrato dalle prove video delle
telecamere a circuito chiuso nell’episodio 1.
Perché Eddie non riusciva a
credere che Jamie fosse un assassino dopo aver visto le prove
video
Eddie era spinto dal rifiuto di
proteggere suo figlio a tutti i costi
Uno degli aspetti più affascinanti
del personaggio di Jamie era quanto fosse convincente nel
mentire e manipolare. Questo aspetto viene messo in piena
evidenza con il suo terapeuta nell’episodio 3. Anche se Eddie ha
visto le immagini innegabili di Jamie che accoltellava e uccideva
Katie, non riusciva a crederci completamente.
Dopo aver finalmente
ascoltato la confessione di Jamie, Eddie capisce di essere stato
ingannato per tutto il tempo e la realtà finalmente affiora nella
sua mente e in quella della sua famiglia.
Negli ultimi 13 mesi, sembrava che
la famiglia Miller avesse ancora qualche speranza che il figlio
non fosse un assassino, probabilmente come misura difensiva
perché il dolore di una tale verità sarebbe stato troppo grande.
Dopo aver finalmente ascoltato la confessione di Jamie, Eddie
capisce di essere stato ingannato per tutto il tempo e la realtà
finalmente affiora nella sua mente e in quella della sua
famiglia.
La spiegazione della
conversazione emotiva di Eddie e Manda su Jamie
Si sentono in colpa per aver
creato un assassino, ma hanno anche cresciuto una figlia
fantastica
Dopo la notizia scioccante della
decisione di Jamie, Eddie e Manda hanno una conversazione emotiva e
riflessiva sul figlio, che dovrà sicuramente affrontare anni di
prigione. Ricordano i giorni migliori, analizzando anche cosa
avrebbero potuto fare diversamente, assumendosi la colpa e la
responsabilità di averlo “creato”.
Eddie dice che ha cercato di
avvicinarlo allo sport, ma Jamie non era interessato, mentre Manda
ricorda come Jamie tornava a casa da scuola, si metteva al computer
e rimaneva sveglio fino a tarda notte. Mentre Eddie e Manda si
assumono la responsabilità di averlo reso un assassino, la loro
figlia Lisa entra e ricorda loro che hanno creato anche lei e
che non possono incolpare se stessi per il lato oscuro di
Jamie.
Perché alcuni ragazzi hanno
scritto “Nonse” sul furgone di Eddie
Adolescence episodio 4
inizia con Eddie che scopre che il suo furgone di lavoro è stato
vandalizzato, con alcuni ragazzi che hanno scritto “Nonse” con
vernice spray gialla affinché tutti i vicini di Eddie potessero
vederlo. In gergo britannico, un “nonce” si riferisce a un
molestatore sessuale, in particolare uno che coinvolge bambini.
Lisa vede la scritta e dice a sua madre di essere confusa su chi
sia il “nonse”, se Eddie o Jamie. Jamie ha rivelato nell’episodio 3
di essere stato tentato di toccare Katie in modo inappropriato, ma
di non averlo mai fatto. D’altra parte, è impossibile sapere quanto
Jamie fosse sincero.
L’episodio 4 evidenzia anche il
fatto che Eddie sta avendo qualche difficoltà a gestire la
situazione di Jamie e la sua continua lotta contro la rabbia.
Quando Eddie affronta l’adolescente che ha vandalizzato il suo
furgone, gli urla “Non prendermi in giro”, che può essere
interpretato come una leggera ammissione di colpa, come se
sapesse che “nonse” era riferito a lui. Mentre Lisa non ha idea
della questione, Manda potrebbe sapere qualcosa sul passato di
Eddie che non viene necessariamente alla luce alla fine di
Adolescenza. Forse i ragazzi che hanno scritto “nonse” hanno
sentito dire che Eddie aveva abusato sessualmente di Jamie. In ogni
caso, l’accusa di “nonse” nei confronti di Eddie o Jamie sembra
infondata.
Chi è Jenny e perché Manda
continua a parlarne
Manda menziona “Jenny” più volte
durante la sua discussione con Eddie, ricordandogli ciò che lei ha
detto su alcuni suoi comportamenti. Anche se Jenny non appare nella
serie, è lecito supporre che sia la terapista di Eddie e
potrebbe anche essere una consulente di coppia per Eddie e
Manda.
Eddie ha chiaramente dei difetti e
il suo problema più evidente è la rabbia incontrollabile: chiede a
sua moglie se lui ha “trasmesso” questo a Manda, che nega, quando
in realtà è una domanda a cui è impossibile rispondere. Sicuramente
i bambini esposti all’idea che gli uomini esercitano il dominio
o il controllo attraverso la rabbia e la violenza potrebbero
implementare queste nozioni nella loro personalità e
percezione.
Spiegato il motivo per cui
Jamie ha ucciso Katie
Adolescence esplora diversi
aspetti della mentalità malsana di Jamie
Jamie lo ha reso ufficiale
nell’episodio finale di Adolescence, ma era già chiaro fin
dalla fine del primo episodio. Attraverso la visione giovanile di
suo figlio, Bascombe scopre che Jamie era vittima di bullismo
subliminale da parte di Katie, che usava determinate emoji nei
commenti sui suoi post Instagram per insinuare che lui fosse un
“incel”. Si parla anche della “manosfera” e di altri pilastri
della mascolinità tossica, perpetuati da figure controverse come
Andrew Tate, che viene persino menzionato direttamente nella
serie.
Questi elementi, combinati con la
scuola turbolenta di Jamie, la sua patologica propensione alla
menzogna, la storia familiare di rabbia e la profonda insicurezza,
dipingono un quadro comprensibile del perché qualcuno che è stato
rifiutato e vittima di bullismo da una ragazza che gli piaceva
avrebbe potuto vendicarsi con la forza bruta, potenzialmente senza
rendersi conto della gravità delle sue azioni.
Il vero significato del finale
di Adolescenza
Adolescence fa un ottimo
lavoro non solo nel sollevare le questioni relative alle
aggressioni con arma da taglio tra adolescenti nella vita reale,
che hanno ispirato la serie, ma anche nell’offrire alcune
circostanze applicabili e vie verso la comprensione. Graham e
Thorne presentano l’esperienza dell’adolescenza stessa come
enigmatica e spesso irrazionale, alimentata sempre più dal gergo
di Internet, dai cosiddetti influencer e da ingegnosi espedienti di
cyberbullismo. Considerando il contesto completo della
situazione di Jamie, è chiaro che aveva molte difficoltà sociali e
personali che non sapeva come elaborare o esprimere a un adulto di
fiducia. Gli spettatori di Adolescenza decidono quindi a chi
attribuire la colpa.
Con un argomento così confuso
e indescrivibile, Adolescenza offre brillantemente una prospettiva
empatica, avviando al contempo un dibattito sociale
fondamentale.
Jamie non era in terapia fino a
dopo aver ucciso Katie, il che gli avrebbe almeno aiutato a
chiarire in anticipo alcuni dei suoi sentimenti intensi e violenti.
Jamie è senza dubbio tragico in un certo senso e solleva ogni sorta
di domande e dibattiti, come ad esempio se fosse davvero destinato
a diventare un assassino e, in tal caso, cosa lo abbia
condizionato: i suoi genitori, i suoi coetanei, il mondo esterno
(Internet)? L’ultima frase di Eddie sullo schermo, “Avrei dovuto
fare di meglio”, mostra il suo dolore naturale, ma l’indagine
di Bascombe rivela che c’erano alcune cose che sfuggivano al
controllo di Eddie e Manda. Con un tema così confuso e
indescrivibile, Adolescenza offre brillantemente una
prospettiva empatica, avviando al contempo un dibattito sociale
fondamentale.
Immagina una Eleven ancora più
solitaria e arrabbiata, con un biondo ossigenato da vera ribelle e
un’energia da outsider in rotta col mondo. Affiancale ora uno
Star-Lord più trasandato e disilluso del solito, spogliato della
sua ironia sfacciata, e catapulta entrambi in un universo dove il
retrò e il futuristico si fondono in un’estetica nostalgica e
intrigante. Sulla carta,
The Electric State dei
fratelli Russo sembrerebbe un
mix esplosivo, il perfetto road movie sci-fi capace di conquistare
cuore e mente.
Eppure, qualcosa non torna del tutto.
Basato sull’omonimo romanzo illustrato del 2018 di Simon
Stålenhag, The
Electric State è
il nuovo emozionante film Netflixdiretto
da Anthony e Joe Russo,
con una sceneggiatura firmata da Christopher Markus e Stephen
McFeely. Il cast è stellare: accanto a Millie Bobby Brown e Chris Pratt troviamo
il premio Oscar® Ke Huy Quan, Jason Alexander, Giancarlo Esposito,
il candidato all’Oscar® Stanley Tucci e Woody
Norman. The
Electric State è disponibile
dal 14 marzo su Netflix.
Cosa racconta The
Electric State?
The Electric State è ambientato in un’America
rétro-futuristica degli anni ’90, segnata dalle conseguenze
di una guerra devastante tra umani e robot.
In questa versione alternativa del passato, le macchine senzienti
erano state inizialmente accolte come strumenti essenziali per la
società, occupandosi di compiti di pubblica utilità e supportando
gli esseri umani nella vita quotidiana. Nonostante ciò, la loro
richiesta di diritti e riconoscimento ha scatenato un conflitto
inevitabile tra umani e macchine, culminato nella sconfitta di
questi ultimi e nel loro esilio.
Il mondo che ne è scaturito è
profondamente mutato: la tecnologia permea ogni aspetto della vita,
ma invece di avvicinare le persone, le ha rese sempre più isolate,
immerse in realtà digitali attraverso i loro neurocaster. In questo
scenario, Michelle (Millie Bobby Brown
– Stranger Things, Enola Holmes, Damsel), un’adolescente
segnata dalla perdita dei genitori e del fratellino Christopher in
un incidente stradale avvenuto anni prima, fatica ad adattarsi a
una società ormai disumanizzata. Nel frattempo, i robot senzienti,
un tempo pacifici e dalle sembianze quasi giocose, sono stati
relegati in un fatiscente paesino, un limbo di rottami e sogni
infranti dopo la loro ultima, fallita ribellione.
Ma la vita di Michelle cambia di
nuovo quando, all’improvviso, riceve la visita di
Cosmo, un misterioso e affettuoso robot che sostiene di
essere controllato da Christopher, il fratellino che ha perduto.
Con lui si riaccende la speranza di riunire la sua famiglia, o
almeno ciò che ne resta. Determinata a scoprire la verità, Michelle
intraprende un viaggio pericoloso verso la Zona Interdetta nel
sud-ovest americano, decisa a capire chi li ha separati e perché,
dopo quel tragico incidente. Ad accompagnarla in questa avventura
sarà Cosmo, ma anche Keats (Chris Pratt, Guardiani della
Galassia, Jurassic World), un
contrabbandiere dal carattere ruvido, e il suo inseparabile
compagno robotico Herman, doppiato nella
versione originale da Anthony Mackie.
Ritrovare l’umanità che
abbiamo perso
Può un ammasso di metallo e
circuiti provare più empatia e lealtà di un essere
umano? D’istinto, verrebbe da rispondere con un no
secco. Eppure, la storia nata dall’immaginazione di Simon Stålenhag
ci porta a riconsiderare questa certezza. La commovente avventura
di Michelle e Keats dipinge un mondo in cui gli esseri umani si
sono fatti più freddi, distanti e alienati di qualsiasi macchina.
Nel loro lungo viaggio attraverso un’America fatiscente e
nostalgica, i due trovano ben poco calore tra le persone, ad
eccezione di Keats stesso, che condivide con Michelle un senso di
inadeguatezza, ribellione e solitudine.
Paradossalmente, il vero rifugio lo
scopriranno in un villaggio dimenticato, un luogo dove i robot
dotati di coscienza sono stati esiliati e abbandonati, scartati
dalla società umana nonostante il loro desiderio di restare accanto
alle persone. In questo angolo di rottami e
malinconia, Michelle e Keats realizzeranno che forse l’umanità non
risiede più nelle persone, ma in ciò che loro stesse hanno creato e
poi respinto.
Ed è proprio attraverso la tragica
storia familiare di Michelle che Stålenhag sembra rivolgere al
pubblico una domanda silenziosa ma potente: quando
abbiamo smesso di essere umani? Mentre la giovane
determinata protagonista cerca di ricostruire ciò che ha perduto,
il film invita lo spettatore a guardare dentro se stesso e
riflettere su quanto l’umanità abbia sacrificato sull’altare della
tecnologia. In un mondo dove le connessioni reali si sono
assottigliate e l’empatia sembra sempre più
un’illusione, The
Electric State diventa un monito: forse non sono i robot
a voler essere più umani, ma siamo noi a dover riscoprire cosa
significhi davvero esserlo.
Un cast stellare e
un’ambientazione che rapisce
Al di là della sua emozionante
storia e del profondo messaggio sottostante, The Electric
Stateconferma ancora una volta la maestria dei
fratelli Russo nel miscelare sentimentalismo, avventura e
azione, regalando due ore di puro intrattenimento. Il film
scorre con un equilibrio perfetto tra emozione e
spettacolo visivo, riuscendo a coinvolgere il pubblico sia
a livello narrativo che estetico.
Il cast hollywoodiano brilla, con
una coppia protagonista che funziona alla perfezione. Millie Bobby
Brown e Chris Pratt dimostrano fin dalle prime scene un’alchimia
vincente, riuscendo a conquistare la scena grazie al loro carisma e
talento. I loro personaggi, apparentemente opposti, si rivelano in
realtà molto più simili di quanto sembri inizialmente, dando vita a
un rapporto che evolve in modo naturale e convincente.
Ma non sono solo gli eroi a
spiccare: anche gli antagonisti lasciano il
segno. Stanley
Tucci (Amabili resti, Il diavolo veste
Prada) è impeccabile nel ruolo di Ethan Skate, il folle
magnate della tecnologia a capo della Sentre, una corporazione
tanto potente quanto inquietante. Al suo fianco, Giancarlo
Esposito (Captain America: Brave New
World,Breaking Bad) regala
un’interpretazione memorabile nei panni del Colonnello Bradbury,
detto Il Macellaio, un uomo spietato che ha
guadagnato il suo soprannome sterminando robot senzienti durante la
guerra. Il loro carisma e la loro presenza scenica elevano il film,
offrendo antagonisti credibili e sfaccettati, che incarnano
perfettamente le tematiche di potere e disumanizzazione esplorate
dalla storia.
Anche l’ambientazione gioca un ruolo
chiave nell’immergere il pubblico in un mondo che mescola
passato e futuro con un tocco di malinconia. La nostalgia
degli anni ’90 – un decennio ormai mitizzato da un’intera
generazione – si intreccia con un futuro distopico fin troppo
plausibile, creando un’atmosfera unica. La fusione tra
elementi vintage, colonna sonora pop e tecnologie obsolete si
integra perfettamente con la presenza di dispositivi
futuristici come i neurocaster e
le imponenti macchine da guerra telecomandate dagli umani,
comodamente seduti nel salotto di casa. Il risultato è un universo
visivo che non solo affascina, ma che fa anche riflettere sul
rapporto sempre più alienante tra uomo e tecnologia.
Non è tutto oro ciò che
luccica
Che i fratelli Russo sappiano come
sfruttare al meglio il mezzo cinematografico per dare vita a storie
che restano impresse è ormai una verità consolidata.
Con The Electric
State, continuano a dimostrare il loro talento nel creare
un’esperienza visiva coinvolgente, arricchita da emozioni forti e
momenti che lasciano il segno. Tuttavia, nonostante la
bellezza estetica e l’intensità delle emozioni che cercano di
suscitare, il film manca di quella profondità e della tensione
drammatica che ci si aspetterebbe da una storia così ricca e un
cast altrettanto vincente.
Il film, purtroppo, sembra
seguire la stessa sorte di un soufflé: cresce
e si eleva nelle prime scene, mostrando la sua forma più
affascinante e ben costruita, per poi sgonfiarsi e perdere di
consistenza nel corso della narrazione. Il viaggio emotivo e di
formazione che Michelle intraprende all’inizio, segnato da una
ricerca di riscatto e dalla necessità di elaborare il lutto, trova
nella seconda parte del film una trasformazione che, seppur
significativa, manca di quella potenza che ci si aspetterebbe in un
racconto così carico di potenziale. La sua presa di coscienza e
l’accettazione del dolore sembrano troppo snelle e prive di un
percorso davvero coinvolgente, lasciando lo spettatore con una
sensazione di incompiutezza.
Pur toccando le corde
giuste, The Electric
State fallisce nel mantenere alta la tensione emotiva
necessaria per trasformare questo viaggio in una vera e propria
rivelazione
L’episodio 9 della seconda stagione
di Scissione
(Severance) prepara perfettamente il
terreno per il finale, dando un assaggio di come potrebbe
concludersi la storia di ogni personaggio principale. Nei primi
minuti, l’episodio 9 della seconda stagione rivela le grandi
aspettative che Jame Eagan ripone in Helena. Tuttavia, qualunque
cosa lei faccia, lui sembra deluso e persino infastidito dal fatto
che lei non mangi le uova crude come Kier. Dopo aver mostrato come
Helena sia schiacciata dalle aspettative del padre e dall’eredità
della sua famiglia, l’episodio 9 della seconda stagione di Severance fa
empatizzare gli spettatori con Huang, accennando al suo futuro alla
Lumon. Anche Dylan, l’innie, attraversa una delle fasi più
difficili della sua vita quando incontra di nuovo la moglie del suo
outie.
Nel frattempo, gli outie di Burt e
Irving parlano finalmente della relazione dei loro innies e vivono
una serie di emozioni complesse prima di separarsi. L’episodio
della seconda stagione di Scissione
(Severance) si conclude finalmente
con l’arrivo di Cobel, Mark e Devon al Damona Birthing Retreat,
dove Cobel spera di poter parlare con l’innie di Mark.
Perché Cobel vuole parlare con
l’innie di Mark nel finale dell’episodio 9 della seconda stagione
di Severance
Quasi per tutto l’episodio 9 della
seconda stagione di Severance, Mark non può fare a meno di
sospettare che Cobel voglia aiutarli. Il suo sospetto ha senso,
dato che Cobel è stata cresciuta da Lumon. Tuttavia, Mark alla fine
cede quando Cobel rivela che Gemma potrebbe essere ancora viva se
il suo innie non avesse finito di elaborare il file Cold Harbor.
Rendendosi conto che solo un ex insider come Cobel può aiutarli a
salvare Gemma, Mark accetta di seguire il suo consiglio.
Nell’ultima scena dell’episodio 9
della seconda stagione di Severance, Mark entra in una
capanna del Ramona Birthing Retreat e si trasforma nel suo alter
ego. Con sua grande sorpresa, trova Cobel ad aspettarlo, che gli
suggerisce di aiutare Gemma a fuggire dalla Lumon. Dopo essere
stata tradita e abbandonata da Lumon, Cobel sembra finalmente aver
capito quanto l’azienda si preoccupi poco del benessere delle
persone. Tuttavia, dato che non può più entrare nell’edificio
Lumon, non può fare molto per aiutare direttamente Mark. Pertanto,
sembra sperare di convincere l’innie di Mark ad aiutarli a salvare
Gemma.
Il futuro della signora Huang in
Lumon spiegato: perché Milchick le chiede di interrompere il
gioco
Milchick annuncia il completamento
della borsa di studio Wintertide della signorina Huang, che avrebbe
dovuto determinare il suo futuro alla Lumon. Proprio come Cobel è
diventata una dipendente a tempo pieno della Lumon dopo aver
completato la sua borsa di studio, anche Huang sembra poter fare lo
stesso. Milchick conferma che sarà trasferita al Gunnel Eagan
Empathy Center, dove continuerà a lavorare per la Lumon.
Sebbene la signorina Huang lavori duramente per completare la sua
borsa di studio, è triste per il trasferimento perché significa che
dovrà allontanarsi dai suoi genitori.
Il processo di distruzione del
totem non solo serve come simbolo per segnare la fine dell’infanzia
di Huang, ma è anche parte del processo di indottrinamento di Lumon
per spogliare le persone della loro identità e renderle parte del
culto che venera Kier.
Il suo tragico futuro alla Lumon
evidenzia come l’azienda costringa molti minori a lavorare
mascherando il lavoro minorile come un’opportunità di crescita
professionale. Anche Cobel ha vissuto un’esperienza simile quando
era molto più giovane. Milchick le fa anche capire la gravità del
suo ruolo alla Lumon facendola distruggere il suo amato gioco. Il
processo di distruzione del totem non solo serve come simbolo per
segnare la fine dell’infanzia di Huang, ma è anche parte del
processo di indottrinamento di Lumon per privare le persone della
loro identità e renderle parte del culto che venera Kier.
Cosa intende Jame Eagan quando
dice di vedere Kier in Helly
Jame Eagan ha detto la stessa
cosa a Helly e Harmony
Nell’arco narrativo finale
dell’episodio 9 della seconda stagione di Severance, Jame
Eagan si intrufola nel piano separato della Lumon e sembra voler
affrontare Helly. Tuttavia, più le parla, più diventa evidente che
vorrebbe che sua figlia fosse più simile a lei. Afferma di aver
visto Kier in Helena una volta, ma ora fatica a vedere la stessa
cosa.
La sua insoddisfazione nei confronti
della figlia emerge anche nei primi minuti dell’episodio, quando la
guarda con disappunto e afferma che vorrebbe che mangiasse le uova
crude come Kier.
La ribellione di Helly e la sua
volontà di costruirsi una propria strada e identità sembrano
ricordare a Jame Eagan Kier, suggerendo che preferirebbe avere
lei come erede al posto di Helena. Dato che Helena è già gelosa
della sorella, diventerà ancora più invidiosa di Helly se scoprirà
come la vede suo padre. Questo potrebbe non solo esacerbare
ulteriormente il rapporto già teso tra Helena e suo padre, ma anche
complicare il rapporto di Helly con Mark.
Perché il destino di Gemma
dipende dal completamento di Cold Harbor
Cobel dice a Mark che i numeri dei
file MDR sono sua moglie, suggerendo che il destino di Gemma è
sempre dipeso dal lavoro di Mark con l’MDR. Questo ha senso, dato
che l’episodio 7 della seconda stagione di Scissione
(Severance) ha stabilito che il nome di
ogni stanza del piano di test corrispondeva al nome di un file su
cui Mark aveva lavorato in precedenza. Gli sviluppi della trama
dell’episodio 7 sembrano aver stabilito che Mark stava
“creando” le innies individuali di Gemma lavorando sui file
nel reparto MDR.
Severance ha rivelato finora i nomi
delle seguenti stanze del piano di test:
Allentown
Dranesville
Siena
Lucknow
Loveland
Wellington
St. Pierre
Zurich
Cold Harbor
Per questo motivo, è difficile non
credere che il completamento di Cold Harbor creerà un altro
innies per Gemma, che si attiverà dopo che Gemma entrerà nella
stanza Cold Harbor nel piano di test. Cobel continua a insinuare
che Gemma sarebbe viva solo se l’innies di Mark non avesse
completato il file Cold Harbor. Questo potrebbe significare che una
volta che Lumon avrà testato la stanza finale su Gemma, la
uccideranno invece di liberarla? Il finale della seconda stagione
di Severance probabilmente fornirà ulteriori risposte.
Perché Burt costringe Irving a
lasciare la città di Kier
Burt rivela la sua storia con Lumon
nell’episodio 9 della seconda stagione di Severance,
confessando di non aver mai fatto del male direttamente a nessuno.
Ha solo accompagnato delle persone a Lumon, ma ha sempre saputo che
l’azienda stava facendo qualcosa di sbagliato. Si sente in colpa
perché ha facilitato le azioni illecite di Lumon. Come spiega, è
entrato a far parte di Lumon come dipendente separato perché
credeva che gli avrebbe dato l’opportunità di trovare una parvenza
di redenzione.
Irving prova empatia per lui e non
lo giudica per il suo passato. Si rende anche conto che
raccontandogli del suo passato con Lumon, Burt sta rischiando la
vita. Irv spera di esplorare il suo rapporto con Burt nel mondo
esterno, credendo che potrebbero potenzialmente avere lo stesso
rapporto che avevano da “innies”. Tuttavia, con suo grande
disappunto, Burt lo incoraggia ad andarsene, rendendosi conto che
Lumon è a conoscenza della sua operazione segreta contro di
loro.
Sebbene Irv cerchi di convincerlo a
lasciare la città di Kier con lui, Burt rifiuta l’offerta di
restare con il suo partner, Fields.
La decisione di Dylan di
dimettersi
Come altri lavoratori MDR, Dylan era
inizialmente motivato dai vantaggi che Lumon offriva a tutti i
dipendenti con prestazioni elevate. Tuttavia, il suo mondo è
crollato quando l’incidente dell’Overtime Contingency gli ha fatto
capire di avere una famiglia al di fuori dell’ufficio Lumon. Per
mantenerlo motivato, Milchick capì che avrebbe dovuto fargli
incontrare sua moglie, Gretchen. Poco dopo aver incontrato la
moglie del suo outie, Dylan trovò un nuovo motivo per rimanere
fedele alla Lumon. I suoi incontri occasionali con Gretchen
divennero il momento clou della sua vita, mentre gradualmente si
innamorava di lei.
Anche Gretchen gli ha dato speranza
quando lo ha baciato. Purtroppo, l’outie di Dylan non ha gradito
quando Gretchen gli ha detto di aver baciato il suo innie. Di
conseguenza, Gretchen ha deciso di interrompere gli incontri. Con
questo, l’unica cosa che spingeva Dylan a lavorare per Lumon
dopo gli eventi della prima stagione di Severance gli
è stata portata via. Pertanto, ha deciso di porre fine alla sua
esistenza scrivendo una lettera di dimissioni. Se le sue dimissioni
saranno accettate nel finale della seconda stagione di
Severance dipenderà interamente dal suo outie.
FBI 6 è la
sesta stagione della serie tv FBI creata
da Dick Wolf e Craig Turk per CBS. La
serie è prodotta da Wolf Entertainment, CBS
Studios e Universal Television, con Dick
Wolf, Arthur W. Forney, Peter Jankowski e Turk
come produttori esecutivi.
La
serie presenta un cast
corale che
include Missy
Peregrym , Zeeko Zaki , Jeremy
Sisto, Ebonée Noel , Sela Ward , Alana de
la Garza , John Boyde Katherine
Renee Turner.
FBI 6: quando esce e dove vederla
in streaming
FBI 6 ha
debuttato negli USA il 13 febbraio 2024 su CBS. In
Italia FBI 6 debutterà su RAI 2 in chiaro e FBI 6 in streaming sarà
disponibile su RAIPLAY
FBI 6: trama e cast dei nuovi
episodi
Nella sesta stagione
di FBI La squadra entra in azione per sconfiggere
l’organizzazione terroristica responsabile dell’esplosione di un
autobus.
Nella sesta stagione
di FBIMissy
Peregrym riprende il ruolo di Maggie Bell, agente
speciale dell’FBI. Zeeko Zaki riprende
il ruolo di Omar Adom “OA” Zidan, agente speciale dell’FBI e
partner di Maggie. Jeremy Sisto riprende
il ruolo di Jubal Valentine, assistente agente speciale incaricato
dell’FBI (ASAC). Alana de la
Garza riprende il ruolo dell’agente speciale in
carica (SAC) Isobel Castille.
John
Boyd riprende il ruolo di Stuart Scola, agente
speciale dell’FBI e partner sul campo di Kristen, e più tardi, di
Tiffany. Katherine Renee Kane riprende il ruolo di Tiffany Wallace,
agente speciale dell’FBI ed ex ufficiale della polizia di New York
e agente della White Collar Division.
Nei ruoli ricorrenti troviamo
Roshawn Franklin nel ruolo di Trevor Hobbs (stagioni 2-6), un
agente speciale dell’FBI e un analista dell’intelligence. Vedette
Lim nel ruolo di Elise Taylor (stagione 2-presente), un’analista
dell’intelligence dell’FBI.
Mare
Fuori 5 deve gestire un
finale di stagione della stagione precedente che ha
lasciato tutti con il fiato sospeso, ancora più di quello
sparo nel buio che aveva chiuso invece il terzo
ciclo. Rosa
Ricci lascia Carmine Di
Salvo all’altare, il matrimonio tra le due grandi
famiglie come promessa di pace non si celebra,
mentre Edoardo Conte trova la sua morte
per mano sconosciuta sul fondo della cripta dei Ricci, tra la bara
di Ciro e quella di Don
Salvatore, che proprio lui aveva a sua volta ucciso.
“Voglio che tu sappia che sei
l’unico che sia riuscito a vedere la luce in me. Sei puro, sei luce
ed esplodi come un vulcano ogni volta che ami. Per salvarti ti sei
aggrappato alla cosa più bella che esista: l’amore. E io non
sono quella cosa bianca limpida che pensavi tu. Io sono rossa
e nera, sono passione e vendetta.Mi hai insegnato
che l’amore salva e io ti ho salvato dall’unica cosa che ti poteva
uccidere: da me.” Con queste parole di addio, Rosa giustifica
il suo addio all’amore e a una vita normale, quella che è quasi una
poesia liquida in apertura la scelta di Rosa. E Carmine diventa un
ricordo… per ora.
Un’alleanza
al femminile perMare
Fuori 5
La giovane vuole ora prendere le
redini del regno criminale ereditato dal padre e si rende subito
conto che Carmela, moglie e vedova di Edoardo, è l’unica alleata
che le resta. Entrambe hanno fatto qualcosa per ferire l’altra, ma
perdonarsi e fare squadra sembra l’unico modo per sopravvivere
contro Donna Wanda Di Salvo.
Il loro scopo è ovviamente
riprendere possesso delle piazze di spaccio, ma anche scoprire chi
ha ucciso Edoardo. Come spesso accade nella serie, la risposta
arriva dall’interno dell’IPM, dove nuovi sconvolgimenti sono pronti
ad avvenire per portare scompiglio nel delicato equilibrio
all’interno della struttura. Simone (Alfonso
Capuozzo) e Tommaso (Manuele Velo) di
Napoli, e Samuele (Francesco Alessandro Luciani) e
Federico (Francesco Di Tullio), di Milano,
arrivano a turbare le sorti dei protagonisti, in particolare i due
ragazzi del nord, che si rivelano spregiudicati e
violenti. Completano il cast Elisa
Tonelli e Rebecca Mogavero,
rispettivamente nei ruoli di Sonia e Marta, che nella prima parte
della serie non hanno ancora avuto un ruolo importante ma che, lo
immaginiamo, verranno raccontate meglio nella seconda parte.
Volti vecchi e nuovi
Il mondo esterno all’IPM porta nel
flusso del racconto di Mare Fuori 5 anche Assunta, madre di Rosa e
Ciro, creduta morta perché così aveva dichiarato Don Salvatore, e
che il pubblico sa essere viva, vegeta e libera dalla quarta
stagione, dove si scopre che è stata aiutata da Ciro a rimettersi
in sesto dopo che il marito l’aveva fatta rinchiudere in un
ospedale psichiatrico. La donna vorrebbe riallacciare i rapporti
con la figlia, visto che era presente al suo non-matrimonio? Lo
scopriremo…
Tornano ovviamente tutti i volti
noti e amati della serie: Pino, Cardiotrap, Mimmo, Cucciolo e
Micciarella, Milos, Dobermann, Silvia, Alina, ma anche gli adulti
Massimo, Sofia, Beppe con le loro storie, i loro drammi e le loro
aspirazioni.
Messo da parte il grande dramma
romantico di Rosa e Carmine, Mare Fuori 5 torna a raccontare storie
di violenza, soldi, vendetta e difficoltà, riportando la serie alle
sue origini, e relegando ai margini del racconto l’aspetto
soapoperistico che tanto aveva fatto innamorare il pubblico. Ogni
personaggio è chiamato verso la salvezza, ma questa non arriverà
per tutti, come si scopre man mano che gli episodi vanno avanti. Il
ritorno alle origini con la centralità di determinati temi però non
corrisponde alla replica di quello che era il tono delle prime
stagioni, in cui c’era una forte aspirazione alla speranza e al
cambiamento per i giovani protagonisti. Quel mare
fuori era davvero una metafora radicata anche nel modo di
raccontare le aspirazioni di ciascuno.
Mare Fuori 5 la
speranza è bandita
In Mare Fuori
5 la speranza è bandita. Rosa, emblema
“romantica” della quarta stagione, diventa qui un oscuro angelo di
vendetta, sopraffatta dai compiti oscuri che ha scelto di
ereditare. Ludovico Di Martino, che prende il posto
di Ivan Silvestrini alla direzione degli episodi,
cambia ancora una volta le carte in tavola e preferisce una regia
presente, invasiva, drammatica, quasi solenne, così come sono
solenni le minacce, le frasi stentoree e le parole dei
protagonisti. Il risultato è un tono artefatto che in qualche modo
strano trova comunque la sua armonia, perché più che empatia genera
distacco dalle disavventure che guardiamo sullo schermo.
Non sappiamo dove ci porterà la
seconda parte di stagione di Mare Fuori
5, ma senza dubbio si tratta di un cammino oscuro, in
cui il confine tra bene e male verrà oltrepassato e confuso più
volte.
Il regista e sceneggiatore
singaporeano
Anthony Chen torna
con The
Breaking Ice,
presentato a Cannes 76, un’opera intensa e poetica
che esplora il senso di smarrimento, solitudine e desiderio di
evasione di tre giovani in una gelida città cinese al confine con
la Corea del Nord. Il film si distingue per la sua atmosfera
malinconica e contemplativa, in cui la neve e il ghiaccio diventano
elementi simbolici di uno stato emotivo sospeso tra l’immobilità e
il cambiamento.
The Breaking Ice è un
racconto di anime perdute
La pellicola si apre con un’immagine evocativa:
uomini intenti a tagliare blocchi di ghiaccio, una rappresentazione
visiva del titolo stesso. Subito dopo incontriamo Li Haofeng
(Haoran Liu), un giovane che partecipa con distacco al ricevimento
di nozze di un collega coreano. La sua alienazione si manifesta
nella solitudine con cui mastica il ghiaccio del suo drink,
rompendolo sotto i denti, di nuovo si evoca il titolo e si racconta
una difficoltà a inserirsi dentro un contesto vitale, come può
essere un matrimonio. La sua esistenza si intreccia presto con
quella di Nana (Dongyu Zhou), una guida turistica
che accompagna visitatori alla scoperta della comunità coreana
della regione, e Han Xiao (ChuxiaoQu), cuoco di un
ristorante coreano che nutre sentimenti irrisolti per Nana.
Un incontro casuale e una notte di alcol e confidenze fanno nascere
tra i tre una connessione insolita e temporanea, trasformandoli in
una sorta di famiglia improvvisata. Il loro legame si cementa
attraverso momenti di fuga dalla realtà: balli sfrenati, escursioni
pericolose, sfide insensate e un viaggio fino al remoto e innevato
sentiero che porta al Lago del Paradiso. Questo cammino non è solo
fisico, ma anche metaforico: ciascuno di loro è alla ricerca di una
via di fuga dalla propria esistenza stagnante e
irrisolta.
Un film d’atmosfera
Chen si affida a un racconto fatto di frammenti, momenti sospesi e
silenzi che parlano più delle parole, realizzando una composizione
visiva che evoca più che raccontare, ricordando il cinema della
Nouvelle Vague francese, con riferimenti espliciti a “Bande à part”
e “Jules e Jim”. Le immagini costruite dal regista sono
costantemente costruite per rimandare a un altro significato oltre
a quello che mostrano: una gabbia di animali in uno zoo riflette la
prigionia interiore dei protagonisti, mentre un orologio costoso
che smette di funzionare sottolinea l’inesorabile scorrere del
tempo in qualsiasi condizione socio economica si possa vivere. Quel
ghiaccio che Li Haofeng mastica all’inizio del film diventa di
nuovo un riferimento al titolo ma questa volta viene condiviso
dagli altri, acquista una ulteriore simbologia: connessione e
vulnerabilità.
Tre protagonisti magnetici
A dare forma a questo cinema di suggestioni, intervengono i tre
protagonisti: Dongyu
Zhou dona
a Nana un’intensità struggente, un personaggio che cerca di
soffocare il dolore tra alcool e sesso privo di
intimità. Haoran
Liu interpreta
Haofeng con una delicatezza toccante, incarnando il disagio di chi
si sente fuori posto ovunque vada. Chuxiao
Qu,
nel ruolo di Han Xiao, trasmette una mascolinità ruvida ma ferita,
mostrando il conflitto tra il desiderio di fuggire e l’incapacità
di farlo. Tre voci che si uniscono in un coro di disagio e
inadeguatezza, specchio di una generazione Z che chiede aiuto ma
non sa a chi rivolgersi.
Chen dimostra ancora una volta la sua capacità di catturare i
dettagli più sottili e significativi, come nel modo in cui
posiziona i personaggi in un’ambientazione che ricorda il quadrante
di un orologio, suggerendo ancora una volta l’inesorabile avanzare
del tempo. Uno sforzo di composizione che viene accentuato dalla
fotografia, con le sue tonalità fredde e una composizione
meticolosa, che enfatizza il senso di isolamento.
The Breaking Ice ha
un grande fascino visivo ma soprattutto emotivo, capace di
trasmettere con estrema sensibilità la condizione di giovani che si
sentono intrappolati nelle loro vite. Il film non manca di
incongruenze, ma rimane un’opera di grande valore artistico. Il
finale suggerisce poi una circolarità alla narrazione che sembra
voler indicare che il senso di inadeguatezza e incertezza verso la
strada da prendere non si supera, ma si impara a dare valore alla
ricerca del cammino, non più alla destinazione del
viaggio.
The Breaking
Ice è un’opera che cattura con delicatezza la
vulnerabilità dei suoi personaggi, immergendoli in un paesaggio
invernale che riflette le loro anime alla deriva. Con una regia
evocativa, Anthony Chen conferma la sua capacità di
raccontare storie intime e profonde, regalandoci un film che lascia
il segno con la sua bellezza visiva e il suo toccante ritratto di
giovani alla ricerca di un senso di appartenenza.
Il finale della seconda stagione di
Yellowjacketsha portato la storia in una direzione inaspettata,
aprendo la strada a una terza stagione ricca di suspense. La
seconda stagione di Yellowjackets è stata piena di sorprese
e rivelazioni scioccanti, fornendo risposte a misteri di lunga data
come il significato del biglietto di Travis a Natalie, l’idea che
la natura selvaggia sia un’entità influente e molto altro ancora.
Il finale è iniziato con l’ipotesi che uno degli adulti
sopravvissuti dovesse morire per soddisfare il crescente bisogno
della natura selvaggia nella
linea temporale del 2021. Tuttavia, le cose non sono andate
necessariamente secondo i piani.
In questo contesto, si sono svolti
altri intrecci ad alto rischio che hanno portato a conclusioni
soddisfacenti. La polizia ha dato la caccia all’adulta Shauna per
l’omicidio di Adam Martin per gran parte della stagione, è stato
spiegato cosa stava realmente tramando Walter Tattersall, il
“fidanzato” di Misty, e il rituale ufficiale di cannibalismo
sacrificale descritto nella linea temporale del 1996 è stato
finalmente svelato nella sua interezza. Tutto questo è confluito
nell’episodio 9 della seconda stagione di Yellowjackets, che
ha visto trionfi e delusioni in egual misura per i sopravvissuti
adulti rimasti. Dopo la fine della seconda stagione di
Yellowjackets, solo una cosa è certa: la natura selvaggia
non ha finito il suo lavoro, né nel passato né nel presente.
Perché Travis ha mangiato il
cuore di Javi
Quando le ragazze sono tornate con
il corpo di Javi dopo che era annegato nell’episodio 8 della
seconda stagione di Yellowjackets, nessuno era più sconvolto
di Travis. Natalie aveva sicuramente il proprio senso di colpa da
placare dopo averlo lasciato morire, ma Travis era davvero quello
che aveva sofferto di più per la perdita. Ha cercato di spiegare
la portata della distruzione che stavano causando a Van, il quale,
a sua volta, lo ha convinto che la morte di suo fratello era un
sacrificio per salvare i sopravvissuti e che avrebbe dovuto onorare
il sacrificio e la morte di Javi. Travis ha quindi preso a
cuore questa conversazione e si è unito al cannibalismo del resto
del gruppo.
Shauna ha offerto a Travis il cuore
di suo fratello da mangiare per primo, quasi come un segnale al
resto del gruppo che se Travis era d’accordo a consumare Javi,
allora anche gli altri avrebbero dovuto farlo. Travis ha
mangiato il cuore di Javi per dimostrare la sua lealtà al gruppo e
onorare il sacrificio di suo fratello. Quel momento ha
dimostrato che Travis era completamente caduto nella sua
convinzione che la natura selvaggia fosse un’entità e che questi
sacrifici fossero necessari e vantaggiosi per la loro
sopravvivenza. Ha visto Javi come un martire piuttosto che come una
tragica vittima e ha giustificato il fatto di aver mangiato suo
fratello gettandosi in questa convinzione.
Come Natalie è diventata la
regina delle corna
Uno dei colpi di scena più grandi
del finale della seconda stagione di Yellowjackets è stato
che Natalie era la vera regina delle corna, non Lottie. Sembrava
che tutta la serie suggerisse e preparasse Lottie come regina delle
corna, ma quando sarebbe stata rivelata per la prima volta nel suo
abito ufficiale, non sarebbe stato poi così sorprendente. Tuttavia,
nella seconda stagione di Yellowjackets, Lottie ha deciso di
dimettersi e cedere la leadership a Natalie, lasciando Shauna un
po’ gelosa. Guardando indietro, le insicurezze di Lottie come
leader erano cresciute, come dimostrato dalla sua visione al centro
commerciale in precedenza, ma nessuno si aspettava che passasse la
mano.
Lottie ha scelto Natalie perché
credeva che Nat fosse sempre stata la “preferita” della natura
selvaggia. Ha citato il fatto che il gruppo aveva cercato di
ucciderla quando aveva pescato la Regina di Cuori, ma la natura
selvaggia non glielo aveva permesso. C’erano segni che indicavano
che la natura selvaggia favoriva Natalie, come il fatto che fosse
la cacciatrice principale. Sebbene Lottie fosse stata la prima a
comunicare con la wilderness, tutti i sopravvissuti avevano
imparato a farlo, quindi non avevano più bisogno della sua guida. È
possibile che il fatto che Natalie non fosse così influenzata dal
pensiero di gruppo la rendesse una leader più naturale di una
seguace, il che potrebbe essere un altro motivo per cui Lottie le
ha dato la precedenza.
Il piano di Walter per porre
fine alle indagini su Adam Martin
Walter ha ideato un piano elaborato
per salvare Misty e i suoi amici dall’essere scoperti dalla
polizia, che prevedeva la corruzione della polizia. Dopo averlo
ucciso con il fenobarbital, Walter è riuscito a collegare una
grande quantità di documenti bancari e telefonici relativi ad Adam
a Kevyn Tan. Ha poi sparato a Kevyn con la pistola di Saracusa e
gli ha proposto di aiutarlo a incastrare Kevyn per gli omicidi di
Adam eJessica Roberts, utilizzando una storia
secondo cui Saracusa aveva “scoperto” una massiccia corruzione
nella polizia e aveva quasi perso la vita per questo. Ha poi
aggiunto che tutte queste informazioni potevano essere ricondotte a
Saracusa se non avesse accettato.
Il piano di Walter aveva diverse
funzioni importanti in Yellowjackets. In primo luogo,
dimostrava la sua fedeltà a Misty, cosa discutibile per gran parte
della stagione, soprattutto quando lui la paragonava a Sherlock e
se stesso a Moriarty. In secondo luogo, dimostrava che Walter
stesso non era al di sopra dell’omicidio e probabilmente
condivideva le tendenze psicopatiche della sua “ragazza”.
Infine, dimostrava le abilità di
Walter come hacker e detective dilettante. Essere in grado di
manomettere le prove in modo tale da incastrare qualcuno che non
c’entrava nulla era davvero impressionante.
Il gruppo avrebbe davvero
ucciso Shauna nella nuova caccia?
Shauna ha avuto la sfortuna di
scegliere la Regina di Cuori nella linea temporale del 2021, ed è
possibile che il gruppo stesse preparando la sua uccisione. Durante
le scene culminanti del rituale rivissuto dagli adulti e
l’inseguimento con le maschere che ne è seguito nel finale della
seconda stagione di Yellowjackets, il tono oscillava tra il
gruppo che vedeva la realtà e il gruppo che cadeva preda della
natura selvaggia. Sebbene inizialmente fossero d’accordo sul fatto
che Lottie volesse soddisfare la natura selvaggia fosse una cattiva
idea, le cose si sono complicate quando Van ha convinto Taissa a
chiamare la squadra di crisi che avrebbe dovuto interrompere il
rituale e portare Lottie al sicuro.
Lo sguardo affamato dell’adulta Van
durante l’inseguimento era particolarmente terrificante, e il fatto
che abbia chiamato le autorità ha sicuramente dipinto le sue
intenzioni in una luce negativa. Lottie era pronta a sacrificare
Shauna, completamente assorbita dal compito di nutrire la natura
selvaggia. Misty, Natalie e Taissa, invece, sembravano le più
combattute. Se Lottie avesse raggiunto Shauna per prima, sarebbe
sicuramente morta, e lo stesso avrebbe potuto accadere a Van, visto
quanto sembrava presa durante l’inseguimento.
Il sacrificio e la morte di
Natalie spiegati
Sfortunatamente, la natura
selvaggia ha mietuto un’altra vittima tra gli adulti sopravvissuti,
e si è trattato di Natalie. Il momento scioccante ha visto Misty
cercare di pugnalare Lisa con una siringa, ma Natalie si è
sacrificata e si è gettata davanti a lei. Il sacrificio di Natalie
e la reazione straziante di Misty all’aver ucciso (di nuovo) la sua
“migliore amica” hanno fatto riferimento a diversi momenti chiave
di Yellowjackets. Natalie si è sacrificata perché il senso
di colpa più grande che portava con sé dal suo periodo nella natura
selvaggia era quello di essersi fatta da parte e aver lasciato
morire Javi. Se si fosse sacrificata nella stagione 2, episodio 8
di Yellowjackets, non sarebbe mai diventata la prima Antler
Queen.
Natalie probabilmente provava
molto più senso di colpa di quanto Yellowjackets lasciasse
inizialmente intendere per essere stata l’Antler Queen e aver dato
il via agli eventi del resto della serie. La rivelazione del
suo status elevato nel 1996 e il senso di colpa che ne è seguito
hanno anche contribuito a spiegare le sue difficoltà nella vita
adulta e il suo successivo tentativo di suicidio. Pertanto, quando
ha visto l’opportunità di salvare qualcuno che era stato buono con
lei, ha pagato per i suoi peccati passati sacrificandosi per loro.
Anche la reazione di Misty ha dimostrato la sua devozione verso
Natalie. È possibile che fosse stata così affascinata e
ossessionata da lei per tutto questo tempo perché Natalie era la
sua leader.
Dove Taissa e Van hanno mandato
Lottie adulta (verrà mandata via?)
Lottie è stata mandata in una
struttura di salute mentale conosciuta come Whitmore alla fine
della seconda stagione di Yellowjackets a causa della sua
convinzione irrefrenabile che l’entità della natura selvaggia fosse
tornata e volesse uno dei sopravvissuti. Il resto dei sopravvissuti
adulti non ha preso troppo bene il piano di Lottie con il
fenobarbital ed era comprensibilmente preoccupato per la sua salute
mentale quando ha voluto ripetere il rituale cannibalistico
sacrificale di Yellowjackets. Lottie ha orchestrato la
caccia, che ha portato i sopravvissuti a chiamare una squadra di
crisi per portarla via, ma era ormai troppo tardi. Lottie
trascorrerà molto probabilmente la terza stagione di
Yellowjackets in un istituto psichiatrico.
Taissa ha promesso che lei e il
resto dei sopravvissuti avrebbero fatto visita a Lottie al
Whitmore. Tuttavia, Lottie è rimasta convinta che il sacrificio di
Natalie abbia nutrito la natura selvaggia e che tutti ne vedranno i
risultati positivi. L’episodio 9 della seconda stagione di
Yellowjackets ha chiarito che i sopravvissuti, Van in
particolare, si sentono in colpa per il deterioramento dello stato
mentale di Lottie. I flashback alla linea temporale del 1996,
comprese le coerciioni di Misty, la storia di Van sulla natura
selvaggia e il fatto che Lottie non abbia mai voluto che il rituale
fosse istituito, indicano che le ragazze hanno contribuito a
rendere possibile la psicosi di Lottie e il suo crollo finale da
adulta.
Perché il coach Ben ha dato
fuoco alla capanna dei sopravvissuti
Gli ultimi momenti della seconda
stagione di Yellowjackets hanno visto le ragazze fuggire
mentre la loro casa nella natura selvaggia bruciava completamente,
e solo una persona non era con loro: Ben. Ben ha dato fuoco alla
capanna perché era terrorizzato da ciò che era diventata la squadra
e le vedeva come mostri privati della loro umanità. La sanità
mentale del coach Ben era andata scemendo come quella del resto del
gruppo. Tuttavia, aveva chiarito fin dall’inizio che non avrebbe
oltrepassato il limite del cannibalismo e vedeva in Natalie
un’anima gemella. Purtroppo, Natalie ha respinto i suoi tentativi
di nascondersi con lui nella grotta di Javi per il resto
dell’inverno.
Dopo aver assistito alla dissezione
del cadavere di Javi, aver capito che l’unica persona con cui aveva
trovato un’affinità era passata al lato oscuro, aver rivissuto in
visioni tormentate la vita che avrebbe potuto avere e aver visto
che la squadra ora si stava sacrificando a vicenda, Ben ne aveva
finalmente avuto abbastanza. Credeva che la squadra fosse ormai
troppo lontana per ragionare e fermare lo spargimento di sangue, e
che fosse diventata una setta cannibale in grado di compiere atti
di estrema violenza. Per la sua sicurezza, ha deciso di
bruciare la capanna per impedire che la follia continuasse e
presumibilmente si nasconde nella caverna di Javi.
Il vero significato del finale
della seconda stagione di Yellowjackets
Yellowjackets, stagione 2,
episodio 9, è intriso di un significato molto più profondo rispetto
alle paure in superficie, sebbene sia anche uno show horror
efficace nella sua semplicità. Il finale della seconda
stagione di Yellowjackets è stato una sorta di punto
di svolta per i personaggi, poiché non solo ha risposto alle
domande, ma ha anche sollevato ulteriori misteri per il futuro. Ma
soprattutto, il finale ha dimostrato che c’è qualcosa di speciale
nei giovani sopravvissuti, qualcosa che continua a perseguitarli
nel presente. Se Yellowjackets ha rivelato qualcosa di sé, è
che quasi nulla è come sembra.
Come il finale della seconda
stagione di Yellowjackets prepara la terza
Il finale della seconda
stagione di Yellowjackets ha preparato il terreno per numerosi
filoni narrativi per la terza stagione e una serie di nuovi
misteri. Innanzitutto, i sopravvissuti adulti dovranno
affrontare le conseguenze del sacrificio e della morte di Natalie.
Misty sembrava inconsolabile per il suo ruolo nella vicenda e,
anche se la terza stagione dovrebbe vederla coinvolta in una
relazione romantica con Walter, dovrà lottare con qualcosa che non
ha mai provato prima: il senso di colpa. La terza stagione vedrà
anche Natalie nel passato come nuova leader del gruppo e la sua
discesa verso il diventare la Yellowjackets‘ Antler Queen. Il finale ha lasciato
intendere che Shauna è gelosa del fatto che Natalie sia diventata
la leader, quindi questo sicuramente entrerà in gioco.
La setta di Lottie adulta
molto probabilmente verrà sciolta ora che lei è in un istituto
psichiatrico, e probabilmente riceverà la visita di Taissa, affetta
da sonnambulismo.
Il culto dell’adulta Lottie verrà
probabilmente sciolto ora che lei è in un istituto psichiatrico, e
probabilmente riceverà la visita di Taissa, affetta da
sonnambulismo. La terza stagione di Yellowjackets potrebbe
finalmente vedere un po’ di pace nella famiglia Sadecki, dato che
l’indagine su Adam Martin è stata portata a termine da Walter.
Tuttavia, le cose si surriscalderanno notevolmente nel 1996 con
l’incendio della baita. I sopravvissuti adolescenti potrebbero
scoprire che è stato Ben ad accendere il fiammifero, dato che è
l’unico a non essere presente, ma dovranno comunque trovare una
nuova casa. Speriamo che non trovino Ben nascosto nel rifugio di
Javi, così potrà sopravvivere un altro giorno in
Yellowjackets.
Come è stato accolto il finale
della seconda stagione di Yellowjackets
Nel complesso, il finale della
seconda stagione di Yellowjackets è stato accolto bene. Il
nono e ultimo episodio della seconda stagione di
Yellowjackets, “Storytelling”, ha attualmente un punteggio
di 7,1/10 su IMDb e un punteggio
Tomatometer del 70% su Rotten
Tomatoes. Tuttavia, il finale della prima stagione
ha ottenuto un punteggio di 8,2/10 su IMDb (anche se non ha
una valutazione individuale su Tomatometer) e, in generale, il
finale della prima stagione di Yellowjackets è considerato
superiore. Tuttavia, questo non significa che il finale
della seconda stagione di Yellowjackets sia stato brutto,
ma semplicemente che la seconda stagione della serie non ha avuto
lo stesso impatto della prima.
Questo è stato sottolineato da
molti critici nelle loro recensioni, e i paragoni tra il finale
della seconda stagione di Yellowjackets e quello della prima
si estendono al resto degli episodi in generale. È opinione della
maggior parte degli spettatori e dei critici che la prima stagione
di Yellowjackets sia stata più coerente. Tuttavia, ci
sono stati molti momenti degni di nota nella seconda stagione,
specialmente durante il finale, che hanno più che eguagliato il
primo capitolo della storia, e questi sono stati sottolineati in
molte recensioni. Ad esempio, Esther Zuckerman del New York Times scrive:
La seconda stagione di “Yellowjackets” è stata discontinua,
cosa non insolita per una serie di successo che cerca di trovare il
proprio equilibrio dopo un primo giro sensazionale. Ma ci sono
stati frequenti momenti di trascendenza. L’addio alla Natalie
adulta è stato uno di questi. È stato tragico e in qualche modo
catartico e sarà difficile da dimenticare man mano che la serie
andrà avanti.
Tuttavia, mentre molti critici
non sono riusciti a superare l’incoerenza della seconda stagione
rispetto alla prima, altri hanno avuto solo parole di elogio per
“Storytelling”. In particolare, sono stati elogiati il modo abile
con cui il finale della seconda stagione di Yellowjackets ha
sovvertito le aspettative degli spettatori e riposizionato molte
delle “verità” su cui i fan avevano fatto affidamento fino
all’arrivo dell’episodio 9 del secondo capitolo. A riassumere
incredibilmente bene questa prospettiva è Hattie Lindert diAV
Club, che scrive:
Una lezione magistrale sia nel sovvertire la propria etica
che nel coltivare i semi di una nuova stagione, il finale della
seconda stagione di Yellowjackets prende le rivelazioni limitate
che la stagione ha costruito e le ricontestualizza ancora una
volta, ricordando ai sopravvissuti (e di conseguenza al pubblico)
che la verità della loro esperienza – ciò che era reale e ciò che
non lo era, e ciò che è rimasto reale nel tempo – è malleabile
quanto la loro bussola morale. Ciò che è sempre stato più
importante, sia nel proteggersi dalla polizia da adulti che nel
giustificare le loro azioni da bambini, è la storia che hanno
scelto di raccontare, una storia di selvaggio che hanno scolpito
con sangue, sudore, lacrime e merda.
Quindi, il finale della seconda
stagione di Yellowjackets è stato all’altezza di quello della
prima? Probabilmente no. Tuttavia, è stato comunque un finale
incredibilmente solido per la serie, e ha funzionato più che bene
per creare l’hype e lo slancio necessari per l’attesissima
terza stagione di Yellowjackets.
Le donne al balcone –
The Balconettes di Noémie
Merlant non è solo un film, è un affascinante viaggio
attraverso un racconto femminista stratificato e punk, che sa
essere tanto divertente quanto provocatorio. Presentato
a Cannes
77 con il titolo originale Les
Femmes au Balcon, questo film esplora la vita di tre
donne – Nicole, Ruby ed Elisa – legate da una profonda amicizia e
da un’intensa ribellione contro i dogmi della società patriarcale,
il tutto ambientato in un appartamento e un balcone condiviso nel
caldo di Marsiglia.
La dichiarazione di intenti di
Le donne al balcone – The
Balconettes
Fin dall’inizio, Merlant ci
introduce in un’atmosfera sospesa e surreale, grazie a un piano
sequenza che spazia tra due palazzi. La macchina da presa sembra
fluttuare, stabilendo una distanza tra il pubblico e la storia,
come se fossimo anche noi osservatori dietro una finestra,
abbracciando così il più classico dei contesti voyeuristi e
impiantandoci sopra il suo racconto. In questo primo momento
vediamo una donna, riversa a terra e coperta di lividi, incalzata
da un marito che la accusa di essere “esageratamente drammatica.”
La scena, che mescola dramma e sarcasmo, offre una chiave di
lettura per comprendere la portata del film: un’opera che sfida le
convenzioni, trascendendo i generi e mescolando commedia, thriller,
e un femminismo mai didascalico. Questa scena
fondamentale, un cortometraggio dentro al film: una specie
di riassunto di quello che la storia vuole significare e di quello
che racconterà.
Al centro della storia ci sono
Nicole
(Sanda Codreanu), Ruby (Souheila
Yacoub) ed Elisa (Noémie Merlant).
Ognuna di queste donne ha una storia unica: Nicole è una scrittrice
che prova a tratte ispirazione dalla vita delle sue amiche, sempre
più divertente e sfrenata della sua; Ruby è una cam girl fiera
della propria sessualità, esibizionista almeno quanto Nicole è
pudica; Elise invece è un’attrice che cerca di sfuggire da un
innamorato opprimente, sembra svampita, ma trova il suo ancoraggio
alla realtà grazie alle sue coinquiline. Insieme, condividono
momenti di complicità e confidenze, esplorando una libertà
autentica e quasi sfacciata, che include un’esposizione del corpo
sincera, svincolata da giudizi.
Merlant dimostra una grande
padronanza del mezzo cinematografico, mostrando una disinvoltura
sorprendente per una regista al suo secondo lungometraggio. La
narrazione sembra muoversi disordinata, riflettendo però un caos
ben calibrato che rispecchia la vitalità e la libertà delle tre
protagoniste. E infatti nulla è lasciato al caso: la scrittura
coadiuvata da Céline Sciamma e il
montaggio di Julien
Lacheray conferiscono alla trama una coerenza interna
che esplode solo alla fine, lasciando lo spettatore in una sorta di
estasi visiva e narrativa.
Una delle grandi trovate
di Le donne al balcone – The Balconettes è
il modo in cui affronta la questione della mascolinità tossica
senza mai scivolare nella retorica. L’aitante vicino di casa
(interpretato da Lucas Bravo), ad esempio,
inizialmente oggetto dei sogni di Nicole, si rivela poi un
predatore mascherato da principe azzurro. La svolta narrativa è
feroce e geniale: un incontro apparentemente innocente si trasforma
in una lotta disperata, e le tre protagoniste devono difendersi
dalla violenza inaspettata, optando per un’autodifesa radicale e
liberatoria. La loro “vendetta” non è solo una reazione istintiva,
ma anche un simbolo di una ribellione.
La mescolanza di generi
La commistione di generi è una
caratteristica distintiva di questo film: da commedia grottesca e
horror leggero si passa a un thriller crudo e spietato, fino a un
gore che strizza l’occhio a Tarantino, pur rimanendo sempre vitale
e libero, come il primo cinema di Almodovar. Merlant evira il corpo
maschio della storia per affermare la femminilità come unica forza
vitale, e nonostante questo è sempre ironica e leggera, non perde
mai di vista il fuoco del suo racconto. Questo rende Le
donne al balcone – The Balconettes un’esperienza
visivamente affascinante e emotivamente coinvolgente. La violenza
viene messa in scena in modo iperbolico, ma il vero nucleo del film
è la ferita invisibile che la violenza infligge all’animo
femminile.
La fiera esposizione del corpo
femminile
Merlant si dimostra non solo una
regista di talento, ma una narratrice coraggiosa, pronta a
infrangere le convenzioni e a esplorare i confini della
rappresentazione cinematografica del femminile. In questo film, i
corpi delle protagoniste non sono mai oggetto di sguardi
esterni/giudicanti; sono corpi che si espongono con fierezza,
rivendicando il diritto di esistere senza
compromessi. Le donne al balcone – The
Balconettes non è solo un film che parla di
emancipazione femminile: è un atto di insurrezione, un’opera che si
rivolge allo spettatore con uno spirito di sorellanza
feroce e libera.
Il 13 marzo arriva nelle sale
Lee Miller, il
film dedicato
alla straordinaria fotografa americana interpretata
da Kate
Winslet,
qui anche in veste di produttrice. Per la sua performance intensa e
coinvolgente, l’attrice ha ottenuto una
candidatura ai Golden Globes come
Miglior Attrice drammatica (il premio è andato poi
a Fernanda Torres).
Diretto da Ellen
Kuras,
alla sua prima regia cinematografica dopo una lunga carriera come
direttrice della fotografia, il film trae ispirazione
dall’opera Le
molte vite di Lee Miller di Antony
Penrose,
figlio della fotografa e del surrealista Roland
Penrose.
Il film ripercorre la vita di Miller, una donna che ha rifiutato
ogni etichetta: da modella di successo a fotografa d’avanguardia,
fino a diventare corrispondente di guerra per
Vogue durante
la Seconda Guerra Mondiale. Unica fotografa donna a documentare la
liberazione dei campi di concentramento di Dachau e Buchenwald, ha
lasciato un segno indelebile nella storia con le sue immagini di
straordinaria potenza. Intorno a Winslet, ruota un cast di supporto
che vanta nomi del calibro di Alexander
Skarsgård, Marion
Cotillard, Andrea
Riseborough, Josh
O’Connor, Noémie Merlant ma
anche Andy
Samberg
alla sua prima performance drammatica (molto riuscita).
La trama di Lee
Miller
La narrazione inizia nel 1977 con
un’intervista tra Lee e un giovane giornalista (Josh
O’Connor), che desidera conoscere la verità dietro le sue
fotografie. O almeno è quello che sembra all’inizio del film.
Questo espediente narrativo introduce la lunga retrospettiva sulla
vita della Miller, dal suo lavoro come modella e artista
surrealista fino alla sua esperienza sul fronte di guerra.
Tuttavia, il film fatica a mantenere un equilibrio tra il ritratto
intimo della protagonista e la sua carriera professionale,
risultando a tratti distaccato. Il finale si apre all’emozionante
rivelazione della vera identità di quel giornalista, offrendo
un interessante omaggio a quello che è veramente successo dopo la
morte di Lee, tuttavia è troppo tardi per sentire anche il pur
minimo gancio emotivo con i protagonisti.
Kate Winslet regala una delle sue
interpretazioni più intense, riuscendo a restituire la
determinazione e il coraggio di Miller. Tuttavia, la sceneggiatura
non offre un ritratto completamente sfaccettato del personaggio e
il film si concentra più sul suo lavoro come fotografa di guerra,
lasciando in secondo piano la sua vita personale e le sue
fragilità. Le relazioni con il partner Roland Penrose (Alexander Skarsgård), l’amicizia con
David Scherman (Andy Samberg) e il rapporto con la
direttrice di Vogue Audrey Withers (Andrea
Riseborough) vengono accennate senza un vero approfondimento,
facendo sì che molti personaggi appaiano come semplici comparse o
sponde su cui Lee rimbalza.
Regia realistica e
fotografia desaturata
Dal punto di vista
registico, Kuras adotta un approccio visivo potente, sfruttando il
contrasto cromatico tra il mondo vibrante e saturo del pre-guerra e
le tonalità spente e cupe del periodo bellico. La scelta di
integrare le fotografie reali di Miller nel film conferisce
autenticità alla narrazione, restituendo con forza il peso delle
immagini chela donna ha catturato e consegnato alla Storia.
Uno degli aspetti più
riusciti del film è la capacità di mostrare la Miller come una
testimone della storia, capace di cogliere dettagli che i suoi
colleghi uomini spesso trascuravano. La sua sensibilità nel
ritrarre la sofferenza e l’umanità dietro il conflitto è un
elemento centrale del film, ben interpretato da Winslet. Tuttavia,
il film manca di quel pathos che avrebbe potuto renderlo
memorabile, risultando a tratti troppo schematico, un biopic che
non sfrutta le potenzialità del materiale originale.
Un biopic innocuo anche
se visivamente affascinante
Nel
complesso, Lee Miller è un’opera visivamente
affascinante e impreziosita da una grande interpretazione
di Kate
Winslet, ma che non riesce a scavare a fondo nella
complessità della sua protagonista risultando quindi innocuo. Il
film si limita a raccontare la sua carriera senza esplorare appieno
le sue contraddizioni e le sue battaglie interiori, rendendo il
racconto più informativo che emozionale.
Quando si pensa al genere del
thriller contemporaneo, uno dei primi nomi che vengono in mente
è certamente quello di David Fincher. Oggi
conosciuto per opere di grande prestigio come The Social
Network e Il curioso caso di
BenjaminButton, questi diede vita nel 1995 a
quello che è ancora oggi considerato uno dei thriller per
eccellenza. Si tratta di Seven, film che ha
contribuito a riscrivere le regole del genere, gettando la base per
numerose opere simili realizzate in seguito. Pur avendo una
classica storia con uno psicopatico serial killer, un maligno gioco
da questi orchestrato, e due detective a seguirne le tracce, il
film presenta così tante originalità da essersi affermato da subito
al di sopra della media.
L’idea nasce dall’esperienza di
Andrew Kevin Walker, il quale agli inizi degli
anni Novanta stava cercando di affermarsi come sceneggiatore a New
York. Qui si imbatté nello squallore dei vizi capitali, decidendo
così di costruire una storia a partire da questi. Il progetto venne
poi proposto dalla New Line Cinema a Fincher, il quale era reduce
dalla terribile esperienza di Alien³. Il regista vide in Seven la
possibilità di realizzare un film più piccolo, attraverso il quale
riscoprire la propria passione per quel mestiere. Attratto
dall’intreccio, egli decise così da subito di iniziarne la
lavorazione, componendo un cast di grandi attori.
Una volta arrivato in sala, il film
si affermò come un successo assoluto. A fronte di un budget di soli
33 milioni di dollari, arrivò ad incassarne circa 327 in tutto il
mondo. In Italia si classificò al quarto posto tra i film più visti
della stagione cinematografica 1995/96. Seven fu un
successo anche di critica, la quale elogiò l’atmosfera cupa e
violenta, la sceneggiatura e le interpretazioni dei protagonisti.
Particolarmente apprezzato, infine, fu anche il macabro finale.
Tutto ciò, insieme anche a numerosi premi vinti, portò il film ad
affermarsi come un cult, segnando un vero e proprio momento di
transizione all’interno del genere thriller. Dopo Seven,
questo non sarebbe più stato lo stesso di prima.
La trama di
Seven
Protagonista del film è il detective
William Somerset, saggio e anziano, egli si
ritrova ora a vivere una profonda disillusione nei confronti di un
mondo sempre più violento e degradato. Ad una settimana dalla
pensione, si ritrova poi affiancato dal giovane e impulsivo agente
David Mills, il quale prenderà poi il suo posto.
Somerset inizia così ad insegnare al giovane i trucchi del
mestiere, anche se date le differenze caratteriali tra i due non
scorre da subito buon sangue. I due si ritrovano però
improvvisamente ad indagare su un particolare omicidio. Un obeso è
infatti stato costretto a mangiare fino a morire. A tale episodio
segue quello di un avvocato corrotto orrendamente mutilato. Sul
cadavere di questo i due agenti ritrovano scritta la parola
“avarizia”.
Somerset e Mills sospettano che
dietro tali omicidi vi sia un unico serial killer, e che quanto da
lui compiuto sia connesso da uno strano rapporto. Ben presto, con
il susseguirsi di ulteriori omicidi, i due capiranno di trovarsi di
fronte ad un pazzo che punisce con la morte persone colpevoli dei
sette vizi capitali. Mentre cercano di prevedere le prossime mosse
di questo, Somerset e Mills stringono una buona amicizia, e
quest’ultimo arriva a presentare al collega la bella moglie
Tracy. Nel momento in cui il killer farà però
capire loro di sapere chi sono, la vita dei due agenti e di quanti
a loro cari finirà con l’essere in pericolo.
Il cast del film
Il film ha come protagonista nei
panni del detective Somerset il premio Oscar Morgan
Freeman. Il giovane Mills è invece interpretato da
Brad
Pitt, qui alla sua prima collaborazione con Fincher.
L’attore accettò il ruolo desideroso di togliersi di dosso
l’etichetta da “sex symbol” ed evidenziò così gli aspetti meno
affascinanti del personaggio. Nei panni di Tracy, moglie di Mills,
vi è invece la premio Oscar Gwyneth
Paltrow. Inizialmente non interessata, su consiglio di
Pitt, all’epoca suo compagnò, decise infine di accettare. L’attore
Kevin
Spacey, infine, è Jon Doe, il killer della storia. Per
mantenere un’aura di mistero a riguardo, egli chiese che il proprio
nome non venisse pubblicizzato, così da far diventare una vera e
propria sorpresa il suo ingresso in scena.
La spiegazione del finale del
film
Il finale di Seven
è ormai uno dei più noti e scioccanti di sempre. È la perfetta
conclusione di una storia cupa e senza apparente speranza. Proprio
per via della sua grande drammaticità, i produttori del film non
volevano che fosse questo il finale, e decisero dunque di
cambiarlo. Fincher, però, si oppose fermamente a tale decisione e
dalla sua parte si schierò anche Pitt, il quale si rifiutò di
recitare nel film se il finale non fosse stato quello con la
celebre scatola. Alla fine, i produttori dovettero cedere alle
pressioni, permettendo così di realizzare un finale che ha poi
effettivamente contribuito alla fama del film. Con questo, viene
definitvamente alla luce il piano di Joe Doe, il quale sta
sostanzialmente conducendo un gioco con il detective Mills,
all’insaputa di quest’ultimo.
Sia Doe che Mills fanno infatti
parte dei sette peccati capitali e l’assassino è pronto a
dimostrarlo facendo sì che Mills getti via la sua maschera da
persona per bene per soccombere al rabbia, uccidendo Doe. Così
facendo, fa però il suo gioco, dimostrando dunque che non sembra
esserci via di fuga dai sette peccati capitali. Nonostante ciò, il
detective Sommerset chiude il film con quella che è divenuta una
delle più grandi battute finali della storia del cinema:
“Ernest Hemingway una volta scrisse: ‘Il mondo è un bel posto e
vale la pena di lottare per esso’. Sono d’accordo con la seconda
parte”. Questa citazione finale evidenzia in realtà un
cambiamento significativo anche in Somerset.
Unita al fatto che egli assicura al
suo capitano che “resterà in giro”, dimostra innanzitutto che non
intende più ritirarsi come aveva fatto in precedenza. Ma è
importante soprattutto perché dimostra ulteriormente che le azioni
di John Doe hanno avuto l’effetto desiderato sui suoi avversari.
Non solo è riuscito a manipolare Mills, ma ha anche scosso Somerset
dalla sua stessa apatia, costringendo il detective più anziano a
rivalutare la sua scelta di ritirarsi. I momenti finali di
Seven sono lasciati relativamente aperti
all’interpretazione, ma la citazione di Hemingway implica che
Somerset ha deciso di combattere per il mondo, anche se non lo
ritiene un bel posto. Anzi, forse è proprio nel tentativo di
farcelo diventare che bisogna lottare con più forza.
Il finale di Seven
è dunque particolarmente interessante perché non solo permette al
suo cattivo di vincere, ma sembra giustificare alcune delle sue
azioni nel processo. Manipolando il detective Mills affinché lo
uccida e portando a compimento il suo piano, John Doe vince e
dimostra che nessuno, anche la persona più ammirevole, è al di
sopra del peccato. Ciò è ulteriormente dimostrato dalla decisione
di Somerset di non ritirarsi, in quanto è sconvolto dalla sua
apatia, a cui si fa riferimento in una scena precedente in cui
discute con Mills le sue ragioni per ritirarsi. Questo dipinge John
Doe come un personaggio “nel giusto”, poiché il finale convalida le
sue intenzioni.
Il finale, inoltre, vede i sette
peccati rappresentati in modo appropriato e consolida
l’ambientazione del film come un luogo simile al purgatorio, con
Somerset che rimane come detective per continuare a lottare contro
il male che John Doe incarna. Per tutto il film, Mills è
considerato il successore di Somerset e il fatto che Doe prenda di
mira il giovane detective sembra essere un modo per costringere
Somerset a fare un bilancio di se stesso. In realtà Somerset
rappresenta l’ultimo (e ottavo) “peccato” di Se7en: l’apatia. Il
piano di John Doe vede quindi Somerset continuare a svolgere il suo
ruolo di detective, intrappolandolo di fatto nel purgatorio e
rendendolo una vittima finale del film.
Il trailer del film e dove vederlo
in streaming e in TV
Per gli appassionati del film è
possibile fruire di questo grazie alla sua presenza su alcune delle
più popolari piattaforme streaming presenti oggi in rete.
Seven è infatti disponibile nel catalogo di
Infinity+ e Amazon Prime
Video. Per vederlo, basterà sottoscrivere un
abbonamento generale, avendo così modo di guardare il titolo in
totale comodità e al meglio della qualità video. Il film sarà
inoltre trasmesso in televisione il giorno sabato 8
marzo alle ore 21:00 sul canale
Iris.
Diretto da Ali Abbasi (regista
anche di Border – Creature di
confine e del recente The
Apprentice), Holy Spider è un film in
lingua persiana che presenta una ricostruzione fittizia di
eventi reali accaduti a Mashhad, in Iran. Nell’arco di circa
undici mesi, nel 2000-2001, un uomo di nome Saeed
Hanaei ha adescato e ucciso sedici donne che lavoravano
come lavoratrici del sesso e piccole spacciatrici di droga nelle
strade della città. Il regista Abbasi ha detto chiaramente che la
sua intenzione con questo film non era solo quella di raccontare la
macabra storia del serial killer, ma di concentrarsi maggiormente
sulla misoginia che esisteva, e esiste ancora, nella società
iraniana.
Abbasi era infatti principalmente
interessato ad approfondire la storia di questo serial killer e il
fatto che per buona parte della popolazione fosse diventato un
eroe, offrendo così anche un ritratto inedito della condizione
femminile in Iran. Ciò è evidente in tutto il film, poiché
Holy Spider si assicura di includere il fanatismo
religioso e il sostegno sessista a un assassino lungo tutta la
narrazione. Nel complesso, si tratta di un’ottima esperienza di
visione, con immagini e momenti lodevoli che si dipanano con
precisione. Il suo finale, inoltre, risulta l’apice di un racconto
particolarmente scioccante, tanto da richiedere una spiegazione
generale.
La trama e di Holy
Spider
Ambientato in Iran nel 2001, il film
racconta la storia di un uomo di nome Saeed, un
padre di famiglia alle prese con la propria ricerca religiosa.
Saeed è intenzionato a compiere una sacra missione: purificare la
città santa di Mashhad, sradicando del tutto la prostituzione,
simbolo di immoralità e corruzione. Il modo che sceglie per portare
a termine questa impresa è l’eliminazione fisica delle donne. Dopo
l’ennesima vittima, una giornalista di Teheran,
ArezooRahimi, giunge in città
per indagare sullo spietato serial killer, rendendosi conto che le
autorità locali non sembrano avere fretta di trovare il colpevole.
Si scontra infatti con pregiudizi sessisti ed una polizia apatica e
potrà contare solo sul reporter locale
Sharifi.
Mehdi Bajestani in Holy Spider.
La spiegazione del finale: come fa
Arezoo a scoprire l’identità dell’assassino?
La lotta di Arezoo Rahemi per
scoprire di più sul serial killer e gli ostacoli che deve
affrontare riassumono la posizione di una donna nella società dei
primi anni 2000. L’unica ragione per cui potrebbe non assomigliare
esattamente al presente è che il presente è ancora peggiore. Senza
entrare nello specifico, la società e la cultura che Abbasi
presenta in Holy Spider, in piena somiglianza con
la realtà, sono estremamente dure nei confronti delle donne. Nella
primissima scena di Arezoo, dopo essere scesa da un autobus che
l’ha portata a Mashhad, la donna fa il check-in in un hotel dove ha
prenotato una stanza. Tuttavia, l’impiegato dell’hotel non è
disposto a farla entrare perché è una donna single e non sposata,
sottintendendo che una donna senza una figura maschile di
riferimento non dovrebbe stare fuori casa.
All’inizio Arezoo non vuole
ostentare i suoi diritti, ovviamente, perché le viene negato un
servizio di base, ma quando la situazione le sfugge di mano, mostra
all’impiegato il suo tesserino da giornalista. Il fatto che sia una
giornalista costringe l’impiegato a cambiare la sua decisione, ma
fa subito notare che Arezoo dovrebbe coprire di più i capelli e la
testa con il suo foulard. Questo comportamento categorico e
sessista è qualcosa che Arezoo, purtroppo, affronta per tutto il
film e diventa parte del suo personaggio in senso positivo. L’unico
contatto che sembra avere a Mashhad per iniziare il suo lavoro è un
uomo di nome Sharifi, che lavora come direttore editoriale della
sezione penale del giornale locale.
Sharifi è perlopiù contenuto e ben
educato con Arezoo, ad eccezione dell’unica volta in cui ricorda di
aver sentito parlare del licenziamento di Arezoo da un lavoro a
Teheran. Anche se Sharifi non sembra avere intenzioni sbagliate nel
parlarne, il modo in cui lo presenta irrita Arezoo, perché anche
questa storia è carica di ingiusto sessismo. Il capo di Arezoo nel
suo precedente posto di lavoro voleva avere una relazione
sentimentale con lei e, quando lei ha negato il suo approccio, la
donna è stata licenziata. Non solo Arezoo ha perso il lavoro, ma il
capo ha anche diffuso la falsa notizia che il licenziamento era
dovuto al fatto che lei aveva avuto una relazione sentimentale con
lui, il che è contrario alle regole del posto di lavoro.
La giornalista cerca ora di mettere
da parte tutto questo e di concentrarsi sul suo lavoro, ma si trova
di nuovo di fronte a un comportamento simile quando incontra
l’ufficiale di polizia che si occupa del caso. L’agente, un uomo
orgoglioso del suo lavoro e della sua statura, a un certo punto
chiede ad Arezoo di uscire e ha una reazione inappropriata e al
limite dell’abuso quando lei lo rifiuta. Nella sua ricerca del
serial killer, Arezoo è quindi spinta da una preoccupazione simile
a quella di tutte le donne di questa società, perché sa che
probabilmente a nessun altro interesserà molto di quest’uomo in
preda a una furia omicida. È importante notare che, sebbene
Holy Spider sia
basato su eventi e personaggi reali, il personaggio di Arezoo è
in realtà completamente inventato, ed è un’aggiunta creativa di
Abbasi.
Va anche detto che questa aggiunta è
semplicemente meravigliosa, ed è Arezoo a rendere il film ancora
più stratificato e degno di nota. La giornalista inizia a studiare
il carattere di questo assassino attraverso le telefonate che egli
fa a Sharifi dopo ogni suo omicidio, vantandosi di informare lui e
il mondo su dove trovare il corpo della sua ultima vittima.
L’autrice si concentra sui fili comuni che legano tutti i crimini:
tutte le donne erano lavoratrici del sesso e la maggior parte di
loro erano anche spacciatrici e abusatrici di droga, oltre al fatto
che tutte sono state strangolate con le loro stesse sciarpe. Arezoo
e Sharifi capiscono dunque che si tratta di una questione
religiosa.
Forouzan Jamshidnejad in Holy Spider.
Per questo Sharifi era stato cauto
nel riferire la notizia, perché i suoi superiori gli avevano
ordinato di non mettere in cattiva luce i crimini religiosi. Dopo
numerosi omicidi da parte dell’assassino, però, Arezoo e Sharifi
vanno a incontrare uno dei leader religiosi, chiedendogli di
aiutarli a scoprire l’assassino. Con grande sorpresa, il leader
concede loro i suoi migliori auguri e il suo sostegno, ma è anche
diretto nel dire che non si fida di Arezoo per denunciare i crimini
nel modo esatto in cui sono stati commessi. All’epoca, c’erano
pressioni politiche su questi leader per non tollerare tali crimini
contro la legge, ma anche la pressione sociale di essere moralisti
non ha mai lasciato la scena.
Successivamente, Arezoo decide di
incontrare le donne che si prostituiscono per strada ogni notte, ma
nessuna di loro è disposta a parlare con lei. Aiuta poi una donna
di nome Soghra quando questa è malata in un caffè e all’inizio fa
amicizia con lei, ma le domande sulla droga e sull’assassino la
allontanano immediatamente. Nel giro di pochi giorni, però, Soghra
viene ritrovata cadavere, ultima vittima dell’a. Questo non solo
commuove Arezoo oltremisura ma le dimostra che ha cercato nel posto
giusto. Avendo ormai oltrepassato tutti i limiti e rendendosi conto
che, sebbene tutti le assicurino di aver trovato l’assassino ma che
nessuno ha realmente intenzione di farlo, Arezoo decide di prendere
in mano la situazione.
Si finge una prostituta per strada
per farsi prendere dall’assassino, ed è proprio quello che succede.
Ma una volta entrata nella casa dell’assassino, Arezoo non demorde
e riesce in qualche modo a fuggire. È la sua denuncia alla polizia,
il giorno seguente, a far arrestare Saeed, perché è l’unica donna
sopravvissuta alla presa dell’assassino. Negli ultimi minuti del
film, l’attenzione si concentra sul se Saeed sarà punito dalla
legge o meno. All’epoca tutti sapevano che l’arresto dell’assassino
era avvenuto solo perché c’erano pressioni politiche dovute alle
imminenti elezioni. Tuttavia, c’era anche la convinzione generale,
sostenuta fino alla fine anche da Arezoo, che Saeed sarebbe stato
lasciato fuggire o tenuto al sicuro.
L’avvocato difensore dell’uomo vuole
presentare Saeed in tribunale come affetto da problemi di salute
mentale, ma Saeed si rifiuta di accettarlo. In modo piuttosto
drammatico, dice a tutti in tribunale che aveva il pieno controllo
delle sue azioni e che la sua unica follia era l’amore per Dio e
per l’Imam Reza. Nelle sue conversazioni private, Saeed afferma di
essere consapevole di quante persone nella società lo ammirino e di
non volerle deludere dichiarando di essere un pazzo. È chiaro che
Saeed stesso crede di fare la cosa giusta perché è spronato da una
società che glielo faceva credere. Così, quando il suo migliore
amico Haji lo va a trovare in carcere dopo l’udienza della sentenza
definitiva e gli dice che è in atto un grande piano per farlo
evadere prima della pena di morte, Saeed si sente immensamente
sollevato.
L’uomo è estremamente spaventato
dalla morte, ma è spronato alle sue azioni solo dalla religione e
dalla società. Alla fine, però, questo grande piano non viene
portato a termine e Saeed Azeemi viene impiccato. Il motivo esatto
di questo cambiamento di piani o della falsa promessa di Haji non
viene chiarito, ma sembra che sia stata Arezoo a garantire che
l’uomo fosse consegnato alla giustizia. Dopo aver concluso il suo
lavoro a Mashhad, Arezoo Rahimi sale su un autobus diretto a
Teheran e, durante il tragitto, guarda l’intervista che aveva fatto
al figlio di Saeed, Ali, in cui il ragazzo esprime il suo orgoglio
per le azioni del padre. Holy Spider si conclude
con la triste constatazione che numerosi altri Saeed sono spuntati
nella società, spinti da cieche convinzioni e dal fanatismo
religioso.
Beauty
in Black ha pubblicato il resto della sua prima
stagione e il finale della seconda parte ha portato alcune delle
rivelazioni più sconvolgenti della serie drammatica di Tyler Perry.
Beauty in Black parte 1 si è conclusa con un finale
scioccante: Horace ha sventato un furto nella sua casa, Rain è
finita in ospedale con un destino incerto e la sorella minore di
Kimmie, Sylvie, è stata rapita. La seconda parte riprende proprio
da questo finale sospeso, con Kimmie che intraprende una guerra
senza quartiere per trovare Sylvie e farla pagare ai suoi rapitori
(naturalmente, facendosi molti nemici pericolosi lungo il
percorso).
Nei primi otto episodi, Beauty in Black ha lasciato molte domande senza risposta
che saranno esplorate nei prossimi otto. La seconda parte della
prima stagione di Beauty in Blackè uscita su Netflix il 6 marzo e si tuffa a capofitto in
quelle domande. Si arriva a un finale emozionante, l’episodio 16,
“Now Make It Thunder”, in cui un Horace malato fa un’ultima mossa
di potere contro la sua famiglia doppia. Kimmie riceve una proposta
inaspettata, Olivia fa una mossa spietata contro Lena e il
palcoscenico è pronto per una seconda stagione emozionante.
Perché Horace vuole sposare
Kimmie nel finale di Beauty in Black – Parte 2
Horace non vuole che i suoi
figli ereditino i suoi soldi
All’inizio del finale di Beauty in
Black – Parte 2, Kimmie va a trovare Horace in ospedale, dove lui
le dice che sta morendo e che vuole sposarla. Ma non vuole sposarla
perché è innamorato di lei o perché non vuole morire da solo; ha un
motivo molto più pratico. Quando morirà, Horace vuole
assicurarsi che la sua fortuna guadagnata con fatica non vada ai
suoi figli fannulloni – che sono “fottuti perdenti”,
secondo le sue parole – e l’unico modo per farlo è sposarsi.
Beauty in Black è la prima
serie drammatica di Tyler Perry per Netflix.
Horace è impegnato in un’intensa
lotta finanziaria con la sua famiglia e non vuole perdere,
nemmeno con la morte. È disposto a sposare una quasi
sconosciuta per tenere i suoi soldi lontani dalle loro mani. Kimmie
non accetta di sposare Horace a meno che lui non le spieghi perché
odia così tanto i suoi figli, e lui le dice che non hanno mai
lavorato un giorno in vita loro, quindi non pensa che meritino di
diventare ricchi per caso. Kimmie chiede di quanto denaro si tratta
e Horace risponde in modo criptico: “Abbastanza perché tu non
debba più lavorare in vita tua”.
Perché Kimmie accetta davvero
la proposta di Horace
Kimmie non accetta subito la
proposta di Horace, ma ci pensa su per qualche minuto, prima di
accettare di sposarlo. Quando racconta della proposta alla sua
amica Rain, Rain cerca subito su Google il patrimonio netto di
Horace e scopre che vale ben 376 milioni di dollari. Questo rende
sicuramente più allettante l’offerta, dato che Kimmie pensa che
sarà più che sufficiente per pagare i suoi debiti e liberarsi
delle persone pericolose che la perseguitano. Ma non è l’unico
motivo per cui Kimmie accetta di sposare Horace.
Quando Kimmie sposerà Horace,
diventerà una Bellarie, che nel mondo di Beauty in Black è come
essere una Kennedy o una Vanderbilt.
Quando Kimmie sposerà Horace,
diventerà una Bellarie, che nel mondo di Beauty in Black è
come essere una Kennedy o una Vanderbilt. Potrà ottenere tutto ciò
che desidera semplicemente cambiando il proprio cognome da sposata.
Quando un’infermiera entra nella stanza d’ospedale di Sylvie in
fondo al corridoio e cerca di cacciarla per trasferirla in un
ospedale meno prestigioso, Kimmie le dice che è fidanzata con un
Bellarie, e l’infermiera cambia immediatamente atteggiamento e
lascia Sylvie nella stanza. Questo matrimonio porterà con sé alcuni
vantaggi piacevoli.
Il piano di ricatto di Olivia
contro Lena spiegato
Fin dalla prima parte, l’avvocato
Lena ha costruito un caso contro l’impero dei prodotti per capelli
Bellarie. Nel finale, finalmente consegna alla matriarca Olivia
Bellarie un mandato di comparizione per avviare il procedimento
giudiziario. Tuttavia, Olivia ricatta rapidamente Lena affinché
ritiri il caso. Provoca Lena affinché la schiaffeggi, la filma e
minaccia di diffondere il video se lei porta avanti la causa
collettiva. Per provocarla, Olivia schiaffeggia Lena ripetutamente,
ma dato che Olivia è così potente, l’unico testimone chiude un
occhio. Questo è un commento interessante su come lo Stato di
diritto non si applichi ai super ricchi.
Perché i Bellarie si oppongono
così tanto al matrimonio
Non appena i Bellary vengono a
sapere del matrimonio, fanno di tutto per impedirlo. Mallory corre
all’ospedale per fare casino, Olivia chiede a Roy e Charles di
raggiungerla e Jules si unisce a loro. Horace ha previsto tutto,
quindi ha chiesto alla sicurezza dell’ospedale di chiudere il suo
reparto e di tenere i Bellary nella hall. Alla fine, i Bellary
si coalizzano contro la guardia di sicurezza e la spintonano per
entrare nell’ala e vedere Horace. Ma quando arrivano, è troppo
tardi: il matrimonio è già stato celebrato.
Ci sono un paio di ragioni per cui
i Bellary sono così determinati a impedire a Horace di sposare
Kimmie. Per cominciare, non vogliono che il denaro esca dalla
famiglia e finisca nelle mani di una persona che non è un Bellarie.
Come la maggior parte delle persone ricche, non hanno mai
abbastanza e vogliono tenersi ogni singolo centesimo a cui sentono
di avere diritto. E soprattutto non vogliono che il denaro vada a
Kimmie, una loro nemica di lunga data, che ha causato loro problemi
per 16 episodi.
Perché l’avvocato di Horace ha
fatto uscire Kimmie dalla sua stanza d’ospedale
Mentre Horace sta sostenendo il
test cognitivo necessario per il matrimonio, il suo avvocato porta
Kimmie nel corridoio per rispondere a tutte le sue domande. Ma lui
inizia subito a comportarsi in modo sospetto. Inventa ogni tipo di
scusa per portare Kimmie nella hall, e Kimmie capisce subito il
trucco. L’avvocato voleva attirare Kimmie nella hall, dove si
trovavano i Bellary, in modo che potessero affrontarla. Ma ciò che
rende Kimmie il miglior personaggio di Beauty in Black è che
non cade facilmente in trucchi del genere.
Il vero significato del finale
di Beauty in Black – Parte 2
Beauty in Black è
stata fin dall’inizio una soap opera sul classismo, e il finale
mette in evidenza la banalità della divisione di classe. Esplora
l’idea che alcune persone che lavorano duramente, come Kimmie,
passano la vita sommerse dai debiti, mentre altre che non hanno mai
mosso un dito, come i figli di Horace, sono nate in famiglie
benestanti e possono godersi lussi che non si sono guadagnate. Il
finale tocca il tema del “non puoi portarlo con te”, quando
Horace, dopo aver accumulato ricchezze per anni, cerca di lasciare
la sua fortuna nelle mani giuste alla fine della sua vita.
Gabriele Mainetti
torna al cinema con
La città proibita,
un’opera ambiziosa che mescola generi e suggestioni con la consueta
consapevolezza, confermando la sua intenzione di portare avanti
un’idea di cinema spettacolare e profondamente radicato nella
contemporaneità. Dopo Lo
chiamavano Jeeg Robot e Freaks
Out,
il regista romano ci accompagna in una Roma ibrida, viva, in
perenne trasformazione, raccontando una storia di vendetta, amore e
riscatto, vibrante di adrenalina.
La trama de La città
Proibita
In un villaggio tra le montagne della Cina, due bambine si allenano
con il padre che insegna loro delle mosse di kung fu. Molto anni
dopo incontriamo Mei, una delle due ormai cresciuta, protagonista
di una scena d’azione mozza fiato degna del miglior Bruce Lee,
mentre si difende da un gruppo di malavitosi e cerca sua sorella.
Sembra di essere in un qualsiasi localaccio di Shanghai, e invece
siamo nel coloratissimo all’Esquilino, nel cuore di Roma. Mei
incontra Marcello e, involontariamente, il loro destino si lega per
quella che sarà l’avventura che cambierà per sempre le loro
vite.
Il più grande pregio di la città Proibita è quello di trovare un
buon equilibrio tra l’anima romanesca che il regista aveva già
raccontato nei suoi film precedenti, così come le persone che
vivono ai margini, e la sua grande passione per i film di kung fu e
i revenge movie, elemento che costituisce poi il centro action del
racconto.
Un equilibrio trai generi non
sempre al servizio della storia
Il film ha la grande capacità di
passare senza soluzione di continuità dalla commedia al dramma, dal
melodramma al film di arti marziali, sempre con grande coerenza e
senza mai risultare forzato. La scrittura, firmata da Mainetti
stesso insieme a Stefano Bises e Davide Serino, diventa più sincera
e lineare, rispetto ai film precedenti, anche se spesso si nota un
compiacimento per la bellezza e l’adrenalina di alcune scene che
però non servono la storia, sfociando nel risultato opposto di
allontanare lo spettatore anziché tenerlo incollato allo
schermo.
Le scene di combattimento, curate
dal fight coordinator Liang Yang, elevano le scene d’azione a un
livello tecnico competitivo con chi questi film li realizza
continuamente, anche perché quando si tratta di azione, Mainetti sa
il fatto suo: le scene in cui il protagonista è il kung fu sono
fluide, creative e perfettamente integrate nella narrazione, anche
se talvolta troppo lunghe e compiaciute.
Mei e Marcello protagonisti
irresistibili
In questo crogiolo di riferimenti,
sfumature e culture, Gabriele Mainetti sceglie due volti
memorabili: Enrico
Borello e Yaxi Liu, come eroi
semi-romantici di questa storia. Lui, visto in molti altri
progetti, tra cui Lovely Boy e il
recente Familia, sorprende con una dolcezza e un
incanto negli occhi che fanno tenerezza al primo sguardo, non si
può non fare il tifo per il suo Marcello. Lei, letale e sottile, è
stata la controfigura di Liu
Yifei nel Mulan in live
action della Disney e “mena come un fabbro”. Non solo, il suo
viso pulito sono una rappresentazione perfetta della grinta e della
dedizione che Mei, il suo personaggio, mette nel perseguimento dei
suoi obbiettivi. Due opposti che trovano il modo di incontrarsi e
incrociarsi, in mezzo a un inferno che nessuno dei due ha cercato.
A completare il cast intervengono Sabrina
Ferilli e Marco
Giallini.
Ma Roma nei film di Mainetti è
sempre protagonista e così da quella multietnica dell’Esquilino a
quella da cartolina dei Fori Imperiali, la Città Eterna fa bella
mostra di sé, diventando lo scenario perfetto per questa
narrazione. L’Esquilino, con le sue bancarelle, i ristoranti cinesi
e le trattorie romane, diventa il palcoscenico perfetto per
raccontare un mondo in continua evoluzione. E Mainetti non si
limita a rappresentare questa realtà, ma la esalta, mostrandone la
bellezza e la complessità.
La città
proibita non è solo un film d’azione o una storia d’amore:
è un manifesto di come Gabriele
Mainetti intende il suo cinema. E nel bene e nel male
è ormai una cifra stilistica distintiva, con la sua ricchezza di
riferimenti ma anche l’autocompiacimento, lo stile impeccabile e la
mancanza di umiltà per mettersi al servizio della storia. Il film
si impone come uno dei più interessanti delle prossime settimane al
cinema, dal 13 marzo in sala
con PiperFilm con anteprime l’8 marzo in
anteprima.
Dopo il sincero
omaggio a Dante Alighieri e
il malinconico La
quattordicesima domenica del tempo
ordinario, Pupi
Avati torna
a confrontarsi con il genere che ha segnato la sua carriera:
l’horror gotico. Con L’orto
americano,
tratto dall’omonimo romanzo da lui stesso scritto, il regista
bolognese confeziona un’opera densa di riferimenti letterari e
cinematografici, in bilico tra la memoria storica e il
perturbante.
La trama di L’orto
americano
La storia segue un giovane aspirante
scrittore bolognese (interpretato da Filippo
Scotti) che, poco dopo la fine della Seconda Guerra
Mondiale, si innamora perdutamente di una giovane infermiera
americana incontrata per caso in una bottega di barbiere. Il loro
fugace incontro segna l’inizio di un’ossessione amorosa che lo
porterà fino in Iowa, dove il protagonista si trasferisce per
scrivere il suo romanzo. Lì, accanto alla casa della ragazza, si
trova uno strano orto abbandonato, nel quale rinviene una teca di
vetro contenente i genitali di una donna e una criptica citazione
del poeta greco Bacchilide. Da quel momento, il giovane si troverà
invischiato in un inquietante mistero che lo costringerà a fare
ritorno in Italia, dove l’orrore troverà la sua compiutezza.
L’orto
americano riprende molte delle tematiche care ad
Avati: la follia come varco tra il reale e il soprannaturale, la
memoria storica come terreno fertile per l’orrore, il gotico padano
come cifra stilistica inconfondibile. Il protagonista, segnato da
un ricovero in un istituto psichiatrico perché sosteneva di parlare
con i defunti, incarna un’umanità fragile e tormentata ma comunque
aperta alla meraviglia e al richiamo dello extra-ordinario, anche
lui porta d’accesso verso un mondo in cui si può trovare la
pace solo nelle “vie di mezzo”, “tra l’acqua dolce del Po
e il mare”. Un personaggio delicato e sfumato che Scotti ritrae con
grande sensibilità.
Il bianco e nero: narrazione e
esperimento
Visivamente, Avati compie una scelta
audace adottando il bianco e nero, che conferisce al film
un’estetica espressionista e sospesa nel tempo. Le atmosfere
oniriche e inquietanti, arricchite da un sapiente uso delle ombre e
delle inquadrature, rimandano ai maestri del gotico,
da Mario Bava a Carl
Theodor Dreyer e la scelta fotografica, un unicum
nella carriera di Avati, segnala non solo un’esigenza legata al
racconto ma anche una volontà di sperimentare viva e propositiva.
La fotografia diventa fondamentale per amplificare il senso di
straniamento e la tensione narrativa, sostenendo il costante
contrasto tra lirismo e brutalità.
Uno degli aspetti più interessanti
di L’orto americano è la sua natura
metaforica che ripercorre una discesa agli inferi, un percorso di
discesa nel lato oscuro dell’animo umano che richiama la tradizione
dantesca (un ritorno!). Il protagonista si muove tra l’amore
idealizzato e la crudele realtà della morte, tra il Midwest
americano e la Bassa Padana, tra il mito dei testi classici e la
cronaca nera. Un continuo ossimoro che trova un equilibrio perfetto
in un racconto avvincente, oltre che ammaliante.
Con L’orto
americano, Pupi
Avati rappresenta ancora una volta quanto sia
importante raccontare l’inspiegabile, firmando un film che si
impone come uno dei suoi migliori lavori in assoluto. Un’esperienza
cinematografica sospesa tra sogno e allucinazione, come quegli
incubi confusi, che si dissipano al mattino, ma che lasciano un
segno di sé sul cuore.
L’ottavo episodio della seconda
stagione di Scissione non
è come gli altri episodi della serie Apple TV+,
in quanto si concentra esclusivamente su Harmony Cobel, sul suo
passato e sui suoi piani futuri per abbattere Lumon. Anche se Cobel
è stata ritratta come uno dei personaggi chiave nella prima
stagione della serie di fantascienza di Apple
TV+, dopo i primi episodi della seconda stagione ha
avuto pochissimo tempo sullo schermo. Dopo non essere stata
autorizzata a gestire nuovamente il piano reciso, Cobel si è
rivoltata contro l’azienda che aveva lealmente adorato ed è
scomparsa prima che qualcuno potesse rintracciarla.
Anche se la seconda stagione
inizialmente accennava al fatto che si stava dirigendo verso un
luogo chiamato Salt’s Neck, non rivelava mai perché Cobel si stava
dirigendo lì e cosa aveva intenzione di fare dopo la sua partenza
da Lumon. Dopo aver mantenuto un’aria di ambiguità sulla sorte di
Cobel, la seconda stagione di Scissione le
dedica un intero episodio, rivelando tutto, dalla sua storia in
Lumon al vero motivo per cui si sentiva tradita dall’azienda. Una
grande rivelazione sul passato di Harmony
Cobel in Lumon cambia tutto ciò che si sapeva su di lei e sul
suo contributo all’azienda.
Perché Cobel accetta di
incontrare Mark nel finale dell’ottavo episodio della seconda
stagione di Scissione
Cobel è rimasta devastata quando
Lumon l’ha licenziata nel finale della prima
stagione di Scissione. Nonostante fosse stata
licenziata, mantenne la sua lealtà e aiutò Lumon a contenere il
caos causato dalla contingenza degli straordinari che ne seguì
nell’arco finale della prima stagione. Con suo sgomento, anche dopo
aver dimostrato la sua dedizione al servizio dell’azienda, Helena
non accettò di averla a bordo come responsabile del piano
licenziata e le offrì solo un profilo di lavoro alternativo in
azienda.
Questo creò un senso di dissonanza
nella mente di Helena, che si rese conto di come avesse
sprecato tutta la sua vita rimanendo fedele a un’azienda che
l’aveva buttata fuori come uno strumento scartato. Con
questo, Cobel poteva finalmente vedere quanto fosse malvagia Lumon,
spingendola a scappare a Salt’s Neck, la piccola città in cui era
cresciuta. Dopo aver ottenuto ciò che voleva dalla sua casa
d’infanzia, si allontana da Salt’s Neck e riceve una chiamata da
Devon. Invece di ignorare Devon e Mark e rimanere fedele a Lumon,
Cobel non si trattiene dall’aiutarli.
Nella scena finale dell’episodio 8
della seconda stagione di Scissione si rende conto di essere
stata programmata per credere nella visione di Lumon per tutta la
vita. Tuttavia, come i lavoratori tagliati fuori, anche lei era un
burattino che l’azienda sfruttava a proprio vantaggio. Questa
consapevolezza le fa odiare Lumon e la incoraggia a collaborare con
coloro che sono determinati a distruggerla.
Chi arriva a casa di Sissy Cobel
nel finale dell’ottavo episodio della seconda stagione di
Scissione
Dopo essere arrivata a Salt’s Neck
nell’ottavo episodio della seconda
stagione di Scissione, Cobel teme di essere
seguita. Inoltre, teme che Sissy non la faccia entrare in casa se
vede la sua auto parcheggiata fuori. Pertanto, chiede aiuto a
Hampton e gli chiede di lasciarla in silenzio a casa di Sissy.
Verso la fine dell’episodio, Cobel trova finalmente ciò che stava
cercando, ma Hampton vede da lontano un’auto che si avvicina alla
casa di Sissy. Anche se l’episodio non rivela chi è arrivato a casa
di Sissy, sembra ovvio che si trattasse di qualcuno della
Lumon.
Sissy Cobel aveva precedentemente
rivelato che dopo che Harmony aveva lasciato Lumon, Drummond
l’aveva chiamata per raccontarle della sfida di Harmony. Mentre
Harmony trascorre del tempo nella stanza di sua madre e ricorda la
sua tragica scomparsa, Sissy sembra tradirla informando le autorità
di Lumon del suo arrivo a casa sua. Questo spiegherebbe come Lumon
sia venuta a conoscenza di dove si trovasse Cobel. Poiché anche
Hampton sembra aver avuto una storia traumatica con Lumon, esprime
il suo odio verso l’azienda dicendo “Venite a domare questi
temperamenti, stronzi”, mentre l’auto di Lumon si avvicina alla
casa di Sissy.
Cosa cerca Harmony nella casa di
Sissy Cobel
Harmony cerca in particolare un
taccuino nella casa di Sissy che apparentemente contiene intricati
disegni di qualcosa che ha creato lei. Dopo aver cercato in tutta
la sua stanza e in quella di sua madre, Cobel si rende conto che
Sissy non avrebbe mai buttato via le sue cose. Con questo, si rende
conto che Sissy potrebbe aver conservato le sue cose in cantina.
Quando va in cantina, trova finalmente il taccuino che stava
cercando, che contiene intricati disegni di tutti i protocolli e le
procedure di override che Lumon utilizza per creare le barriere di
separazione nei cervelli dei propri dipendenti.
I disegni nel taccuino di Cobel
spiegati: perché James Eagan li ha rubati?
I progetti nel taccuino di Cobel
rivelano che la procedura di separazione e le sue numerose
componenti erano frutto del suo ingegno. Era la mente dietro
tutte le procedure che Lumon utilizza sui suoi lavoratori.
Tuttavia, non le è mai stato dato il merito che meritava per il suo
lavoro. Invece, Jame Eagan ha rivendicato come sue le sue
invenzioni e si è preso tutto il merito per i suoi contributi a
Lumon. La storia di Cobel e Jame Eagan ricorda la leggenda
che circonda Thomas Edison e Nikola Tesla.
La rivelazione di Cobel spiega
perché Harmony si sentì così distrutta dopo che Lumon la allontanò
dal piano di separazione. Era orgogliosa di aver contribuito alla
crescita di Lumon inventando e studiando la procedura di
separazione, ma l’azienda glielo portò via.
È opinione diffusa che Thomas Edison
abbia brevettato le invenzioni di Tesla solo a suo nome e le abbia
presentate agli azionisti senza dare a Tesla il giusto merito per i
suoi contributi. Anche se non ci sono prove che Edison abbia rubato
a Tesla, il retroscena di Cobel mette in evidenza come le potenti
forze dietro Lumon gestiscano l’azienda come una setta. Manipolano
lavoratori come Cobel facendogli credere che il loro unico scopo è
servire Kier, mettendo a tacere qualsiasi riconoscimento dei loro
contributi individuali.
La spiegazione della storia di
Harmony Cobel alla Lumon
L’ottavo episodio della seconda
stagione di Scissione non solo rivela la verità
sui contributi di Harmony Cobel alla Lumon, ma svela anche come è
stata assunta dall’azienda quando era solo una bambina. Come la
signorina Huang, anche Cobel era minorenne quando fu assunta
dall’azienda come stagista. Come la Huang, anche lei
partecipò al prestigioso programma Wintertide
Fellowship di Lumon e fu ritenuta meritevole di tale borsa
di studio solo dopo aver dimostrato quanto fosse laboriosa durante
il suo periodo di lavoro in una fabbrica Lumon.
Sebbene l’episodio non approfondisca
i dettagli del viaggio di Cobel a Wintertide, suggerisce che anche
Hampton abbia lavorato con lei nella fabbrica Lumon. Hampton
continua a sottolineare come Lumon li abbia costretti a lavorare
come bambini, rivelando la triste verità sulla storia di
sfruttamento di giovani menti impressionabili da parte
dell’azienda. Quando Cobel e Hampton si drogano, Cobel ricorda
anche di aver fumato etere per la prima volta quando aveva solo
nove anni. Questo suggerisce che Cobel e Hampton erano
costantemente esposte all’etere e ai suoi effetti inebrianti quando
lavoravano nelle fabbriche di etere della Lumon da bambine.
La spiegazione del ruolo di
Celestine “Sissy” Cobel nella Lumon
Anche se l’episodio 8 della seconda
stagione di The Divide non menziona esplicitamente
il ruolo di Sissy Cobel in Lumon, mette in evidenza come anche lei
sia accecata dalla sua devozione all’azienda. Per alcuni secondi,
l’episodio mostra anche una foto di una targa su una delle pareti
della casa di Sissy, che rivela che lei era la “Maestra
apprendista dei giovani”. Mostra anche che era stata
etichettata come la “Quarterly Striver” nel “4th
Quarter”, suggerendo che aveva legami profondi con l’azienda
come sua dipendente per un bel po’ di tempo.
Cosa è successo alla madre di
Harmony Cobel
L’episodio 8 della seconda stagione
di Scissione rivela che la madre di Cobel aveva una malattia
terminale. Cobel accettò di lavorare per Lumon in giovane età
perché credeva che l’azienda l’avrebbe aiutata a pagare le cure per
sua madre. Tuttavia, mentre era via per lavoro per Lumon, sua madre
morì. Come si vede nell’episodio di Scissione
– stagione 2, Cobel rimane traumatizzata dalla morte di
sua madre e porta persino con sé il suo tubo per la
respirazione.
La stagione 2 di
Scissione dovrebbe avere un totale di 10 episodi, con l’ultimo
episodio in uscita il 21 marzo 2025.
Cobel cerca di incolpare Celestine
per la morte di sua madre sostenendo che non si è presa cura di
lei. Tuttavia, con grande sorpresa di Harmony, Celestine sostiene
che sua madre è morta dopo che lei stessa ha scollegato il tubo di
respirazione dal suo macchinario di supporto vitale. Sebbene
Harmony si rifiuti di credere alle affermazioni di Sissy Cobel, la
rivelazione la sconvolge profondamente.
L’impatto e l’influenza di Lumon
su Salt Neck spiegati
Anche se l’ottavo episodio della
seconda stagione di Scissione non approfondisce
l’influenza di Lumon su Salt’s Neck, accenna a come l’azienda abbia
distrutto la città. Molti cittadini sembrano soffrire di gravi
problemi di salute e utilizzare tubi per respirare, il che
suggerisce che Lumon abbia fortemente inquinato l’aria e l’acqua.
Per fare spazio alla sua crescita, l’azienda sembra anche aver
costretto molte persone a trasferirsi, mentre quelle rimaste sono
state costrette a lavorare per Lumon.
L’attesissimo Mickey
17 di Bong
Joon-ho è finalmente in sala (qui
la nostra recensione), ed ecco di seguito un’analisi sul finale
del film, nel tentativo di spiegare cosa succede in questo bizzarro
approccio alla fantascienza del regista premio Oscar. Basato sul
romanzo Mickey 7,Mickey 17
costruisce un nuovo mondo fantascientifico in cui le persone,
previo consenso, possono diventare “sacrificabili”. Il protagonista
(interpretato da Robert Pattinson) è uno di questi, che vengono
sacrificati per fare degli esperimenti e capire come e quando un
uomo muore. Dopo OGNI SINGOLA MORTE, Mickey viene ristampato, con
tutte le sue emozioni pregresse. Il problema insorge quando Mickey
17 non muore come dovrebbe, mentre dalla centrale operativa
stampano un nuovo Mickey 18.
Alla fine del film, le cose sono
degenerate a un livello pericoloso. Mickey 18 ha tentato di
assassinare il capo della colonia Kenneth Marshall (Mark
Ruffalo), mentre lui e i suoi seguaci radicali si
stanno preparando a spazzare via le specie native del pianeta, i
creepers, che però Mickey sa essere pacifiche, dal momento che è
proprio grazie al loro intervento che non è morto. Fortunatamente,
Mickey 17, Mickey 18 e Nasha (Naomi Ackie)
riescono a sventare il piano di Marshall. E alla fine Mickey 18 si
sacrifica per uccide Marshall e liberare Nilfheim.
Mickey 17 elimina il
programma dei “sacrificabili” dopo il sacrificio di Mickey 18
Il programma dei
sacrificabili è l’amo principale del film, l’intera storia è
incentrata sulla pratica di clonare Mickey dopo ogni sua morte. Nel
mondo di Mickey 17, il programma è
incredibilmente controverso, essendo stato reso illegale sulla
Terra. Anche mentre è a Nilfheim, molti coloni guardano dall’alto
in basso Mickey per la sua iscrizione al programma. Tuttavia,
Marshall ritiene che sia una necessità, perché Mickey viene inviato
in tutti i tipi di missioni pericolose e sottoposto a tutti i tipi
di esperimenti.
Alla morte di Marshall, Nasha viene
promossa in una posizione politica di potere su Nilfheim. Così,
Mickey e Nasha colgono questa opportunità per porre fine al
programma dei sacrificabili. Durante una cerimonia, a
Mickey viene permesso di far esplodere l’unica stampante per umani
di Nilfheim, gesto che rende illegale il programma anche su altri
pianeti, così come lo è sulla Terra. Poiché Mickey
18 è morto poco prima, Mickey 17 è
l’ultimo Mickey. Quindi, quando inevitabilmente morirà, la sua
morte rimarrà permanente.
I Creepers possono davvero uccidere
tutta l’umanità?
L’atto finale di Mickey
17 è piuttosto intenso, incentrato su uno scontro tra
i coloni umani di Nilfheim e i creepers. Marshall ha rapito un
cucciolo di creeper e ha intenzione di sterminare tutti i creeper
in una volta sola mentre circondano la base umana. Quando i deu
Mickey vengono mandati a parlare con i creeper, scoprono che i
creeper possono emettere una frequenza che ucciderà tutta
l’umanità, minacciando di farlo se il cucciolo di creeper non verrà
riportato indietro.
Dopo che Marshall viene ucciso e il
programma dei sacrificabili termina, il protagonista
riesce ad avere un’altra conversazione con i creeper. Durante
questa conversazione, lui scopre che i creeper non possono
effettivamente uccidere tutta l’umanità. La minaccia della
frequenza era un bluff, dato che sono per lo più innocui. Tuttavia,
questo bluff è esattamente ciò di cui avevano bisogno per salvare
la loro specie.
Perché Kenneth Marshall voleva
spazzare via i Creepers e colonizzare Nilfheim
Kenneth Marshall è il principale
antagonista del film e, mentre la performance di Mark Ruffalo è satirica, il piano del
potente politico è invece genocida. Come spiega il film, Kenneth
Marshall è un politico popolare che ha perso un’elezione. Per
questo motivo, Marshall e i suoi seguaci hanno iniziato la missione
Nilfheim, con la colonizzazione di un pianeta lontano in grado di
supportare la vita. Una volta arrivato, Marshall vuole che Nilfheim
sia interamente per gli umani. Ecco perché vuole uccidere tutti i
Creepers, ottenendo un pianeta in cui lui è l’autorità suprema.
Cosa significa in realtà la
sequenza onirica di Mickey 17
Sebbene Mickey 18 uccida Marshall e
sua moglie Ylfa venga imprigionata, questa non è la fine del
conflitto di Mickey 17. Verso la fine del
film, Mickey sogna che la stampante umana è ancora in funzione.
Vede Ylfa lì, che gli dice di provare una nuova salsa. Poi, Ylfa
inizia a stampare un’altra versione di Marshall, che apparentemente
torna in vita. Sebbene questa sia una sequenza onirica, il pubblico
non se ne accorge subito.
I sogni di Mickey 17 mettono in luce
la sua paranoia e, sebbene sia impossibile che Kenneth Marshall
stesso torni, Mickey ha paura che qualcuno come lui salga al
potere. Questa è la chiave del commento politico di
Mickey 17. Anche se quel politico
fascista, un’altra persona come lui potrebbe facilmente ribellarsi
e destabilizzare di nuovo le cose. La stampante in sé dovrebbe
essere un simbolo di questo ciclo e Mickey dovrà continuare a
combattere per impedire che questo sogno si avveri.
Mickey 17 imposta il libro sequel,
Antimatter Blues?
Mickey 17
è basato sul romanzo di Edward AshtonMickey
7 e, sebbene molti spettatori potrebbero non saperlo, il libro
ha in realtà un sequel. Ashton ha anche scritto il romanzo del 2023
Antimatter Blues, che si svolge due anni dopo gli eventi
di Mickey 7. Nel libro, Mickey scopre che una bomba è
stata nascosta a Nilfheim e deve trovarla per rifornire la base dei
coloni evitando il conflitto con i creepers.
È improbabile che si realizzi un
sequel del film Mickey 17, poiché
Bong Joon-ho non è noto per aver realizzato
sequel. Sebbene sia possibile, poiché la storia potrebbe basarsi
sul finale di Mickey 17, probabilmente non accadrà
a meno che Mickey 17 non sia un enorme successo finanziario (e
sembra improbabile).
Il vero significato di Mickey
17
Come altri film di Bong
Joon-ho, Mickey 17 è pieno di
riflessioni su classe, politica, potere e capitalismo. Il
programma dei sacrificabili è pensato per essere parallelo
a quanto siano sacrificabili molti lavoratori, con l’atteggiamento
indifferente di Nilfheim nei confronti di Mickey che è simile agli
atteggiamenti di molti superiori nei confronti dei loro dipendenti.
Kenneth Marshall è anche chiaramente ispirato da alcuni politici
della vita reale, con la sua retorica e i suoi obiettivi non
lontani da alcune ideologie politiche nonostante l’ambientazione
fantascientifica del film.