“Uomini si nasce, briganti si
muore”, dice il testo dell’esistente brano dei Musicanova,
colonna sonora di L’eredità della priora, sceneggiato Rai
del 1980 che vedeva come sfondo il brigantaggio post-unitario. Un
periodo difficile per il nostro Paese, pieno di malcontenti,
guerriglie e oppressioni che nascevano all’alba del nuovo Regno
d’Italia. È in questo contesto che si incasella
Briganti, dramma in
costume dallo spiccato retrogusto western di produzione
Netflix
creato dai GRAMS, collettivo di cinque giovani
artisti, Re Salvador, Eleonora Trucchi, Marco Raspanti, Giacomo
Mazzarini e Antonio Le Fosse che hanno inoltre lavorato sulla
sceneggiatura, con quest’ultimo in veste anche di regista insieme a
Steve Saint Leger e
Nicola Sorcinelli.
Il progetto, sin dalla sigla
adattata allo spirito contemporaneo, è ambizioso, e punta a
fondarsi su una epicità di racconto che esalti una porzione di
Storia, seppur romanzata, di cui forse ancora poco si conosce. Le
atmosfere ci sono tutte. Siamo nel cuore del
Meridione, fra boschi, vallate, paesi dell’entroterra i
cui muri sporchi delle case sembrano aver trattenuto il passato e
il suo vissuto, con annessi dolori, speranze e resistenze. Il
territorio dei Sud, quello di oggi, terra dei briganti dell’800,
complice il suo buono stato di conservazione, è potuto diventare
così protagonista della narrazione senza che si
cercassero altre location da “spacciare” per quella terra, e questa
possibilità, oltre a far conoscere le bellezze paesaggistiche e
rurali delle sue regioni, è riuscita a dare più autenticità e
verità alla storia di cui si parla. Sia l’idea che alcune scelte
compiute sono buone, non c’è dubbio. Eppure, come vedremo in questa
recensione, non tutto è rimasto centrato, trasformando
Briganti in una serie non proprio in
equilibrio, ma di cui comunque non possiamo non apprezzarne il
valore intrinseco.
Briganti, la trama
Siamo nel 1962, in un’Italia
spaccata in due e con incolmabili differenze fra Nord e Sud. A
destare preoccupazione sono proprio alcuni civili del Meridione, i
quali hanno iniziato a risentire della povertà e delle mancate
terre che a loro spettano ma che invece rivedono nelle mani della
sola gente abbiente. In questo contesto, una donna, di nome
Filomena, è costretta a fuggire dal proprio villaggio dopo aver
commesso un reato che l’ha condannata per la vita. Addentrandosi
nei boschi si imbatte in un gruppo di briganti, i Monaco, i quali
dopo un iniziale tentennamento, e una prova di fedeltà, decidono di
accoglierla nel loro clan alla conquista dell’oro del Sud, che si
dice essere stato seppellito da qualche parte ed è l’unico che
possa liberarli dai governanti piemontesi. Nel frattempo, il
cacciatore dei briganti, detto lo Sparviero, si ritrova ad unirsi
alla banda dei Monaco, e alla fine, tutti loro, insieme a Michelina
Di Cesare, brigantessa famosa e considerata colei che farà
prosperare il Mezzogiorno, si alleeranno per sconfiggere il nemico
e riprendersi ciò che a loro appartiene di diritto.

La penisola dei briganti
L’Italia, nonostante l’Unità, era un
Paese diviso sotto diversi aspetti, incluso quello amministrativo.
Sul piano politico si era così optato per una gestione
centralizzata del Paese dopo la vittoria della allora
Destra storica, in cui il governo aveva pieno e assoluto potere.
Per farlo, si erano estese alle altre regioni le leggi del Regno di
Sardegna. Il fenomeno prese il nome di
piemontesizzazione dell’Italia.
Una decisione che sollevò non pochi problemi nel Mezzogiorno: in
questa parte della penisola le condizioni economiche dei contadini
erano preoccupanti, con l’aumento delle tasse e dei prezzi che
esacerbava una già evidente povertà, senza contare che c’era un
forte disinteresse dello Stato verso le classi sociali
svantaggiate.
Da qui iniziarono a formarsi i primi
gruppi di briganti, che insorsero e si rivoltarono per il mancato
sostegno, l’impoverimento e l’oppressione subita. Una spaccatura
che Briganti cerca di traslare nel
racconto seriale, impostando un canovaccio che si assesta sui
canoni di bene e male, esplorandone le sfaccettature. La rivalità,
sin da subito, è chiara: da una parte ci sono i piemontesi di
Pietro Fumel, generale protervo dai metodi poco ortodossi,
dall’altra i fuorilegge, con la banda dei Monaco e la brigantessa
Michelina Di Cesare. Figure – non dimentichiamo –
realmente esistite e affascinanti, che qui vengono
riadattate per esigenze di storyline.
Nel guardare lo show, quello che
lascia un po’ con l’amaro in bocca sono le sfumature interne a
questi banditi e soldati di cui si riportano le vicende, come ad
esempio le logiche dominanti nelle rispettive fazioni. Pur presenti
non vengono approfondite a dovere, preferendo spiegazioni più
sbrigative ai fini di giustificare gli scontri successivi, in
particolare nei primi episodi. La narrazione si solleva infatti
nell‘ultima parte, che risulta essere
migliore in termini di ritmo ed energia,
soprattutto nello showdown finale con annessa analisi
strategica. Qui si può apprezzare da un lato una battaglia ben
coreografata, e dall’altro una scrittura più corposa che meglio si
addentra nelle dinamiche dei briganti. Dove anche i personaggi
principali acquistano maggiore solidità.
Fra dialetti, omaggi al western e
caratterizzazioni
Anche se in realtà sono proprio
loro, i personaggi, su cui si intravede maggiore squilibrio. Al
netto di un’evidente forzatura nell’esprimersi in dialetto da parte
di molti, la banda dei Monaco è quella che risulta essere
più bilanciata e compatta rispetto agli altri comprimari.
Merito, in particolare, della presenza di Ivana Lolito nei panni
dell’impavida e caparbia Ciccilla, che le dà il giusto spessore e
la più convincente interpretazione, ma anche di Gianmarco Vettori
nel ruolo del fratello Marchetta, il quale è fra tutti quello a cui
si riconosce di più lo sforzo – riuscito – nell’acquisire un timbro
calabrese. Non meno inferiore è lo Sparviero di Marlon Joubert, che
tanto ricorda (sarà forse un chiaro omaggio?) il pistolero di Clint
Eastwood nella trilogia del dollaro di Sergio Leone. È da dire che
in generale c’è un forte richiamo estetico, anche
qui riuscitissimo, agli spaghetti western.
A funzionare meno è invece Filomena,
che nella Storia è ricordata come una brigantessa senza scrupoli,
fredda e risoluta. In Briganti, invece,
il suo glow up non ha un crescendo convincente. Ci si approccia nel
primo episodio a una ragazza spaventata, fin troppo sensibile e
piena di remore. Un’indole che non cambia tanto nel corso del
tempo, finché non si trasforma repentinamente e all’improvviso,
rendendo lei poco credibile. Non se ne coglie così a pieno né la
crescita né l’evoluzione caratteriale, tanto che a un certo punto
viene persino da chiedersi come e quando lei abbia imparato a
essere brava nell’impugnare un fucile, a combattere o a essere
scaltra.
Un discorso simile lo si applica al
Generale Fumel di Pietro Micci e alla Michelina di Matilda Lutz,
entrambi personaggi validi ma non sfruttati al massimo delle loro
potenzialità. Dispiace più per Michelina, figura in cui si
intrecciano leggenda e realtà, vivendo in lei la profezia di una
donna che avrebbe salvato il Sud dai piemontesi restituendo l’oro
di quella terra alla sua gente. E che porta su schermo la tematica
chiave dell’intero dramma, ossia il desiderio di
libertà e la lotta per raggiungerla a qualsiasi
costo, anche sacrificarsi per il popolo.

Paesaggi, costumi, suggestioni
Nonostante alcuni problemi
strutturali, bisogna riconoscere che invece nella messa in
scena di trucco, scenografie e costumi, le rispettive
maestranze hanno svolto un lavoro ineccepibile. La
Puglia, location centrale delle riprese, è esaltata da una palette
di colori saturi che ne enfatizza il sapore suggestivo e d’antan
già in lei insito naturalmente, sia quando si tratta dei borghi,
con le loro vesti antiche e pittoresche, sia quando a essere
catturate sono radure, fiumi e foreste. La ricostruzione del
periodo storico, supportata da ottimi tournage, risulta
essere organica e attendibile, ed è l’operazione potremmo dire più
riuscita di Briganti.
Non da meno la
scelta – certosina – degli abiti di
scena, ricchi di dettagli e molto curati nel loro essere
sporchi e malandati. A colpire è in particolare l’associazione che
vi è fra i colori di alcuni capi dei protagonisti e la loro
personalità. Come per esempio l’arancione del mantello di Filomena,
che ne va a raffigurare l’energia (nonostante sia una particolarità
che emergerà verso la fine). O il rosso su Ciccilla, che ne
richiama la focosità e l’amore verso la famiglia. Oppure il verde
dell’abito di Michelina, che incarna la speranza su cui è costruito
il personaggio.
Arrivando al sesto episodio, le
considerazioni su Briganti sono dunque
molteplici: è chiaro che raccontare vicende così intricate come
quelle dell’Italia post-unitaria non sia facile, specie se in
chiave pop e moderna, e il coraggio di averci provato fa onore e va
riconosciuto. D’altra parte, in vista di una seconda stagione (il
cliffhanger che chiude l’episodio suscita curiosità), andrebbe
potenziata la sceneggiatura il cui intreccio resta buono,
focalizzandosi su una migliore caratterizzazione di alcuni main
characters e su turning point più incisivi. Ciò non
toglie l’evidente impegno, l’investimento per il progetto e la sua
capacità di intrattenere, portando sul piccolo
schermo – in ogni caso – uno spaccato di Storia del nostro Paese
importante, che sarebbe ideale raccontare o farsi raccontare magari
attorno a un fuoco.