Gaby Hoffmann parla dell’interpretazione di Jeremy Allen White in Deliver Me From Nowhere. Questo film è un biopic sull’icona musicale Bruce Springsteen, che racconta la storia del suo percorso nella realizzazione del suo album del 1982 Nebraska. Il film è diretto da Scott Cooper e vede White come protagonista. Hoffmann interpreta Adele Springsteen, la madre di Bruce. Oltre a White e Hoffmann, Deliver Me From Nowhere vanta un cast di spicco che include Stephen Graham, Paul Walter Hauser, Jeremy Stronge Marc Maron.
In un’intervista con ScreenRant per la seconda stagione di Poker Face, Hoffmann anticipa qualche dettaglio sull’interpretazione di White nel ruolo. Hoffmann osserva di “non aver effettivamente visto Jeremy impersonare Bruce” perché le sue scene sono state girate con una versione più giovane del personaggio. Ha comunque anticipato la reazione di Springsteen alla performance di White, notando che il musicista “non riusciva a credere che quella che stava sentendo non fosse la sua voce“. Pensa che White “ci abbia davvero dato dentro“. Ecco la citazione completa di Hoffmann qui sotto:
Mi dispiace dirlo, non ho informazioni sulla [data di uscita]. Non ho avuto modo di vedere Jeremy impersonare Bruce, perché interpreto la madre di Bruce, quindi sono in scene di flashback con un giovane Bruce. E non ero a New York durante le riprese, andavo e venivo solo in aereo, quindi non ho mai avuto la possibilità di vederlo. Ma ho sentito solo cose incredibili, il che, ovviamente, non mi sorprende affatto. Non so se mi è permesso dirlo, ma credo che lo farò: ho persino sentito che Bruce non riusciva a credere che quella che stava sentendo non fosse la sua voce quando ha sentito cantare Jeremy. Penso che sarà davvero impressionante come tutti si aspettano, perché è un attore così bravo, e credo che ci abbia messo davvero tanto impegno, e sembra che sarà incredibile. È stato un grandissimo privilegio far parte di quel film, di questa storia, di questo momento così personale e importante nella vita di Bruce. Sono stato davvero, davvero felice di essere lì, è stata un’esperienza bellissima.
Se il sequel di Superman con Henry Cavill fosse mai stato realizzato, il DCEU avrebbe esplorato le paure dell’Uomo d’Acciaio, secondo il regista di Mission: Impossible, Christopher McQuarrie.
Uno degli aspetti più noti della cronologia cinematografica del DCEU sono stati i numerosi film in fase di sviluppo che non si sono mai concretizzati. Quando si è trattato della versione di Superman di Cavill, c’erano stati vari piani su cosa fare con la sua interpretazione dell’Uomo d’Acciaio. Nell’ultimo episodio di Happy, Sad, Confused, a McQuarrie è stato chiesto delle idee che aveva per un film di Superman con Cavill, dopo aver lavorato con la star britannica in Mission: Impossible – Fallout. Secondo McQuarrie, il sequel di Superman con Cavill avrebbe esplorato lati più profondi dell’icona DC, dato che l’attore de L’Uomo d’Acciaio aveva anche condiviso alcuni suggerimenti sulla direzione da dare al personaggio:
E poi, come si fa con Superman? Henry aveva già dato un’idea. Mi sono improvvisamente reso conto di come questi due personaggi avessero queste incredibili somiglianze, che hanno anche permesso un conflitto incredibile e una risoluzione straordinaria che ha ampliato l’universo.
Ma vi racconterò i primi cinque minuti del mio film di Superman, che era… immaginate Up della Pixar, una sequenza senza dialoghi che trattava proprio quel personaggio nei primi cinque minuti. I primi cinque minuti del film erano un’introduzione, dopo la quale si capiva esattamente cosa spingeva Superman, e esattamente di cosa aveva più paura, e perché Superman aveva fatto le scelte che aveva fatto, e sarebbe stato epico. Sarebbe stato epico, in cinque minuti, la portata del film sarebbe stata assolutamente straordinaria. L’altra cosa, e spero che chiunque guardi questo film, che si goda il finale di questo film [Mission: Impossible – The Final Reckoning], sia la sensazione che vorrei che vi lasciaste, perché è proprio questo che rappresenta Superman. È speranza, è fonte di ispirazione, e la gioia che crea.
Il remake live-action Disney di Lilo & Stitch ha omesso una scena importante, cambiando radicalmente la storia di Lilo nel film del 2025. Come tutti i remake live-action Disney, Lilo & Stitch è stato incredibilmente controverso. Il remake ha omesso una parte essenziale del personaggio di Lilo, a dimostrazione del fatto che con il nuovo Lilo & Stitch si perde il cuore dell’originale.
Rispetto ad altri remake live-action Disney, Lilo & Stitch del 2025 è sorprendentemente fedele al materiale originale. Non ci sono grandi espansioni nella storia come in Biancaneve o La Sirenetta, e i personaggi assomigliano davvero a quelli che dovrebbero rappresentare. Sfortunatamente, la maggior parte dei cambiamenti nell’adattamento si presenta sotto forma di tagli di materiale dal film originale. Mentre i principali snodi della storia sono tutti presenti, il remake taglia molti momenti vitali per i temi e gli archi narrativi dei personaggi.
Il remake live-action di Lilo & Stitch ha omesso un dettaglio fondamentale sui genitori di Lilo
Non spiega come siano morti
In entrambe le versioni di Lilo & Stitch, Lilo viene cresciuta dalla sorella maggiore Nani. Nel film originale, la morte dei genitori delle due sorelle è solo accennata. I genitori vengono menzionati molto di più nel remake live-action, e vediamo anche delle loro foto. Jumba entra persino nella camera da letto dei genitori di Lilo nel momento culminante del film, dimostrando che il remake sta cercando di rendere la loro morte un elemento più emotivamente significativo.
Tuttavia, il remake non rivela come siano morti i genitori di Lilo e Nani. Nel cartone animato, in una scena Lilo dice a Stitch che i suoi genitori sono morti in un incidente d’auto a causa del maltempo. Questo dettaglio è stato omesso nel film live-action, lasciando un mistero sulla causa della loro morte. Non si sa perché il remake abbia deciso di tagliare questa scena, ma dimostra che i registi del remake hanno fondamentalmente frainteso l’importanza di questo dettaglio.
La morte dei genitori di Lilo durante una tempesta è direttamente collegata al motivo per cui lei nutre Pudge
È un meccanismo di difesa per Lilo
All’inizio di Lilo & Stitch, Lilo nuota nell’oceano. Dà un panino a un pesce, e in seguito spiega questa tradizione alla sua insegnante di hula. Lilo dà da mangiare panini a un pesce di nome Pudge perché, come dice lei, Pudge “controlla il tempo“. Sembra che voglia far contento Pudge, il che spiega perché si sforza di trovare qualcosa di diverso dal tonno per preparare il panino.
Questo dettaglio inizialmente sembra solo frutto dell’immaginazione di una bambina. Tuttavia, acquista più senso quando Lilo rivela in seguito il destino dei suoi genitori. I genitori di Lilo sono morti a causa del maltempo, quindi la convinzione di Lilo di poter accontentare un pesce che controlla il tempo è chiaramente un meccanismo di difesa. Non ha ancora superato la morte dei suoi genitori, e questo dettaglio dimostra quanto profondamente l’abbiano segnata. Nel remake, il dettaglio di Pudge che controlla il tempo è ancora presente. Senza una spiegazione della loro morte, questa gag non ha alcuno scopo tematico.
Perché il cambiamento di Lilo & Stitch è deludente
Dimostra un po’ di superficialità rispetto al modo di fare di Lilo
Il remake di Lilo & Stitch che omette questo dettaglio dimostra che, nonostante il tentativo di realizzare un film più toccante dal punto di vista emotivo, non coglie l’emozione dell’originale. L’indebolimento della battuta di Pudge è solo un esempio di come il remake utilizzi ripetutamente l’iconografia dell’originale Lilo & Stitch, ma ne annacqui lo scopo.
Nell’originale, Jumba è un cattivo all’inizio della storia, ma la sua accettazione nella famiglia di Lilo rafforza i temi del film. Nel remake, Jumba rimane un cattivo. Nell’originale, Lilo è interessata ai turisti e alla musica di Elvis perché la fanno sentire una straniera a casa sua. Nel remake, Lilo apprezza ancora Elvis, ma questa idea tematica è completamente assente. Nell’originale, Nani canta “Aloha ‘Oe” a Lilo perché il governo che porta via Lilo è il simbolo della distruzione delle famiglie da parte degli Stati Uniti quando colonizzarono le Hawaii. Nel remake di Lilo & Stitch, il lieto fine è che Nani consegna Lilo allo stato.
Prima che Spider-Man: Brand New Day fosse ufficialmente il titolo del film, circolavano voci piuttosto inquietanti su vari eroi e cattivi che si supponeva sarebbero apparsi in diversi momenti del film. Una delle indiscrezioni più accreditate sosteneva che la storia avrebbe potuto ruotare attorno a Spidey che si alleava con The Punisher (Jon Bernthal) per affrontare un Hulk infuriato. Sebbene il coinvolgimento di Frank Castle sia probabilmente un’ipotesi remota, sembra che potremmo comunque vedere il Golia Verde.
Secondo Nexus Point News, Mark Ruffalo tornerà nei panni di Bruce Banner in Brand New Day. Il sito riporta che “l’apparizione di Banner sarà molto più di un cameo e Ruffalo avrà un ruolo sostanziale nel film”. Che Banner si trasformi o meno in Hulk, il fatto che il personaggio possa avere un “ruolo sostanziale” nel film è sicuramente interessante.
Potremmo vedere Parker cercare l’altra metà dei “science – bro” per vedere se può aiutarlo nella sua attuale situazione dopo gli eventi di No Way Home? Qualunque sia il ruolo che Banner interpreterà, è probabile che in qualche modo si tratti di gettare le basi per Avengers: Doomsday.
Il sito condivide anche un aggiornamento sulla produzione, sottolineando che le riprese di Brand New Day dovrebbero iniziare a fine luglio a Londra.
In seguito alla notizia, non confermata, che Spider-Man: Brand New Day avrà Hulk, interpretato da Mark Ruffalo, in un ruolo da co-protagonista, sono emersi nuovi dettagli su quella che potrebbe essere una scena d’azione epica nel film.
Secondo Alex Perez di The Cosmic Circus, tramite Discord, i Marvel Studios stanno cercando di realizzare “una delle più grandi, se non la più grande, sequenze di stunt dell’MCU per [Spider-Man: Brand New Day]”. Si prevede che ci vorrà più di un mese per girarla e sarà una sequenza con effetti reali, anche se questo non significa che Hulk non possa essere aggiunto in un secondo momento, visto che il Gigante di Giada viene solitamente rappresentato sul set tramite motion capture.
La scena sarà girata all’aperto in quella che, nel film, sarà un’area densamente popolata (il che suggerisce che questo combattimento si svolgerà nelle strade di New York) e, comprensibilmente, è previsto un notevole coordinamento della sicurezza. Sembra incredibile, senza alcun gioco di parole, e con le voci che circolano su riprese internazionali di Spider-Man: Brand New Day, possiamo solo fare congetture su cosa combinerà il lancia-ragnatele in questo film. Purtroppo, nonostante le numerose affermazioni azzardate, i dettagli ufficiali sono pochi e sporadici.
Spider-Man 4 è stato recentemente posticipato di una settimana dal 24 luglio 2026 al 31 luglio 2026. Destin Daniel Cretton, regista di Shang-Chi e la Leggenda dei Dieci Anelli, dirige Spider-Man: Brand New Day da una sceneggiatura di Chris McKenna ed Erik Sommers. Tom Holland guida un cast che include anche Zendaya, Sadie Sink e Liza Colón-Zayas. Michael Mando è stato confermato mentre per ora sono solo rumors il coinvolgimento di Steven Yeun e di Mark Ruffalo.
Spider-Man: Brand New Day uscirà nelle sale il 31 luglio 2026.
Dopo un susseguirsi di rumors, Deadline ha confermato che l’attrice T’nia Miller entrerà nel cast di Vision e interpreterà Jocasta, la sposa di Ultron dei fumetti, e che abbiamo “visto” in un Easter Egg di Avengers: Age of Ultron divenuto ormai famoso. Il personaggio è descritto come “astuto, potente e spinto dalla vendetta”.
I primi dettagli sul ruolo la identificano come la villain della serie, per la quale Paul Bettany tornerà a interpretare Vision, ma c’è la possibilità che in futuro finisca per unirsi agli Avengers. Nei fumetti, Jocasta, in seguito nota come Jocasta Pym, fu creata per essere la sposa di Ultron e le furono donate le stesse onde cerebrali di Janet van Dyne. Resta da vedere se il personaggio avrà un’origine simile per il suo debutto nel live-action.
Il progetto Vision, ancora senza titolo ufficiale, che potrebbe o meno essere intitolato Vision Quest, è stato descritto come “la terza parte di una trilogia iniziata con WandaVision e che continua con Agatha All Along“.
Oltre a Paul Bettany, James Spader di Avengers: Age of Ultron riprenderà il ruolo di Ultron (“non è chiaro se Ultron tornerà come robot o in forma umana”). Non c’è stato alcun accenno al potenziale coinvolgimento di Elizabeth Olsen, ma la serie sarà ambientata dopo gli eventi di WandaVision, “mentre il fantasma di Visione presumibilmente esplora il suo nuovo scopo nella vita”.
Il finale di WandaVision ha rivelato che la Visione con cui avevamo trascorso del tempo nel corso della stagione era in realtà una delle creature di Wanda, ma la vera “Visione Bianca” è stata ricostruita dalla S.W.O.R.D. e programmata per rintracciare e uccidere Scarlet Witch. Questa versione del personaggio si è allontanata verso luoghi sconosciuti verso la fine dell’episodio, dopo essersi dichiarata la “vera Visione”.
Per quanto riguarda Wanda, l’ultima volta che abbiamo visto la potente strega era mentre devastava gli Illuminati e si faceva crollare una montagna addosso in Doctor Strange in the Multiverse of Madness.
Anche l’attore di Picard, Todd Stashwick, è nel cast, nei panni di “un assassino sulle tracce di un androide e della tecnologia in suo possesso”.
Resurrectiondi Bi Gan è un viaggio allucinato e poetico nella memoria del cinema e nella struttura del tempo, una riflessione meta-narrativa divisa in sei capitoli che attraversano decenni di storia, generi, sogni e disillusioni. In concorso a Cannes 2025, il film rappresenta una delle proposte più radicali e visivamente audaci del festival, confermando il talento visionario del regista cinese, già autore di Long Day’s Journey Into Night.
Il sogno che viene dall’origine del tempo
Il film si apre con un cartello enigmatico che annuncia una dicotomia tra due umanità: da una parte chi vive per sempre ma non può più sognare, dall’altra chi sogna ma è destinato a morire. In questo futuro immaginario — o forse già presente — una voce narrante si presenta come “resuscitatrice”, incaricata di restituire vita e corpo a questi ultimi, cancellando ogni traccia del loro passato. A incarnare questa funzione salvifica è proprio questa figura femminile che torna di episodio in episodio, come un’ombra onnipresente. Ma è soprattutto il personaggio del Fantasmer, interpretato in molteplici versioni da Jackson Yee, a dare coerenza a una narrazione frammentata e pulsante.
Ogni episodio adotta uno stile visivo e narrativo diverso, omaggiando tappe fondamentali della storia del cinema. Dal muto e i codici dell’espressionismo tedesco — con chiari riferimenti a Nosferatu e Frankenstein — ai chiaroscuri del noir anni ’40, dai melodrammi provinciali alla nouvelle vague asiatica, fino a un lungo piano sequenza ambientato nella notte del 31 dicembre 1999, Resurrection è un atlante cinefilo in forma di racconto speculare. I riferimenti si stratificano: Orson Welles, Wong Kar-wai, Hou Hsiao-hsien, Tarkovskij. Ma l’ambizione di Bi Gan non si esaurisce nella citazione: ogni stile diventa pretesto per interrogarsi su cosa significhi guardare, sognare, sopravvivere al tempo.
La proposta più audace e visionaria di Cannes 78
La struttura a episodi, più che unitaria, risulta modulare. Alcuni segmenti sembrano cortometraggi autonomi, legati tra loro da un filo emotivo e concettuale più che narrativo. È possibile che il film sia nato proprio come raccolta di esperimenti, tenuti insieme successivamente da un’idea guida più ampia. Ma nonostante questo, Resurrection non perde mai potenza: ogni sequenza è concepita come un esercizio sensoriale estremo, dove il suono, la luce e il corpo diventano materia viva.
I riferimenti a sogni, visioni, illusioni e reincarnazioni sono costanti, in un gioco filosofico che evoca più volte la natura illusoria del cinema stesso. Il tempo, a sua volta, viene trattato come un’entità instabile: può scorrere, arrestarsi, riavvolgersi. E proprio quando il Fantasmer chiude le orecchie, il mondo sembra riprendere a girare.
Il segmento ambientato nel 1999 rappresenta il culmine emotivo e tecnico del film. Girato in un unico, lunghissimo piano sequenza, segue un ragazzo in fuga e la donna che ama attraverso una notte densa di desiderio, angoscia e promesse mai mantenute. Le luci al neon, la musica pop, i karaoke e le feste clandestine ricreano una dimensione sospesa tra la fine del secolo e la fine del mondo. In questo spazio-tempo liquido, Bi Gan riflette sul potere delle immagini di fermare ciò che è destinato a dissolversi.
Bi Gan firma un’opera sul cinema e per il cinema
La parte conclusiva riporta lo spettatore al punto di partenza. Lo fa con una malinconia struggente, mostrando come il tempo, alla fine, divori ogni cosa, compresi i sogni stessi. Ma è proprio nel sogno che Bi Gan trova una possibilità di resistenza, di rinascita, di resurrezione. Resurrection è un film impossibile da riassumere, da spiegare, forse persino da comprendere fino in fondo. Ma come accade solo con il grande cinema, rimane addosso, nel corpo e nella mente, molto più di quanto lasci intendere la sua superficie rarefatta.
Con questa terza regia, Bi Gan firma un’opera di rottura, che va oltre le logiche delle piattaforme e dell’accessibilità immediata, abbracciando un cinema che sfida e accoglie, che chiede partecipazione e offre, in cambio, stupore.
La regista spagnola Carla Simón torna in concorso a un festival dopo aver vinto l’Orso d’oro a Berlino con Alcarràs – L’ultimo raccolto nel 2022. Sfortunatamente Romería, suo ultimo lungometraggio presentato sulla Croisette, non è all’altezza di quella interessante riflessione sulla strenua resistenza di una famiglia di contadini di fronte alla minaccia dell’installazione di pannelli solari sui loro terreni.
Cosa sarei oggi se mi avesse cresciuta la famiglia di mio padre?
La storia si svolge nel 2004 e ha per protagonista Marina (Llúcia Garcia), una studentessa di cinema che vive a Barcellona e si reca a Vigo, in Galizia, per conoscere la famiglia del padre biologico, con la quale non ha mai avuto contatti da quando è stata data in adozione. Il viaggio la porta a incontrare prima uno dei suoi zii, Lois (Tristán Ulloa), la moglie di lui e una serie di cugini, sia coetanei sia più piccoli, che non aveva mai conosciuto. Con loro Marina riesce a stabilire un legame, condivide storie e momenti, ma appare subito evidente che il vero ostacolo sarà affrontare i nonni, i quali non hanno mai davvero accettato le scelte di vita del figlio. Al punto che, nel certificato di morte, non è nemmeno menzionata l’esistenza di una figlia, circostanza che causa a Marina diverse complicazioni legali.
Il film – che presenta diversi elementi autobiografici e potrebbe essere visto quasi come un seguito di Verano 1983 – accompagna Marina in un percorso di scoperta, che include anche una visita alle isole Cíes, dove i suoi genitori trascorsero del tempo insieme. Mentre ricostruisce la storia del padre, si trova di fronte a una famiglia complessa, carica di tensioni e segreti che il film fatica a rendere pienamente sullo schermo.
Nascondere le vite degli altri
Romería si configura come un racconto marittimo, una sorta di diario di bordo scritto negli anni ’80 e letto nei primi anni 2000, tra barche e palazzoni grigi in cui Marina immagina la vita dei genitori vissuta in libertà, contrapposta a quella della famiglia d’origine, benestante e repressiva, che ha cercato di nascondere la malattia e la sofferenza del padre perché “ci sono cose di cui non si parla in questa famiglia”. Nel corso della narrazione si percepiscono pesanti non detti, una sorta di scetticismo nei confronti di Marina, come se provenisse da una pagina della storia familiare che tutti i parenti hanno cercato di rimuovere.
“Non eravamo morti, ci avevano solo nascosti”, dirà, in una parentesi onirica, la proiezione del padre di Marina alla figlia. Proprio da questo sogno a occhi aperti, in cui la ragazza incontra i genitori, prende forma una parte più interessante del film, incentrata sull’immaginazione e sull’interpretazione del diario della madre. Non viene raccontato nulla della vita attuale di Marina né della sua famiglia adottiva: si sentono solo alcune telefonate, che non lasciano intuire insoddisfazione, quanto piuttosto il senso che questo sia davvero un viaggio – un pellegrinaggio, come suggerisce il titolo Romería – alla ricerca delle proprie origini.
Carla Simòn al varco: Romería non regge il confronto con Alcarràs
Purtroppo, Romería rimane un film piuttosto superficiale, un coming-of-age di scoperta che non riesce a farci entrare davvero in empatia con la protagonista e con la sua ricerca, soprattutto perché non comprendiamo mai appieno come lei stia reagendo di fronte alle nuove consapevolezze. La narrazione imbastita da Simòn risulta molto manichea, forse perché vuole adottare il punto di vista della ragazza che, nel raccogliere informazioni contraddittorie sulla propria famiglia, cerca di costruirsi una propria idea della gioventù dei genitori, da custodire come appiglio. Tutto rimane sussurrato, e nel contesto di un festival ricco di grandi immagini e storie tra loro simili, Romería finisce per passare nettamente in secondo piano. Un vero peccato, perché Simón è una regista interessante e, confezionando qualcosa di analogo ad Alcarràs, avrebbe potuto davvero ambire al Palmarés.
Il giovane regista franco-spagnolo Oliver Laxe è arrivato sulla Croisette e ha trasformato il Festival di Cannes in un rave party. Dopo aver presentato i suoi precedenti tre lungometraggi in sezioni parallele della prestigiosa kermesse, approda ora nel concorso ufficiale con Sirât, già uno dei film più politici e radicali dell’anno, forte di una poetica personalissima e che parla a gran voce del nostro presente.
Il road movie più atipico dell’anno
Luìs (Sergi Lopez) e il figlio Esteban (Bruno Núñez Arjona) stanno cercando la figlia Mar tra i rave party del deserto marocchino: da 5 mesi non ne hanno più notizie, ma sanno che la giovane potrebbe trovarsi in questi territori. Laxe ci immerge subito in una sorta di rilettura di Climaxdi Gaspar Noè nelle distese desertiche. Insiste con inquadrature sui partecipanti del rave, per farci pensare che tra questi volti possa proprio nascondersi Mar. Un gruppo di individui alquanto bizzarri gli dice che la ragazza potrebbe trovarsi a una festa più avanti, alla quale forse si uniranno anche loro. All’improvviso, irrompono però plotoni di soldati che dichiarano uno stato di emergenza, ordinando a tutti i cittadini dell’EU di salire immediatamente sui loro veicoli e abbandonare il posto. A quanto pare, una guerra è esplosa nel corso della notte. La situazione socio-politica non verrà mai definita nei dettagli da Laxe, così come non sappiamo esattamente come i protagonisti si posizionino nei confronti di questa tragedia: stanno scappando? Sono profughi? L’avventura che inizia apre a molteplici interpretazioni.
A questo punto, i raver incontrati poco prima da Luìs ed Esteban sterzano violentemente, decisi a proseguire la loro danza nel deserto. Padre e figlio, per niente equipaggiati, li seguono nella speranza che possano effettivamente condurli dalla figlia scomparsa. Il gruppo suggerisce all’uomo – padre di famiglia nel senso più comune e “bonario” del termine – che dovrà adattarsi al deserto se vuole seguirli, ma percepiamo fin da subito che non è l’habitat naturale di questa famiglia spagnola e che qualcosa dovrà per forza succedere. Per sopravvivere, dovranno iniziare a collaborare e condividere le risorse disponibili, anche se il padre si mostra piuttosto restio. Dopo una serie di eventi tragici, tuttavia, sarà costretto ad abbracciare il loro concetto di famiglia e una nuova forma di esistenza.
È la fine del mondo già da troppo tempo
Il film di Oliver Laxe inizia con una didascalia volta a spiegare nell’immediato il significato del termine sirat: ‘ponte’, ma anche ‘via’ che, nella religione islamica, collega l’inferno al paradiso.Tuttavia, il titolo effettivo del film compare su schermo solo a venti minuti inoltrati di visione, stagliandosi sopra le macchine roboanti in moto. Il senso di Sirât è proprio quello di un viaggio, di chi anima questo deserto, i protagonisti di un Mad Max sotto acidi da cui è impossibile distogliere lo sguardo.
Loro sono Richard Bellamy, Stefania Gadda, Joshua Liam Henderson, Tonin Janvier, Jade Oukid: non attori professionisti, ma gente che viene dalla controcultura, immersi in spazi di esistenza che Laxe tenta finemente di catturare. Un gruppo di personaggi che sembrano prelevati da una favola, con corpi diversi e impossibili da etichettare, che riproducono al meglio il concetto di un’esistenza indefinibile.
Tra thriller e riflessione su una nuova via per esistere
La genialità di Laxe sta nel fatto che non solo infonde la narrazione di un senso di sospensione immanente, ma riesce a costruire anche un thriller tesissimo, perfino insostenibile, quasi a voler proprio ricalcare il significato del termine sirat, un passaggio talmente sottile e tagliente come una lama. Ai rumori roboanti dei fuoristrada si sostituisce poi man mano il silenzio. Sirât ci lascia così a riflettere su una nuova modalità di esistenza, un ritrovato rapporto con la natura che può fagocitarci da un momento all’altro. Il deserto diventa uno spazio pre fine del mondo ma, in fondo, tutto è già finito. E allora, non resta che danzare.
In concorso al Festival di Cannes 2023 c’è anche un film a sfondo storico: si tratta di Firebrand, nuova prova registica di Karim Aïnouz (La vita invisibile di Euridice Gusmao). Basato sul romanzo Queen’s Gambit del 2013 di Elizabeth Fremantle, il film è incentrato sulla figura di Katherine Parr, la sesta e ultima moglie di Enrico VIII e interpretato da Alicia Vikander, Jude Law, Sam Riley, Eddie Marsan, Simon Russell Beale ed Erin Doherty.
La trama di Firebrand – L’Ultima Regina
Nell’Inghilterra dei Tudor intrisa di sangue, Katherine Parr, sesta e ultima moglie di Enrico VIII, viene nominata reggente mentre il tiranno Enrico sta combattendo oltreoceano. Katherine ha fatto tutto il possibile per promuovere un nuovo futuro basato sulle sue convinzioni protestanti radicali. Quando il re torna, sempre più malato e paranoico, si accanisce contro i radicali, accusando di tradimento l’amica d’infanzia di Katherine e mettendola al rogo. Inorridita e addolorata, ma costretta a negarlo, Katherine si ritrova a lottare per la propria sopravvivenza. La cospirazione si ripercuote nel palazzo. Tutti trattengono il fiato: che la regina faccia un passo falso, che Enrico la voglia decapitare come le le mogli precedenti. Con la speranza di un futuro libero dalla tirannia a rischio, Katherine si sottometterà all’inevitabile per il bene del re e del Paese?
Eresia a corte?
Nell’anno 1546, in cui Firebrand – L’Ultima Regina è ambientato, il re era ancora percepito come una figura divina. Enrico VIII aveva chiuso ogni rapporto con la Chiesa cattolica romana per il rifiuto di quest’ultima di concedere l’annullamento del suo primo matrimonio, e lui e i suoi consiglieri religiosi temevano che i riformatori protestanti potessero minare l’intero sistema.
La storia di Firebrand – L’Ultima Regina inizia mentre Enrico è all’estero e Katherine lo sostituisce come reggente. Sfidando l’autorità ecclesiastica, Katherine si allontana di nascosto per andare a trovare Anne Askew (Erin Doherty), una controversa predicatrice protestante e amica di lunga data. In seguito, assumendosi un grande rischio, Katherine insiste affinché Anne accetti una preziosa collana che Henry le aveva regalato, sostenendo di fatto la sua causa eretica.
Ritratti femminili
Quella di Aïnouz è una Katherine Parr carismatica, dai numerosi interessi e con uno sguardo più vasto del mondo di corte. Alicia Vikander la interpreta anzitutto con compostezza, prima qualità che ci si sarebbe aspettati da una regina dell’epoca, ma riesce a offrirci un ritratto sfaccettato dell’ultima moglie di Enrico VIII. Katherine è consapevole del suo ruolo a corte e anche delle sue conoscenze: non è un caso che la giovanissima Elisabetta, figlia di Enrico e Anna Bolena e futura sovrana di Inghilterra, la ammiri, le faccia spesso domande e non la perda mai di vista.
Anche se Alicia Vikander interpreta il personaggio principale della pellicola, la voce femminile che risuona con più potenza è, forse, proprio quella indesiderata e tanto temuta: quella di Anne. Dalle prime sequenze in cui vediamo Anne e Katherine incontrarsi nei boschi dove la prima tiene delle sorti di comizi con gli altri eretici, ci viene illustrato il rapporto che intercorre dalle due: Katherine tenta di avvisarla, vuole che Anne scappi. Con Enrico VIII al governo, il suo destino è segnato.
Jude Law è Enrico VIII
Inizialmente, almeno per quanto riguarda la presenza su schermo, siamo di fronte a un film di donne: da Katherine ad Anne, passando per Elizabeth, abbiamo un ritratto di quello che l’Inghilterra era al momento, di quello che voleva abbattere e di ciò che il Paese sarebbe diventato. Come l’Enrico VIII di Jude Law irrompe sulla scena, capiamo che la minaccia in tutte le sue variazioni, domestica, politica e anche fisica – il sovrano ha la gotta ed è continuamente circondato da medici – sarà la parola d’ordine della narrazione di Firebrand.
Jude Lawdà vita al ritratto forse più verosimile del sovrano inglese che sia mai stato rappresentato al cinema. Burbero, malato, violento, ma anche ironico, compositore – alcune delle canzoni che sentiremo nel film sono state veramente composte da Enrico VIII – il sovrano fiuta la minaccia e se la carica anche sul corpo, sempre meno curato, abnorme, facendone volutamente percepire la pesantezza a Katherine.
Con una messa in scena dettagliata e precisa, costumi curatissimi e performance convincenti, Firebrand – L’Ultima Regina riesce a distinguersi come dramma storico e prima prova del brasiliano Aïnouz in lingua inglese. Qualche revisione storica potrebbe forse non conquistare l’ammirazione di troppi spettatori, ma il calore con cui abbraccia e cuce addosso ad Alicia Vikander questo ruolo femminile è assolutamente degno di nota.
Con Eagles of the Republic, Tarik Saleh chiude idealmente la sua trilogia sulla corruzione e le dinamiche del potere nell’Egitto post-Mubarak, dopo El Cairo Confidential (2017) e Boy From Heaven (2022), premiato proprio a Cannes per la miglior sceneggiatura. Ancora una volta, il regista svedese di origini egiziane esplora le fratture politiche e sociali del suo Paese natale da lontano, dopo essere stato espulso dall’Egitto. Tuttavia, questa volta non mette al centro non l’apparato religioso o giudiziario, bensì l’industria cinematografica, trasformata in strumento diretto della propaganda di Stato.
Il potere vuole lo spettacolo
George Fahmy (Fares Fares), superstar del cinema egiziano, è un divo consumato: divorziato, distante dal figlio, amante delle giovani attrici, vive un’esistenza in equilibrio tra popolarità e superficialità. La sua vita cambia quando riceve una “proposta” dalle autorità: interpretare il presidente Abdel Fattah Al-Sisi in un film celebrativo del suo colpo di stato ai danni dei Fratelli Musulmani. George rifiuta, inizialmente. Ma in Egitto, anche il no è un atto politico — e a volte si paga caro.
Eagles of the Republic prende il via da questa promessa satirica che sembra voler demolire dall’interno le dinamiche del potere autoritario e la sua ossessione per il controllo narrativo. In un Paese dove il cinema è da sempre terreno di scontro ideologico, George diventa l’icona perfetta da piegare, usare, mettere in vetrina. E Fares Fares incarna con mestiere l’archetipo della star decadente, costretta a confrontarsi con l’ipocrisia del sistema che lo ha reso celebre.
Satira che si affievolisce, tensione che non esplode
La prima parte del film si muove sul terreno del grottesco, tra divi arroganti, funzionari zelanti e una produzione cinematografica che somiglia a una parodia di Stato. C’è sarcasmo, c’è ritmo, e c’è l’ombra lunga della censura che avanza scena dopo scena. Ma questa promettente miscela comica e politica non regge a lungo. Superata la metà, Eagles of the Republic abbandona l’ironia per un registro più drammatico, con svolte da thriller complottista che appesantiscono la narrazione senza mai scuoterla davvero.
A differenza di film come Boy From Heaven o El Cairo Confidential, che riuscivano a fondere genere e denuncia con maggiore tensione interna, qui Saleh sembra più prudente. Il conflitto tra arte e propaganda permane, ma viene trattato in modo didascalico, quasi come se il film stesso temesse le conseguenze del proprio messaggio. Ogni svolta — i ricatti, le minacce, i misteri sul passato del presidente — arriva nei tempi giusti, ma senza mai sorprendere. E la riflessione sulla responsabilità degli artisti in regime autoritario, centrale nel film, resta più dichiarata che interrogata.
Un film su come si fa (e si impone) un altro film
Uno degli elementi più interessanti di Eagles of the Republic è la sua mise en abyme: il film parla di un film che si sta girando, e nella finzione si moltiplicano le ingerenze del potere. Gli script vengono rivisti dai militari, le scene devono essere approvate, le comparse sono soggette a controlli. Il set diventa una zona di conflitto, dove la finzione serve a riscrivere la Storia in modo funzionale al regime.
Tuttavia, questa dinamica metacinematografica non viene mai portata fino in fondo. A differenza di Argo, Eagles si limita a illustrare il meccanismo, senza mai smontarlo davvero. Persino i riferimenti cinefili — dai poster di classici egiziani ai richiami stilistici anni Settanta — risultano più decorativi che sostanziali.
Un’operazione europea su un dramma egiziano
Girato interamente in Turchia e finanziato da un consorzio europeo (Svezia, Francia, Germania, Danimarca e Finlandia), il film segna il ritorno di Saleh con un budget visibilmente superiore rispetto ai titoli precedenti. Eppure, la regia resta funzionale, televisiva, più interessata a far scorrere la trama che a scavare nei suoi sottotesti. Si ha spesso la sensazione che l’urgenza del discorso politico sia stata sacrificata in favore dell’accessibilità del prodotto, come se l’autore cercasse una via di mezzo tra il thriller da festival e il titolo da catalogo streaming.
La stessa figura del protagonista resta ambigua: George non è un eroe, ma nemmeno un complice. È una vittima privilegiata, talvolta lucida, talvolta passiva, e il film non riesce mai a scegliere se raccontarlo con empatia o distacco.
Brasile, 1977. In mezzo alla strada, un cadavere giace abbandonato da ore. Nessuno lo reclama, la polizia interroga ma non agisce. È da questo dettaglio disturbante che prende il via O agente secreto, il nuovo film di Kleber Mendonça Filho, ambientato nella Recife della dittatura militare, e costruito come una riflessione a più strati sulla sorveglianza, l’identità e il peso della storia. Non un film di spionaggio in senso classico, nonostante il titolo, ma un dramma politico e personale in cui tutti sembrano avere almeno due nomi, due vite, due versioni dei fatti.
Un Brasile sotto controllo
Marcelo (Wagner Moura), ex docente universitario, torna nella sua città natale per cercare il figlio e, insieme a lui, un documento in grado di dimostrare l’esistenza della madre, scomparsa nel nulla. Ma Recife non è un rifugio, bensì un territorio minato, popolato da militanti, doppi giochi, ex torturatori oggi mercenari e forze clandestine della resistenza. Braccato da chi lo vuole trasformare in un “burattino” — come suggerisce la minaccia di perforargli la bocca — Marcelo si muove tra quartieri, stazioni di polizia, vecchi cinema e case rifugio, mentre la tensione si fa sempre più pressante.
Una narrazione a spirale tra memoria e testimonianza
Mendonça Filho imbastisce una narrazione labirintica e volutamente discontinua, che alterna passato e presente, documenti e ricordi, testimonianze e flashforward: una struttura a spirale, simile a quella di Zodiacdi David Fincher, dove il bisogno di verità si scontra costantemente con il vuoto delle prove e il rumore del potere. Alcuni decenni dopo, due ricercatrici universitarie ascoltano le registrazioni dei dialoghi originali: ciò che vediamo potrebbe essere il frutto delle loro ricerche, o delle loro ricostruzioni, mai del tutto affidabili.
Come in Retratos Fantasma, Mendonça torna a riflettere sul ruolo del cinema e della memoria: le sale d’epoca, le proiezioni dell’epoca, persino Lo squalodi Spielberg diventa parte integrante della narrazione, tra apparizioni metaforiche (una gamba umana ritrovata nello stomaco di uno squalo) e inserti da film horror di serie B. L’atmosfera generale rimanda al miglior cinema politico degli anni Settanta: paranoia, ambienti notturni, rifugi improvvisati e sorveglianza costante. Ma non mancano parentesi surreali, momenti di humour nero e riflessioni emotive sul lutto e la paternità.
Un racconto corale tra luci e ombre
Wagner Moura regge sulle spalle gran parte del film, ma il mosaico è popolato da figure secondarie interessanti: amici, collaboratori, ex guerriglieri, militari degradati, burocrati corrotti. Non mancano i passaggi violenti, alcuni molto espliciti, ma ciò che colpisce di più è la dimensione emotiva e psicologica della persecuzione. “Quante persone stai aiutando?”, chiede Marcelo a uno dei personaggi. È una domanda che riecheggia più forte di molte altre, in un film dove le responsabilità individuali e collettive si fondono e si confondono.
Il limite principale dell’opera sta nella sua ampiezza narrativa: O agente secreto cerca di tenere insieme molti fili — il dramma famigliare, la denuncia storica, l’indagine sul trauma — ma non sempre ci riesce con equilibrio. Il risultato è un film pieno di intuizioni forti, ma anche dispersivo, a tratti ridondante, che accumula significati e simboli a scapito della coesione.
Nello spiegare a due bambini incontrati nel loro peregrinare tra i boschi cosa sia effettivamente il suono, Lionel, protagonista del film di Oliver Hermanus, lo descrive come qualcosa di invisibile ma che può avere una presenza fisica: purtroppo The History of Sound, l’ultima pellicola del regista di Living, presentata in Concorso a Cannes 78, non riesce però a vivere di questa sensuale sinestesia di una fisicità emotiva, che dovrebbe attraversare una storia d’amore, quindi di corpi, con la voce e la musica, qualcosa di impalpabile e che parla alle sfere più profonde della nostra psiche.
La storia del suono negli Stati Uniti di inizio Novecento
Tratto da un racconto breve di Ben Shattuck (anche autore della sceneggiatura), il film intreccia il racconto della relazione tra due giovani uomini al grande viaggio della musica folk americana. Lionel, un ragazzo del Kentucky cresciuto tra le canzoni popolari che suo padre cantava sul portico di casa, nel 1917 lascia la fattoria per iscriversi al Conservatorio di Boston. Qui conosce David, brillante studente di composizione. Ma la guerra incombe, e David parte per il fronte. I due si ritrovano qualche anno più tardi, nel 1920, per intraprendere insieme un viaggio attraverso i boschi e le isole del Maine, con l’intento di registrare e preservare le canzoni tradizionali tramandate oralmente, destinate altrimenti a scomparire.
La narrazione si estende su un arco temporale che va dal 1917 agli anni ’80, attraversando non solo gli Stati Uniti – dal New England all’America rurale – ma anche l’Europa: Oxford, l’Italia, il Lake District inglese. Un itinerario vasto e ambizioso, quasi da road movie storico, che tuttavia si rivela privo di vera densità narrativa. Il film si segue senza difficoltà, anzi con una certa scorrevolezza pensata per un pubblico ampio. Ma proprio questa facilità è parte del problema: la leggerezza non diventa mai profondità, il coinvolgimento emotivo è costantemente tenuto a distanza.
Una love story che non vibra mai
The History of Sound poggia su un vagabondaggio tra spazi e periodi temporali diversi sostenuti da un fastidioso voice-over che deve spiegare tutto quello che (non) accade in scena. Un meccanismo che cozza con la base formale del film: la narrazione e la direzione sono piuttosto chiari – è un film che si segue senza grossi intoppi e particolarmente adatto al grande pubblico – e che finisce per creare esattamente quello che vorrebbe scongiurare: distacco nello spettatore.
Così, una storia che dovrebbe fare dell’emotività la sua forza trainante si stanzia su binari austeri e fin troppo altisonanti: sembra paradossale da ammettere, ma non c’è romanticismo né attrazione tra due attori che altrove, probabilmente, l’avrebbero sprigionata molto meglio (le prove di Paul Mescal in Estraneie di Josh O’Connor in La terra di dio e Challengersparlano da sole).
Due grandi interpreti sprecati per una narrazione faticosa
“Mi sento sempre come se fossi alla fine di qualcosa”: Lionel è un personaggio irrisolto e inquieto, biglietto da visita perfettamente coerente con la tipologia di personaggi che Mescal è solito interpretare. Il problema è che manca l’espressione di questo scontro interno che lui sente, non c’è mai un momento di rilascio e, soprattutto, l’esplorazione di questo sentimento tramite la musica, come si potrebbe pensare all’inizio.
Il tutto esplode in un finale estremamente didascalico e verboso, che priva ulteriormente la storia del suo potenziale evocativo. Qualcosa di sinceramente inaspettato, dato che Hermanus sceglie come protagonisti due attori che avrebbero potuto far capire tutto senza dire niente. History of Sound rimane, purtroppo, una love story in cui manca totalmente il linguaggio dei corpi, in cui la ricerca del suono dovrebbe essere centrale ma non è mai affrontata in relazione al rapporto tra i personaggi.
Il nuovo film di Mario Martone, presentato in concorso al Festival di Cannes 2025, è un’opera che sfugge a ogni definizione rigida. Fuoriprende ispirazione dalla figura e dalla biografia di Goliarda Sapienza, ma non ne costituisce affatto ritratto didascalico. Non si tratta di una biografia, né di un adattamento canonico: è piuttosto un affresco emotivo e impressionista, costruito sulle immagini, sulle relazioni e sui silenzi. Un sogno che nasce da un incubo – quello del carcere – ma che riesce a trasformare le sbarre in aperture, le ferite in legami, la prigionia in possibilità.
Fuori, insomma, non è un biopic e non vuole esserlo. Si configura come un ritratto “per impressioni” che Mario Martone e Valeria Golino tracciano di Goliarda Sapienza con rara grazia e pudore. Siamo ben lontani dall’agiografia, e ancor di più dal melodramma carcerario: qui la prigione è lo spazio mentale in cui queste donne si muovono, sopravvivono, si sostengono e, soprattutto, immaginano. Sognano fuori, anche se il dentro non è mai veramente alle spalle.
Le ore del nostro presente sono già leggenda
La Goliarda Sapienza interpretata da Golino è una donna che non ha più nulla: senza lavoro, senza un futuro, reduce da un arresto per furto di gioielli. Eppure, è viva. Costretta a ricominciare tutto da capo, si rifugia in un microcosmo femminile fatto di dolore, ironia e desiderio di rinascita. Andando avanti e indietro nel tempo, scopriamo che nel carcere di Rebibbia nel 1980 ha stretto un intenso legame con Roberta, giovane detenuta interpretata da una straripante Matilda De Angelis, che domina la scena con una carica viscerale. Tra le due si crea una dinamica complessa: materna, erotica, polemica, ma sempre vera. Roberta la sfida, la riporta coi piedi per terra, la fa ridere quando non dovrebbe. È in lei che si riflette quella “arte della gioia” che Goliarda stessa ha insegnato senza predicarla.
Martone abbandona ogni tono didascalico per cedere a una poetica visiva che sembra affiorare direttamente dai sogni delle protagoniste. La luce filtra come in un ricordo, le inquadrature sfumano nell’onirico, e le risate – fragorose, liberatorie – diventano gesto rivoluzionario. Perché queste donne, persino quelle più segnate – come Barbara (Elodie), che è riuscita ad aprire una profumeria dopo aver tentato il suicidio in carcere – resistono alla vita trasformando ogni frattura in un legame.
Il carcere racconta l’anima delle protagoniste
Golino, che conosce intimamente la materia di Goliarda Sapienza dopo essersi occupata dell’adattamento della sua opera magna L’arte della gioia, regala un’interpretazione costruita dall’interno, come se avesse inglobato la penna della scrittrice nel proprio corpo. Il suo è un personaggio che non sa stare al mondo, o forse risiede in un altro, più fragile e più vero.
La regia di Martone è avvolgente: non spiega, ma suggerisce. Non denuncia, ma incanta. La prigione non è mai il centro, è piuttosto il simbolo di una condizione esistenziale: quelle donne sono “dentro” anche quando sono “fuori”, perché a mancare è sempre un posto nel mondo. Eppure, Fuori non è un film triste. È una celebrazione del potere salvifico delle relazioni, della famiglia che ci si sceglie, della risata che rompe il silenzio, della parola che cura. Goliarda non ruba gioielli, ma vite, storie, immagini. È una ladra di realtà, perché solo chi è capace di ascoltarla può davvero raccontarla.
Non c’è Cannes senza Wes Anderson (equazione che si potrebbe anche leggere al contrario). Il cineasta della geometria estetica non ha infatti perso l’opportunità di presentare il suo La trama fenicia sulla Croisette, che lo aveva già visto tra le fila del concorso qualche anno fa con The French Dispatch (2021) e Asteroid City (2023).
Un progetto da annali
Protagonista del film è Anatole “Zsa-zsa” Korda (Benicio del Toro), un miliardario detestato e continuamente preso di mira da tentativi di omicidio. Convinto che la sua fine sia vicina, sceglie di affidare tutto a Liesl (Mia Threapleton), la figlia maggiore, una giovane che ha sempre rifiutato il suo stile di vita e che lui preferisce apertamente ai suoi altri otto figli, considerati “inutili”. La sua paternità resta però un mistero, dato che tutte le sue ex mogli sono morte in circostanze sospette.
Il racconto si articola attraverso gli incontri tra Korda, Liesl e un entomologo norvegese bizzarro e divertente di nome Bjorn (Michael Cera), con i partner coinvolti nel cosiddetto “Phoenician Scheme”, un progetto industriale globale tanto visionario quanto spietato, che promette il controllo assoluto su ogni settore economico a costo della schiavitù dei lavoratori. Il trio si confronta così con una galleria di personaggi pittoreschi interpretati da celebrità in gustosi camei: tra gli altri, Willem Dafoe, Scarlett Johansson, Tom Hanks, Bryan Cranston, Riz Ahmed, Jeffrey Wright, Bill Murray (nel ruolo di Dio) e, nel finale, un intenso Benedict Cumberbatch nei panni dell’antagonista più temibile.
Gli irresistibili Mia Threapleton e Michael Cera (e tutti gli altri…)
Mia Threapleton è la vera stella de La trama fenicia, una ventata di aria fresca in un parco attoriale ormai fin troppo noto, che riesce a esimersi dalla nozione di mero cameo andersoniano per raccontare effettivamente l’evoluzione di un personaggio. È nella sua evoluzione da suora pia e compita a spalla del padre, anche affarista e chiaramente più disinibita, che La trama fenicia dimostra di avere qualcosa da dire. Per certi versi, potrebbe addirittura essere definito il film più politico di Wes Anderson: è proprio la ragazza che, riavvicinandosi al padre dopo essere stata nominata unica erede del suo patrimonio, lo consiglierà e indirizzerà, tanto dal punto di vista professionale quanto da quello personale. Il tutto, ovviamente, inquadrato dalla consueta angolazione ironico-grottesca tipica della filmografia di Anderson.
Benicio Del Toro, Michael Cera e Mia Threapleton in La trama fenicia
Spicca inoltre una “new entry” nel macrocosmo andersoniano, Michael Cera, che si cala perfettamente nel ruolo di un eccentrico professore che nasconde in realtà molte identità diverse. Sembra quasi impossibile pensare che l’attore di Su×bad non fosse stato assoldato dal regista prima d’ora, perchè risponde in maniera sconcertante all’idea del personaggio-burattino che abita le narrazioni di Anderson. Il resto, è una trafila di volti familiari che fanno man mano la loro comparsa: ci sono Brian Cranston e Tom Hanks, Scarlett Johansson e Benedict Cumberbatch, tra gli altri. Ogni attore rappresenta possibili minacce per il grande progetto di Zsa-zsa, siparietti comici che vanno a rinvigorire ulteriormente il rapporto tra padre e figlia.
Wes Anderson… a ripetizione circolare
Lo diciamo subito: anche questa volta, Wes Anderson fa Wes Anderson. Tradotto in maniera sintetica, La trama fenicia conquisterà i fan di lunga data del regista e, molto probabilmente, resterà a debita distanza di sicurezza dai detrattori o dagli spettatori che non riescono più a distinguere un guizzo di unicità nelle sue più recenti produzioni. In conferenza stampa, Anderson ha svelato che lo script originale de La trama fenicia era molto più oscuro. Ecco, avremmo sicuramente preferito visionare questa bozza iniziale, perchè i semi di una storia più radicale e politica ci sono tutti. Purtroppo, ciò che resta è l’ennesimo esperimento andersoniano autoreferenziale, chiuso nelle sue intenzioni all’apparenza puramente estetiche e mai realmente contenutistiche.
Assaggiare la carne cruda per conoscersi e passare d’età. Convincersi di condividere lo stesso sangue pur di appartenere. L’enfant prodige della new wave horror francese Julia Ducournau, già vincitrice di una storica Palma d’oro nel 2021 con Titane, torna in concorso al Festival di Cannes 2025 con Alpha. Abbandonando momentaneamente i codici più puri del body horror, la regista regala al pubblico il terzo capitolo di un’ipotetica trilogia sulla famiglia. Dopo l’iniziazione “scolastica” in Rawe il trasformismo vitale di Titane, Alpha ragiona sull’amore come forma di resistenza assoluta vagliando ogni suo movimento potenzialmente opposto: la malattia, il disagio, l’isolamento e la morte.
Alpha: l’inizio della fine
Alpha è una ragazzina di 13 anni nel pieno dell’adolescenza, che vive da sola con la mamma. Un giorno, torna a casa dopo una festa con un tatuaggio sul braccio, probabilmente eseguito con un ago infetto e in condizioni non esattamente appropriate. La madre, dottoressa che da anni cura i pazienti affetti da un misterioso virus le cui modalità di trasmissione sono simili all’AIDS, e trasforma gli umani in statue marmoree, è visibilmente preoccupata e porta Alpha a eseguire un test in ospedale. Ma le notizie viaggiano veloci e a scuola si diffonde presto la voce che la ragazzina abbia contratto qualcosa di inenarrabile.
Da queste premesse post-apocalittiche – in realtà il film è ambientato a cavallo degli anni ‘80 e’90 – parte un racconto dalle sfumature bibliche, in cui il non si tingono gli stipiti delle porte con il sangue dell’ agnello ma ci si marchia a vita per cercare di resistere. La trasmissione non è altro che unione, (com)patire il dolore dell’altro, accompagnarlo in un abbraccio fitto di lacrime. Ma è anche, e soprattutto, la storia di un fratello e una sorella, in cui una parte vira verso la morte e l’altra non vuole lasciarlo sprofondare nell’abisso a qualunque costo. Golshifteh Farahani e Tahar Rahim restituiscono un ritratto straziante della forza totalizzante dell’amore. “Troppo amore a volte fa impazzire le persone”, confesserà Amir ad Alpha. In effetti, il concetto di intenso legame emotivo qui schizza da tutte le parti: passa per il lasciare andare, tracciare un confine nei rapporti simbiotici, e al contempo ridare dignità a chiunque sia stato abbandonato e rinchiuso negli armadi della memoria che non perdona.
Golshifteh Farahani e Mélissa Boros in Alpha
Un sogno dentro al sogno
Alpha non racconta l’evolversi rovinoso di una epidemia nel modo in cui ci aspetteremmo, quanto un tentativo di fare “ammalare” il pubblico tramite il più grande strumento dell’essere umano: l’empatia. Come se una ragazzina di 13 anni stesse facendo la vita di un junkie, cercasse di assumere su di sè il dolore degli altri. Condividere l’incubo che diventa un sogno, muoversi all’unisono, coreografare la sofferenza.
Come Ducournau con Rawaveva scoperto la prorompente Garance Marillier, qui Mélissa Boros è una vera forza della natura, che riesce a incarnare a 360 gradi l’essere adolescenti, dalla ribellione nei confronti dell’istituzione famigliare alle paure che possiamo affrontare solo se presi per mano dalle nostre mamme. C’è una sovrapposizione continua di ruoli e traumi, quasi a voler suggerire un’idea di famiglia fluida, in cui non importano le etichette ma quello che si fa per gli altri, i tentativi di comprendersi senza mai abbandonare l’altro.
Il deserto rosso non dimentica
In Alpha, di Julia Ducournau c’è tutto e niente. Citando le sue stesse parole in un’intervista concessa a Vanity Fair, è come se con questo nuovo film dovesse reintrodursi al mondo del cinema come regista. C’è sicuramente il lavoro sul corpo, ma qui prende le distanze dal genere, osa entrare nel territorio delle emozioni da tutt’altra prospettiva: quella più umana, perfettibile, piena di contraddizioni e ambiguità. E così è il film: non un altro maestoso horror che avrebbe potuto confezionare partendo dal concept dell’epidemia. Qualcosa di nuovo, un’opera lirica mortifera, un coming-of-age a tre punte, le piaghe d’Egitto della contemporaneità.
Il Taormina Film Festival annuncia che Michael Douglas, leggendaria figura del cinema mondiale, sarà l’ospite d’apertura della 71° edizione. L’attore e produttore, vincitore di due Premi Oscar e tra i più grandi protagonisti della scena hollywoodiana, riceverà il prestigioso Taormina Excellence Achievement Award nella suggestiva cornice del Teatro Antico di Taormina, la sera del 10 giugno.
L’evento rappresenta un’occasione straordinaria per celebrare l’inimitabile carriera di Douglas, che da oltre cinquant’anni incarna con carisma, talento e impegno la grande tradizione cinematografica americana. Per l’occasione, sarà proiettato il capolavoro Qualcuno volò sul nido del cuculo (One Flew Over the Cuckoo’s Nest), prodotto da Douglas nel 1975 e vincitore di cinque Premi Oscar, in occasione del cinquantesimo anniversario della sua uscita.
Tiziana Rocca, Direttrice Artistica del Festival, ha dichiarato: “È con grande emozione e orgoglio che annunciamo la presenza di Michael Douglas come ospite d’onore della serata di apertura del Taormina Film Festival. Icona del cinema mondiale, attore e produttore straordinario, Michael Douglas ha segnato intere generazioni con interpretazioni indimenticabili e un impegno costante nella valorizzazione dell’arte cinematografica. Ma la mia stima nei suoi confronti è anche di carattere personale, ricordo ancora benissimo e con emozione la serata organizzata a Roma in onore del padre Kirk.
Nel suggestivo scenario del Teatro Antico di Taormina, renderemo omaggio alla sua straordinaria carriera con la consegna del Taormina Excellence Achievement Award, un riconoscimento che celebra non solo il suo talento, ma anche il suo contributo duraturo alla cultura cinematografica internazionale.
La sua presenza rappresenta per noi un grande onore e un segno dell’importanza che il nostro Festival riveste nel panorama mondiale. Sarà un momento di grande emozione, un’apertura memorabile che darà il via a un’edizione ricca di cinema, incontri e passioni condivise.”
Anche Sergio Bonomo, Commissario straordinario della Fondazione Taormina Arte Sicilia, accoglie con entusiasmo l’ufficialità della prestigiosa partecipazione di Michael Douglas, icona del firmamento cinematografico internazionale: “La 71^ edizione del Taormina Film Festival certamente tornerà a brillare di luce propria non solo per il ritorno del concorso cinematografico, ma anche per la partecipazione di numerose star, coinvolte grazie all’intenso lavoro della Direttrice Artistica Tiziana Rocca. E certamente le sorprese non sono terminate…”
Oltre alla cerimonia e alla proiezione, Michael Douglas sarà protagonista di un incontro speciale con gli studenti, un momento unico di confronto e ispirazione per le nuove generazioni, durante il quale condividerà esperienze, riflessioni e aneddoti legati alla sua straordinaria carriera e alla storia del cinema.
Il Taormina Film Festival rinnova così la sua vocazione a essere ponte tra il grande cinema e il pubblico, offrendo ogni anno appuntamenti di eccezionale valore culturale e artistico. La presenza di Michael Douglas, figura emblematica del cinema contemporaneo, conferma l’importanza internazionale della manifestazione e la sua capacità di attrarre i grandi protagonisti della settima arte.
Il Taormina Film Festival è un’iniziativa organizzata dalla Fondazione Taormina Arte Sicilia,direttamente promossa dall’Assessorato del Turismo, dello Sport e dello Spettacolo della Regione Siciliana, con il sostegno del MiC, Ministero della Cultura – Direzione Generale Cinema e audiovisivo.
Dopo il passaggio nella sezione parallela Un Certain Regard al Festival di Cannes 2022 con Plan 75, la regista giapponese Chie Hayakawa porta ora in concorso sulla Croisette Renoir, coming-of-age ambientato nella periferia della Tokyo anni ‘80, in cui una ragazzina si trova a dover fare i conti con l’idea che il padre, malato terminale, sta per lasciare per sempre lei e la madre.
Il lutto attraverso gli occhi di una ragazzina
Il padre di Fuki, Keiji, è gravemente malato e passa continuamente dall’ospedale alla casa. La madre, Utako, è sopraffatta: deve occuparsi di lui mentre porta avanti un lavoro a tempo pieno. Intanto Fuki, che ha undici anni, si rifugia nella propria fantasia. Affascinata dalla telepatia, inizia a immergersi sempre di più in un mondo immaginario tutto suo…
Fuki (Yui Suzuki) fa sogni strani e ha un’immaginazione unica. Nella sequenza iniziale del film la sentiamo descrivere la sua morte come se fosse già avvenuta, solo per scoprire più tardi che sta leggendo le righe di un tema scolastico. Fin da subito, è chiaro che la protagonista di Renoir ragiona spesso sulla morte perché avverte di avercela già in casa – dirà addirittura che vorrebbe essere orfana – eppure si tratta sempre di elaborazioni mentali “lontane”, che non prendono mai di petto quello che sta effettivamente succedendo nella sua famiglia, ma lo aggirano esattamente come farebbe una ragazzina sola, a cui non è stato spiegato nulla e che deve costruire un significato su misura alla morte.
Ritratto impressionista
Renoir pittore ha ritratto la giovane Irene Cahen d’Anvers “in un momento di grazia e spontaneità”, mentre Chie Hayakawa tenta di inquadrare lo sguardo sul lutto, il territorio insidioso e anche inesplorato della bolla in cui ci la giovane protagonista si rifugia per non affrontare la realtà. Fuki non sa bene quale dovrebbe essere la sua reazione di fronte a una perdita così grave, vede solo quelle degli adulti. Immersa nella noia e nella solitudine di un’estate di passaggio, la ragazzina prova ad approcciare svariate vie d’uscita: lo studio della telepatia, un’amicizia speciale, e anche svaghi decisamente inappropriati per la sua età, come l’intrattenimento telefonico per adulti.
Yui Suzuki in Renoir
Purtroppo, pur contando su una protagonista semplicemente deliziosa, a Renoir manca quella grandezza del cinema giapponese nel costruire narrazioni potenti contando su un senso di grande misuratezza. Ci sono echi di qualcosa di oscuro (in tutto il film ricorre ad esempio l’idea del pedofilo), ma si tratta di qualcosa di abbozzato per mettere in risalto la mentalità matura di Fuki rispetto alle “cose da grandi”. Tuttavia, è proprio in quelle pieghe che si nasconde un grande film, un macrocosmo a cui purtroppo non abbiamo totale accesso e che rimane tra i tanti aspetti che suggeriscono un’ipotetica eccezionalità di Fuki nel reagire e confrontarsi con il mondo.
La scoperta Yui Suzuki
Yui Suzuki è la vera forza di Renoir: unisce con una trasparenza disarmante il senso di responsabilità che attraversa Fuki, assieme a quell’ingenuità che vorrebbe conservare ancora per un po’. Nonostante i limiti del film, è una protagonista che non dimenticheremo facilmente, che ha “abbassato” la linea di frontiera tra la vita e la morte, restituendoci lo sguardo infantile su uno dei temi cardine del concorso di Cannes 78: l’andarsene per sempre, la resistenza di chi resta.
Esattamente come nel 2022 Richard Linklater portava alla Mostra del Cinema di Venezia il suo Hit Man, una ventata di aria fresca in un anno segnato dalla quasi totale assenza delle celebrità a causa degli scioperi, il cineasta di Austin arriva al Festival di Cannes 2025 con Nouvelle Vague, un omaggio a Jean-Luc Godard e alla rivoluzione cinematografica partita dai Cahiers du Cinema nel 1959.
Tutti vogliono… Godard!
C’è un momento, tra le citazioni brillanti e i sogni cinematografici di Nouvelle Vague, in cui Jean-Luc Godard – o meglio il suo alter ego interpretato dal sorprendente Guillaume Marbeck – pronuncia una frase apparentemente semplice: «Ogni giorno voglio cercare quello che devo filmare, non prepararlo». È forse questo l’approccio con cui anche Richard Linklater ha costruito il suo omaggio più sentito e cinefilo, un film che non ambisce a riscrivere la storia, ma a condividerne l’energia. A viverla, più che a raccontarla.
Dopo Tutti vogliono qualcosa, dove l’idea di gruppo era già centrale, Linklater torna a esplorare una comunità di giovani uomini e donne uniti da un amore comune: non più il baseball, ma il cinema. Nouvelle Vague è prima di tutto un film sull’essere insieme. Sulla complicità intellettuale, sull’energia collettiva di chi si riconosce in un’idea e in un’utopia. È il racconto di come si diventa autori prima ancora di esserlo, grazie a una rivista (i Cahiers du cinéma), a una cinepresa rubata, a una teoria che prende fuoco appena diventa azione.
La Nouvelle Vague sembra rivivere: un cast incredibile
Zoe Deutch – già nel cast di Tutti vogliono qualcosa – qui ha finalmente la sua occasione per brillare davvero: nel ruolo di Jean Seberg sembra uscita direttamente da una pellicola degli anni Sessanta. Ha la grazia, la presenza, ma anche quella nota straniante che Linklater sfrutta benissimo nel contrasto con lo stile ruvido e imprevedibile del giovane Godard. Ma è il cast francese a sorprendere di più: ogni attore che interpreta un membro dei Cahiers – da Truffaut a Rivette – dona al personaggio un’umanità inattesa, affettuosa e ironica. Il Godard di Marbeck, in particolare, è irresistibile: presuntuoso, vulnerabile, affamato di cinema e incapace di nasconderlo. Sembra un Danny Zuko cinefilo, con la sigaretta sempre accesa e un’idea radicale ogni cinque minuti.
Il film racconta le settimane che precedono e accompagnano il set di Fino all’ultimo respiro, ma più che una cronaca filologica è una fuga libera tra la ricostruzione e l’invenzione. Si citano i dettami estetici («una ragazza e una pistola»), le insicurezze di Godard rispetto agli amici già affermati («è troppo tardi»), e quella strana idea che più take fai, più il film perde vita. Le regole non valgono, se non per infrangerle. La realtà non è continuità. Il cinema è un affare morale, dice Godard. Ma anche romantico, risponde Linklater.
Zoey Deutch in Nouvelle Vague
Il fare cinema come esperienza collettiva
In effetti, tutto in Nouvelle Vague è attraversato da un’ironia dolceamara che rende il film una vera delizia. Non ha l’urgenza del presente né una visione sul futuro – e probabilmente non vincerà premi – ma possiede quella grazia sottile che appartiene solo alle opere fatte per il piacere della condivisione. Come spesso accade nei film di Linklater, il tempo diventa un alleato: Nouvelle Vague trova la sua misura perfetta nel minutaggio contenuto, senza un secondo sprecato, capace di restituire lo spirito di un’epoca in cui venti giorni sembravano una vita intera.
«L’arte non può finire, può solo essere abbandonata» dirà a un certo punto Gordard. E forse Nouvelle Vague è proprio questo: una lettera d’amore lasciata aperta, un tributo non definitivo ma necessario, scritto da un regista che ha sempre saputo come restituire il battito vitale delle relazioni umane, che fossero d’amore, d’amicizia o – come in questo caso – di cinefilia.
Bandiere bianco-azzurre sventolano tra i vicoli come se il vento stesso sapesse per chi tifare. Le bancarelle traboccano di sciarpe, bombette e gadget in ogni sfumatura di azzurro, mentre festoni con dediche d’amore alla città fanno da cornice a un popolo in festa. Le strade pullulano di volti accesi dall’emozione, stretti in magliette che non sono solo simboli sportivi, ma veri e propri atti di fede. Sui muri resistono ancora le locandine dello scorso venerdì: annunciavano le proiezioni improvvisate nei pub, nei chioschi, nei cortili, spazi trasformati in curve estemporanee dove si piange, si urla, si ride e ci si abbraccia con perfetti sconosciuti. Ma a Napoli, in quei momenti, sconosciuti non esistono.
Perché il Napoli ha vinto. Di nuovo. Per la quarta volta è campione d’Italia, e la città esplode in un’esultanza pura, infantile, commovente. Qui non si sceglie per chi tifare: a Napoli, il Napoli è un’appartenenza genetica, una verità che si eredita. È in questo clima, saturo di gioia e identità, che arriva Bostik – La Bodega de D1OS, il nuovo documentario di Mauro Russo Rouge. Un film che sembra sbocciare nel momento più giusto, raccogliendo l’energia di un popolo e restituendola sullo schermo come racconto collettivo e personale insieme.
Prodotto da Systemout e scritto dallo stesso regista insieme ad Alessio Brusco, Bostik – La Bodega de D1OS arriva nelle sale italiane poco dopo la conclusione del campionato di calcio 2024-2025, che ha visto il Napoli vincitore del quarto scudetto. Distribuito da Piano B Distribuzioni, il film – un omaggio a Maradona e all’inattesa storia di Antonio Esposito, conosciuto come “Bostik” – sarà proiettato nelle sale come evento speciale il 26, 27 e 28 maggio.
BOSTIK – LA BODEGA DE D10S: la storia di un pellegrinaggio calcistico
Dopo il secondo scudetto conquistato dal Napoli negli anni ’90, un gruppo di tifosi partenopei, con il sostegno di Antonio Esposito – noto a tutti nei Quartieri Spagnoli come “Bostik” – commissionò a Mario Filardi, giovane artista locale, un murale dedicato al leggendario campione argentino, il Pibe de Oro. È così che, grazie a Bostik, figura ormai considerata una vera e propria istituzione popolare, nasce quello che oggi è conosciuto come la “vera tomba di Maradona”: un luogo mistico, divenuto meta di pellegrinaggio calcistico per tifosi provenienti da ogni parte del mondo.
Magliette, foto, statuette: negli anni, quel piccolo angolo nascosto di Napoli si è trasformato in un altarino commemorativo, una delle principali attrazioni turistiche della città. Ed è proprio questo che tenta di raccontare il film scritto da Alessio Brusco: come un luogo un tempo segnato dal degrado e dallo spaccio sia diventato, quasi per miracolo, un simbolo di rinascita e un punto di riferimento internazionale per gli amanti del calcio e del mito maradoniano.
Nel nome di Diego: il calcio vissuto come fede
Sguardi commossi, gesti carichi di significato, colori vividi e voci tremanti per l’emozione. Fin dalle prime inquadrature, Bostik – La Bodega de D10S trascina lo spettatore in un viaggio profondamente immersivo tra le strade palpitanti di Napoli, intrise di storia, malinconia, vitalità e desiderio di riscatto. Quella raccontata da Mauro Russo Rouge e Antonio Esposito è, prima di tutto, una storia di rinascita: una narrazione che mostra come il calcio possa essere molto più di uno sport, un linguaggio universale, uno strumento d’identità, un collante sociale capace di unire mondi lontani. In particolare, il film mette in luce il legame viscerale tra Napoli e l’Argentina, due popoli separati da un oceano ma uniti da un’unica, inconfondibile fede: Diego Armando Maradona.
La figura del Pibe de Oro viene raccontata non solo come mito sportivo, ma come icona spirituale, quasi divina, al centro di una nuova religione laica. Una fede che si esprime attraverso riti collettivi, cori, pellegrinaggi e altari votivi. Non si tratta solo di celebrare il campione, ma di mostrare come la sua eredità abbia trasformato luoghi e coscienze, restituendo dignità a un quartiere e speranza a un’intera comunità.
Un film imperfetto ma onesto
Con poche scene essenziali, talvolta reiterate, ma dense di significato, Bostik – La Bodega de D10S ci guida con fermezza e solennità tra i vicoli palpitanti di Napoli, immergendoci nei ricordi e nelle celebrazioni dedicate a Maradona. Ma il documentario firmato da Mauro Russo Rouge va oltre il mito del campione: è un omaggio profondo, quasi carnale, al popolo napoletano. Non ambisce a essere un ritratto esaustivo della città, né pretende di abbracciarne tutte le contraddizioni. Piuttosto, costruisce un affresco emotivo e viscerale di come il calcio venga vissuto a Napoli: non come semplice sport, ma come linguaggio collettivo, come tradizione familiare, come collante sociale. In questo racconto, Maradona non è solo un idolo: è il simbolo vivente di un riscatto morale, il volto di una comunità che troppo a lungo si è sentita ai margini e che, nel genio argentino prima e nella squadra azzurra poi, ha trovato una forma di legittimazione e orgoglio.
Il film non è privo di sbavature stilistiche: l’insistenza su immagini di opulenza e feste notturne finisce talvolta per appesantire il tono e allontanare il racconto dalla sua autenticità. Eppure, Bostik mantiene intatta una sua “grazia popolare” narrativa. Racconta con dignità e una punta di ironia una storia di identità e di riscatto, una vicenda collettiva in cui il calcio diventa bandiera, ideologia, modo di stare al mondo. Bostik – La Bodega de D10S non è un documentario perfetto. Ma è un’opera onesta. Ed è in questa sua onestà che, forse, risiede il suo valore più profondo.
Lars Von Trier torna al cinema: Movies Inspired riporta nelle sale tre film del grande regista danese. Tre uscite evento, ciascuna di tre giorni, ciascuna in edizione interamente restaurata in 4K, di tre dei titoli più amati del grande regista danese.
Da oggi è disponibile il nuovo trailer, realizzato appositamente per il ritorno in sala di DOGVILLE. Un evento di tre giorni, solo il 2,3, 4 giugno 2025. Lo scorso anno Movies Inspired, che detiene i diritti per l’intera library del cinema di Von Trier in Italia, aveva già distribuito i primi tre film del cineasta co-fondatore del Dogma 95: L’elemento del crimine, Epidemic ed Europa. Quest’anno sarà la volta di tre titoli fra i più amati dell’intera opera di Von Trier.
Dogville (2-3-4 giugno), Dancer in the Dark (9-10-11 giugno) e Le onde del destino(23-24-25 giugno), tutti restaurati in 4k. I film saranno distribuiti in Italia da Movies Inspired.
Tra i tanti incontri proposti dall’undicesima edizione dell’ARF! Festival al suo pubblico, quello con il fumettista e illustratore Gigi Cavenago era indubbiamente uno dei più attesi dai fan dei fumetti ma non solo. Cavenago, formatosi da prima alla Scuola del Fumetto di Milano e successivamente nella scuderia di Sergio Bonelli Editore, è oggi un nome estremamente apprezzato e popolare anche all’estero, potendo infatti vantare importanti collaborazioni a progetti cinematografici e seriali di grande rilievo. Un titolo su tutti: Spider-Man: Across the Spider-Verse.
Il lavoro con Mark Millar e l’esordio negli Stati Uniti
“Il passaggio in america è avvenuto a partire da un messaggio su Facebook di Mark Millar (fumettista britannico autore di Kick-Ass e Kingsman), che proponeva di lavorare a qualcosa insieme. Inizialmente pensavo fosse uno scherzo, però poi ho capito che era realmente lui e non mi sono lasciato sfuggire l’occasione“. “Lavorare con Millar è come non lavorare con Millar. – continua Cavenago – Lui ti manda la sua sceneggiatura e poi sparisce fidandosi completamente di te. Però ti scrive comunque note come “adesso qui devi fare la vignetta più spettacolare della tua vita”, il che ti mette non poca pressione“.
“Così ho lavorato seguendo queste istruzioni e alla fine è andata bene, perché quando gli ho inviato le mie tavole mi ha risposto semplicemente con l’emoji dello chef che dà il suo bacio d’approvazione. Millar effettivamente non si spende in grandi elogi, però condivide il tuo lavoro con tutta la sua mailing list, il che è il suo modo di dirti che hai fatto un ottimo lavoro. Lui in pratica ha trovato una dimensione in cui fa quel che fa perché gli piace, senza preoccuparsi di come andranno le cose, affidando ai disegnatori di cui ha stima quello che lui ha immaginato“.
L’episodio Così Zeke ha scoperto la religione di Love Death + Robots – Stagione 4.
Animare Love Dead + Robots
Il lavoro più recente di Cavenago è invece quello di Art Director per l’episodio Così Zeke ha scoperto la religione, della stagione di 4 di Love Dead + Robots. Parlando di questo suo lavoro, Cavenago ha parlato dell’ottima ricezione che sta ricevendo, affermando: “L’episodio spicca per lo stile, ma anche perché chiude meglio rispetto ad altri. Ma siamo sorpresi che stia piacendo tanto, perché eravamo molto spaventava dal fatto che la storia è un flusso continuo. Io, ad esempio, ero preoccupato che fosse ripetitiva e prevedibile, ma fortunatamente siamo riusciti ad offrire una buona diversificazione all’interno dell’episodio”.
“Quando mi hanno chiamato come art director pensavo fosse per un episodio semplice, invece poi si è rivelato complicatissimo, con moltissimi dettagli da realizzare. – ha spiegato Gigi Cavenago raccontando della sua esperienza – Sostanzialmente mi hanno chiesto di fare una cosa che sembrasse interamente mia, ma delegandola ad altri. Per riuscirci, il mio segreto è stato mettere becco su tutto quello che potevo. Non per manie di grandezza, ma perché mi rendevo conto che gli illustratori con cui ho lavorato a questo progetto venivano da esperienze diverse e si trovavano a dover imparare uno stile che non conoscono“.
“Il mio stile non è pensato per rendere le cose facili agli animatori, quindi per venirci incontro ho realizzato delle immagini capendo quali potessero esserei i limiti tecnici dell’animarle, a quel punto ho adattato il mio stile a quello che si poteva fare e così l’episodio si è evoluto raggiungendo la forma che ha oggi sullo schermo. Ma abbiamo dovuto ragionare moltissimo su tantissimi elementi, dall’interno dell’aereo ai costumi, dai volti dei personaggi al design della creatura. È stato un lavoro estremamente impegnativo”.
Un’immagine di Spider-Man: Across the Spider-Verse.
L’esperienza su Spider-Man: Across the Spider-Verse
I moderatori dell’evento – MauroUzzeo, tra i fondatori dell’ARF e responsabile dell’area talk, e Chiara Guida, direttrice di Cinefilos.it – hanno poi introdotto il grande argomento di questo talk, ovvero il lavoro di Gigi Cavenago su Spider-Man: Across the Spider-Verse. “Qualche settimana dopo aver visto il primo trailer, – racconta Cavenago – mi arriva un’email con un’offerta di lavoro, ma inizialmente non avevo capito fosse per quel film, pensavo fosse per un’altra produzione minore. Anche perché pensavo avessero ormai completato il lavoro su quel film. Invece gli servivano dei piccoli pezzi di animazione, si tratta veramente di una quindicina di secondi, ma hanno richiesto tra i due e i quattro mesi per essere realizzati”.
A questo punto al talk si aggiunge anche un ospite a sorpresa, ovvero Diego Polieri, regista proprio di quella porzione animata del film a cui ha lavorato Cavenago. I due insieme hanno così mostrato alcuni bozzetti preparativi di quella sequenza, ovvero il momento in cui l’antagonista La Macchia (Spot in lingua originale) compare improvvisamente in una fumettistica versione anni cinquanta di New York, dove viene preso a borsettate da una donna del posto. Immagini, video e sketch di ogni tipo vengono così mostrati agli spettatori, dando un’idea di quanto lavoro ci sia dietro pochi secondi di animazione.
“Quello è stato il mio primo lavoro con l’animazione e quando mi hanno mandato i miei disegni che prendevano vita sono rimasto a guardarli incantato per ore”, ha raccontato Cavenago. “Doveva essere una sequenza semplice ma dettagliata, per cui abbiamo condotto ricerche su tutto, dall’aspetto dei palazzi fino agli abiti di quell’epoca”. Cavenago è ora al lavoro anche su Spider-Man: Beyond the Spider-Verse, l’atteso terzo capitolo previsto al cinema per il 4 giugno 2027. “Sul terzo non posso anticipare nulla. Sto lavorando come visual development. Mi sta piacendo moltissimo, mi chiedono disegni ma anche idee e quello che devo fare non deve essere definitivo ma si basa tutto su proposte”.
La seconda giornata dell’ARF! Festival ha ospitato uno dei momenti più attesi di questa undicesima edizione, ovvero il talk Parlare ai ragazzi coi ragazzi, con ospiti d’eccezione quali i due giovani attori Andrea Arru e Samuele Carrino(protagonisti insieme di Il ragazzo dai pantaloni rosa e noto il primo per la serie Di4ri e il secondo prossimamente protagonista per la serie Riv4li), ma anche il regista di queste due serie, Alessandro Celli, e infine la celebre scrittrice Licia Troisi, autrice di serie fantasy ambientate nel Mondo Emerso e di altre opere quali La ragazza drago, I regni di Nashira, Pandora e La saga del Dominio.
Un dialogo quello con loro – moderato da MauroUzzeo, tra i fondatori dell’ARF e responsabile dell’area talk, e dalla giornalista Chiara Guida – incentrato sulle attuali pratiche che il cinema, la serialità e l’editoria (ma non solo) attuano per parlare ai più giovani, ma anche sulle modalità con cui è più giusto approcciarsi a questa delicata età. Trovandoci all’ARF! Festival, però, la domanda rompighiaccio non può che riguardare i propri interessi nell’ambito del fumetto, quesito a cui Arru risponde rivelando: “Da bambino volevo fare il fumettista. Con un mio compagno di classe avevamo anche realizzato un piccolo fumetto. Poi crescendo gli interessi sono cambiati, ma conservo ancora quei disegni”.
Diverse sono le risposte degli altri partecipanti, con Carrino che rivela di non essere più un assiduo lettore di fumetti ma di aver avuto un certo interesse per manga come One Piece e My Hero Academia, mentre Celli replica con un nome proprio di una generazione diversa, quello di Frank Miller (iconico fumettista noto per Sin City e Batman: Anno Uno), mentre Troisi rivela di essere cresciuta con Topolino, ma anche Sailor Moon e I Cavalieri dello Zodiaco e di dovere proprio ai manga il suo aver appreso come si compone e scrive una storia.
È proprio la scrittrice a suggerire allora la prima chiave per poter pensare di rivolgersi ad un pubblico di giovani con la propria arte, affermando: “Ancora oggi mi considero una scrittrice per ragazzi e continuo ostinatamente a volermi rivolgere a loro con le mie storie. Nel tempo ho imparato che se vuoi avere la loro attenzione non devi mai parlargli dall’alto. Non devi sentirti superiore solo perché hai un’età maggiore. Bisogna invece aver presente che stai parlando con persone al tuo stesso livello,a cui probabilmente non devi insegnare nulla se non fornirgli delle chiavi di lettura del mondo”.
Della stessa opinione è Celli, il quale afferma di essere sempre stato interessato ai racconti di “qualcuno che cerca o è in procinto di diventare qualcosa di diverso da ciò che è stato”. Per riuscire a far sì che questa tipologia di racconti raggiunga il pubblico al quale vuole rivolgersi, occorre dunque affidarsi all’ascolto. “È solo con l’ascolto che riesco a rimanere io stesso bambino, giovane, trovando il giusto equilibrio nei toni. Perché se fai troppo l’infantile non funziona, se come diceva Licia ti poni al di sopra peggio ancora. Ci vuole ascolto ed equilibrio”.
Andrea Arru, Samuele Carrino e il rapporto con i fan
Arru e Carrino portano invece sul palco del talk dell’ARF Festival la loro esperienza di giovani attori chiamati ad interpretare personaggi di questa età e del rapporto con i loro coetanei. Il primo dei due ha portato proprio l’esempio del suo ruolo da bullo in Il ragazzo dai pantaloni rosa, raccontando di aver “dovuto cercare di capire il mio personaggio fino in fondo, tendando di far emergere il suo passato. Quello che di brutto compiono ragazzi come lui è solo uno specchio di quello che vivono in prima persona. La sfida è quindi stata quella di cercare di renderlo umano”.
“In Il ragazzo dai pantaloni rosa i nostri personaggi sono entrambi fragili. – racconta poi Carrino – La responsabilità di interpretare due ragazzi realmente esistenti è stata tanta. Con il film siamo però riusciti a parlare ai ragazzi della nostra età, che non è facile ma quando hai la dimostrazione di esserci riuscito, allora senti davvero di aver fatto qualcosa di giusto”. “Per quanto riguarda il rapporto con i nostri coetanei, – continua Carrino – io cerco di essere sempre me stesso, con chi mi segue ho instaurato un rapporto molto umile, famigliare. Penso che anche in questo bisogna dare il buon esempio, portare avanti le cose belle.”
“Dai social cerchiamo di far trasparire noi stessi, – concorda Arru – ma per me c’è anche una certa difficoltà di mettermi a nudo. Cerco di tenere privati gli aspetti della mia vita fuori dal set. Specialmente perché quando prendi parte ad una serie Netflix, vista in tutto il mondo, la popolarità ti investe senza freni. Ho quindi sviluppato una certa difficoltà a capire se la persona che sono piace per come è o se i personaggi che interpreto fanno avere di me una certa idea, che non corrisponde però alla realtà. Insomma, quando incontro persone dal vivo è più semplice. Ogni nostro gesto sui social deve invece essere ben ponderato”.
Samuele Carrino in Il ragazzo dai pantaloni rosa
L’editoria per ragazzi
Questo incontro dell’ARF! Festival si è concluso poi con una riflessione di Licia Troisi sul ruolo dell’editoria per ragazzi. La scrittrice, innanzitutto, sostiene di credere “nell’uguaglianza dei mezzi creativi, che siano libri o videogiochi. In ognuno di essi puoi mettere dei segnali con cui lasciare qualcosa al pubblico. Io non credo a chi dice che se non leggi stai sprecando il tuo tempo. Certamente ti perdi qualcosa, ma lo perdi anche se non giochi ai videogiochi, se non guardi film e via dicendo”. “Non è vero poi che i giovani non leggono. I lettori oggi sono soprattutto giovani, ma il mondo editoriale è mutato”, continua Troisi.
“20 anni fa il fantasy era un genere di nicchia scritto da pochi, per cui ci si poteva permettere maggiori rischi. Intorno al 2008, l’anno della crisi, l’editoria classica è però diventata ovviamente molto più prudente, spesso anche troppo. Certo, rimane un mondo in espansione e continua a ricoprire un ruolo importante nella formazione di nuovi autori. Ma oggi c’è evidentemente una minore propensione all’assumersi il rischio di proporre qualcosa di diverso e questo non rende un buon servizio né agli autori né ai lettori. Anche per questo negli anni l’autopubblicazione è diventata una pratica così diffusa”.
L’adattamento live-action di Voltron con Henry Cavill, Sterling K. Brown e Rita Ora ha appena annunciato un aggiornamento sulle riprese che fa ben sperare per una rapida uscita del film, che secondo quanto riferito sarà disponibile in esclusiva in streaming su Prime Video. Voltron ha avuto origine dall’amata serie animata degli anni ’80 con lo stesso nome, che ha visto diversi sequel e spin-off nei decenni successivi. Più recentemente, Netflix e DreamWorks hanno prodotto Voltron: Legendary Defender, che comprende otto stagioni uscite tra il 2016 e il 2018.
La premessa di base di Voltron è quella di un robot gigante composto da diverse armature combinate, pilotato da una squadra che parte per combattere un esercito alieno in avanzata. In linea con la tendenza di altri remake live-action e imminenti adattamenti live-action di anime, il film live-action di Voltron sta andando avanti. Sebbene l’idea fosse in fase di sviluppo da decenni, la versione attuale del progetto è stata annunciata nel 2022. Il tempo trascorso da allora può sembrare scoraggiante, ma un messaggio del produttore Bob Koplar ha recentemente confermato che il film Voltron ha terminato le riprese, tramite l’account Instagram ufficiale di VoltronInstagram.
Il film live-action Voltron, diretto da Rawson Marshall Thurber, potrebbe aver preoccupato alcune persone, dato che progetti simili sono semplicemente andati persi con il passare del tempo e non sono stati completati. Tuttavia, dopo l’aggiornamento rassicurante che Voltron aveva iniziato le riprese, i fan ora sanno che le cose sono sostanzialmente definite, dato che il film è entrato in fase di post-produzione. Inoltre, Voltron non ha ancora una data di uscita ufficiale, ma possiamo ora fare delle ipotesi basandoci sui tempi tipici della post-produzione.
Il film Voltron uscirà probabilmente tra la metà e la fine del 2026 e potrebbe essere distribuito in date che non lo mettano in diretta concorrenza con i più grandi blockbuster in uscita nel 2026, che hanno già consolidato il loro posto nel calendario. Inoltre, gli spettatori potrebbero presto avere maggiori informazioni sulla trama. È stato detto che il live-action Voltron sarà incentrato su una nuova generazione, il che significa che Cavill, Brown e il resto del cast probabilmente interpreteranno personaggi originali che sono i piloti di Voltron.
Recentemente, la star di SupermanNathan Fillion ha rivelato l’iconico personaggio televisivo che ha interpretato per dare vita a Guy Gardner/Green Lantern. Accanto a Fillion, il film dell’universo DC vede protagonisti David Corenswet, Rachel Brosnahan, Nicholas Hoult, Sara Sampaio, Anthony Carrigan, Edi Gathegi e Isabela Merced, tra gli altri. Il Lanterna Verde di Fillion, insieme a Gathegi nei panni di Mister Terrific e Merced in quelli di Hawkgirl, farà parte della Justice Gang, un gruppo di supereroi sponsorizzato da un’azienda che opera in modo diverso dal bonario Superman.
La scelta di Fillion per il ruolo di Guy arriva dopo anni in cui i fan lo hanno immaginato nei panni di Lanterna Verde, anche se molti pensavano che sarebbe stato più adatto all’interpretazione di Hal Jordan. Tuttavia, la star di Firefly è un collaboratore di lunga data e amico del regista di Superman, James Gunn, quindi la sua partecipazione al film non è certo una sorpresa. Ciò che sorprende, invece, è il personaggio a cui ha ispirato il suo Lanterna Verde.
Nel DC Studios Showcase Official Podcast, Fillion ha spiegato che la scontrosa ma adorabile Sophia Petrillo interpretata da Estelle Getty ha ispirato la sua interpretazione di Guy:
Sai, ho preso ispirazione dalla più anziana del cast di Golden Girls, che diceva tutto quello che voleva, senza filtri. Qualunque cosa fosse. La diceva e basta. Lui la dirà e basta.
L’attore ha poi chiarito come questo si concili con il passato di Guy nei fumetti, aggiungendo: “Parte della sua origine è che, a un certo punto, è stato investito da un autobus ed è finito in coma. Quindi ho pensato che fosse quello che gli ha fatto scattare qualcosa. È quello che gli ha causato un piccolo danno cerebrale. Ora è solo… un po’ fuori fase”.
Cosa significano le dichiarazioni di Nathan Fillion su Guy Gardner e le Golden Girls
Sebbene il paragone tra Guy Gardner e Sophia Petrillo possa sembrare strano a prima vista, non è del tutto privo di fondamento. In The Golden Girls, Getty interpreta la madre di Dorothy Zbornak, interpretata da Beatrice Arthur, che vive con sua figlia e le loro due amiche, Rose Nylund (Betty White) e Blanche Devereaux (Rue McClanahan). Sophia è schietta e brutale, e spesso prende in giro le altre donne dello show. Per questo motivo, è sia una delle preferite dai fan che la fonte di gran parte dell’umorismo della serie.
Per quanto riguarda il legame con Guy, è semplice: ha un carattere rude e aggressivo. Probabilmente il più grande idiota del Corpo delle Lanterne Verdi, il personaggio è noto per essere scortese e presuntuoso. Sebbene Sophia sia meno brutale di Guy nelle sue azioni, il tipo di umorismo che porta in The Golden Girls ha un che di tagliente, che Fillion potrebbe replicare in Superman.
Superman è il primo film dei DC Studios scritto e diretto da James Gunn, con David Corenswet nei panni di Superman/Clark Kent.
Nel cast anche Rachel Brosnahan, Nicholas Hoult, Edi Gathegi, Anthony Carrigan, Nathan Fillion, Isabela Merced, Skyler Gisondo, Sara Sampaio, María Gabriela de Faría, Wendell Pierce, Alan Tudyk, Pruitt Taylor Vince e Neva Howell. Il film sarà al cinema DAL 9 LUGLIO distribuito da Warner Bros. Pictures.
SebbeneInside Man abbia una trama piuttosto lineare, la rapina centrale presenta molti colpi di scena che richiedono una spiegazione dettagliata. Diretto da Spike Lee, Inside Man ha una trama contemporanea in stile Robin Hood, in cui un ladro virtuoso, Dalton Russell, non solo decide di rapinare una banca, ma anche di dare una lezione a un magnate senza scrupoli. Con una serie di depistaggi, il film rapina sviando gli spettatori fin dalla scena iniziale e costruendo gradualmente un finale soddisfacente e ingegnoso.
Dalla morale dei personaggi a un crimine di guerra della Seconda Guerra Mondiale, tutto nel film di Spike Lee è meticolosamente legato alla rapina centrale. Per questo motivo, comprendere le intenzioni di Dalton dietro la rapina e il suo modus operandi è essenziale per comprendere i molteplici livelli della trama di Inside Man. Ecco quindi un’analisi dettagliata della Inside Man e di come si intreccia con altri elementi della trama del film.
Perché Dalton in Inside Man non ha rubato i soldi dalla banca
Quando Dalton e la sua squadra irrompono nella banca nelle scene iniziali di Inside Man, è difficile non pensare che intendano rubare i soldi dalla banca. Il fatto che continuino ad affermare che sono lì per ripulire la banca conferma che non vogliono altro. Tuttavia, la trama della rapina in banca si infittisce quando Madeleine White appare e rivela che il fondatore della banca, Arthur Case, l’ha assunta come mediatrice per convincere Dalton a consegnare loro il contenuto di una cassetta di sicurezza nella banca.
Dalton sembra ben consapevole della storia che si cela dietro il contenuto della cassetta di sicurezza e del suo immenso valore per Arthur Case. Pertanto, rifiuta di negoziare con White, anche se lei gli assicura che può fargli ridurre la pena detentiva e persino procurargli alcuni milioni di dollari una volta scontata la pena. Lei non si rende conto che Dalton sa qualcosa sui segreti della cassetta di sicurezza che lei ignora, e che le sue ragioni per rubarli sono molto più nobili di quanto sembri inizialmente.
La spiegazione della cassetta di sicurezza 392 di Inside Man
Durante la sua interazione con Madeleine, Dalton accenna al fatto che la cassetta di sicurezza 392 contiene documenti della Germania nazista che rivelano come Case abbia fondato la banca con denaro finanziato dai nazisti. Non specifica i servizi che Case ha fornito ai nazisti, ma afferma che il denaro gli è stato dato come ricompensa per aver commesso crimini mortali contro il popolo ebraico durante la seconda guerra mondiale. Verso il finale del film Inside Man, il detective Frazier fatica a trovare prove valide contro i rapinatori, poiché tutti, tranne Dalton, escono dalla banca con gli ostaggi. Per assicurarsi che non possano essere distinti dagli ostaggi, i rapinatori indossano persino gli stessi vestiti che avevano chiesto agli ostaggi di indossare in precedenza.
Poiché nessuno di loro possiede oggetti di valore o i documenti della cassetta di sicurezza 392 della banca, il detective Frazier (interpretato da Denzel Washington, famoso per The Equalizer) non riesce a trovare alcuna prova per condannarli. Tuttavia, il detective decide di indagare sui registri della banca quando i suoi superiori lo rendono sospettoso chiedendogli di abbandonare le indagini. Le sue ricerche lo portano a scoprire che la cassetta di sicurezza 392 non compare nei registri precedenti della banca, il che lo aiuta a ottenere un mandato di perquisizione per aprirla. Per saperne di più sulla cassetta, Frazier minaccia Madeleine facendole ascoltare una registrazione della sua conversazione con Dalton in banca.
A questo punto, Madeleine si arrende e rivela che la cassetta conteneva documenti sul passato criminale di Case. Poco dopo, quando lei affronta Case, lui le rivela che la busta nella cassetta 392 conteneva anche dei diamanti e un anello di Cartier appartenenti alla moglie di un banchiere parigino, che proveniva da una ricca famiglia ebrea. Era amico del banchiere, ma lo aveva denunciato durante l’Olocausto in cambio di una grossa somma di denaro dai nazisti.
Di conseguenza, il banchiere e i suoi familiari furono confiscati tutti i beni, compreso l’anello, e furono mandati nei campi di concentramento, dove nessuno di loro sopravvisse. Anche se Case non rivela mai perché ha conservato l’anello nella cassetta di sicurezza 392, sembra che il senso di colpa gli abbia impedito di distruggerlo.
Il piano di fuga di Dalton in Inside Man
Nella scena iniziale, Dalton è seduto in una cella buia e recita un monologo in cui cita: “C’è una grande differenza tra essere rinchiusi in una cella minuscola ed essere in prigione”. Le sue parole nel prologo acquistano senso verso la fine di Inside Man, quando emerge da dietro una parete nel magazzino della banca. Un flashback rivela che la sua squadra aveva creato una minuscola cella nel magazzino della banca costruendo una parete finta dietro uno scaffale. Dopo la rapina, Dalton si è nascosto nella stanza segreta con il contenuto della cassetta di sicurezza 392 e ha aspettato che le acque si calmas
Si imbatte persino nel detective Frazier mentre esce, ma evita di destare sospetti. Pochi istanti dopo, quando il detective apre la cassetta di sicurezza, trova un pacchetto di gomme da masticare, l’anello di Cartier e un biglietto con scritto: “Segui l’anello”. Mentre Dalton tiene i documenti per affermare il suo controllo su Case, il detective Frazier decide di affrontare il proprietario della banca riguardo alla rapina.
Come il detective Keith scopre il piano di Dalton in Inside Man
L’anello diventa l’ultimo chiodo nella bara di Case quando, dopo averne rintracciato le origini, il detective Keith Frazier scopre i suoi crimini di guerra e decide di denunciarli al mondo. Quando il detective torna a casa più tardi, trova un diamante in tasca, che gli fa capire che Dalton lo ha messo lì quando l’ha incontrato all’ingresso della banca. Con questo, capisce che Dalton era rimasto nascosto all’interno della banca per tutto quel tempo e prova più rispetto per lui come ladro onesto. Alla fine, il piano di Dalton in Inside Man rende lui e Frazier ricchi, mentre il patrimonio netto di Case crolla, dimostrando che Dalton aveva ragione quando diceva: “Il rispetto è la valuta più importante”.
La possibilità di una seconda stagione di Moon Knight viene affrontata dal showrunner della serie TV Marvel Cinematic Universe. Una delle ultime aggiunte alla timeline dell’MCU che i fan non vedono l’ora di vedere è Moon Knight, dato che la serie TV con Oscar Isaac ha introdotto Marc Spector e Steven Grant nella saga del Multiverso. Anche se la seconda stagione di Moon Knight non è ancora stata ufficialmente confermata, questo non impedisce agli spettatori dell’MCU di mostrare quanto desiderano vedere il seguito della serie.
In una nuova intervista con ComicBook, al showrunner di Moon Knight Jeremy Slater è stato chiesto cosa dovrebbe accadere affinché la seconda stagione diventi realtà su Disney+. Slater ha chiarito che, per quanto speri di rivedere Isaac nei panni dell’eroe titolare, ci sono due persone che possono rendere possibile la seconda stagione di Moon Knight, come ha condiviso di seguito:
Parlate con Kevin Feige, parlate con Oscar Isaac. Penso che la palla sia davvero nelle loro mani. Moon Knight sarà tanto quanto Oscar vorrà che sia. Kevin è quello che ha il piano generale, e penso che quando troverà un modo per incorporare davvero Moon Knight… Spero che lo rivedremo, ma sono curioso quanto voi.
Cosa significano i commenti di Jeremy Slater su Moon Knight per l’eroe dell’MCU interpretato da Oscar Isaac
Moon Knight stagione 1 è stata realizzata prima della ristrutturazione della Marvel Television dopo la revisione creativa di Daredevil: Born Again, e la Marvel Studios è ora concentrata sulla realizzazione di serie TV più tradizionali che possano durare più stagioni. Considerando come è finito il finale di Moon Knight, ci sono sicuramente dei semi piantati che potrebbero portare alla stagione 2 e oltre. Ma sulla base dei commenti di Slater, alla fine tutto dipenderà da Kevin Feige e Isaac, che potrebbero semplicemente cercare di capire come estendere Moon Knight per diverse stagioni oltre la seconda.
Tuttavia, ciò che potrebbe frenare Moon Knight – stagione 2 in questo momento è il fatto che la Marvel Studios sta cercando di finire la saga del Multiverso, dato che la Fase 6 ha solo una manciata di film e serie TV in programma per il capitolo finale. L’idea potrebbe essere quella di fare di più con Moon Knight nella Fase 7, soprattutto se Feige e Isaac troveranno modi più organici per far funzionare la seconda stagione in termini di storie. Considerando quanto c’è da esplorare con Moon Knight, il viaggio molto probabilmente non è ancora finito per lui.
Ci saranno dei cambiamenti alla caserma dei pompieri 51 sulla scia degli eventi dei Chicago Fire – stagione 13 finale, ma d’altra parte molte cose rimarranno invariate. La tredicesima stagione della serie poliziesca della NBC ha visto numerosi alti e bassi. Dall’introduzione del sostituto del capo Boden (Dom Pascal) nella premiere della tredicesima stagione di Chicago Fire alla relazione altalenante tra Violet Mikami e Sam Carver, si può dire che la stagione è stata ricca di drammi e conflitti. Tuttavia, molti personaggi hanno avuto un lieto fine nel finale.
Chicago Fire tornerà con la stagione 14 nell’autunno del 2025, riprendendo il suo slot del mercoledì alle 21:00 ET sulla NBC (secondo NBC Insider).
Dopo il tentato omicidio dell’uomo che ha ucciso la moglie di Pascal nella stagione 13 di Chicago Fire, episodio 21, il capo della caserma 51 è sotto pressione nell’episodio 22, “It Had to End This Way”. Le prove contro Pascal iniziano ad accumularsi e sembra che sarà condannato per il crimine. Nel finale, Carver sconvolge Violet con una notizia che le cambierà la vita, Christopher Herrmann lotta per diventare capo e la relazione tra Kelly Severide e Stella Kidd cambia per sempre.
Come Severide dimostra che Pascal non è colpevole di tentato omicidio (e chi ha realmente cercato di vendicare Monica)
Nel corso del finale della tredicesima stagione di Chicago Fire, Severide fa del suo meglio per scagionare Pascal. I due non hanno avuto esattamente un inizio facile. Col tempo, però, Severide ha imparato ad apprezzare e rispettare il suo capo, e viceversa, ed è per questo che si batte con tutte le sue forze per Pascal in “It Had to End This Way”. All’inizio, Severide è convinto che qualcuno del passato di Pascal (un boss mafioso di nome Hendricks che Pascal ha cercato di coinvolgere a Miami) lo stia incastrando. Alla fine, scopriamo tutti che la risposta è molto più semplice.
Severide e Pascal scoprono che il tenente Vale è colui che ha cercato di uccidere l’assassino di Monica nella stagione 13 di Chicago Fire. Nel corso del tempo, Vale è diventato ossessionato da Monica (anche se lei lo ha respinto). Era quasi distrutto quanto Pascal quando Monica è morta. Di conseguenza, Vale voleva vendetta. Ci riesce quasi, se non fosse stato per Pascal che ha scoperto i messaggi di Vale a Monica e per Severide che è un ottimo investigatore di incendi dolosi. Alla fine, Severide dimostra l’innocenza di Pascal. Questo rafforza il loro legame, che è stato uno degli sviluppi più interessanti della stagione 13.
Carver vuole lasciare Chicago (ma lo farà?)
Qualche settimana prima del finale, è stato annunciato che due personaggi fissi della serie avrebbero lasciato Chicago Fire dopo la stagione 13: Jake Lockett (che interpreta Carver) e Daniel Kyri (che interpreta Darren Ritter). Quindi, molti hanno pensato che il finale avrebbe dato un’adeguata conclusione ai personaggi di Carver e Ritter. Tuttavia, non è stato proprio così. Nella puntata 22 della stagione 13 di Chicago Fire, Violet finalmente consegna a Carver la lettera (in cui esprime i suoi sentimenti per lui) che gli aveva scritto settimane prima. Purtroppo, è un po’ troppo tardi, perché Carver ha già deciso di lasciare Chicago e trasferirsi al dipartimento dei vigili del fuoco di Denver.
Carver spiega a Violet che sente il bisogno di un nuovo inizio per mantenere la sobrietà. Naturalmente Violet capisce, ma è anche visibilmente affranta dalla notizia. La sua reazione mette Carver di fronte a un dilemma. Anche lui prova forti sentimenti per Violet, ma deve anche dare la priorità alla sua salute. Alla fine del finale di stagione di Chicago Fire, Carver getta al vento ogni cautela e aspetta Violet fuori dal suo appartamento. Una volta arrivata, lui la bacia immediatamente e le dice che la ama. Violet ricambia la sua dichiarazione e l’episodio si conclude con loro che si baciano felicemente.
Basandosi su quell’ultima scena, sembra che il personaggio di Jake Lockett non se ne andrà, anche se logicamente sappiamo che probabilmente non resterà.
Dopo che Violet e Carver si sono scambiati un “ti amo”, non è chiaro quale sarà il futuro di Carver. Sì, dovrebbe andarsene. Tuttavia, il finale si conclude con Violet e Carver che finalmente cedono alla loro storia d’amore in Chicago Fire. Basandosi sull’ultima scena, sembra che il personaggio di Jake Lockett non se ne andrà, anche se logicamente sappiamo che probabilmente non resterà. Forse Lockett potrà tornare come personaggio ricorrente, il che spiegherebbe l’esitazione della showrunner di Chicago Fire, Andrea Newman, nel confermare o smentire la presenza di Carver o Ritter nella stagione 14.
Spiegata la decisione di Herrmann di non sostenere l’esame per diventare capo
La domanda se Herrmann prenderà il posto di Pascal come capo della caserma 51 rimane aperta per tutto il finale della tredicesima stagione di Chicago Fire. Se Herrmann dovesse sostenere l’esame per diventare capo e superarlo, probabilmente diventerebbe il nuovo capo. In caso contrario, Pascal rimarrebbe (ammesso che non venga arrestato). Tuttavia, Herrmann rende la situazione facile per tutti, dato che molti hanno imparato ad amare Pascal come loro capo, decidendo di non sostenere l’esame.
Il finale della tredicesima stagione di Chicago Fire non spiega nemmeno come Ritter uscirà dalla serie, lasciando evidentemente questa rivelazione per la premiere della quattordicesima stagione.
Considerando la costante esitazione del veterano pompiere durante tutta questa ultima avventura, non è una grande sorpresa quando Herrmann decide di non andare avanti con il piano. È scioccante, però, quando accetta una retrocessione per consentire a Mouch di assumere il ruolo di tenente dell’Engine 51. Herrmann ama il suo amico e vuole il meglio per lui. Ed è disposto a sacrificare la sua carriera affinché Mouch possa ottenere ciò che desidera. Herrmann non è comunque destinato a stare dietro una scrivania, come sottolinea alla fine dell’episodio 22 della stagione 13 di Chicago Fire.
Cosa succederà a Severide e Kidd dopo aver scoperto che lei è incinta?
La storia più importante di Severide e Kidd nella stagione 13 di Chicago Fire ruota attorno al loro desiderio di mettere su famiglia. All’inizio, avevano deciso di adottare un bambino. Purtroppo, l’adozione di un neonato è saltata all’ultimo minuto quando la madre biologica ha cambiato idea sul tenere il bambino. Poi, Severide e Kidd accolgono Natalie, un’adolescente che Kidd ha salvato da un incendio dieci anni fa.
Conoscendo Chicago Fire, il prossimo viaggio di Severide e Kidd sarà sicuramente costellato di ostacoli.
Nel finale, Kidd riesce a riunire Natalie con sua sorella Julia, indicando che la coppia non adotterà ufficialmente l’adolescente come molti avevano ipotizzato. Sebbene questo possa aver deluso alcuni spettatori che volevano vedere Severide e Kidd come genitori, l’episodio risolve rapidamente questa delusione quando Kidd mostra a Severide un test di gravidanza positivo. Stellaride sta per avere un bambino! Quello che una volta sembrava un sogno irrealizzabile, ora i fan potranno vedere la coppia affrontare questa nuova fase della loro vita nella stagione 14. Conoscendo Chicago Fire, il prossimo viaggio di Severide e Kidd sarà sicuramente pieno di ostacoli.
Come il finale della stagione 13 di Chicago Fire prepara la stagione 14
Il finale della stagione 13 di Chicago Fire potrebbe non essere il più spettacolare o drammatico della serie, ma prepara molte trame per la stagione 14. Per cominciare, Severide e Kidd sono incinti, il che avrà senza dubbio un ruolo importante nella prossima stagione. “It Had to End This Way” prepara anche le dinamiche future della caserma 51 con Pascal che rimane, Herrmann che torna come pompiere regolare e Mouch che diventa il tenente dell’Engine 51.
Forse uno degli sviluppi più significativi del finale che sembrerà avere un impatto sulla stagione 14 di Chicago Fire è la dichiarazione d’amore di Violet e Carver. Se non sapessimo nulla, questa scena indicherebbe che Violet e Carver avranno una relazione felice nei prossimi episodi. Tuttavia, Carver dovrebbe lasciare la serie. Quindi, quando arriverà la stagione 14 di Chicago Fire, sarà interessante vedere le conseguenze del grande sviluppo di Violet e Carver.
John Creasy (Denzel Washington), il protagonista di Man on Fire – Il fuoco della vendetta di Tony Scott, non è basato su una persona reale. Washington e Scott hanno una lunga storia di collaborazioni cinematografiche alle spalle. Hanno trascorso del tempo su un sottomarino nucleare in Crimson Tide, hanno evitato il deragliamento di un treno in Unstoppable e in Man on Fire hanno salvato una ragazza innocente dalle grinfie di una banda di criminali. In Man on Fire, Creasy è un ex agente del SAD/SOG fallito, il cui frivolo lavoro di guardia del corpo per Lupita (Dakota Fanning) si trasforma in una cospirazione ricca di azione dopo che la ragazza viene rapita.
Man on Fire – Il fuoco della vendetta mostra Denzel Washington al suo meglio nei film d’azione e vedere Creasy passare da agente della CIA scoraggiato e suicida, con gli anni migliori ormai alle spalle, a un uomo rinvigorito dalla vita grazie alla gentilezza e all’amicizia di una ragazzina è emozionante e commovente. Washington ha interpretato molti personaggi reali nella sua carriera, tra cui Malcolm X, Herman Boone, Frank Lucas e altri ancora. Tuttavia, John Creasy non è uno di loro, sorprendentemente. Nonostante sia uno dei migliori personaggi di qualsiasi film di Tony Scott, non è un personaggio originale.
John Creasy era inizialmente un personaggio del romanzo
Ma la sua storia è ispirata a due rapimenti realmente accaduti
Man on Fire non è una storia originale di Tony Scott. È basato su un libro del 1980 di A. J. Quinnell con lo stesso titolo, con protagonista John Creasy, un personaggio immaginario. Creasy è poi diventato protagonista di altri quattro libri dello stesso autore: The Perfect Kill (1992), The Blue Ring (1993), Black Horn (1994) e Message From Hell (1996). Il motivo per cui spesso si crede erroneamente che il personaggio sia reale è che la storia è ispirata a due rapimenti realmente avvenuti e di grande risonanza.
Il primo è stato il rapimento del figlio maggiore di un uomo d’affari di Singapore a scopo di estorsione (via The Sun). Temendo che gli altri figli potessero essere presi di mira se avesse pagato, l’uomo ha rifiutato e suo figlio è stato ucciso. La seconda fonte di ispirazione è una storia famigerata che riguarda una delle famiglie più ricche d’America, i Getty. Il sedicenne John Paul Getty III, nipote del magnate del petrolio Paul Getty, fu rapito a Roma nel 1973. Dopo cinque mesi di prigionia, Getty III perse un orecchio per mano dei suoi rapitori prima che il nonno, famoso per la sua avarizia, pagasse a malincuore il riscatto (via People).
La storia dei Getty è stata trasformata in un film e in una serie TV. La serie, Trust, è stata trasmessa per la prima volta su FX nel 2018, con Donald Sutherland nel ruolo di Paul Getty e Harris Dickinson in quello di Getty III. Il fratello di Tony Scott, Ridley Scott, ha diretto l’adattamento cinematografico, All the Money in the World, con Christopher Plummer nel ruolo del vecchio Getty e Charlie Plummer in quello del giovane. Non c’è alcuna parentela tra Christopher e Charles Plummer.
Tutti i film e le serie tv su Man On Fire
Netflix sta progettando una serie TV
Tony Scott non è l’unico ad essere stato ispirato dalla storia di Quinnell, poiché ci sono stati numerosi adattamenti di Man on Fire, compresi alcuni stranieri. C’è stato persino un adattamento uscito prima di quello di Scott: Man on Fire del 1987, con Scott Glenn nel ruolo di Christian Creasy, il cui nome è stato cambiato, e diretto dal regista francese Élie Chouraqui.
Ek Ajnabee, un adattamento in hindi, uscito un anno dopo il film di Scott, vede Amitabh Bachchan nei panni del colonnello Suryaveer “Surya” Singh, il Creasy del film.
Lo stesso anno è seguito rapidamente un adattamento in lingua tamil, Aanai, con Arjun Sarja nel ruolo di “Vijay”. Oltre a questi adattamenti cinematografici, è in programma una serie televisiva Man on Fire per Netflix, annunciata nel 2023, che racconterà i primi due romanzi di Quinnell, Man on Fire e The Perfect Kill.
Mission: Impossible – The Final Reckoning chiude la serie con Tom Cruise con il secondo miglior punteggio di pubblico su Rotten Tomatoes. Diretto ancora una volta da Christopher McQuarrie, l’ottavo e, secondo quanto riferito, ultimo film di Mission: Impossible segue l’agente dell’IMF Ethan Hunt, interpretato da Tom Cruise, e la sua squadra di agenti mentre continuano la loro lotta contro l’intelligenza artificiale ribelle conosciuta come l’Entità. Mission: Impossible – The Final Reckoning include anche il ritorno di Hayley Atwell, Ving Rhames, Simon Pegg, Henry Czerny e Angela Bassett.
Ora, nel giorno della sua uscita nelle sale, Mission: Impossible 8 ha debuttato con un punteggio del 93% su Rotten Tomatoes, il secondo miglior risultato della serie dopo Dead Reckoning (94%). Il nuovo film ha più di 1.000 valutazioni verificate al momento della stesura di questo articolo, quindi il punteggio del pubblico è destinato a variare man mano che ne verranno aggiunte altre. Di seguito è possibile consultare un confronto tra i punteggi ottenuti dalla serie su Rotten Tomatoes.
Presentato fuori concorso al Festival di Cannes il 14 maggio,Mission: Impossible 8 ha ricevuto recensioni positive, ma non entusiastiche. Mentre i critici lodano ancora una volta le acrobazie audaci di Tom Cruise e la trama ricca di suspense, alcuni hanno avuto reazioni contrastanti riguardo all’insolito mix di nostalgia e alla mancanza di un finale soddisfacente. Ciò ha portato a un punteggio dell’80% su Rotten Tomatoes da parte della critica, che è nella media per la serie, posizionandosi al di sotto degli ultimi quattro film ma al di sopra dei primi tre.
D’altra parte, il punteggio del pubblico di The Final Reckoning è il secondo migliore della serie dopo Dead Reckoning, con recensioni che lodano l’azione senza sosta, le acrobazie incredibili, lo spettacolo emozionante e gli effetti speciali impressionanti. Anche la dedizione e la performance di Tom Cruise sono ampiamente apprezzate. A differenza dei critici, il pubblico sembra considerare la fine di Mission: Impossible – The Final Reckoningun finale soddisfacente per la serie. Nel complesso, The Final Reckoning è considerato dal pubblico un finale divertente e ricco di azione.
Ryan Reynolds ha rivelato di aver ufficialmente proposto un film Star Wars vietato ai minori. Il futuro di Star Wars sembra più luminoso che mai, con il franchise che tornerà sul grande schermo il prossimo anno con The Mandalorian & Grogu. Ma nel frattempo, la Lucasfilm continua a pianificare altri futuri film Star Wars e sembra che lo studio abbia ricevuto una proposta sorprendente.
Parlando con Scott Mendelson su The Box Office Podcast, Ryan Reynolds ha rivelato di aver effettivamente proposto alla Disney un film di Star Wars vietato ai minori:
“Ho proposto alla Disney: ‘Perché non facciamo un film di Star Wars vietato ai minori? Non deve essere esplicito, non devono esserci personaggi perfetti, ci sono tantissimi personaggi che potreste usare’. E non intendo vietato ai minori perché volgare, vietato ai minori come cavallo di Troia per le emozioni. Mi chiedo sempre perché gli studi non vogliano scommettere su qualcosa del genere”.
Il rating R non è solo sangue e violenza
Stranamente, i commenti di Reynolds sembrano più una critica ai franchise in generale che altro. Quando parla di classificazione R, non si riferisce al sesso e alla violenza, ma sembra piuttosto credere che tale classificazione sia necessaria per una vera complessità emotiva. In effetti, sembra avere ragione, perché Andor, la storia di Star Wars più sofisticata, sfumata e incentrata sui personaggi fino ad oggi, era sicuramente molto più matura rispetto alla media.
Il showrunner di Andor Tony Gilroy ha anticipato un Star Wars horror, forse suggerendo che qualcosa potrebbe effettivamente essere in cantiere. Secondo Gilroy, la sua serie TV di successo dovrebbe fungere da trampolino di lancio per un tipo completamente nuovo di storia di Star Wars. Senza dubbio Ryan Reynolds sarebbe d’accordo.