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Inspira, espira, uccidi: recensione del thriller tedesco di Netflix

L’ossessione per un lavoro frustrante e insoddisfacente, la pressione familiare, il desiderio di trascorrere più tempo con la figlia senza riuscirci davvero, l’incomprensione della moglie: sono difficoltà in cui chiunque potrebbe riconoscersi. Ma quando la già frenetica quotidianità dell’avvocato Diemel si scontra con le richieste assurde di clienti mafiosi dal temperamento esplosivo, cosa si può fare per ritrovare un po’ di pace interiore? Creata e scritta da Doron WisotzkyInspira, espira, uccidi (titolo internazionale Murder MindfullyAchtsam Morden in originale tedesco) è una serie thriller tedesca, ironica e ricca di humor nero, tratta dall’omonimo romanzo del 2018 di Karsten Dusse.

Composta da 8 episodi di circa 30 minuti ciascuno, la serie segue l’inatteso percorso interiore di Björn Diemel, interpretato dall’ironico Tom Schilling, che scopre nella mindfulness gli strumenti per rimettere ordine nella sua vita… anche se questo comporta eliminare qualche ostacolo di troppo.

Inspira, espira, uccidi è disponibile dal 31 ottobre su Netflix.

La trama di Inspira, espira, uccidi

Quando è sul punto di perdere la sua famiglia, l’affermato e amorale avvocato Björn Diemel decide di accontentare la moglie e partecipare a un seminario sulla mindfulness. Grazie alle tecniche apprese, Diemel inizia a ritrovare un equilibrio tra vita privata e lavoro, creando piccole “isole temporali” da dedicare alla figlia Emily e affrontando ogni ostacolo stressante con un respiro profondo. Tutto sembra finalmente ritrovare il suo posto, finché non decide di applicare la mindfulness anche con il suo cliente più problematico: il folle e violento boss mafioso Dragan Sergowicz (interpretato da Sascha Geršak).

Così, l’avvocato si ritrova invischiato in un guaio ben più grande, con la polizia e un’intera banda criminale alle calcagna. Eppure, nonostante l’assurda e pericolosa situazione, Björn riesce a mantenere il sangue freddo, trasformando la sua vita in modo radicale. Se ora eliminare qualche “ostacolo” è diventato necessario per risolvere i suoi problemi, lui sa che è solo una naturale conseguenza della sua nuova e sana consapevolezza.

La terapia può salvarti… fino a prova contraria

Omicidi a sangue freddo, malviventi maldestri e poliziotti corrotti. Inspira, espira, uccidi è una dark comedy che, pur vestendo i toni leggeri di una farsa, riesce a toccare corde profonde dello stato emotivo degli adulti di oggi. L’estrema frustrazione, l’ansia soffocante e la rabbia latente del protagonista, l’avvocato Björn Diemel, sono sentimenti che rispecchiano le inquietudini di un’intera generazione, stanca e insoddisfatta. Di fronte a un mondo caotico e terribilmente immutabile, ciò che rimane da fare è modificare il nostro atteggiamento verso i problemi, tentando di adattarci anziché combattere.

E così cerchiamo soluzioni: paghiamo uno psicoterapeuta nella speranza che ci indichi la via, ci iscriviamo a corsi di yoga, proviamo la terapia occupazionale o ci rivolgiamo a chi può ipnotizzarci per liberarci dai pensieri ossessivi. Oppure, come fa Diemel, ci affidiamo alla mindfulness. Ed è proprio questo approccio, per quanto singolare, a cambiare la sua vita: tra un’inspirazione e un’espirazione, Diemel si ritrova a commettere un omicidio e a scatenare una guerra tra bande. Eppure, grazie alla sua nuova filosofia, la sua esistenza sembra davvero migliorare… o, almeno, così crede.

Trovare pace nel proprio caos

Non sono solo le emozioni comuni a rendere coinvolgente la surreale avventura criminale del protagonista. Oltre ai sentimenti condivisibili, Inspira, espira, uccidi cattura il pubblico grazie a un’intelligente regia, che riesce a sopperire a una sceneggiatura a tratti ripetitiva e prevedibile. Inoltre, uno dei punti di forza della serie è il modo in cui Björn Diemel rompe la quarta parete, rivolgendosi direttamente in camera e creando un rapporto intimo e quasi complice con lo spettatore.

In questi intermezzi, il tempo sembra sospendersi: il mondo intorno a Diemel si ferma per qualche secondo, dandogli modo di raccontare o spiegare ciò che lo spettatore ha bisogno di sapere per comprendere — o addirittura giustificare — i suoi inganni, le sue manipolazioni e il sangue che si ritrova inevitabilmente sulle mani. Questi momenti non solo svelano i ragionamenti contorti del protagonista, ma anche il tentativo di razionalizzare il caos e gli eccessi della sua vita, trascinando lo spettatore in un vortice emotivo in cui persino le azioni più spietate appaiono, per un attimo, stranamente comprensibili.

Tutto è bene quel che… non finisce bene

Non è comune vedere produzioni tedesche comparire nell’iconica Top 10 di Netflix. Eppure, Inspira, espira, uccidi è riuscita in un’impresa sorprendente: in soli due giorni ha scalato rapidamente la classifica, avvicinandosi alla vetta e puntando a raggiungere il podio, attualmente dominato da La legge di Lidia Poet. La serie ideata da Doron Wisotzky si distingue per il suo sarcasmo pungente, il tono semplice e diretto, una leggera irriverenza e una spiazzante sincerità. Nonostante le situazioni paradossali e la narrazione a tratti prevedibile, l’atipico e goffo avvocato Björn Diemel riesce a intrattenere e a coinvolgere il pubblico con la sua comicità disarmante.

La serie miscela perfettamente dark comedy e momenti di introspezione, che spingono lo spettatore a riflettere sulle follie quotidiane dell’era moderna, in cui ci si sente sempre più soli e incompresi. Tom Schilling nei panni di Diemel diverte e convince, anche quando le sue decisioni sfociano nell’assurdo, lasciandoci sospesi tra il sorriso e la perplessità. Ora, però, resta l’immancabile interrogativo: Netflix saprà resistere alla tentazione di sfornare una seconda stagione, rischiando di trasformare una storia già completa e autoironica in un brodo troppo allungato per risultare appetibile?

Massimo Decimo Meridio de Il Gladiatore era una persona reale? la spiegazione delle influenze storiche

Uscito nel 2000, Il gladiatore di Ridley Scott è un film epico sulla vendetta, la perdita e la giustizia dal punto di vista di Maximus Decimus Meridius, interpretato da Russell Crowe. Sia il personaggio che la storia hanno una profondità tale da far chiedere a molti se Massimo Decimo Meridio fosse una persona reale e quali figure dell’antica Roma lo abbiano ispirato. Il film racconta la storia di Massimo, un generale romano diventato gladiatore che cerca di vendicare la morte della sua famiglia, uccisa dal malvagio figlio dell’imperatore Commodo (interpretato da Joaquin Phoenix). Sebbene Il Gladiatore presenti personaggi storici reali, Massimo Decimo Meridio non era una persona reale.

Ambientato nel 180 d.C., Il gladiatore mette in mostra una grande profondità storica. Il film mostra il mondo dei gladiatori, i giochi politici e le campagne militari che erano comuni a quel tempo. I personaggi storici chiave di Il gladiatore includono l’imperatore romano Marco Aurelio, suo figlio Commodo e sua figlia Lucilla. Il personaggio principale, Massimo, non è reale. La creazione di questo personaggio è invece influenzata da diversi personaggi dell’antica Roma. Il personaggio di Massimo in Gladiator è basato principalmente sui generali romani, sui gladiatori stessi e sulla vita che conducevano.

Il gladiatore è disponibile in streaming su Paramount+.

Massimo Decimo Meridio non è reale, ma è frutto di molte influenze

Russell Crowe e Connie Nielsen in Il gladiatore (2000)

Diversi personaggi reali hanno influenzato Maximus, così come le storie dei gladiatori dell’antica Roma

Una delle maggiori influenze per Maximus Decimus Meridius è stato il generale romano Marco Nonio Macrino. Marco era un generale, statista e consigliere durante il regno di Marco Aurelio, proprio come Massimo era generale e consigliere di Marco Aurelio nel film. Inoltre, sia Massimo che Marco erano ammirati e benvoluti dall’imperatore. Un’altra influenza è Avidio Cassio, un generale romano che acquisì importanza sotto Marco Aurelio e che a un certo punto si autoproclamò imperatore dopo aver ricevuto notizie, sebbene false, della morte di Aurelio.

Russell Crowe ha vinto l’Oscar come miglior attore per la sua interpretazione di Massimo Decimo Meridio in Il gladiatore.

Una terza influenza, anche se minore, è il lottatore Narciso, che fu il vero assassino di Commodo dopo che questi divenne imperatore. Per inciso, nella prima bozza de Il gladiatore, Massimo doveva originariamente chiamarsi Narciso. Naturalmente, Massimo è stato ispirato anche dal grande guerriero Spartaco. Sia Massimo che Spartaco erano schiavi che divennero famosi gladiatori ed entrambi pianificarono una rivolta contro lo Stato romano, cercando di rovesciare la corruzione. Il personaggio di Massimo è influenzato anche dalla vita dei gladiatori. Come Massimo, la maggior parte dei gladiatori erano schiavi e prigionieri di guerra o avevano un passato criminale.

I gladiatori erano classificati in vari gruppi a seconda del tipo di arma che usavano e dell’armatura che indossavano. Tra i più noti vi sono i Sanniti (singolare: Sannita), che erano i più pesantemente corazzati e impugnavano le classiche spade corte gladius, i Murmillones (singolare: Myrmillo), o “uomini pesce”, che avevano armature e stili simili, i traci (singolare: traex), che brandivano pugnali ricurvi simili a scimitarre chiamati sica, e i retiarii (singolare: retiarius), che usavano una grande rete e un tridente come armi (tratto da The Colosseum).

Le caratteristiche che hanno dato vita a Maximus in Il gladiatore sono anche un simbolo di giustizia e rettitudine…

Dal design dell’armatura di Massimo al piccolo scudo rotondo e alla spada corta che portava, si può dedurre che Massimo fosse un gladiatore hoplomaco. Era anche comune vedere diversi tipi di gladiatori accoppiati o messi uno contro l’altro, come si vede quando Massimo combatte contro gli essedarius, gladiatori che cavalcavano carri. Come mostrato nel primo combattimento di Massimo Decimus Meridius come gladiatore, alcuni scontri servivano a rievocare battaglie famose in cui l’esercito romano era uscito vittorioso. Altri combattenti nell’arena erano i Bestiarii, che combattevano contro animali selvatici, ad esempio leoni e tigri.

Sebbene sia un personaggio di fantasia, è chiaro che Maximus Decimus Meridius in Il gladiatore è fortemente ispirato a diversi personaggi storici romani e a fatti storici sulla vita dei gladiatori nell’antichità. Grazie a queste influenze, gli spettatori possono farsi un’idea di come fosse la vita di una persona nell’antica Roma. Inoltre, le caratteristiche che hanno dato vita a Maximus in Il gladiatore fungono anche da simbolo di giustizia e rettitudine in un contesto di corruzione.

Il protagonista de Il Gladiatore 2 è reale?

Paul Mescal interpreta Lucius nel tanto atteso sequel del Gladiatore

A oltre vent’anni dall’uscita nelle sale e dal successo agli Oscar de Il Gladiatore, sta per arrivare il sequel dell’epico film storico. Anche se può sembrare strano vedere un film che è il sequel di una storia in cui sia l’eroe che il cattivo muoiono, il film sta prendendo una direzione interessante. L’eroe di questo film è il nipote di Commodo, che ha visto suo zio ucciso da Massimo nel primo film. Tuttavia, nel film, suo nipote Lucio (Paul Mescal) ha preso ispirazione da Massimo Decimo Meridio piuttosto che da suo padre. Sapeva che ciò che Massimo aveva fatto come gladiatore era giusto.

Infatti, Lucius Verus II in Il Gladiator 2 è basato su un personaggio storico reale, ma la sua storia cambierà drasticamente nel film. Lucius morì giovane nella vita reale e morì prima ancora che Commodo diventasse imperatore. Se Lucius fosse vissuto, avrebbe potuto diventare imperatore, ma invece fu Septimus Severus a diventare imperatore. Tuttavia, non è ancora chiaro se Severus sia imperatore in Il Gladiatore 2. Proprio come Il Gladiatore ha cambiato i fatti storici, come Massimo Decimus Meridius e le sue ispirazioni, anche il secondo film probabilmente farà lo stesso.

The Diplomat – Stagione 2, la spiegazione del finale: cosa succede al presidente e a Katherine Wyler

Il finale della seconda stagione di The Diplomat rivela chi c’era dietro l’attacco alla HMS Courageous. Keri Russell è la protagonista del cast della seconda stagione di The Diplomat insieme a Rufus Sewell nel ruolo di suo marito Hal, David Gyasi nel ruolo del ministro degli Esteri Austin Dennison, Ali Ahn nel ruolo dell’agente della CIA Eidra Park e Rory Kinnear nel ruolo del primo ministro Nicol Trowbridge. La seconda stagione di The Diplomat riprende dopo gli eventi del finale della prima stagione di The Diplomat, rivelando che Hal e Stuart, interpretato da Ato Essandoh, sono sopravvissuti, ma che Ronnie, interpretato da Jess Chanliau, è rimasto ucciso nell’esplosione insieme al membro del Parlamento Merritt Grove. Nel corso della seconda stagione di The Diplomat, sia Kate che Hal si avvicinano alla verità su Roman Lenkov e sui funzionari governativi dietro l’operazione sotto falsa bandiera.

Il colpo di scena più scioccante nel finale della seconda stagione di The Diplomat è che dietro l’attacco alla HMS Courageous c’era il vicepresidente degli Stati Uniti Grace Penn. Hal scopre inizialmente questa informazione da Margaret Roylin, anch’essa coinvolta nell’elaborata operazione sotto falsa bandiera. È stata Roylin, insieme ai membri del Parlamento britannico Merritt Grove e Lenny Stendig, ad assumere il mercenario russo Roman Lenkov per attaccare la HMS Courageous. L’attacco aveva lo scopo di infliggere danni minori e non avrebbe dovuto causare vittime britanniche. A causa di problemi di approvvigionamento, il Lenkov Group ha utilizzato esplosivi più potenti sotto forma di missili sottomarini.

Netflix ha già confermato la terza stagione di The Diplomat.

Il presidente Rayburn è morto, Grace Penn è ora presidente

Il presidente è morto dopo aver saputo la verità sul vicepresidente.

Kate scopre il piano del vicepresidente alla fine della seconda stagione di The Diplomat. Lei e Hal non riescono a tacere sapendo che Penn ha aggirato il presidente per autorizzare l’attacco alla HMS Courageous. Hal dice che parlerà con il Segretario di Stato Miguel Ganon, con cui ha un rapporto difficile e che occupa la posizione di Gabinetto che Hal desidera segretamente. Invece, Hal parla direttamente con il presidente Rayburn tramite una linea sicura all’Ambasciata di Londra, raccontandogli la verità sul vicepresidente, Margaret Roylin e Roman Lenkov. Questo sconvolge il presidente Rayburn, che era noto per avere problemi cardiaci, al punto da ucciderlo.CorrelatiChi ha fatto esplodere l’autobomba e ucciso Merritt Grove in The DiplomatI nuovissimi episodi della seconda stagione di The Diplomat rispondono finalmente alla domanda su chi abbia piazzato l’autobomba che ha ucciso Merritt Grove nell’esplosivo finale della prima stagione.Di Greg MacArthur31 ottobre 2024

Kate decide finalmente che vuole diventare vicepresidente entro la fine della seconda stagione di The Diplomat, solo per rendersi conto che il posto che pensava sarebbe rimasto vacante potrebbe non essere più disponibile. A causa della morte improvvisa del presidente Rayburn, il vicepresidente Penn è diventato il presidente Penn, motivo per cui alla fine dell’episodio si vedono decine di membri dei servizi segreti correre verso di lei. Le ultime parole di Penn a Kate come vicepresidente sono di tenere nascosta la verità per il bene di entrambi. Penn usa un tono molto severo con Kate, rivelando un lato di sé che non avevamo ancora visto.

Katherine Wyler diventerà vicepresidente?

Keri Russell in The Diplomat - Stagione 2

Il posto è ora vacante dopo la morte del presidente Rayburn

Secondo la sezione 2 del 25° emendamento, il presidente deve nominare qualcuno come vicepresidente se la carica è vacante, cosa che ora si verifica a causa della morte del presidente Rayburn. C’è una reale possibilità che la neoeletta presidente Penn nomini Wyler sua vice, poiché sarebbe meglio avere la nemica vicina, soprattutto quando è incline a diventare una whistleblower. Oltre al vantaggio strategico di nominare Kate sua vice, Penn stava iniziando ad apprezzare Kate prima di sospettare che avrebbe svelato la sua copertura sull’HMS Courageous. Con la notizia della morte del presidente, tuttavia, la questione dell’HMS Courageous può essere facilmente insabbiata.

Chi è stato responsabile dell’attacco all’HMS Courageous

Il vicepresidente Grace Penn ha ordinato l’attacco per ostacolare l’indipendenza della Scozia

È stato un membro del Parlamento di estrema destra di nome Lenny Stendig a piazzare la bomba nell’auto di Merritt Grove. Stendig aveva intenzione di eliminare solo il suo collega parlamentare Grove, e non Ronnie o qualsiasi altro membro del personale diplomatico americano, al fine di zittire Grove una volta per tutte. Margaret Roylin e Stendig temevano che Grove avrebbe raccontato a Hal e agli americani tutto del loro complotto contro Roman Lenkov, che prevedeva principalmente che Roylin tirasse le fila alle spalle del primo ministro Trowbridge. Alla fine, è stata la vicepresidente Grace Penn a orchestrare l’operazione sotto falsa bandiera per ostacolare l’indipendenza della Scozia.

Nicol Trowbridge è innocente, non ha assunto Roman Lenkov

Il primo ministro Trowbridge è stato il principale sospettato dietro Lenkov e l’attacco alla HMS Copuragoues per gran parte della seconda stagione di The Diplomat. Kate e il ministro degli Esteri Austin Dennison sospettavano che Trowbirdge avesse segretamente assunto Lenkov per ottenere vantaggi politici. In realtà, Roylin ha chiesto a Grove e Stendig di assumere Lenkov su richiesta di Grace Penn. Roylin vedeva il vantaggio per la reputazione politica del primo ministro Trowbirdge, mentre Penn era preoccupata di garantire la longevità della base nucleare di Creagan, in Scozia.

L’attacco alla HMS Courageous era finalizzato a impedire l’indipendenza della Scozia

Sia Roylin che Penn avevano interessi nazionalistici nell’operazione sotto falsa bandiera

Come Roylin ha osservato nella prima stagione di The Diplomat e Penn ha descritto a Kate nella seconda stagione, l’attacco alla HMS Courageous era finalizzato a unificare il Regno Unito e impedire alla Scozia di approvare un referendum per l’indipendenza. Roylin e Penn avevano motivi diversi per orchestrare l’operazione sotto falsa bandiera, ma entrambi erano di fondamentale importanza per le rispettive nazioni e governi. Per Roylin, l’unificazione della Scozia con l’Inghilterra contro un nemico comune come la Russia o l’Iran avrebbe riparato la reputazione del Primo Ministro. Per Penn, contrastare l’indipendenza della Scozia era un passo fondamentale per garantire la protezione dagli attacchi dei sottomarini nucleari russi alla costa orientale degli Stati Uniti.

Grace Penn, Creagan e i sottomarini nucleari russi spiegati

Grace Penn, Creagan e i sottomarini nucleari russi spiegati

Il vicepresidente Penn voleva assicurarsi che la base nucleare di Creagan in Scozia non potesse essere chiusa a causa della minaccia dell’indipendenza scozzese. La base nucleare di Creagan è l’ultimo punto geografico che gli Stati Uniti potrebbero utilizzare per rilevare una minaccia nucleare in arrivo da un sottomarino russo nella regione artica. Senza la base nucleare di Creagon, gli Stati Uniti diventerebbero molto più vulnerabili a una minaccia nucleare proveniente dai sottomarini russi. Di conseguenza, il vicepresidente Peen ha organizzato un evento che avrebbe unificato la Scozia e l’Inghilterra per eliminare la minaccia che la Scozia diventasse una nazione indipendente e chiudesse la base.

The Diplomat Stagione 3 Trama: cosa sappiamo finora

Il presidente Penn presterà giuramento alla Casa Bianca

Ora che Penn sarà il presidente degli Stati Uniti all’inizio della terza stagione di The Diplomat, potrebbe puntare a porre fine alla carriera di Kate e a zittirla, come lei e Roylin hanno fatto con Merritt Grove. Sarebbe sicuramente pericoloso per Kate continuare a rivelare la verità sull’HMS Courageous, soprattutto perché la morte del presidente Rayburn sarà una notizia molto più importante delle informazioni geopolitiche trapelate. Kate finirebbe per tradire il proprio Paese rivelando la verità, cosa che Hal probabilmente le sconsiglierebbe di fare.

Kate lavorerà probabilmente a stretto contatto con il presidente Penn nella terza stagione di The Diplomat in qualità di vicepresidente. Dovrà imparare a convivere con la dura realtà del suo nuovo ruolo, che nella seconda stagione è stato per lei un brusco risveglio, e comprendere la difficile decisione che Penn ha dovuto prendere, una decisione che Kate ha confermato che avrebbe preso lei stessa.

Il rapporto di Kate con Dennison sarà probabilmente teso, soprattutto se la verità dovesse venire alla luce per lui o per il primo ministro Trowbridge, il che sarebbe disastroso. La creatrice di The Diplomat, Debora Cahn, ha dichiarato a Netflix’s Tudum: “La terza stagione ribalta la situazione. Nella terza stagione, Kate vive l’incubo particolare di ottenere ciò che desidera”. Ciò implica che Kate finisce per diventare vicepresidente nella terza stagione.

The Outrun: recensione del film con Saoirse Ronan #RoFF19

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Diretto dalla regista tedesca Nora FingscheidtThe Outrun è un dramma che esplora i temi dell’alcolismo e della guarigione, attraverso il percorso di Rona, una giovane donna scozzese interpretata da Saoirse Ronan. Basato sul memoir del 2017 di Amy Liptrot, il film segue la protagonista mentre tenta di ricostruirsi, recuperando una vita spezzata dall’alcol e dall’isolamento, affrontando un percorso intimo, riflessivo e psicologicamente complesso.

The Outrun ci presenta una Rona a pezzi

Quando il pubblico incontra Rona, la protagonista è già ridotta a brandelli. Nora Fingscheidt ci mostra una giovane donna frammentata, che cerca di fuggire da sé stessa e dal caos interiore con cui è costretta a convivere. La scelta di ambientare buona parte del film nelle desolate isole Orcadi, un arcipelago remoto e austero nel nord della Scozia, è una metafora potente dello stato d’animo della protagonista. Le rocce scure, le onde sferzanti, e il paesaggio brullo diventano il riflesso della solitudine e della desolazione di Rona, rendendo l’ambiente stesso un personaggio che amplifica il senso di isolamento della protagonista. Le Orcadi diventano così luogo eletto per un atto di auto-riflessione e per un tentativo di rinascita, un luogo che invita al silenzio e alla contemplazione, ma che può anche mettere chi vi abita di fronte ai propri demoni.

Una straordinaria Saoirse Ronan

Rona è interpretata in modo straordinario da Saoirse Ronan, che si immerge nel personaggio con una dedizione impeccabile. La sua Rona è una donna tormentata, persa tra un passato caotico e un presente instabile, in lotta costante per la propria sanità mentale e fisica. Ma anche una donna dotata di grande sensibilità e desiderosa di ricostruirsi. La performance di Ronan è autentica, e si muove nel tempo mostrando i vari stadi di disfacimento di Rona, anche grazie a un montaggio illuminato e all’espediente scenico dei colore dei capelli. Questo infatti sembra mutare a seconda dello stato emotivo della protagonista, per indicare i diversi momenti del suo percorso di vita: le tonalità blu e acquatiche rappresentano i periodi di autodistruzione, mentre un biondo naturale indica una ricerca di stabilità e un rosso brillante appare nel finale, nel suo tentativo di abbracciare la natura e la solitudine delle Orcadi.

La dipendenza cliché narrativo sul quale è facile scivolare

Come molti film che trattano temi di dipendenza, The Outrun rischia talvolta di cadere nella ripetizione, come purtroppo è la vita di chi cerca di fuggire da questo tipo di mostri. Fingscheidt riesce a distinguersi grazie a uno stile visivo evocativo, che usa immagini suggestive, e punta tutto sull’immersione della protagonista nella natura incontaminata e selvaggia che la circonda. Le Orcadi rappresentano un rifugio, un santuario per la protagonista, che in cerca di isolamento, qui tenta di ricostruire sé stessa e trovare un equilibrio. La natura diviene culla di rinascita e simbolo di un’umanità perduta, che cerca di riallacciare le sue origini a quelle mitologiche di quei posti. In più di un’occasione fanno capolino le storie delle selkie, creature mitologiche metà foca e metà donna che incarnano l’idea di trasformazione e rinascita.

Il film lascia anche molto spazio alla rappresentazione dell’ambiente in cui Rona è cresciuta, non tanto per andare a ricercare il germe della sua debolezza, quanto per costruire intorno alla ragazza una rete di rapporti che in qualche modo ne hanno condizionato le scelte di vita.

The Outrun è un’opera intensa che si fonda totalmente sulla performance di Saoirse Ronan che con questa pellicola colleziona un altro ruolo spettacolare. delle interpretazioni e per la cura estetica della regia. Fingscheidt riesce a evitare la retorica, esplora la solitudine e la vulnerabilità di Rona senza pietismo, con uno sguardo empatico e onesto. Il film è un ritratto femminile di autodeterminazione, un racconto di sofferenza e di riscoperta di sé, in cui Saoirse Ronan brilla come protagonista in un ruolo che esalta la sua capacità di incarnare fragilità e forza di una donna in cerca di redenzione.

Bring Them Down: recensione del film con Christopher Abbott

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Esordio al lungometraggio per il cinema del regista irlandese Christopher AndrewsBring Them Down, è stato presentato alla diciannovesima Festa del Cinema di Roma, e ci porta nel cuore dell’Irlanda rurale, dove il ritmo lento della vita agricola si contrappone nettamente alle passioni violente e ai conflitti tra personaggi. Nel cast, troviamo i talentuosi Christopher Abbott e Barry Keoghan.

 

La sequenza di apertura di Bring Them Down

La sequenza d’apertura segna subito la cifra stilistica e tematica del film: all’interno di un’automobile, si assiste a un momento di crisi familiare che culmina in un atto di violenza drammatico e privo di redenzione. Il giovane Michael, sconvolto dalla confessione della madre che intende abbandonare la famiglia a causa del marito, reagisce schiantando l’auto volontariamente. Andrews costruisce un crescendo di tensione emotiva senza mai mostrare il protagonista direttamente, ma filtrando la scena attraverso il suo punto di vista e quello dei familiari. Questa scelta iniziale non solo introduce la brutalità che pervade la storia, ma sottolinea il tema della privazione e della solitudine che perseguiterà Michael per tutta la vita.

Vent’anni dopo, ritroviamo Michael (interpretato da Christopher Abbott) che gestisce, quasi in solitudine, la fattoria di famiglia. L’azione scorre lentamente, ma l’arrivo di Jack (Barry Keoghan), figlio dell’ex fidanzata di Michael, scatena un nuovo ciclo di violenza e vendetta. Il furto di due montoni, mutilati per rivalità tra famiglie, diventa il punto di rottura, portando Michael a reagire in modo feroce per proteggere ciò che resta della sua eredità e della propria identità. La narrazione è fortemente influenzata dal senso di desolazione, arricchita da paesaggi mozzafiato e grigi della campagna irlandese. Andrews riesce a rendere tangibile la sensazione di isolamento e claustrofobia attraverso un gioco di inquadrature che esaltano l’inospitale bellezza della natura e la sua indifferenza.

Un andamento temporale simile a Rashomon

Una delle caratteristiche distintive di Bring Them Down è il suo impianto narrativo, che rispecchia uno stile in cui la storia viene rivelata secondo più punti di vista. Il regista sfrutta questo schema, che strizza l’occhio a Rashomon, per raccontare gli eventi da diverse prospettive, soprattutto quelle di Michael e Jack. Questa scelta mette in luce il dualismo tra vittima e carnefice, ma al contempo pone interrogativi sull’ambiguità morale dei protagonisti. In questa dimensione sospesa, dove non esiste una netta distinzione tra bene e male, emerge un’umanità esasperata dalla fatica di una vita che non concede tregua né vie di fuga.

Se da un lato la messa in scena della natura selvaggia contribuisce a creare una forte atmosfera, dall’altro il ritmo del film è insolito. Andrews sceglie di dilatare i tempi narrativi, con una tensione che si accumula senza mai esplodere in un climax risolutivo.

Christopher Abbott e Barry Keoghan sono i protagonisti

Per quanto riguarda le interpretazioni, Christopher Abbott offre una performance intensa e sfaccettata, incarnando un uomo che sembra aver perso tutto, a partire dalla sua stessa umanità. La sua frustrazione e il dolore sono palpabili e danno profondità a un personaggio tormentato e incapace di emanciparsi da un passato distruttivo. Barry Keoghan, nel ruolo di Jack, rappresenta il contrasto tra giovinezza e violenza, contribuendo a definire il microcosmo rurale di Andrews come un universo privo di speranza e pieno di rancore. Il suo personaggio agisce con una brutalità che appare insensata e impulsiva, riflettendo l’ambiente soffocante in cui è cresciuto.

Bring Them Down è un thriller atipico e impegnativo, che esplora le ombre più profonde dell’animo umano attraverso un racconto di vendetta e solitudine. Andrews dimostra una grande abilità nel dipingere un mondo senza pietà, anche se il film sembra, alla fine, più interessato a mostrare la ferocia della natura che a offrire una vera redenzione ai suoi protagonisti.

 

Beauty in Black – Parte 1, la spiegazione del finale: Horace e Kimmie si sposeranno davvero?

Dal ricatto ai danni di Kimmie alla nascente storia d’amore che Mallory nega, ci sono molte rivelazioni sconvolgenti nel finale della prima stagione di Beauty in Black. Beauty in Black è l’ultimo progetto che Tyler Perry ha realizzato nell’ambito del suo accordo pluriennale con Netflix. Il cast di Beauty in Black è guidato da Crystle Stewart e Taylor Polidore Williams, che interpretano due donne molto diverse tra loro, le cui vite molto diverse si scontrano in modi inaspettati. La prima stagione è stata pubblicata su Netflix il 24 ottobre e consiste in otto episodi della durata di un’ora (altri otto sono in arrivo nella primavera del 2025).

La serie ruota attorno a Kimmie, che sta lottando per sopravvivere dopo essere stata cacciata di casa dalla madre, e Mallory, che gestisce con successo la sua attività di cura dei capelli. Kimmie vuole disperatamente fuggire dal mondo squallido dello strip club in cui lavora, mentre l’impero di Mallory è minacciato da segreti di famiglia e da un fastidioso avvocato. Queste trame parallele portano a una serie di colpi di scena scioccanti nel finale: stagione 1, episodio 8, “Killing Karma”.

Perché Horace lascia davvero andare Kimmie e Angel

Quando ha saputo del giudice corrotto, ha capito di avere problemi più grandi

Il finale della prima stagione di Beauty in Black ha un inizio esplosivo, con una banda di uomini armati e mascherati che prendono in ostaggio Kimmie e Angel mentre tentano di rapinare la cassaforte di Horace. Horace estrae una pistola e uccide tutti i ladri prima che possano scappare. Inizialmente sospetta che Kimmie sia dietro la rapina, ma Angel si prende la colpa. Mentre Horace li pressa per sapere la verità, i due rivelano che avevano pianificato di rapinarlo per ottenere abbastanza soldi per fuggire dal club e iniziare una nuova vita.

Beauty in Black riunisce Tyler Perry con diversi suoi ex collaboratori, tra cui Crystle Stewart e Debbi Morgan.

Quando Kimmie spiega che Jules è il loro protettore e che ha usato un giudice corrotto sul suo libro paga per far cadere le accuse penali a loro carico, Horace decide di lasciarli andare. Horace dice loro di andarsene e di non dire a nessuno che l’hanno incontrato. Quando hanno menzionato il giudice, ha capito che aveva problemi ben più gravi di cui preoccuparsi. Più tardi menziona Harold Wiscollins, un giudice che lui e suo fratello conoscevano, e chiede a Jules se Harold è ancora in carica e se è ancora in contatto con lui. Jules risponde di no, ma Horace non si fida di lui.

I sentimenti di Mallory per Calvin e le sue esitazioni nella loro storia d’amore spiegati

Durante tutta la prima stagione di Beauty in Black, Mallory ha una relazione con il suo autista Calvin. Ma quando lui le confessa di essere innamorato di lei, Mallory è riluttante ad affrontare i suoi sentimenti romantici e lo caccia di casa. L’esitazione di Mallory a impegnarsi seriamente con Calvin si ricollega al tema generale della serie, il classismo. Lei è un’elitista che non vuole prendere sul serio la sua relazione con Calvin perché lui è un autista. Quando la serie tornerà nella primavera del 2025, Mallory potrebbe finalmente affrontare i suoi sentimenti per Calvin e iniziare una relazione seria con lui.

Chi ha cercato di rapinare Horace?

Dopo che Horace ha ucciso i suoi aspiranti rapinatori, Jules scende per ripulire la scena del crimine, come Winston Wolf in Pulp Fiction. Jules scopre che uno dei ladri ha nel portafoglio un biglietto da visita di una società di casseforti, la stessa che ha installato la cassaforte. Jules conclude che i tizi che hanno consegnato la cassaforte sono tornati per rubarla. Tuttavia, Jules non mostra mai il biglietto da visita a Horace, quindi potrebbe essersi inventato tutto per coprire il proprio ruolo nella rapina pianificata.

Perché Mallory e Roy offrono entrambi un lavoro a Lena

Lena è un avvocato le cui scoperte sull’impero dei prodotti per capelli di Mallory potrebbero mettere nei guai la famiglia Bellarie e mandare in rovina l’azienda. Nel finale della prima stagione, Roy incontra Lena in un ristorante e le offre un lavoro nel reparto legale. Poi Mallory li affronta, tira fuori una sedia, usa le sue conoscenze per costringere Roy a lasciare l’edificio e fa a Lena la stessa offerta. Quando Lena le dice che Roy le ha appena offerto la stessa posizione, Mallory sembra sinceramente impressionata dal fatto che suo cognato, solitamente ottuso, abbia escogitato lo stesso piano diabolico di lei.

Entrambi stanno cercando di comprarla, sperando che se le danno un lavoro in azienda, lei smetterà di cercare di distruggerla. Ma Lena insiste che non può essere comprata e che “non si tratta di soldi”. Mallory ride e non crede che sia possibile. Questo è uno dei temi centrali della serie: i ricchi pensano che tutti i loro problemi possano essere risolti con il denaro, ma non è così quando hanno a che fare con qualcuno integro.

Chi ha distrutto l’auto di Charles?

Il penultimo episodio della prima stagione di Beauty in Black si è concluso con la distruzione dell’auto sportiva gialla di Charles. Verso la fine del finale, Mallory è scioccata nel trovare l’auto di Charles in fiamme sulla strada privata, con la polizia che indaga su un possibile attacco. Nell’ultimo episodio, l’auto di Charles è stata colpita sul lato della strada e fatta esplodere da un gruppo di uomini armati e mascherati. Questi aggressori mascherati sembravano lo stesso gruppo che ha cercato di rapinare Horace, apparentemente assoldato da Jules, quindi tutto potrebbe ricondurre a Jules.

Perché Body ha rapito Sylvia

Nella scioccante scena finale della prima stagione di Beauty in Black, Kimmie e Angel vengono affrontate da Body. Dopo aver frainteso completamente gli eventi recenti, Body pensa che Kimmie stia cercando di usurpare il suo posto nel club. Body rivela di aver fatto rapire Sylvia, la sorella adolescente di Kimmie, che userà per ricattare Kimmie affinché si tolga di mezzo e faccia tutto ciò che vuole. Tuttavia, il piano fallisce perché Kimmie attacca Body e inizia a picchiarla.

Questo conclude la stagione con un finale mozzafiato e solleva una serie di domande. Body è morta? Jules darà la caccia a Kimmie? Sylvia starà bene?

Quando Body le punta un coltello e minaccia di chiamare Jules per ucciderla, Kimmie sale in macchina e investe Body. La stagione si conclude con un finale mozzafiato che lascia con un sacco di domande. Body è morta? Jules darà la caccia a Kimmie? Sylvia starà bene? Una cosa è chiara: Kimmie non accetterà questo ricatto. Farà tutto il necessario, anche investire chiunque con la sua auto, per riavere sua sorella.

Il vero significato della bellezza nel finale della prima stagione di Beauty in Black

Il finale della prima stagione di Beauty in Black è il culmine dei temi alla Saltburn sulla classe sociale trattati nella serie. Tutto ruota attorno ai ricchi che cercano di esercitare il loro potere sui poveri. Sia Mallory che Roy pensano che Lena possa essere comprata, perché è una “fottuta povera”, ma Lena ha un’integrità inaspettata. Il finale contrappone la disperazione delle persone in difficoltà finanziaria alla disperazione dei ricchi. I personaggi in difficoltà finanziaria, come Kimmie e Angel, sono disposti a tutto pur di racimolare abbastanza soldi per sopravvivere, mentre i personaggi ricchi, come Mallory, sono disposti a tutto pur di mantenere la loro ricchezza.

La legge di Lidia Poët 2: recensione della serie con Matilda De Angelis

La seconda stagione di La legge di Lidia Poët è pronta ad arrivare su Netflix dal 30 ottobre e avanzando nella narrazione, offre la possibilità di godere di un personaggio più adulto, così come risulta più coeso il secondo ciclo rispetto al primo, meno maturo e a tratti forzato. Abbandonate alcune delle esagerazioni stilistiche e narrative iniziali, la serie si avventura in un racconto che riesce a trovare un equilibrio tra il dramma storico, il giallo investigativo e la riflessione sociale, sempre attuale. E lo fa con un tono naturale e credibile, che dà più sostanza e qualità alla trama e ai personaggi.

La trama di La legge di Lidia Poët Stagione 2

La storia si riapre con Lidia (Matilda De Angelis), trasferitasi con il fratello avvocato Enrico (Pier Luigi Pasino) e la sua famiglia in una nuova abitazione, a seguito della vendita della casa di famiglia da parte di Jacopo (Eduardo Scarpetta). Questo cambiamento non è solo fisico e logistico, ma anche simbolico: rappresenta l’inizio di una nuova fase nella vita di Lidia, una donna sempre più determinata a sfidare le ingiustizie di genere in una società che non riconosce né rispetta i diritti delle donne. Sebbene radiata dall’albo, Lidia continua a collaborare con Enrico in numerosi casi, e la sua lotta per l’uguaglianza dei diritti si intensifica, alimentata dall’interesse per il movimento delle suffragette.

La seconda stagione di La legge di Lidia Poët riesce a migliorare un aspetto che nella prima aveva fatto fatica a decollare: pur replicandone la struttura di episodi autoconclusivi legati tra loro da una trama orizzontale, questa volta lo svolgimento dei fatti che costruiscono il racconto che percorre tutta la stagione sono molto più ordinati e chiari rispetto al primo ciclo, con il risultato che la serie risulta più avvincente. Il misterioso suicidio di un amico di Lidia e Jacopo diventa il fil rouge della stagione, diventando a tutti gli effetti non solo il principale veicolo di tensione, ma anche un modo per raccontare l’evoluzione dei personaggi stessi, data la natura intima del rapporto dei protagonisti con la vittima.

Ritmo e dinamiche di personaggi

Questa maggiore coesione del racconto orizzontale, che si inframezza con naturalezza nei singoli casi che di episodio in episodio vengono sottoposti alla brillante mente di Lidia influenza in maniera evidente il ritmo della narrazione. Si mette da parte quindi l’esigenza di stupire a tutti i costi che sembrava avere la prima stagione, in favore di un gusto per il racconto molto più fluido e avvincente. Dal primo episodio gli elementi in gioco sono tanti e tutti contribuiscono a costruire un quadro ricco e stratificato: Lidia e Jacopo costretti a lavorare insieme, il rancore della famiglia, un omicidio che avvicina i protagonisti. La complessità relazionali della prima stagione si stratificano e Lidia comincia a capire davvero qual è il prezzo della libertà di cui necessita per portare avanti la sua battaglia. È chiaro poi che, conoscendo già gli attori in gioco, la serie non deve perdersi in convenevoli per presentarli al pubblico e li lancia immediatamente nell’azione.

Matilda De Angelis è magnetica

Matilda De Angelis conferma la sua versatilità. Se poche settimane fa l’abbiamo vista fare la James Bond su Prime Video, adesso la piattaforma della N rossa ce la restituisce in corsetti e cappellini, ma quello che non cambia è il suo magnetismo. Oltre al fattore estetico, innegabilmente dalla sua perte, De Angelis riesce a infondere una naturale ironia al suo personaggio, il che ne smussa gli spigoli, rendendo anche quelli gradevoli. Lidia Poët è irresistibile. La sua voce roca e il suo atteggiamento anticonformista la fanno camminare in equilibrio tra passato e presente, tra la contemporaneità e la modernità, sempre credibile e in parte.

Chiaramente non è sola! Con lei tornano Eduardo Scarpetta e Pier Luigi Pasino contraltari perfetti alla sua energia. New entry della serie è Gianmarco Saurino come il procuratore del Re Fourneau, un uomo giusto e aperto, che nonostante il ruolo istituzionale riconosce il valore di Lidia. A questo personaggio viene affidato non solo il compito di aggiungere un ulteriore punto di vista alla storia e su Lidia stessa, ma rappresenta anche una possibile apertura verso un mondo in cui le qualità delle persone vengono riconosciute indipendentemente dal genere. Un personaggio forse troppo moderno per l’epoca, ma che parla benissimo a noi oggi.

La serie continua a parlare alla nostra società

E a proposito di “epoca”, la serie riesce a trattare temi profondamente rilevanti, come l’emancipazione femminile e il diritto di voto per le donne, senza scadere in toni didascalici. Lidia non combatte solo per il riconoscimento professionale che ormai sembra inarrivabile (l’Albo degli Avvocati sembra allontanarsi per sempre), ma per il cambiamento di un’intera società che guarda con sospetto l’evoluzione della donna. Attraverso diversi personaggi, La legge di Lidia Poët offre una riflessione sull’importanza di avere il coraggio di sfidare le convenzioni sociali ma anche il proprio ruolo e i propri limiti: da Enrico, a Lidia, passando per Marianna e Teresa, ogni personaggio trova il modo di oltrepassare i limiti del loro ruolo per costruire un pezzetto di modernità.

Un’eroina affascinante

Ogni episodi di La legge di Lidia Poët racconta un caso particolare e per ogni situazione le circostanze sono ricche e diverse, avvincenti, oscure ma senza mai mettere completamente da parte quello spirito ironico che anima la protagonista.

Certo è che la serie non può dirsi un manuale di storia, ma per fortuna la fiction ci consente di chiudere un occhio su queste incongruenze, un favore di un intrattenimento genuino che prova anche a parlare alla testa dello spettatore. Lidia Poët non è solo un’avvocata che combatte contro le ingiustizie, ma diventa anche figura simbolica, rappresenta la determinazione e il coraggio di tutte le donne che hanno lottato per l’uguaglianza e che ancora lo fanno.

Avvocato di difesa – The Lincoln Lawyer – Stagione 3, la spiegazione del finale

Nella terza stagione della serie Avvocato di difesa – The Lincoln Lawyer di Netflix, Mickey Haller (Manuel Garcia-Rulfo) si trova ad affrontare uno dei casi più difficili della sua carriera, sia dal punto di vista professionale che personale, quando accetta di difendere Julian La Cosse (Devon Graye), un tecnico accusato dell’omicidio di Gloria Dayton (Fiona Rene), un personaggio già apparso nella serie. Per Mickey, Gloria Dayton era una prostituta che si faceva chiamare Glory Days e che lo aveva aiutato in un caso precedente fornendogli informazioni sul boss del cartello Hector Moya (Arturo Del Puerto).

Sfruttando le sue competenze tecnologiche, Julian aiutava Glory a trovare clienti e a fissare appuntamenti in modo sicuro. Sapendo che il suo legame con Glory potrebbe aver causato la sua morte per mano del cartello, Mickey accetta il difficile compito di scoprire l’identità dell’assassino di Gloria, che si rivelerà il modo migliore per scagionare Julian. Nonostante i suoi migliori sforzi, alla fine della terza stagione Mickey si ritrova in una situazione più precaria che mai, grazie al colpo di scena finale che coinvolge il Lincoln Lawyer.

Mickey Haller scopre un nuovo segreto su un vecchio amico

Mickey capisce subito che Gloria non aveva intenzione di tornare alle Hawaii dopo il loro ultimo incontro. Invece, Gloria era già coinvolta con il cartello. Le indagini di Mickey sulle attività di Gloria hanno portato alla rivelazione che Gloria era già stata incaricata dall’agente della Drug Enforcement Administration (DEA) James DeMarco (Michael Irby) di divulgare informazioni su Hector Moya. Quindi, non è stata l’insistenza di Mickey a mettere Gloria nei guai, perché era già sotto il controllo di DeMarco. L’indagine di Mickey si complica quando l’investigatore dell’ufficio del procuratore distrettuale si rivela essere Neil Bishop (Holt McCallany), che aveva già incrociato Mickey in precedenza quando questi aveva sfruttato una scappatoia legale per far uscire di prigione un criminale nonostante fosse consapevole della sua colpevolezza. Le riprese delle telecamere di sicurezza dell’hotel dove Gloria avrebbe dovuto incontrare uno dei suoi clienti il giorno della sua morte rivelano che Gloria era stata seguita dal detective Bishop. La possibilità di un forte legame tra il detective Bishop e l’agente DeMarco diventa il punto di svolta nel mistero che circonda la morte di Gloria Dayton in Avvocato di difesa – The Lincoln Lawyer – Stagione 3. Prima del finale, Mickey capisce che è l’agente DeMarco il responsabile della morte di Gloria e non Hector Moya, che è stato ingiustamente incarcerato dopo che l’agente DeMarco ha aiutato a fabbricare prove contro di lui.

Il finale della terza stagione di Avvocato di difesa – The Lincoln Lawyer rivela il retroscena della relazione di lunga data tra il detective Bishop e l’agente DeMarco. Dieci anni fa, l’agente DeMarco si era rivolto al detective Bishop in relazione a un duplice omicidio, legato a uccisioni di cartelli, al lago Balboa. Nel tentativo di impedire al detective Bishop di proseguire le indagini sul caso, l’agente DeMarco aveva offerto una grossa somma di denaro a Bishop, che aveva bisogno di un incentivo considerando il suo imminente divorzio. Sapendo che solo la testimonianza di Bishop avrebbe potuto smascherare il coinvolgimento di DeMarco nella morte di Gloria, Mickey mostra al detective Bishop il video che riprende lui e l’agente DeMarco mentre piazzano della droga nella casa di un testimone. Anche se il detective Bishop sembra non essere a conoscenza delle azioni dell’agente DeMarco all’interno della casa, è chiaro che le prove sono sufficienti per incastrarlo. In cambio della non divulgazione del video al pubblico, Mickey chiede al detective Bishop di testimoniare per smascherare il ruolo diretto dell’agente DeMarco nel brutale omicidio di Gloria Dayton.

Il detective Bishop apre un vaso di Pandora nell’ultima udienza della terza stagione

Avvocato di difesa - The Lincoln Lawyer - Stagione 3 Netflix
Lara Solanki/Netflix

Una volta salito sul banco dei testimoni, il detective Bishop inizia a rivelare i dettagli degli eventi che hanno portato alla morte di Gloria. Viene rivelato che era stato incaricato dall’agente DeMarco di occuparsi del caso della morte di Gloria. L’agente DeMarco ricattava il detective Bishop affinché facesse il lavoro sporco per lui da quando il detective Bishop aveva accettato i soldi per insabbiare gli omicidi legati al cartello dieci anni prima.

Su ordine dell’agente DeMarco, il detective Bishop ha fissato un appuntamento con Gloria usando il nome di un ospite reale. Ha poi seguito Gloria fino a casa sua, dove ha chiamato l’agente DeMarco per comunicargli la posizione. Prima che l’agente DeMarco arrivasse, Julian ha fatto visita a Gloria e se n’è andato 15 minuti dopo. Al suo arrivo, l’agente DeMarco ha chiesto al detective Bishop di andarsene ed è entrato nell’edificio di Gloria da un lato per evitare la telecamera di sicurezza all’ingresso. Secondo la testimonianza del detective Bishop, quando ha chiesto all’agente DeMarco della morte di Gloria, questi gli ha detto che Gloria era morta prima del suo arrivo e che aveva dato fuoco all’appartamento per distruggere qualsiasi prova che potesse collegarla a lui. Tuttavia, a questo punto, è chiaro che tutti sanno che l’agente DeMarco è il responsabile della morte di Gloria.

La confessione del detective Bishop lascia tutti in aula sbalorditi, compresi il procuratore Bill Forsythe (John Pirruccello) e il giudice Regina Turner (Merrin Dungey). Con i suoi segreti ora alla mercé della legge e dell’opinione pubblica, il detective Bishop estrae la sua seconda arma nascosta e si spara in mezzo all’aula. Più tardi, l’amore di Mickey nella terza stagione, Andrea Freeman (Yaya DaCosta), suggerisce a Mickey che non è stata colpa sua se il detective Bishop si è suicidato. I legami tra la polizia di Los Angeles e i federali sono così profondi che l’uno non può esistere senza l’altro. Mickey incontra poi Julian e il suo ragazzo David (Wole Parks) per dare loro la notizia che il processo è stato archiviato e Julian è ora libero. D’altra parte, Andrea informa il suo capo, il nuovo procuratore distrettuale Adam Suarez (Philip Anthony-Rodriguez), che ha finito di svolgere il compito di calendario come punizione per l’errore commesso in precedenza con Deborah Glass (Rebekah Kennedy). Chiede di essere assegnata al caso Scott Glass o di essere licenziata.

Cosa è successo all’agente DeMarco alla fine della terza stagione?

Con Mickey che aiuta Julian a ottenere la giustizia che merita, Avvocato di difesa – The Lincoln Lawyer inizia a concentrarsi sugli eventi che alla fine ne plasmeranno il futuro. Per fortuna di Mickey, sua figlia Hayley (Krista Warner) perdona Mickey per le sue azioni passate dopo che lui ha aiutato a salvare Julian. Malconcio dagli eventi recenti, Mickey decide di non mollare, considerando che ora si rende conto del bene che può fare attraverso la sua professione se aiuta le persone giuste.

Durante tutta la stagione, Mickey ha allucinazioni e combatte una battaglia emotiva interiore. Alla fine della terza stagione, Mickey si rende conto che diventare un avvocato di successo a Los Angeles ha un prezzo molto alto, che deve essere pagato con la sua coscienza.

Alla fine della terza stagione di Avvocato di difesa – The Lincoln Lawyer, Mickey ottiene un’altra vittoria per sé e per Julian negoziando un ingente risarcimento con l’ufficio del procuratore distrettuale. Con l’aiuto del suo investigatore Cisco (Angus Sampson), Mickey dimostra che l’agente DeMarco lavorava segretamente per il cartello di Juárez, mentre si occupava solo dei casi contro il cartello rivale di Tijuana. Dopo essere stato visto l’ultima volta nella sequenza dell’inseguimento in cui Cisco seguiva l’agente DeMarco, la sua prossima apparizione si rivela piuttosto macabra, poiché Hector Moya invia a Mickey una fotografia del cadavere dell’agente DeMarco appeso con un serpente a sonagli intorno. Con la copertura dell’agente DeMarco smascherata, era solo questione di tempo prima che Hector Moya, ora rilasciato, tornasse da lui per vendicarsi di tutto il male che l’agente DeMarco gli aveva causato. Hector assicura anche a Mickey che può rilassarsi tranquillamente senza preoccuparsi del cartello di Juárez per cui lavorava l’agente DeMarco.

Il colpo di scena finale della terza stagione prepara la quarta stagione di Avvocato di difesa – The Lincoln Lawyer

Verso la fine dell’ultima stagione di Avvocato di difesa – The Lincoln Lawyer, sembra che Mickey sia pronto a proseguire sulla via del bene, considerando che gli errori del passato sono stati riparati. Con il peso del passato alle spalle, Mickey sembra finalmente godersi una meritata tregua, finché un agente di polizia non ferma la sua auto. A quanto pare, la targa mancante, che secondo Mickey potrebbe essere stata rubata, deve aver attirato l’attenzione dell’agente. Tuttavia, le cose prendono una piega molto più seria nella stagione 4, quando l’agente di polizia fa notare a Mickey il sangue che gocciola dal bagagliaio della sua auto. Nonostante i tentativi di Mickey di evitare una perquisizione, l’agente apre il bagagliaio e scopre il corpo senza vita di Sam Scales (Christopher Thornton), un personaggio ricorrente e un truffatore che in origine era il cliente di Jerry Vincent (Paul Urcioli).

Con questo colpo di scena finale, Avvocato di difesa – The Lincoln Lawyer si prepara alla quarta stagione che sarà incentrata su “The Law of Innocence” di Michael Connelly nella serie di libri Lincoln Lawyer. È chiaro che qualcuno sta cercando di incastrare Mickey Haller, il che sembra naturale considerando quanti nemici si sono attirati le azioni di Mickey. In una potenziale quarta stagione, Mickey dovrà difendersi contro ogni previsione, considerando che è riuscito a far arrabbiare alcune persone davvero pericolose, tra cui cartelli della droga, con le sue azioni nella terza stagione.

L’amica Geniale – Storia della bambina perduta: recensione dei primi due episodi

Presentata in anteprima nel ricco programma della Festa di Roma 2024 con i primi due episodi proiettati alla presenza di cast e pubblico, L’Amica Geniale, tetralogia di Elena Ferrante, arriva alla sua quarta stagione che traspone per la tv il quarto e, appunto, ultimo libro della saga, Storia della bambina perduta.

Dove eravamo rimasti?

Avevamo lasciato le due donne distanti, entrambe alle prese con una nuova vita: Lila con Enzo, il piccolo Gennarino, e un obbiettivo preciso, quello di aprire un’azienda con le sue sole forze, di diventare finalmente il capo di se stessa; Lenù con Nino, quando si accorge che l’amore di tutta una vita è finalmente alla sua portata e non ci pensa troppo prima di lasciare marito e figlie e volare via con lui. La terza stagione dell’amica geniale era finita proprio lì, sul quel volo verso la libertà e una vita di peccato accanto a Nino (Fabrizio Gifuni), con l’immagine di quel riflesso che aveva finalmente svelato al mondo che l’ultima trasformazione di Elena Greco sarebbe stata affidata a Alba Rohrwacher che, a dire la verità, ne era sempre stata la voce, lenta e calda, che ha accompagnato gli spettatori nel fuori campo delle tre stagioni precedenti.

La separazione e Dispersione sono i capitoli 25 e 26 di questo lungo romanzo di formazione, le prime due puntate della quarta e ultima stagione de L’Amica Geniale, che andrà in onda dall’11 novembre su RaiUno per 5 serata, fino al 9 dicembre. E appunto di separazione parla il primo episodio, in cui seguiamo principalmente Elena alle prese con la sua nuova vita, mentre si è lasciata alle spalle il matrimonio con Pietro e, temporaneamente, persino le figlie Dede e Elsa, affidate alle cure della suocera. Per loro è necessario un ambiente regolare e rassicurante, con regole e rituali, cosa che lei, nella sua vita da amante di Nino Sarratore, non può garantire alle figlie.

Elena è l’eroina tragica di un racconto drammatico, una donna che negli anni Settanta lascia marito e figlie perché “vuole bene a un altro”. Quella consapevolezza la travolge quando lo dice a alta voce a sua madre, intervenuta per cercare di farla riappacificare con Pietro, che in questo scenario viene dipinto forse come troppo mite e accondiscendente, se pure naturalmente contrariato. Lenù è divisa in due, tra senso del dovere di madre e ambizione professionale che può coltivare a pieno solo nella libertà accanto a Nino, il quale è per lei sogno e passione, ma anche dubbio e dolore.

L’Amica Geniale: storia di madri, di corpi, di lotta

La Elena di Alba Rohrwacher smette di subire le decisioni degli altri, ma questa risoluzione ha un prezzo, e lo vediamo nella fatica che fa il personaggio a tenere tutto insieme, non volendo rinunciare né all’amore per Nino né a quello per le figlie, che pian piano sembra ridestarsi più forte di quanto non sia mai stato. Dopotutto L’Amica Geniale è sempre stata una storia di donne, di amiche, certo, ma anche di madri, di corpi, di consapevolezza, rinuncia e lotta.

La lotta è molto presente nella serie, che sia personale o di classe, come per le altre stagioni, anche in questo caso L’Amica Geniale si fa megafono per la situazione storica del Paese e non risparmia nessun dettagli di quell’epoca turbolenta: i morti, la violenza, il rapimento Moro. Lo sfondo della vicenda di Elena e Lila è estremamente vivido e invadente e per questo, anche se la regista Laura Bispuri si concentra sui volti, le mani e le persone, sul suo nuovo cast, tra cui Stefano Dionisi, Lino Musella, Edoardo Pesce, la Storia viene sempre fuori e si fa sentire.

Dispersione invece racconta principalmente la diaspora di Elena che lascia le sue certezze, ancora una volta e scappa a Milano da Maria Rosa, sorella di Pietro e sua grande amica, che la accoglie con le ragazze e le offre un posto sicuro. Non abbastanza da sfuggire però a Lila. L’amica che è rimasta al rione ed è diventata una imprenditrice invischiata con la camorra, la cerca di continuo per metterla in guardia da Nino. Anche lei è caduta nel suo inganno, ma questa volta ci sono di mezzo figli, matrimoni e soprattutto una moglie che l’uomo non accenna a lasciare. Il racconto si deve spostare a Napoli, nel rione, per poter finalmente dare corpo alla presenza ingombrante di Lila, che nel frattempo ha acquisito il volto di Irene Maiorino, nata per questo ruolo e per succedere a Gaia Girace. La somiglianza tra le due è davvero impressionante e il passaggio di testimone appare naturale, anche grazie alla capacità interpretativa di Maiornio che raccoglie la sua eredita e la sviluppa a modo suo.

La forza e la durezza di Lila non bastano a Elena per allontanare Nino. La donna accetterà di essere una compagna parallela, una moglie part-time, pur di stare con lui, e questa sua decisione, certamente non facile ma urgente, la riporterà a Napoli, vicino al rione, a sua madre, a quella miseria e quella ignoranza dalla quale pensava di essere scappata. Elena è di nuovo “a casa” e la prossimità con Lila tornerà a essere necessaria e ingombrante. Farà i conti con il suo passato e forse troverà la forza di essere indulgente verso quei luoghi e quella miseria che non conoscono altro che se stessi.

Anora: recensione del film di Sean Baker #RoFF19

Arriva alla 19° Festa di Roma con in mano già la Palma d’oro dell’ultimo Festival di Cannes Anora, la commedia di Sean Baker che riscrive le regole del romance e porta nella contemporaneità la fiaba di quella “gran culo di Cenerentola” che nel 1990 aveva il sorriso e le gambe lunghissime di Julia Roberts e che nel 2024 ha invece il corpo minuto e sensuale di Mikey Madison, stripper e prostituta newyorkese che cerca la fortuna tra una lap dance e un privé.

La storia di Anora, Cenerentola moderna

La vita di Ani (come le piace farsi chiamare) procede in maniera abbastanza regolare, tra vita notturna nello strip-club di Manhattan, e giornate passate a dormire e a recuperare energie. Una sera al locale dove lavora, data la sua capacità di parlare russo per via delle sue origini (la nonna era un’immigrata uzbeka), le viene affidato un cliente molto ricco: il suo coetaneo Ivan, detto “Vanja”, viziatissimo rampollo di un oligarca russo, che, attratto dalla ragazza, le offre 15 000 dollari per essere la sua fidanzata per una settimana. I due trascorrono dei giorni folli, divertendosi come non mai, guidati dal brio di Ani e dai soldi di Vanja, dediti solo a soddisfare le proprie voglie, di ogni tipo.

Fino a che a Las Vegas i due decidono di sposarsi: in questo modo lui non sarà costretto a rientrare in Russia dai genitori preoccupati, e lei avrà finalmente una vita agiata e serena, che le permetterà di lasciare il suo lavoro. Sembrerebbe proprio la fiaba di Pretty Woman citata sopra, se non fosse che siamo nel 2024 in un film di Sean Baker, e quindi qualcosa va storto e per Ani e Vanja arriva il momento di pagare il conto di quella settimana di baldoria e di quel matrimonio avventato.

Dopo lo splendido Red RocketSean Baker torna a raccontare uno degli aspetti del mondo della prostituzione attraverso la vita e l’indole di Anora, una giovane donna consapevole e presente a se stessa, che conosce la vita ma che si concede un piccolo spazio per sognare, nel momento in cui la sua storia personale sembra prendere una piega vantaggiosa. È pratica e diretta, capace di contrattare il prezzo del suo corpo e del suo tempo, vende se stessa con sfrontatezza e si batte per quello che ritiene suo. Una furia, una forza della natura, un involucro indistruttibile che nasconde un corpo morbido di tenerezza e fragilità e che per tutto il film cercherà di tenere nascosto.

Quella gran culo di Cenerentola” non va più di moda

Anora

La commedia di Baker rivede il classico romantico con Julia Roberts e Richard Gere, sostituendo ai due affascinanti e intramontabili miti di Hollywood due ragazzini dal fascino contemporaneo e sbarazzino che non saranno certo fatti l’uno per l’altra ma che sono altrettanto indimenticabili. E intanto il regista continua il suo racconto fiabesco di un’umanità ai margini che cerca il suo posto in Paradiso: una gita a Disneyland, un ritorno glorioso nel mondo del cinema per adulti, una vita ricca e agiata che escluda una volta per tutte la precarietà di doversi vendere per soldi.

Sia chiaro, Anora non è mai vittima delle sue scelte di vita. Come accennato sopra, il suo modo di affrontare il suo lavoro è consapevole e divertito, approccio raccontato con riuscitissime sequenze in cui la giovane donna si confronta con una sua collega prendendosi gioco dei clienti, delle loro perversioni, dei loro versi di piacere, del loro sentirsi forti e virili quando sono costantemente loro stessi vittime del loro lombi, posizionando Anora (e le sue colleghe) in una posizione di assoluto potere. È proprio questa consapevolezza che rende la protagonista tanto irresistibile, nonostante la sua talvolta irritante sicurezza.

Jurji e Anora: travolti da un insolito destino

Sean Baker gioca con i suoi personaggi e con il genere, realizzando sequenze mozzafiato e regalando al pubblico personaggi indimenticabili, su tutti l’Igor di Jurij Borisov, che resta travolto dall’energia di Anora e crea da subito con lei un’alchimia isterica e violenta e allo stesso tempo tenera e accogliente. Igor rappresenta ciò che Anora non ha mai conosciuto e per questo non capisce mai fino in fondo, mai fino quell’ultima straziante scena che conclude la notte folle attraverso la quale è stato trascinato lo spettatore.

Se dal punto di vista formale e narrativo Anora di Sean Baker è nient’altro che una commedia convincente (anche se forse troppo dilatata nella seconda parte), con questo film il regista americano compie un passo in avanti verso l’immortalità della sua filmografia, riuscendo a tratteggiare dei personaggi indimenticabili con una precisione emotiva disarmante e tutta la bellezza delle scoperte lente e preziose: Ani si dischiude nella sua essenza di fronte allo spettatore, e pian piano, mentre il film avanza, si mette a nudo completamente, nell’intimo, facendo sentire nudo, vulnerabile e esposto anche chi la guarda e, inevitabilmente, alla fine, si innamora.

Venom: The Last Dance, recensione del film di Kelly Marcel

Venom: The Last Dance è al cinema. Il film, che segna un nuovo capitolo all’interno dell’universo di Spider-Man targato Sony arriva infatti in tutte le sale italiane a partire da oggi, 24 ottobre.

Questo terzo e conclusivo tassello della trilogia dedicata al simbionte alieno più famoso dei fumetti, che arriva sul grande schermo a seguito dei successi di pubblico Venom del 2018 e Venom: La furia di Carnage del 2021, rappresenta appunto anche il quinto tassello del Sony’s Spider-Man Universe. Nonché l’esordio in cabina di regia della sceneggiatrice e produttrice dei film precedenti Kelly Marcel, scelta in questo caso per reggere il timone della nuova avventura della saga.

Accanto a Tom Hardy, che torna nei panni del tormentato giornalista Eddie Brock nuovamente alle prese con il suo alter ego alieno, troviamo un cast stellare che include volti noti come Peggy Lu e new entry del calibro di Juno Temple – già conosciuta per produzioni quali Fargo e Ted Lasso – e Chiwetel Ejiofor, quest’ultimo ben noto agli appassionati del Marvel Cinematic Universe per la sua partecipazione a Doctor Strange. Per un film che, caratterizzato dalla consueta oscurità umoristica tipica del franchise, arriva dunque al cinema per scrivere i titoli di coda di un progetto lungo 6 anni. Progetto che – va sottolineato – è indubbiamente riuscito a fidelizzare il proprio pubblico di riferimento, raccogliendo però scarsi consensi critici.

La trama di Venom: The Last Dance

venom the last dance cavallo
Venom: The Last Dance

Eddie Brock e Venom, ormai un duo indissolubile, si trovano a dover affrontare la minaccia più grande che abbiano mai incontrato: Knull, il dio dei simbionti. Il malvagio essere, prigioniero in un’altra dimensione, ha inviato un esercito di creature oscure sulla Terra con l’obiettivo di recuperare la chiave che lo libererà dalla sua prigione: il Codex. Un antico artefatto che si cela proprio dentro al corpo di Eddie.

Per proteggere l’umanità e se stessi, i due protagonisti sono dunque costretti alla fuga. E nel corso del loro peregrinare, che li porterà dritti dritti a Las Vegas in compagnia di una bizzarra famiglia dalle ossessioni aliene, dovranno fare i conti con le ingerenze di soldati e scienziati. Nei pressi dell’area 51, ormai in fase di smantellamento, si nasconde infatti una base militare e scientifica sotterranea che da tempo studia i segreti dei simbionti. Ed è qui, o meglio qualche metro più in superficie, che si consumerà la prima grande battaglia per il destino di Venom e della razza umana.

Venom: The Last Dance vs cinecomic fatigue

Venom: The Last Dance

Sta diventando sempre più complicato ragionare su opere quali Venom: The Last Dance. Non tanto per questioni legate allo spessore qualitativo del film – senz’altro lontano dalle preferenze dei palati cinefili più fini, ma a ben vedere altrettanto distante dal desiderio di soddisfare i gusti di un certo tipo di pubblico. Quanto per il processo di sconfortante e di fatto interminabile omologazione di cui quest’ultimo capitolo, di fatto, rappresenta solo la nuova, deprimente, declinazione.

L’ormai sempre più frequente rischio di ripetitività che corre qualsiasi tentativo di rendere conto di un testo-film di questo tipo, infatti, ha radici profonde. Che di certo non affondano nel ben poco fertile terriccio predisposto dalla novella regista Kelly Marcel. Ma che in Venom: The Last Dance, in ogni caso, trovano l’ennesima conferma di una maniera di modellare la materia cinematografica che “in casa Marvel”, si tratti dell’uno o dell’altro universo, ha intrapreso una parabola discendente che il SSU sta perfino contribuendo ad aggravare.

Venom: The Last Dance non lascia spazio alla discussione

Venom: The Last Dance

Sforzandoci dunque di tralasciare qualsiasi disamina di natura tecnico-registica – dal momento che, specie su questo fronte, il film di Marcel lascia davvero poco alla discussione (tanto per scarsità di idee, quanto per un senso di generale “mestieranza” i cui dettami sembrano provenire dall’alto e lasciare dunque pochissimo margine a velleità autoriali di qualsiasi tipo) – è forse più utile osservare Venom: The Last Dance nei termini di manifesto dello stato di generale confusione e bulimia produttiva di un certo tipo di distribuzioni.

Perché se è forse innegabile che, rispetto ai predecessori, questo terzo capitolo prova anche solo vagamente a delineare i contorni di una più concreta struttura narrativa e dare quindi un senso di continuità alle diverse “situazioni” che si avvicendano lungo l’arco dei 97 minuti di durata (mid-credit esclusa), è altrettanto vero che la creatura di Marcel, a dirla tutta fedele alla natura parassitaria dell’alieno di cui ci canta le gesta, tenta in ogni modo (ma con scarsi risultati) di legarsi a toni e immaginari cinematografici vari che possano conferirle una maggiore solidità.

In bilico tra cinecomic standard, road-movie, commedia esuberante e action-sci-fi, Venom: The Last Dance prova insomma a cambiare pelle in più di un’occasione. Cercando perfino, nelle battute finali, di dare una brusca sterzata emotiva attraverso un montaggio in stile videoclip che poco ha però a che fare con quanto mostrato a schermo fino a quel momento. Quasi un tentativo, per certi versi disperato, di congedare una versione del protagonista (o dei protagonisti) che però difficilmente rimarrà negli annali.

Beauty In Black – Cast e personaggi

Taylor Polidore Williams e Crystle Stewart sono le protagoniste della nuova soap opera di Tyler Perry Beauty in Black su Netflix, nei panni di due donne molto diverse le cui vite si intrecciano in modo inaspettato. Perry ha prodotto la serie nell’ambito della sua collaborazione creativa con Netflix. In base al loro accordo pluriennale, Perry è incaricato di scrivere, dirigere e produrre film e serie TV, e Beauty in Black è l’ultimo progetto nato da questa collaborazione. La prima parte della nuova serie sarà disponibile su Netflix il 24 ottobre e sarà composta da 16 episodi della durata di un’ora.

Ambientata ad Atlanta, Beauty in Black ruota attorno a due donne con percorsi di vita molto diversi. Una di loro, Kimmie, sta lottando per sopravvivere dopo essere stata cacciata di casa dalla madre, mentre l’altra, Mallory, gestisce con successo un’attività in proprio. In poco tempo, le due donne finiscono per essere coinvolte nelle vite l’una dell’altra. Polidore Williams e Stewart sono le protagoniste dell’ultimo progetto Netflix di Perry, nei ruoli principali di Kimmie e Mallory, ma sono affiancate da un cast di attori di grande talento, tra cui Ricco Ross, Debbi Morgan e Richard Lawson.

Taylor Polidore Williams nel ruolo di Kimmie

Attrice: Taylor Polidore Williams è nata a Houston, in Texas, e ha ottenuto il suo primo ruolo importante interpretando la cacciatrice di taglie Dallas Ali nella serie crime drama della FX Snowfall. Ha anche interpretato Lisa nella serie di supereroi della CW Black Lightning, ha doppiato Clara nel cartone animato della Nickelodeon It’s Pony e ha interpretato il ruolo principale di Camille nella serie drammatica soprannaturale della Allblk Wicked City. Ha già lavorato con Perry quando ha interpretato il ruolo secondario di Rona nel suo thriller drammatico Divorce in the Black.

Personaggio: Polidore Williams recita in Beauty in Black in uno dei ruoli principali, quello di Kimmie. Kimmie sta lottando per sbarcare il lunario dopo essere stata cacciata di casa dalla madre autoritaria. Finisce per trovare lavoro come ballerina esotica e cade nel mondo squallido di un famoso strip club di Magic City. Sebbene la storia sia pura finzione, Perry è stato influenzato da storie di vita reale ambientate in strip club di tutto il mondo.

Crystle Stewart nel ruolo di Mallory

Attrice: Crystle Stewart è nata a Houston, in Texas, e ha debuttato con il ruolo dell’agente immobiliare Leslie Morris nella serie drammatica della OWN/TBS For Better or Worse, anch’essa creata da Perry. Ha interpretato Frankie nel cast principale della serie TLC di Perry Too Close to Home e ha recitato al fianco di Taraji P. Henson nel thriller psicologico Acrimony, scritto, prodotto e diretto da Perry. Prima della carriera di attrice, Stewart ha vinto il titolo di Miss USA 2008 e ha rappresentato gli Stati Uniti a Miss Universo 2008, dove è entrata nella top 10.

Personaggio: Stewart interpreta Mallory, l’altra protagonista di Beauty in Black al fianco di Polidore Williams. Mentre Kimmie è a corto di soldi e fatica ad arrivare a fine mese, Mallory gestisce con successo la sua attività di cura dei capelli. Le due donne, con stili di vita molto diversi, sono messe a confronto e costituiscono la trama drammatica della serie. Mallory ha molto successo all’apparenza, ma ha difficoltà a tenere unita la sua ricca famiglia. Alla fine, con il proseguire della serie, le vite di Kimmie e Mallory si scontrano in modi inaspettati.

Ricco Ross nel ruolo di Horace

Attore: Ricco Ross è nato a Chicago, Illinois, e ha raggiunto il successo con il ruolo del soldato Frost nel film d’azione di fantascienza Aliens di James Cameron. Ross ha interpretato altri ruoli minori in film come Fierce Creatures, dove interpreta un giornalista televisivo, Mission: Impossible, dove interpreta una guardia di sicurezza, e Death Wish 3, dove interpreta un cubano. Tra i precedenti ruoli televisivi di Ross figurano il pastore R.J. Gilfield nella serie drammatica P-Valley, Greg Dacosta nel cast principale della serie televisiva britannica Westbeach e il ruolo ricorrente di Liftman Coneybear nella terza stagione della serie drammatica Jeeves and Wooster.

Personaggio: Ross interpreta un ruolo secondario fondamentale nel cast di Beauty in Black nei panni di Horace. Horace facilita il primo grande punto di svolta nell’arco narrativo del personaggio di Kimmie. È un cliente abituale dello strip club dove lei lavora. Quando lei incrocia la sua strada, lui finisce per cambiarle la vita.

Debbi Morgan nel ruolo di Olivia

Attrice: Debbi Morgan è nata a Dunn, nel North Carolina, e ha raggiunto il successo con il ruolo di Angie Baxter-Hubbard nella soap opera di lunga durata della ABC All My Children. Morgan è stata la prima afroamericana a vincere il Daytime Emmy Award come migliore attrice non protagonista in una serie drammatica per il ruolo di Angie nel 1989. Morgan ha anche interpretato la Veggente nelle stagioni 4 e 5 di Charmed, Mozelle Batiste-Delacroix in Eve’s Bayou (che le è valso un Independent Spirit Award) ed Estelle Green nella serie crime drama di Starz Power e nel suo spin-off, Power Book II: Ghost.

Personaggio: In Beauty in Black, Morgan interpreta Olivia. Olivia è una delle protagoniste femminili al fianco di Kimmie e Mallory. Morgan collabora spesso con Perry, avendo già recitato in Divorce in the Black e American Gangster Presents: Big 50 – The Delrhonda Hood Story.

Richard Lawson nel ruolo di Norman

Attore: Richard Lawson è nato a Loma Linda, in California, e ha debuttato con il ruolo di Willis Daniels nel sequel horror blaxploitation Scream Blacula Scream. Lawson è noto soprattutto per aver interpretato Ryan nel film horror Poltergeist e il dottor Ben Taylor nella miniserie della NBC V. Ha anche recitato in ruoli secondari importanti in film come Coming Home, Streets of Fire, How Stella Got Her Groove Back e Guess Who.

Personaggio: Lawson interpreta Norman in Beauty in Black. Norman è un personaggio secondario importante nell’ensemble. Lawson è uno degli attori più esperti del cast.

Beauty In Black Cast secondario e personaggi

Amber Reign Smith nel ruolo di Rain: Amber Reign Smith appare nel cast di Beauty in Black nel ruolo di Rain. Smith ha precedentemente interpretato Queenie in Outlaw Posse, Roma in Wu-Tang: An American Saga, Bebe Thompson in Rap Sh!t e Kiara in The Other Black Girl.

Steven G. Norfleet nel ruolo di Charles: Charles è interpretato da Steven G. Norfleet. Norfleet è noto soprattutto per aver interpretato Paul de Pointe du Lac in Intervista col vampiro, O.B. Williams nella miniserie HBO Watchmen e Cecil Franklin in Genius.

Julian Horton nel ruolo di Roy: Roy è interpretato da Julian Horton. Horton ha precedentemente interpretato Orlando Bishop in National Champions e Jayce nel film TV Ruined.

Terrell Carter nel ruolo di Varney: Terrell Carter appare in Beauty in Black nel ruolo di Varney. Carter ha già lavorato con Perry quando ha interpretato il reverendo Carter nel film di Madea Diary of a Mad Black Woman. Ha anche interpretato Kevin Campbell nella versione televisiva di Shooter.

Parthenope: il vero significato e la spiegazione del finale del film di Paolo Sorrentino

Presentato al Festival di Cannes 2024 è arrivato nelle nostre sale il 24 ottobre, Parthenope, il nuovo film di Paolo Sorrentino è stato un evento accolto con più entusiasmo all’estero che in patria, visto che non è raro che nessuno è profeta in patria, anche ai livelli altissimi raggiunti dal cinema di Sorrentino.

Il regista partenopeo di adozione romana evoca un lirismo frammentato, per alcuni ridondante e autoreferenziale, ma ha anche un’anima punk che gli impedisce di essere incasellato in un sistema. Non si fa scrupoli a fare suo qualsiasi argomento. E poi, è un uomo dotato di una sensibilità superiore a quella comune, che nota e intuisce frequenze emotive e sfumature di significato accessibili a pochi. Una visione fatta di tante domande e pochissime risposte, perché Sorrentino è un uomo votato al dubbio, proprio come i suoi film. Ed è forse per questo che la frenetica ricerca di “senso” al termine della visione di Parthenope lascia spesso interrogativi ancora aperti e un sapore amaro in bocca.

Il film con protagonista Celeste della Porta si distingue, a livello formale, per la sua netta divisione in due macro sezioni, la prima prettamente narrativa, che segue la giovinezza di questa fanciulla inafferrabile. La seconda, decisamente più interessante e enigmatica, che abbraccia a piene mani la metafora di una donna/città che si fa attraversare da tutte le sue anime. Parthenope nasce in mare e cresce sulla costa, alimentata dal bello, la cultura, i giochi d’infanzia con suo fratello e il suo migliore amico, in questa specie di triangolo incestuoso in cui nessuno davvero si immerge.

Il vero significato di Parthenope

Ma dopo il traumatico avvenimento centrale, Parthenope diventa Napoli, che senza essere mai catturata nella sua essenza si fa toccare da ognuno dei suoi “luoghi comuni”. La fanciulla entra in contatto quindi con le anime della città, in quelli che sembrano episodi slegati, indipendenti l’uno dall’altro, ma tutti che fanno riferimento alla ricchezza e alla molteplicità di Napoli. Nel realizzare il suo Roma, in continuo accostamento (forse solo degli altri) a Fellini, Sorrentino scompone la sua città: la fede, la ricchezza, la mala vita, la cultura, l’accademia, lo sport, la vita e la morte, la musica e l’arte. Ogni “episodio” che vede protagonista il personaggio di Celeste della Porta vede rappresentata una delle caratteristiche della città. Una grande metafora della ricchezza composita e inafferrabile della splendida ninfa nata dal mare.

Parthenope di Paolo Sorrentino – Foto Credit Hollywood Authentic/ Greg Williams

La spiegazione del finale di Parthenope

Nel finale del film, Sorrentino torna alla narrazione classica, attraverso il personaggio di Stefania Sandrelli, una Parthenope non più giovane, ma saggia e risolta, che una volta raggiunta la pensione torna a Napoli e si pacifica con lei. La giovinezza, l’età verde in cui tutto è possibile, è passata ma guardando la città intorno a sé, la donna si rende conto che esiste una eredità in essa, proprio per il fatto che l’ha attraversata così in profondità, l’ha indossata come la preziosissima mitra che porta con regalità in una delle sequenze più discusse del film, e con fierezza è diventata una sola cosa con Napoli.

Come detto in apertura, Paolo Sorrentino non è un uomo di risposte, ma di domande, e sebbene le spiegazioni siano sempre appaganti, il dubbio e l’interpretazione delle sue opere rimarrà sempre uno degli aspetti più interessanti della sua produzione.

Grand Theft Hamlet: recensione del film realizzato nel celebre videogioco – #RoFF19

“L’ingegneria dei videogiochi mette in campo una vera e propria creazione di un mondo, oggi, molto più che un film. L’estetica di un gioco per me è una delle forme espressive più interessanti in circolazione”. Con queste parole il regista Harmony Korine presentava il suo film AGGRO DR1FT al Festival di Venezia nel 2023. Un esperimento, il suo, che contribuiva alla spinta verso un superamento del cinema così come lo conosciamo verso una maggiore ibridazione con l’arte, l’estetica e le regole dei videogiochi. Poco più di un anno dopo, ecco arrivare Grand Theft Hamlet, un documentario realizzato interamente all’interno di un videogioco e basato su uno spettacolo teatrale, anch’esso avvenuto nel medesimo ambiente virtuale.

Si tratta dell’esperimento realizzato da Pynny Grylls e Sam Crane, con la partecipazione dell’attore Mark Oosterveen, che si configura come nuova clamorosa dimostrazione di quanto profetizzato da Korine. Già da tempo, in realtà, il cinema ha ripreso a piene mani certe dinamiche dei videogiochi per includerle all’interno delle proprie convenzioni. Film come Source Code o Edge of Tomorrow ne sono un esempio. Ma con Grand Theft Hamlet si giunge a qualcosa di completamente nuovo, un post-cinema che apre ad una serie di scenari particolarmente entusiasmanti e ad una serie di riflessioni su quella che di qui a pochi anni potrebbe diventare una realtà molto più diffusa.

La trama di Grand Theft Hamlet

Gennaio 2021. Il Regno Unito è al suo terzo lockdown. Per gli attori teatrali Mark e Sam, il futuro appare desolante. Il primo – single e senza figli – è sempre più isolato socialmente, mentre Sam è in preda al panico per il mantenimento della sua giovane famiglia. Insieme, trascorrono le loro giornate nel mondo digitale online di Grand Theft Auto e quando si imbattono in un teatro, hanno improvvisamente l’idea di mettere in scena una produzione completa di Amleto all’interno del gioco. Grand Theft Hamlet racconta dunque la loro ridicola, esilarante e commovente avventura, mentre combattono contro violenti truffatori e scoprono sorprendenti verità sulla vita, sull’amicizia e sul potere duraturo di Shakespeare.

Fuga dal mondo reale

Ci si potrebbero scrivere pagine e pagine su un film (anche se chiamarlo tale è riduttivo) come Grand Theft Hamlet, per cui cerchiamo di andare con ordine. Partiamo con il dire che – come avranno intuito gli appassionati – il videogioco all’interno del quale si svolge il racconto proposto da Grylls, Crane e Oosterveen è GTA, ovvero Grand Theft Auto, una serie di videogiochi action-adventure open world, tra le più famose di tutti i tempi, in cui il giocatore controlla un fuorilegge e la sua ascesa nella criminalità organizzata, portando a termine specifiche missioni o anche semplicemente dandosi alla pazza gioia girovagando per la città. Pazza gioia che, normalmente, prevede l’infrangere ogni regola possibile.

Di questo videogioco esiste anche una versione online, dove singoli utenti possono dunque incontrarsi, interagire – e soprattutto uccidersi brutalmente a vicenda – in un mondo virtuale in cui tutto è concesso, compreso l’allestire uno spettacolo teatrale, come dimostrato dagli autori di Grand Theft Hamlet. La volontà di Crane e Oosterveen, nata dall’esigenza di contrastare la depressione data dal periodo del Covid-19 nasce dunque come una vera e propria evasione dalla realtà, ritrovando in GTA Online il luogo ideale dove poter fare tutto ciò che in quel preciso momento storico non era possibile fare nella realtà.

Si sviluppano già da qui una serie di riflessioni sui mondi virtuali oggi disponibili, in cui è possibile entrare con degli avatar (impossibile non pensare, su questo tema, all’esemplare Avatar di James Cameron). Nel momento in cui il mondo reale diventa un luogo sempre più ostile, tra guerre, malattie e preoccupanti scenari politici, ecco allora che le realtà virtuali diventano dei luoghi utopici in cui poter trovare riparo, lasciandosi alle spalle ogni preoccupazione. Certo, si tratta a suo modo di una fuga, quando sarebbe più costruttivo cercare di risolvere le problematiche del mondo, ma difficile non comprendere le ragioni che portano a sceglierla, specialmente dinanzi ad una situazione come quella del lockdown che non offre alternative.

Benvenuti nell’epoca del post-cinema

Andando nel merito del film, però, la prima cosa che colpisce è come sia stata riposta grande attenzione nel replicare la grammatica cinematografica, con tutta l’ampia gamma di inquadrature possibili, dai totali ai primi piani. Regole che da tempo il mondo dei videogiochi ha ereditato, rielaborandole e riproponendole però a modo proprio. L’effetto è straniante, ma anche fortemente affascinante, in quanto ci porta a vivere un vero e proprio cortocircuito sulla natura di ciò che stiamo guardando. Non è live action, non è animazione, è il frutto di un progresso tecnologico che promette di rivoluzionare completamente l’arte del fare cinema.

Data la grande definizione e cura dei dettagli che i videogiochi di oggi riescono a proporre, non è impensabile l’idea che sempre più produzioni cinematografiche possano affidarsi a queste possibilità virtuali per realizzare le proprie storie, potenzialmente abbattendo enormemente i normali costi che oggi si hanno. Divertente, a tal proposito, il dettaglio dell’avatar di Pynny Grylls che, in quanto regista del documentario, è presente in scena intenta a svolgere le riprese (ovviamente finte) con uno smartphone. Chiariamoci, il cinema per come lo conosciamo oggi, fatto di attori in carne ed ossa e set tangibili, non sarà mai del tutto sostituito, ma di certo è evidente che siamo sulla via di una progressiva co-esistenza di queste realtà.

Grand Theft Hamlet lo dimostra ampiamente, proponendoci un gioco al quale si partecipa volentieri, tranquillizzati da ciò che in esso ci è familiare e ammaliati dalle sue evidenti particolarità. Un contrasto perfettamente rappresentato anche dalla volontà di mettere in scena un testo classico per eccellenza come l’Amleto di William Shakespeare all’interno di un contesto ultra contemporaneo. Tutti elementi che rendono il film semplicemente imperrdibile, per alcuni probabilmente respingente, ma di certo inevitabile dimostrazione delle possibilità del cinema del futuro (o meglio, del presente).

Un film che si interroga anche sull’elemento umano

Grand Theft Hamlet è dunque prima di tutto un’esperienza visiva, certo, ma nel corso c’è anche spazio in più occasioni per una riuscita comicità – specialmente per via della frequente violenza gratuita a cui gli utenti non sanno resistere -, e si ha occasione di scoprirsi partecipi delle preoccupazioni di Sam e Mark per il futuro. Preoccupazioni di carattere umano, che l’atto di estraniarsi nel gioco non riesce a far dimenticare del tutto. Da questo punto di vista, il film è allora anche un indicatore di dove l’umanità stia andando, di come si tenda a perdere di vista l’importanza di un reale rapporto e dunque la necessità di preservarlo. Perfetto esempio, a riguardo, è la scelta di Pynny e Sam di uscire dal gioco che stanno svolgendo in stanze diverse della stessa casa e incontrarsi per davvero.

Di certo, in conclusione, torna profetica un’altra affermazione di Harmony Korine – stavolta nel presentare Baby Invasion, un film girato come uno sparatutto in prima persona: “Il motivo per cui stiamo iniziando a vedere Hollywood crollare dal punto di vista creativo è perché […] sono così chiusi nelle convenzioni, e tutti quei ragazzi che sono così creativi ora troveranno altri percorsi e andranno in altri posti perché i film non sono più la forma d’arte dominante”. Da persona follemente lucida quale si è dimostrato, ha probabilmente ragione. È all’arte del videogioco e alle sue infinite possibilità che dobbiamo guardare per capire come potrebbe essere il cinema di domani. Grand Theft Hamlet ne è un validissimo esempio.

Flow – Un mondo da salvare: recensione del film di Gints Zilbalodis

Nel caos di film, serie e prodotti audiovisivi che ogni giorno affollano i nostri schermi, è facile rimanere storditi e finire con il sentirsi anestetizzanti nei confronti di certe narrazioni o immagini. Ecco perché l’arrivo di un film come Flow – Un mondo da salvare è da salutare con grande entusiasmo, in quanto riporta gli spettatori alla riscoperta di una dimensione artistica in cui è ancora possibile provare sincero stupore. Una dimensione che si basa sugli elementi primari a partire dai quali fare di necessità virtù e realizzare così un’opera capace di parlare a tutti in modo sincero e diretto.

Gints Zilbalodis, regista lettone già distintosi nel campo dell’animazione grazie a diversi cortometraggi e ad Away, suo film d’esordio, ci consegna con questa sua opera seconda un film magnifico per numerevoli ragioni, che andremo qui di seguito ad esplorare proprio come i protagonisti di Flow – Un mondo da salvare esplorano gli ambienti con cui entrano in contatto. Dopo essere stato presentato con successo nella sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes e aver vinto l’Oscar come Miglior film d’animazione, questo si conferma un’esperienza da non perdere, di quelle che ormai al cinema capita di fare poche volte.

La trama di Flow – Un mondo da salvare

Il mondo sembra volgere alla termine, brulicante di tracce della presenza umana ma completamente privo degli umani stessi. Protagonista del racconto è infatti un gatto, animale solitario che si ritroverà suo malgrado a vivere la più imprevedibile delle avventure. Un’alluvione senza precedenti sommerge infatti il mondo, costringendo il felino a trovare riparo in una barca su cui si trovano però anche altre specie animali. Nonostante le loro differenze, si troveranno a dover fare squadra, navigando attraverso mistici paesaggi sommersi e affrontando le sfide proposte da questo nuovo mondo.

Flow - Un mondo da salvare Gints Zilbalodis
Una scena dal film Flow – Un mondo da salvare

Una fiaba per riscoprirsi parte del mondo

Flow, il flusso, quello dell’alluvione che sommerge le terre ma anche quello che scorrendo ci porta a vivere l’avventura a cui siamo destinati. Partendo da questo principio, tutto il film è un continuo movimento (mozzafiato) – della macchina da presa, delle correnti d’acqua, dei personaggi, della barca su cui hanno trovato riparo – che porta ad attraversare non solo ambienti diversi ma anche differenti stati d’animo. Li viviamo a partire dall’esperienza che ne fanno gli adorabili protagonisti – un gatto, un cane, un lemure, un capibara e un uccello – e potendo così osservare il modo in cui il viaggio li cambia.

Zilbalodis ha infatti concepito il film come un vero e proprio road movie, un’avventura dal grande fascino visivo – merito di un’animazione “grezza” e onirica, che trova proprio in queste sue particolarità il proprio valore – che partendo da premesse narrativi semplici (ma mai semplicistiche!) sprigiona davanti ai nostri occhi una serie di tematiche che vanno dalla natura alla sua salvaguardia e fino all’importanza del fare squadra dinanzi alle avversità, superando ogni possibile e sciocca differenza. Perché pur non essendo minimamente antropomorfizzati, gli animali protagonisti non possono non ricordarci delle precise qualità umane, dall’isolamento all’avidità.

Una fiaba, dunque, che – come tutte le fiabe – parla di noi e della nostra contemporaneità. Lo fa però in modo assolutamente privo di moralismi, adoperando un’innocenza a cui non si può rimanere estranei e attraverso una serie di idee e precise scelte di messa in scena particolarmente convincenti. Una fiaba capace di divertire, commuovere e anche incutere timore, grazie anche alle musiche dello stesso Zilbalodis e di Rihards Zalupe, che forniscono un accompagnamento sonoro estremamente suggestivo, perfettamente combinato con le tante sonorità naturali che animano il film.

Una scena dal film Flow - Un mondo da salvare
Una scena dal film Flow – Un mondo da salvare

Il linguaggio delle emozioni

Non ha bisogno di dialoghi Zilbalodis, così come non ne ha avuto bisogno per il suo primo lungometraggio, Away. Portando avanti un’attenta ricerca sull’immagine, il regista e il suo team riescono brillantemente nell’obiettivo di realizzare un film che, affidandosi unicamente alle immagini e ai suoni, riesce a comunicare con grande forza i propri messaggi e le proprie emozioni senza il bisogno di alcun orpello in più. Motivando il suo totale rifiuto del parlato nelle proprie opere, il regista ha spiegato che di un film ciò che ricorda meglio sono le scene silenziose che si fondano sull’eloquenza delle immagini.

Ed è così anche per Flow – Un mondo da salvare, che offre una serie di quadri di straordinaria bellezza, capaci di rimanere impressi nella mente per i loro colori e tutti gli altri elementi che li compongono, che siano la foresta selvaggia, le architetture umane o gli espressivi occhi dei protagonisti. Non si avverte dunque mai la mancanza di un dialogo, di una voce umana, non solo perché Flow – Un mondo da salvare è già così meravigliosamente ricco a livello sonoro, ma anche perché da un certo punto in poi ci sembra di poter davvero comprendere i versi degli animali e ciò che vogliono dire.

Soprattutto, però, assistiamo alla loro evoluzione nel modo più corretto: osservandola attivamente. Del gatto protagonista, ad esempio, non viene mai detto a parole “ricerca la solitudine, imparerà ad amare il gruppo”, ma assistiamo a questo cambiamento giungendo noi stessi a questa conclusione, vedendolo passare dal suo solitario specchiarsi nell’acqua al farlo in compagnia dei suoi nuovi amici. Questo vale in realtà per ogni valore che il film vuole trasmetterci, riuscendo a farlo proprio perché trova il modo di comunicarlo in modo universale, parlando il linguaggio delle emozioni anziché quello delle parole.

Flow – Un mondo da salvare è una carezza al cuore

Flow – Un mondo da salvare è allora davvero un film che merita di non passare inosservato, di non finire schiacciato dalla mole di titoli che ogni giorno si accalcano in sala o sulle piattaforme venendo divorati e ben presto dimenticati. Zilbalodis ci consegna un’opera speciale, tra le più importanti di quest’anno cinematografico, che chiede allo spettatore di non forzarsi nella ricerca di determinati significati ma di abbandonarsi al flusso dell’esperienza proposta. Un’opera che nel suo “tornare alle origini” di un’arte rispolvera un senso della meraviglia troppo spesso perduto, qui ritrovato e proposto come la più gentile delle carezze al cuore.

Virgin River: Netflix rinnova la serie per una settima stagione

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Virgin River ha ottenuto un rinnovo record. La serie romantica di Netflix, che ha debuttato nel 2019, è basata sulla serie di romanzi omonima di Robyn Carr e segue le vite degli abitanti di una piccola città nel nord della California. Il cast principale della serie, che è già pronto a continuare con la prossima Virgin River – stagione 6, include Alexandra Breckenridge, Martin Henderson, Colin Lawrence, Annette O’Toole, Tim Matheson e Ben Hollingsworth.

Secondo Deadline, Netflix ha ufficialmente rinnovato Virgin River per una settima stagione di 10 episodi. La notizia arriva quasi due mesi prima della premiere della sesta stagione. Questo rinnovo farà sì che la serie batta il record della piattaforma di streaming per la serie drammatica in lingua inglese più longeva, eguagliando le sette stagioni della commedia Grace and Frankie e della serie drammatica Orange is the New Black.

L’unica altra serie ad aver avuto più stagioni è il teen drama spagnolo Elite, che si è concluso a luglio dopo otto stagioni. Virgin River è ora anche la serie originale più longeva di Netflix.

Cosa significa il rinnovo di Virgin River per Netflix

Virgin River serie tv 2019

Le serie future potrebbero avere una possibilità

Una cosa per cui Netflix è diventata famosa è la chiusura delle sue serie dopo poche stagioni. Già nel 2019, THR riportava che molte delle serie della piattaforma, anche quelle con un forte seguito, venivano cancellate alla terza o quarta stagione per una serie di motivi finanziari, tra cui evitare di rinegoziare i contratti dei talenti e non pagare compensi più alti a chi lavora davanti e dietro la telecamera. Questo potrebbe anche essere il motivo che ha portato alla creazione di spin-off di serie cancellate o in fase di conclusione, tra cui lo spin-off di Big Mouth, Human Resources, e il prequel di Money Heist, Berlin.

Alcune delle serie popolari della piattaforma sono riuscite a raggiungere una longevità contro ogni previsione.

Il fatto che sia in fase di sviluppo uno spin-off prequel, incentrato sui genitori di Mel (Breckenridge), avrebbe potuto segnare la fine della serie drammatica. Tuttavia, l’annuncio che il cast di Virgin River si riunirà ancora una volta per una settima stagione continua a sottolineare il fatto che alcune delle serie popolari dello streamer sono in grado di raggiungere una longevità contro ogni previsione.

Parthenope: recensione del film di Paolo Sorrentino

Dopo l’anteprima internazionale al Festival di Cannes 2024, arriva in sala Parthenope, l’ultimo inafferrabile e affascinante lavoro di Paolo Sorrentino, che dopo E’ stata la mano di Dio, rimane nella sua città per raccontarla da un punto di vista diverso. Nel film precedente, il regista aveva inquadrato la Napoli della sua infanzia, della sua adolescenza, intorno a un racconto molto personale e intimo, qui invece Sorrentino tenta la strada dell’allegoria in cui Parthenope è Napoli e Napoli è Parthenope, una donna splendida e inafferrabile e inconoscibile che si muove trai piani dell’esistenza.

Il film è il racconto della vita di questa donna dal nome rivelatore, nasce nel mare, forse dal mare, ai piedi del Vesuvio e come la città che la vede nascere ha molte facce, molti mondi e desideri. Dalla sua nascita, nel 1950, ai giorni nostri, la donna cresce e progredisce, attraversando l’esistenza e i suoi misteri.

Parthenope è nettamente diviso tra storia e metafora

In una durata importante ma doverosa (e mai fastidiosa), Sorrentino dipana un doppio racconto, scandito da un evento tragico e trasformante e che divide a tutti gli effetti il film in un primo e un secondo tempo, in cui la prima parte è un classico racconto di formazione che cede il passo, nella seconda metà, a una storia frammentata, metaforica, più evocativa e poetica, senza dubbio più interessante ma anche meno comprensibile.

Un film che si trasforma da racconto di formazione in viaggio, strutturato in tappe nelle quali Parthenope incontra tanti aspetti dell’umanità. Fa i conti con la fede, quella popolare e quella politica, con la blasfemia, con la cultura accademica, con il mondo dell’arte e della recitazione, con la mafia addirittura, con il calcio, con l’antropologia. Sospesa, come l’interpretazione della splendida Celeste della Porta, non si fa conoscere né attraversare da nessuno, preferisce la risposta a effetto, la frase fatta e indimenticabile piuttosto che la verità, ma da tutti assorbe conoscenza e sapere, esperienza, e accumula così storia, proprio come Napoli, dai mille colori e sapori e mai comprensibile appieno.

“A tien’ na cos’ a racconta’?”

Paolo Sorrentino sembra dimenticare è il fine ultimo del racconto. In E’ stata la mano di DioAntonio Capuano diceva: “A tien’ na cos’ a racconta’?”, ovvero “Hai qualcosa da raccontare?” a un titubante Fabietto. Ebbene questo sembra proprio quello che manca a Sorrentino, in questo film, ovvero “la cosa” da raccontare. E questo problema si avverte principalmente nell’andamento ondivago del film, soprattutto nella seconda parte, meno coesa da un punto di vista narrativo.

Un altro aspetto critico ma interessante di Parthenope è il linguaggio. Sorrentino si ostina a presentare dei personaggi che parlano tutti alla stessa maniera, assertivi e vuoti, per frasi a effetto. Tutti declamano le loro battute in una costante ricerca del tono e della costruzione spettacolare della frase. Se da un punto di vista del fruitore questa caratteristica del film può diventare ridondante, potrebbe anche essere il tentativo di voler raccontare un mondo in cui la teatralità di ciò che si dice è sempre più importante di quello che viene detto. In questo modo si sfugge alla noia, alla verità, alla riflessione interiore che tanto spaventa, come si vede in rare eccezioni, come l’attrice di Luisa Ranieri o il professore di Antropologia di Silvio OrlandoParthenope è maestra di questo linguaggio spettacolarizzante, ricercando sempre l’uscita geniale, il colpo di teatro, rispetto alla risposta, al contenuto.

La spettacolarizzazione del linguaggio come imitazione della napoletanità

In realtà questo modo così distraente di esprimersi potrebbe anche essere un omaggio di Paolo Sorrentino che prova a mettere in scena in maniera alta e colta l’essenza della “napoletanità”, nel suo film più “territoriale” (fino a questo momento): fare della frase a effetto un modus per affrontare le situazioni, per fingere consapevolmente che i problemi non esistano.

Parthenope non è certo il film più compiuto di Paolo Sorrentino, il quale però allo stesso tempo fa un passo in avanti nella costruzione della sua mitologia cinematografica. Ha raccontato la decadenza, della Capitale, della politica, della società, e ha raccontato una Napoli, location intima della sua infanzia e adolescenza, adesso racconta la Napoli donna/città, un’operazione simile a quella che Fellini aveva fatto con il suo Roma. Al tempo la decisione di immortalare nella memoria collettiva anche Parthenope, così come ha fatto per uno dei capolavori di Fellini.

L’ultima notte di Amore, la spiegazione del finale: come ha fatto Franco a trovare il mandante?

I thriller polizieschi, se ben fatti, lasciano sempre allo spettatore qualcosa su cui riflettere. Solitamente incentrati sulle vicende tra poliziotti buoni e cattivi, questo genere è noto per affrontare questioni filosofiche elevate quali l’onestà e la giustizia contrapposte alla sopravvivenza e alla sicurezza, che continuano a ronzare nella mente anche dopo la fine del film. L’ultimo film dello sceneggiatore e regista Andrea Di Stefano, L’ultima notte di Amore, dimostra che il regista sa come realizzare un thriller poliziesco per spettatori attenti, senza tralasciare gli elementi emozionanti tipici del genere.

L’ultima notte di Amore racconta la storia di Franco Amore (Pierfrancesco Favino), un poliziotto onesto che, a pochi giorni dalla pensione, decide con esitazione di lavorare come guardia del corpo per un uomo d’affari cinese. Il suo ultimo giorno di lavoro, la sua carriera immacolata viene messa a repentaglio quando un incarico va terribilmente storto.

Cosa succede in L’ultima notte di Amore?

Sono successe molte cose nell’ultimo giorno di lavoro di Franco Amore come agente di polizia. Solo dieci giorni prima aveva salvato la vita a un uomo d’affari cinese, Zhang Zhu, che sarebbe morto per un arresto cardiaco se Franco non fosse arrivato appena in tempo per rianimarlo. Cosimo, cognato di Franco, era in affari con Zhu e pensò che sarebbe stata una buona idea presentargli Franco e chiedergli di fornire un servizio di sicurezza per Zhu.

Franco, che aveva 35 anni di esperienza nelle forze dell’ordine, era il candidato ideale per quel tipo di lavoro. Non aveva l’aspetto minaccioso o duro degli altri agenti, cosa piuttosto insolita considerando che aveva dedicato tutta la sua vita a un lavoro così faticoso. Sua moglie, che ama profondamente, sembra essere la ragione di questo suo atteggiamento. Viviana, allegra e di buon carattere, ha sempre mantenuto viva la casa con la sua presenza. Non era il tipo di donna che lo avrebbe lasciato solo mentre lui era via per risolvere tutti i suoi problemi. Questo a volte irritava Franco, ma il più delle volte avere Viviana come compagna era di grande aiuto. Franco aveva anche una figlia dal precedente matrimonio che studiava all’estero. Presto Franco sarebbe andato in pensione e avrebbe avuto abbastanza tempo da dedicare anche a lei. Questa doveva essere la sua intenzione, ma il destino aveva altri piani.

Aveva salvato la vita a Zhu, lo aveva incontrato mentre era di guardia a Cosimo e aveva accettato di fornire a Zhu lo stesso tipo di servizio che aveva fornito a Cosimo. Aveva però detto al genero di Zhu che aveva delle condizioni che, se non fossero state rispettate, gli avrebbero impedito di fornire il servizio. Gli uomini di Zhu non avrebbero trasportato armi o stupefacenti sotto la sua sorveglianza. L’accordo era stato stipulato con chiarezza da entrambe le parti. Franco era un po’ preoccupato nel vedere alcuni criminali cinesi in cella, ma i soldi extra significavano che non avrebbe dovuto preoccuparsi di sopravvivere solo con la sua misera pensione. Un incarico arrivò proprio il giorno prima del suo pensionamento. Voleva rimandarlo, ma la somma ingente lo spinse ad accettare il lavoro. Franco non avrebbe mai dovuto accettare il lavoro, ma se ne rese conto troppo tardi, causando la morte del suo partner, Dino.

Come è morto Dino?

L'ultima notte di Amore

Pochi giorni prima del pensionamento, Franco parlò a Dino del lavoro. Il denaro sarebbe stato diviso e a Dino non dispiaceva accompagnare Franco. Anche Dino aveva un figlio piccolo e il lavoro non doveva essere pericoloso, o almeno così pensava. Considerando tutti questi fattori, Dino accettò. Il giorno prima del pensionamento di Franco, che era anche il suo compleanno, lui e Dino erano pronti a trasportare una coppia cinese a Zhu. Trasportavano qualcosa di grande valore in una valigetta, ma a Franco non importava. Il suo obiettivo era portare a termine il lavoro e andarsene con i soldi.

L’atmosfera si fece un po’ tesa quando il veicolo ebbe improvvisamente una gomma a terra. La coppia cinese si agitò e sia Franco che Dino fecero fatica a mantenerli calmi. Una macchina della polizia iniziò a seguire Franco, che fu costretto a fermarsi. Pensava di poter gestire la situazione, ma i due agenti dei Carabinieri che lo seguivano non gli diedero ascolto e non si curarono del fatto che fosse un poliziotto locale. La loro insistenza lo ha fatto dubitare delle loro intenzioni, ma prima che potesse decidere cosa fare, il cinese ha sparato a uno degli agenti. Tutto è andato a rotoli e tutti tranne Franco sono morti. Franco ha dato un’occhiata alla valigetta e ha trovato una scorta di diamanti. L’ha gettata su un ponte abbandonato e è scappato.

Perché Franco non si arrende?

Viviana, che aveva organizzato una festa a sorpresa per Franco, riceve la notizia quando Franco la chiama per chiederle di portargli dei vestiti puliti. Franco le racconta che il lavoro è andato male e che Dino è stato ucciso. Voleva andare alla polizia e raccontare tutto del suo legame con Zhang Zhu, ma Viviana lo ha fermato. Secondo lei, potevano scappare e ricominciare una nuova vita altrove. Tutta la sua carriera sarebbe stata rovinata se qualcuno avesse saputo del suo coinvolgimento negli omicidi. Ha cambiato idea e ha deciso di non costituirsi non per le fantasie di Viviana, ma perché aveva ancora la sensazione di poter risolvere il caso e scoprire chi c’era dietro il lavoro mal fatto.

Franco arrivò sulla scena del crimine dopo essersi presentato alla sua festa di compleanno, assicurandosi così un alibi. Lì vide che qualcuno aveva piazzato la pistola del cinese sul corpo di Dino, facendo sembrare che fosse stato lui a uccidere l’agente dei Carabinieri. Prima di morire, l’altro agente dei Carabinieri aveva composto un numero per chiamare i rinforzi. Franco aveva fotografato i tabulati delle chiamate prima di lasciare la scena del crimine, quindi sapeva che l’ultimo numero chiamato doveva essere quello del poliziotto che era arrivato sul posto e aveva piazzato la pistola su Dino. Ha composto il numero e ha scoperto che l’uomo era un altro agente dei Carabinieri che lo aveva visto scappare dalla scena del crimine. Rivelare il suo nome ai superiori avrebbe potuto significare finire in prigione. Franco rimane in silenzio sulla questione fino a quando non gli viene in mente una domanda: chi ha detto a questi poliziotti corrotti dei diamanti?

Spiegazione del finale di L’ultima notte di Amore: Franco è morto?

Dopo aver aiutato Viviana a trovare i diamanti, le disse di prendere Ernesto, il figlio di Dino, e di andare al villaggio di Dino fino al suo arrivo. Aveva finalmente capito chi c’era dietro la rapina. Prima di morire, l’agente dei Carabinieri aveva mostrato grande sorpresa e delusione perché le era stato detto che Franco non aveva sparato, sottintendendo che non si aspettava che lui avrebbe lasciato che il lavoro diventasse violento. Franco aveva sentito lo stesso identico commento da Cosimo, e solo lui sapeva che Franco avrebbe partecipato al lavoro. Franco capì quindi che era stato Cosimo a manipolarlo per farlo lavorare per Zhu, proprio perché pensava che avrebbe lasciato che i diamanti venissero portati via.

Franco va direttamente da Cosimo, lo cattura e lo porta da Zhu per rivelargli tutti i segreti. È qui che Cosimo rivela che è stato il genero di Zhu a ideare l’intero piano e che lui era solo un intermediario, che forniva gli agenti corrotti della Carabinieri con l’aiuto di suo cugino Tito. Franco non era ancora fuori dai guai. Zhu aveva perso i diamanti, che ora erano in possesso di Viviana. Quando gli viene chiesto di restituirli, Franco rifiuta come punizione per aver infranto l’accordo di non permettere a uomini armati di entrare nella sua proprietà. Se il cinese non avesse avuto la pistola, non avrebbe potuto sparare per primo, causando la morte di cinque persone. I diamanti servono anche a Ernesto per sopravvivere. Se l’inchiesta avesse scoperto il suo coinvolgimento nella scena del crimine, Franco avrebbe perso la pensione e Viviana e sua figlia sarebbero rimaste senza mezzi di sussistenza. Spiegando questo motivo per non restituire i diamanti, Franco lascia l’edificio e conclude i suoi 35 anni di servizio, annunciando il suo pensionamento. Si vede un uomo uscire dall’edificio, forse per sparare a Franco.

Si può presumere che Franco sia morto. L’uomo era probabilmente una delle guardie di Zhu inviata per uccidere Franco per la sua audacia nel non restituire i diamanti. Ma l’ultimo giorno gli aveva aperto gli occhi su un mondo completamente diverso. Suo cognato lo aveva tradito ed era furioso. L’intera personalità di Franco ha subito un grave cambiamento negli ultimi giorni. Era considerato un poliziotto onesto ma debole, che aveva paura di sparare, ma era cambiato molto nelle ultime ore. La sua indecisione aveva causato la morte del suo amico Dino e forse non sarebbe mai più stato così indeciso. Quindi, è molto probabile che quando Franco ha visto l’uomo arrivare da lontano, questa nuova versione di sé stesso gli abbia sparato per primo, assicurandosi di poter rivedere la sua famiglia. Ma poi, come suggerisce il titolo del film, quella era la sua “ultima notte”, il che fa pensare che sia morto. Oppure potrebbe significare che era semplicemente il suo ultimo giorno da poliziotto onesto e rispettoso della legge e che da quel momento in poi anche lui avrebbe sparato per primo quando si fosse trovato di fronte a un criminale.

Il treno dei bambini: recensione del film di Cristina Comencini – #RoFF19

Nell’immediato dopoguerra, il Partito Comunista Italiano avviò un’iniziativa sociale per sostenere le famiglie del Sud, duramente colpite dal conflitto. Erano chiamati i “treni della felicità”, convogli che partivano dalle città devastate del Meridione verso il Nord. I vagoni erano pieni di bambini, accolti temporaneamente da famiglie più agiate che potevano garantire loro cibo e vestiti, in un tentativo di contrastare la povertà e il degrado. Dopo un periodo, infatti, avrebbero fatto ritorno dai loro cari. 

Da questa vicenda, che è parte della nostra Storia, Viola Ardone trae ispirazione per il suo romanzo del 2019, Il treno dei bambini. Qualche anno dopo, Cristina Comencini ne presenta l’adattamento cinematografico alla 19esima edizione della Festa del Cinema di Roma, nella sezione Grand Public. La regista firma la sceneggiatura insieme a Furio Andreotti, Camille Dugay e Giulia Calenda, affidando i ruoli principali a un cast di grandi volti italiani: Stefano Accorsi nel ruolo di Amerigo da adulto, Serena RossiBarbara Ronchi e il giovane e promettente Christian Cervone. La pellicola, prodotta da Palomar, arriverà su Netflix il 4 dicembre.

Il treno dei bambini, la trama

Amerigo Speranza è un violoncellista famoso. Prima di uno spettacolo a teatro, viene raggiunto da una telefonata nella quale sua madre gli dice che sua madre è morta. Ma come è possibile? Nella scena seguente è il 1946. Amerigo è un bambino povero, che vive scalzo per le strade di Napoli contando le scarpe della gente. Scorrazza insieme al suo amico Tommasino e a volte fa dei lavoretti per portare qualche soldo a casa, dalla madre Antonietta, che cerca di crescerlo come meglio può. Finché non inizia a girar voce che il PCI sta organizzando dei treni per portare i bambini da famiglie più abbienti che se ne possano prendere cura per un periodo. Molte donne del quartiere cominciano a inveire contro l’iniziativa, spaventando tutti: dicono che li spediranno dai russi che li getteranno nel fuoco. La verità, però, è molto più dolce di quella descritta dalle signore e nasconde un atto di puro amore verso un Paese in ginocchio, che ha bisogno di ritrovare l’equilibrio partendo proprio dai bambini, gli uomini del domani. Seppur contrario alla partenza, una volta arrivato a Modena, Amerigo verrà accolto da Derna, che con i bambini proprio non ci sa fare. Amerigo le fa però riscoprire il suo lato materno, e una volta connessi, per i due sarà difficile separarsi.

Cosa definisce una madre?

Guardando Il treno dei bambini, è impossibile non pensare a ciò che sta succedendo nel mondo. I bambini che un tempo cercavano la felicità e la sicurezza sono gli stessi che oggi fuggono dalle guerre in Ucraina, Israele e Palestina. Passato e presente si intrecciano, dialogando tra loro e portandoci a continue riflessioni. Il film di Comencini si radica nel dopoguerra, che funge da scenario – ricordandoci però che la nostra realtà non è così lontana da quella di allora – per raccontare la storia di due madri. Chi è una madre? Cosa la rende tale? Sono domande che trovano risposta nelle figure di Derna e Antonietta, due donne agli antipodi per carattere e mentalità, ma profondamente simili quando si tratta di amare.

In un periodo in cui il concetto di maternità e il suo significato sono sempre più messi in discussione – basta pensare alle recenti leggi italiane – il film lancia un messaggio chiaro: madre è chi ama, indipendentemente dal legame biologico. Madre è colei che vede in un bambino un figlio, un legame che va oltre il sangue. E non esiste necessariamente una sola madre. Per Amerigo, entrambe lo sono, perché entrambe hanno costruito la sua vita, tassello dopo tassello, donandogli qualcosa di indimenticabile. Nel caso di Antonietta si tratta della musica, da cui imparerà ad avere l’orecchio per suonare il violino. Nel caso di Derna è la conoscenza e la possibilità di sognare.

Ronchi e Rossi: due interpreti d’eccezione

L’idea di fondo è potente, così come la storia che si porta sullo schermo. Barbara Ronchi e Serena Rossi dipingono il ritratto di due donne forti e vulnerabili allo stesso tempo, restituendoci la loro determinazione. Sono attrici mature, capaci di comporre le giuste espressioni sul volto per farci cogliere ogni sfumatura emotiva. Visivamente, la fotografia di Italo Petriccione rende bene le due facce del dopoguerra: da un lato la povertà e i colori spenti delle città devastate come la Napoli bombardata, dall’altro le tonalità più calde che avvolgono la tranquillità di Modena.

Comencini si concede spesso a scene di forte sentimentalismo, mirate a far scendere lacrime facili. Anche se a tratti questo può risultare eccessivo, il film riesce a raccontare una storia di vera bellezza, dove l’Italia, divisa ma mai arresa, ha trovato la forza di rialzarsi. E lo ha fatto grazie a molte donne come Antonietta e Derna, tanto diverse quanto unite, che hanno saputo collaborare per costruire il Paese che conosciamo oggi.

Avvocato di difesa – The Lincoln Lawyer – Stagione 3: spiegazione della cronologia degli eventi

Avvocato di difesa – The Lincoln Lawyer – stagione 3 include diversi salti temporali e flashback che confondono la linea temporale, sollevando interrogativi su quanto tempo sia trascorso. Basata sui libri di Michael Connelly, la serie Netflix segue le vicende di un avvocato difensore privato di nome Mickey Haller e del suo team mentre affrontano importanti casi penali. La terza stagione di Avvocato di difesa – The Lincoln Lawyer adatta The Gods of Guilt, il libro in cui Mickey difende Julian La Cosse, accusato dell’omicidio del suo ex cliente, Glory Days.

Il finale della seconda stagione di Avvocato di difesa – The Lincoln Lawyer di Netflix prepara perfettamente questa trama e riprende esattamente da dove si era interrotto l’ultimo episodio. Nella terza stagione, anziché raccontare tutto in modo lineare e costante, la serie fa diversi salti temporali. Può essere difficile tenere traccia di tutto ciò che è accaduto nel corso del tempo, di quanto tempo è passato e di cosa succede durante i salti temporali. Tuttavia, ogni pezzo del puzzle è essenziale per il finale della terza stagione di The Lincoln Lawyer.

Quanto tempo passa nella terza stagione di Avvocato di difesa – The Lincoln Lawyer

L’evento centrale della terza stagione di Avvocato di difesa – The Lincoln Lawyer è il periodo di detenzione e il processo di Julian La Cosse, a partire dal momento in cui Mickey accetta ufficialmente il caso fino a quando non si arriva a un accordo per detenzione illegittima. Nell’episodio 2, viene rivelato che Julian dovrà rimanere in prigione fino al processo perché è accusato di circostanze speciali. Sebbene Mickey preveda che Julian rimanga in carcere per otto mesi, il periodo effettivo finisce per essere leggermente più lungo.

C’è un salto temporale di sei mesi tra l’episodio 2 e l’episodio 3. In quest’ultimo, Izzy dice che il processo non inizierà prima di altri tre mesi. Lorna sostiene anche l’esame di abilitazione e dice che non riceverà i risultati prima di tre mesi. All’inizio dell’episodio 6, Mickey conferma che mancano due mesi al processo. Alla fine dell’episodio 6, il processo di Julian sta iniziando e Lorna sta ricevendo i risultati dell’esame di abilitazione. Considerando tutto ciò, Julian è rimasto in prigione per nove mesi prima della data del processo, invece che otto.

Dopo che le accuse contro Julian vengono ritirate, l’ultimo episodio fa un salto in avanti di quattro mesi rispetto ai nove precedenti, portando il periodo di tempo totale a 13 mesi. Non è la prima volta che la serie condensa lunghi periodi di tempo. Le lacune sono tipicamente una necessità narrativa nel genere dei legal drama, perché i casi giudiziari procedono sempre lentamente, anche nelle circostanze migliori. A differenza di molte serie TV, quasi tutti i salti temporali avvengono fuori dallo schermo.

La serie lascia inoltre agli spettatori il compito di riempire i vuoti e immaginare cosa succede ai personaggi di Avvocato di difesa – The Lincoln Lawyer durante questi intervalli. Il mese che intercorre tra gli episodi 3 e 6 viene mostrato sullo schermo. Il salto temporale durante l’episodio 6 è evidente, con il team di Mickey che continua a prepararsi per il processo. Tuttavia, sono disponibili meno informazioni sui sei mesi tra gli episodi 2 e 3, il che richiede speculazioni basate su indizi contestuali.

Cosa è successo tra gli episodi 2 e 3?

Il primo salto temporale nella terza stagione di Avvocato di difesa – The Lincoln Lawyer avviene tra gli episodi 2 e 3, e in quei sei mesi accadono molte cose. Il cambiamento più evidente è che Andy e Mickey iniziano una relazione romantica e sessuale occasionale. Mickey dice a Lorna, dopo il salto temporale, che in precedenza lei si era allontanata ogni volta che lui aveva cercato di rendere le cose più serie, dando al pubblico un’idea della dinamica della coppia durante quei sei mesi.

Dato che Lorna sostiene l’esame di abilitazione in Avvocato di difesa – The Lincoln Lawyer episodio 3, si presume che abbia terminato la facoltà di legge durante il periodo di sei mesi e si sia concentrata completamente sullo studio. Un altro cambiamento degno di nota tra i due episodi è il comportamento di Eddie. Il giovane appare teso quando inizia a lavorare con Mickey. Tuttavia, nel terzo episodio, interagisce con il resto del team, sembra più felice e prova nuovi cibi. Questo indica che si sente più rilassato e a suo agio nel suo lavoro con Mickey.

Flashback: il primo caso di Mickey contro Neil Bishop

Avvocato di difesa - The Lincoln Lawyer

Il flashback nella terza stagione di The Lincoln Lawyer, episodio 1, inizia con Mickey che fa surf la mattina prima dell’udienza. Maggie viene a trovarlo e i due organizzano un appuntamento serale. Dal loro modo di interagire, si capisce che lui e Maggie hanno ancora un rapporto affettuoso e amorevole, a dimostrazione del fatto che i loro conflitti non sono diventati gravi fino a quando lui non ha lasciato l’ufficio del difensore pubblico.

Il flashback continua con Mickey che interroga Neil Bishop, all’epoca detective, sul suo mandato di perquisizione a casa di un sospettato. Neil ha perquisito illegalmente un’auto, trovando prove di un crimine.

Al banco dei testimoni, dichiara che all’epoca si trovava nel garage, ma Mickey dimostra che non può essere vero. Questa scena non solo stabilisce il rancore che Neil Bishop nutre nei confronti di Mickey, ma lo rivela anche come un poliziotto disposto a infrangere le regole per ottenere ciò che vuole.

Il percorso di Neil conferma l’affermazione di Legal Siegal secondo cui i cattivi con il distintivo sono i peggiori, sottolineando un sistema disposto a chiudere un occhio sugli atti dannosi commessi dagli agenti.

Sebbene inizialmente Bishop agisca in nome della giustizia, da un mandato di perquisizione illegale il passo è breve per accettare tangenti e mentire in un caso. È interessante notare che è rimasto detective per almeno cinque anni dopo il mandato di perquisizione illegale. Questo può essere accertato perché era sul posto durante il doppio omicidio dieci anni prima della terza stagione di Avvocato di difesa – The Lincoln Lawyer, quando ha incontrato l’agente De Marco. Il percorso di Neil conferma l’affermazione di Legal Siegal secondo cui i cattivi con il distintivo sono i peggiori, sottolineando un sistema disposto a chiudere un occhio sugli atti dannosi commessi dagli agenti.

Flashback: Mickey incontra Glory Days

Avvocato di difesa - The Lincoln Lawyer - stagione 1

Prima della prima stagione di Avvocato di difesa – The Lincoln Lawyer

Quando la serie Netflix introduce Glory Days nella prima stagione, viene rivelato che in passato era una testimone nel caso Jesus Menendez, ma è fuggita prima di poter testimoniare. Il flashback nella seconda puntata della terza stagione di The Lincoln Lawyer mostra il momento in cui Mickey e Glory Days si incontrano per la prima volta. Gli eventi corrispondono alla storia già nota, quindi non aggiungono nulla alla narrazione. Tuttavia, il flashback offre un ampio sviluppo dei personaggi sia della donna deceduta che del suo avvocato.

Mickey ha offerto a Glory molta empatia in una situazione in cui altri l’avrebbero respinta. Credeva a ciò che lei diceva, probabilmente perché anche lui aveva avuto a che fare con la dipendenza. Tuttavia, è anche realista e le spiega che gli altri non accetterebbero le sue dichiarazioni nelle sue condizioni attuali. Per questo motivo, si offre di aiutarla a disintossicarsi dalle sostanze di cui fa uso, in modo che possa trovarsi in uno stato mentale migliore per testimoniare. Si tratta di una rappresentazione molto più morbida e vulnerabile di entrambi i personaggi. Mickey non cerca di essere duro come al solito e Glory non si comporta in modo irremovibile.

Flashback: l’agente De Marco e Neil Bishop si incontrano

Avvocato di difesa - The Lincoln Lawyer - Stagione 3 Netflix
Lara Solanki/Netflix

Dieci anni prima della terza stagione di The Lincoln Lawyer

Nell’episodio finale della terza stagione di Avvocato di difesa – The Lincoln Lawyer, un flashback mostra il primo incontro tra Neil Bishop e l’agente De Marco. De Marco ha approfittato delle debolezze di Neil Bishop, corrompendolo per fermare le indagini sul doppio omicidio. In definitiva, questa scena fornisce il contesto su come e perché Bishop è arrivato a essere colpevole dell’omicidio di una donna innocente. In definitiva, questo flashback era necessario anche per spiegare il comportamento ambiguo di Neil Bishop che ha portato al finale della terza stagione di Avvocato di difesa – The Lincoln Lawyer. La sua ostilità nei confronti di Mickey non era solo frutto di rancore, ma anche di ricatto.

L’albero: recensione del film di Sara Petraglia #RoFF19

Il primo film di Sara Petraglia, L’albero, in concorso alla Festa di Roma nella sezione Progressive Cinema, è un viaggio di formazione assieme duro e poetico, tragico e leggero, un coming of age romano, che prende corpo nelle strade del Pigneto. La regista e sceneggiatrice, figlia di uno dei più noti sceneggiatori italiani, Sandro Petraglia, sceglie una storia di amicizia, amore e dipendenza per il suo esordio sul grande schermo.

La trama de L’albero

Bianca, Tecla Insolia, è una ventenne che si trasferisce a Roma per frequentare l’università. Trova un appartamento al Pigneto assieme alla sua amica Angelica, Carlotta Gamba. Dalla finestra di casa si vede un maestoso albero al di là della ferrovia. Lontane dalle loro famiglie e con quella voglia spregiudicata e adolescenziale di sperimentare tutto senza pensare alle conseguenze, le due ragazze sprofondano nella dipendenza da cocaina. Una gita a Napoli non cambia le cose. Insieme sperimentano amore e morte, finché per ciascuna arriva il momento di scegliere cosa fare della propria vita.

Un modo diverso di raccontare la dipendenza 

Raccontare la dipendenza in modo non convenzionale era uno degli obiettivi dichiarati di Sara Petraglia. La regista lo fa innanzitutto senza giudizio, ma solo descrivendo. Non ci sono enfasi ed estremizzazione eccessiva, ma neppure la volontà di edulcorare. Petraglia affida il suo racconto a due “insospettabili”, due ragazze dalla faccia pulita, apparentemente lontane anni luce dal mondo delle sostanze, da chi lo popola, da chi vi gravita attorno. Mai come in questo caso, l’apparenza inganna. Si mettono così in discussione pregiudizi e visioni precostituite. In modo realistico e non immaginifico o fantasioso, il film mostra anche come si possa superare la dipendenza, senza sconti o scorciatoie.

Un film sull’adolescenza e il male di vivere

Tuttavia, L’albero non è, o non è solo, un film sulla dipendenza. Le famiglie delle protagoniste non compaiono mai. C’è solo il gruppo dei pari, amiche e amici. Ventenni come tanti ma, come nota Bianca in una scena emblematica del film, tutti molto tristi. La protagonista per prima si rifugia nell’uso di sostanze, non solo cocaina, per dare spallate a questa tristezza, al dolore che da sempre la accompagna. Quello leopardiano – non per nulla un’immagine del poeta di Recanati campeggia nel salotto di casa – che scaturisce dalla consapevolezza della caducità della vita, della natura effimera della felicità, sempre fugace. Bianca non sopporta tutto ciò e la vita, così com’è le sembra troppo difficile da affrontare.

Preferisce rifugiarsi nei libri e nei diari che lei stessa scrive, nell’immaginazione, anziché vivere la realtà. Sembra quasi che, con l’incoscienza della loro età, le due amiche siano disposte perfino a rinunciare alla vita stessa. La regista le mostra in questo momento di spericolata leggerezza e nel percorso che porterà in particolare Bianca, su cui si sofferma maggiormente lo sguardo di Petraglia, a fare i conti con questa sofferenza, questa sorta di malinconia, che è parte di sé.

L’albero, opera prima semplice ed efficace

L’albero ha una costruzione semplice, con pochi elementi, messi ben a fuoco. La sceneggiatura è lineare e questo consente alla regista, che l’ha curata, di tenere la materia del film efficacemente sotto controllo. Petraglia riesce a tenere insieme nella sua visione disincanto e poesia, affrontando con levità temi intimi e profondi. Una leggerezza che certo non è sinonimo di superficialità. La regista rende anche con vivida immediatezza la vita del quartiere che descrive, sembra conoscerlo bene. Anche nell’inserto napoletano, che sposta l’azione in altro luogo, lo spettatore vede una Napoli insolita per il nostro cinema, né da cartolina, né da cronaca nera. Le sue strade di notte, come l’umanità che le abita, somigliano a quelle del Pigneto, ma potrebbero trovarsi in qualsiasi altra parte del mondo.

Le interpretazioni di Tecla Insolia e Carlotta Gamba

Tecla Insolia – L’arte della gioia – e Carlotta Gamba – Gloria!, Vermiglio, Dostoevski – offrono interpretazioni sentite e coinvolgenti, mai sopra le righe. Così vuole la regista, che le dipinge come due ragazze normalissime, invitando anche lo spettatore a riflettere su quanto il tipo di malessere presente nel film possa essere diffuso. L’albero è un esordio convincente, che mescola un dolore esistenziale profondo all’incoscienza e all’ingenuità dei vent’anni. Un film sulla difficoltà di raggiungere un equilibrio nella vita, per viverla senza farsene rovinosamente travolgere. Questo equilibrio sembra essere come l’albero del titolo: bello, maestoso, ma apparentemente irraggiungibile. Spesso però, basta cambiare strada per arrivarci, magari optando per un percorso meno lineare, meno immediato, forse più lungo, più tortuoso, ma che porta proprio lì.

Avetrana – Qui non è Hollywood: recensione dei primi due episodi della serie Disney+ #RoFF19

Presentata alla Festa del Cinema di Roma nella sezione Freestyle, Avetrana – Qui non è Hollywood è la serie tv di Pippo Mezzapesa che ricostruisce in quattro episodi la tragica vicenda di Sarah Scazzi, quindicenne pugliese scomparsa il 26 agosto 2010, il cui corpo senza vita fu ritrovato in un pozzo più di un mese dopo. La serie è tratta dal libro Sarah, la ragazza di Avetrana, di Carmine Gazzanni e Flavia Piccinni.

Avetrana – Qui non è Hollywood, un titolo eloquente

Pippo Mezzapesa – regista pugliese saldamente legato alla sua terra, autore di lavori come Il bene mio e Ti mangio il cuore – intraprende qui un’operazione rischiosa. Il caso di Sarah Scazzi è stato tra quelli che hanno suscitato più clamore ed eco mediatica degli ultimi anni. Eco che ha volte si è trasformata persino in fenomeni di morbosità e fanatismo. La domanda che ci si pone accostandosi alla visione è se e come Mezzapesa intenda evitare il rischio di essere considerato l’ennesimo tentativo di lucrare sulla vicenda. Da questo punto di vista, il qui non è Hollywood del titolo, sembra essere una vera e propria dichiarazione di intenti. La critica all’assalto mediatico scatenatosi nella piccola cittadina pugliese fin dalle prime notizie della scomparsa di Sarah, e poi via via incrementato, fino a diventare quasi una forma di assedio alla città, è evidente fin dall’avvio della serie. Basti citare il riferimento ai veri e propri tour organizzati da provider senza scrupoli sui luoghi della tragedia. Ciò spinge a riflettere sui meccanismi di massa che si innescano da più parti in questi casi. Non sono infatti solo i media a sfruttare al massimo la notizia, ma anche chiunque possa. La gente comune, dal canto suo, sembra cedere spessissimo al richiamo di una curiosità malata. Si può dibattere se sia opportuno trattare o meno di questi fatti di cronaca in una serie tv. Ciò che conta, però, è come viene trattata la vicenda.

Luci, ombre e atmosfere inquietanti in Avetrana – Qui non è Hollywood

In Avetrana – Qui non è Hollywood il regista punta all’essenziale. Il film si muove tra due poli opposti: il sole della provincia tarantina, la pizzica, il mare, l’estate da una parte, i due nuclei familiari protagonisti dall’altra, composti da personalità piene di lati oscuri perfino a sé stesse e che si muovono in ambienti altrettanto oscuri, come il luogo in cui si ritira Michele Misseri. Il film riesce senza dubbio a creare attesa e angoscia nello spettatore, mentre si immerge nell’analisi dei protagonisti.

Mancanza di amore e non accettazione di sé

Mezzapesa vuole entrare nei meccanismi psicologici dei personaggi, nel loro disagio, a partire da quello di Sarah. Le due famiglie protagoniste sono legate da rapporti di dipendenza perversi e distorti. La mancanza di amore domina su tutto. È quella che prova Sarah, Federica Pala, che ha sete di riconoscimento e affetto da parte della madre Concetta, Imma Villa, la quale però appare incapace di soddisfare questo bisogno. Sarah soffre anche la mancanza del fratello, a Milano per lavoro. Ha sete di abbracci, li chiede continuamente. Finisce per trovarli a casa degli zii, Cosima, Vanessa Scalera, e Michele, Paolo De Vita. Anche la loro figlia, Sabrina, la cugina di Sarah, ha sete di amore e riconoscimento. Si sente sbagliata, è in lotta con sé stessa, col suo corpo, non si accetta. Il legame con Sarah è stretto e appare morboso, di odio e amore. Sarah ai suoi occhi sembra rappresentare un modello irraggiungibile, ma al contempo è ancora una “bambina” da manipolare. I coniugi Misseri non sono da meno e tutti insieme compongono il quadro di due famiglie disfunzionali, i cui rapporti malati non possono che sfociare in qualcosa di tragico e indicibile.

Quattro episodi, quattro punti di vista

La narrazione è divisa in quattro episodi, ciascuno dal punto di vista di un personaggio: Sarah, Sabrina, Cosima e Michele. Lo stesso regista cura la sceneggiatura con Antonella Gaeta e Davide Serino, come già per Ti mangio il cuore. Questa organizzazione della materia narrativa permette di entrare ancora più a fondo nella psicologia dei personaggi, che è poi l’elemento realmente inquietante del lavoro. Anche i dialoghi sono molto ben costruiti, realistici e l’uso del dialetto appropriato.

Le interpretazioni in Avetrana – Qui non è Hollywood

Le interpretazioni dei protagonisti sono tutte a fuoco, forse quella con meno guizzi è proprio quella di Sarah, Federica Pala, mentre davvero efficace e di forte impatto è quella di Sabrina, anche la più complessa. A darle corpo, con una sorprendente trasformazione, è Giulia Perulli, che attraversa un arco emotivo notevole, risultando sempre credibile e trasmettendo allo spettatore angoscia e inquietudine profonde, non senza momenti in cui affiora il desiderio di spensieratezza che una giovane donna può avere. Parimenti disturbanti, ma più minimaliste, le interpretazioni di Cosima Serrano, madre di Sabrina, una straordinaria Vanessa Scalera, e Michele Misseri, il marito, zio di Sarah, interpretato da Paolo De Vita. Nel cast anche Anna Ferzetti, la giornalista, Giancarlo Commare, Ivano, il ragazzo conteso tra Sarah e Sabrina, Antonio Gerardi, il maresciallo. Avetrana – Qui non è Hollywood è un’operazione che può piacere o meno, ma che riesce nell’intento di essere scomoda e disturbante sia per come dipinge i protagonisti, sia perché mette bene in luce i meccanismi di certi fenomeni di massa.

From – Stagione 2, la spiegazione del finale: cosa è successo a Tabitha

Il finale della seconda stagione di From ha spiegato alcuni misteri cruciali sulla città centrale, concludendosi con un cliffhanger. Dopo il finale scioccante dell’episodio 9 della seconda stagione di From, la serie riprende con Julie, Randall e Marielle in uno stato simile al coma, in cui subiscono torture intermittenti da parte di entità invisibili. Nel frattempo, Tabitha e Jade si avventurano nella pericolosa foresta nel tentativo di trovare risposte sui bambini e sui simboli che appaiono nelle loro visioni. Mentre Boyd corre per “fermare la melodia”, il finale della seconda stagione di From porta diversi personaggi al culmine della loro lotta contro le forze sinistre della città.

Alla fine, Boyd distrugge il carillon e libera Randall, Julie e Marielle dal destino che la inquietante filastrocca di From aveva loro riservato. Jade incontra il simbolo nei tunnel e ha delle visioni di bambini distesi sulle rocce che ripetono “anghkooey”, il che si ricollega alle visioni di Tabitha sui bambini che l’hanno condotta al faro. Gli ultimi momenti del finale della seconda stagione di From vedono Tabitha spinta fuori dal faro e risvegliarsi in un ospedale fuori città, il che conferma una via di fuga per i residenti e crea un viaggio complesso per Tabitha per ricongiungersi con la sua famiglia intrappolata.

Il destino di Tabitha nel finale della seconda stagione di From spiegato

Come è riuscita a tornare a casa

In un colpo di scena dell’ultimo minuto nel finale della seconda stagione di From, Tabitha riesce a tornare a casa dopo essere andata al faro. Una volta salita le scale della torre del faro e arrivata in cima, Tabitha viene accolta dal Ragazzo in Bianco, che si scusa prima di spingerla fuori dalla finestra di vetro. Tabitha si risveglia poi con dei graffi sul viso in un ospedale fuori città, dove i medici le rivelano che era in coma dopo essere stata trovata su un sentiero escursionistico.

Una teoria su From è che tutti gli abitanti della città siano in coma a seguito di un incidente stradale.

Sebbene non sia chiaro se la caduta di Tabitha dal faro significhi che è morta in città ma al sicuro fuori, questo significa che i personaggi di From possono riuscire a trovare la strada di casa. Il risveglio di Tabitha dal coma potrebbe essere visto come una conferma delle bizzarre teorie della seconda stagione di From secondo cui i personaggi della città sono in realtà in coma dopo incidenti stradali.

Questa interpretazione significherebbe che tutti i personaggi della seconda stagione di From sono in coma fuori dalla città, ma devono “morire” per risvegliarsi dall’altra parte. Tuttavia, questo è altamente improbabile, dato che Tabitha è stata trovata da alcuni escursionisti su un sentiero senza nessuno della sua famiglia o il camper nelle vicinanze. Pertanto, è stata la caduta di Tabitha dal faro a mandarla a casa da sola, con i graffi sul viso causati dal vetro della finestra piuttosto che dall’incidente con il camper.

Il faro è un portale per tornare a casa?

Perché il ragazzo in bianco ha spinto Tabitha

In From stagione 2, flashback dell’episodio 8 sull’infanzia di Victor, viene rivelato che sua madre andò al faro per cercare di trovare un modo per tornare a casa, e Tabitha ripeté questa tattica 40 anni dopo. Sebbene sembri che la madre di Victor sia morta prima di arrivare al faro, era stata chiamata lì dai bambini per trovare un portale verso il mondo esterno. I bambini sembrano sapere che il faro è un portale verso casa, con il Ragazzo in Bianco che è il misterioso leader che guida i residenti intrappolati verso la salvezza e la speranza.

Il finale della seconda stagione di From suggerisce che il Ragazzo in Bianco abbia già spinto altri personaggi fuori dal faro in passato.

Prima di spingere Tabitha fuori dalla finestra del faro, il Ragazzo in Bianco le dice che gli dispiace, ma che è “l’unico modo”.

Il finale della seconda stagione di From suggerisce che il Ragazzo in Bianco abbia già spinto altri personaggi fuori dal faro in passato, scegliendo apparentemente Tabitha e la madre di Victor per il loro istinto materno. Il Ragazzo in Bianco ha già salvato o aiutato Victor, Ethan, Sara e Boyd, fungendo apparentemente da angelo custode della città.

Dato che Tabitha ha avuto delle visioni dei bambini e del faro durante tutta la seconda stagione di From, il Ragazzo in Bianco potrebbe credere che lei sia la persona migliore da mandare a casa e chiedere aiuto per salvare il resto degli abitanti della città.

Il Bottle Tree e il suo legame con il faro spiegati

Potrebbe esserci un custode che consegna messaggi lì

Dopo essere apparsi per la prima volta alla fine della stagione 1 di From, i personaggi tornano all’albero delle bottiglie nel finale della stagione 2 di From, mentre Victor ne spiega il vero scopo. Victor dice a Tabitha che l’albero delle bottiglie è un albero speciale e lontano, ma invece di mandare le persone in luoghi casuali, trasporta solo coloro che vi entrano al faro. Non è ancora chiaro quale funzione abbia il faro stesso per “Fromville”, considerando che la comunità non è in grado di vederlo dalla città, ma sembra essere l’unico collegamento con il mondo esterno.

Il finale della seconda stagione di From non spiega cosa ci sia all’interno delle bottiglie appese all’albero o perché proprio quell’albero specifico sia il mezzo di trasporto del faro, ma potrebbe essere collegato a coloro che possono viaggiare fuori dalla città. Poiché le bottiglie sono presumibilmente piene di messaggi destinati al mondo esterno o a coloro che sono intrappolati all’interno della città, potrebbe esserci un “guardiano del faro” che mette i messaggi sull’albero affinché gli abitanti li trovino.

Simile ad alcune tradizioni della vita reale, l’albero delle bottiglie potrebbe essere lì per intrappolare gli spiriti maligni e gli incubi. Le bottiglie potrebbero impedire agli incubi di raggiungere il faro e potenzialmente proteggere il mondo esterno dai misteriosi mostri di From.

Cosa significa la frase “Anghkooey” di From

Potrebbe essere stata inventata dalla serie o ispirata da una figura della mitologia celtica

I bambini nelle visioni di Tabitha hanno ripetuto spesso la parola “anghkooey”, che pronunciano anche quando lei sale le scale del faro e quando appaiono a Jade nei tunnel. Sfortunatamente, questa parola non ha una traduzione esatta, il che significa che probabilmente deriva da varie parole messe insieme o potrebbe essere un titolo di fantasia. È stato teorizzato che “anghkooey” sia in parte ispirato ad Ankou, una figura della mitologia celtica che personifica la morte e manda gli spiriti dei morti all’inferno.

“Anghkooey” potrebbe essere il nome di uno spirito o di una forza che sorveglia la città di From.

Ciò sarebbe certamente appropriato per i temi della morte e del male trattati in From, ma è più probabile che “anghkooey” abbia un significato originale legato alla storia inquietante della serie. Ad esempio, “Anghkooey” potrebbe essere il nome di uno spirito o di una forza che sorveglia la città di From. La parola potrebbe anche provenire da una lingua unica della serie, forse traducibile come qualcuno in grado di avere visioni, come Tabitha e Jade.

Poiché la parola viene detta a Tabitha mentre cerca di salvare i bambini e trovare un modo per tornare a casa, è anche possibile che “anghkooey” significhi salvatore, o sia una persona profetizzata per aiutare la città e distruggere qualsiasi maledizione o male che tiene intrappolate le persone. Poiché la parola è ora detta anche dai bambini in riferimento al simbolo, “anghkooey” è un altro mistero che la terza stagione di From deve risolvere.

La visione di Jade del simbolo e il legame con i bambini spiegati

Potrebbe essere un ricordo o parte di un rituale

Dopo aver continuato a vedere il simbolo nei suoi sogni e aver capito che ha spinto un ex residente a compiere azioni orribili, Jade finalmente va nei tunnel per scoprirne il significato nel finale della seconda stagione di From. Mentre viaggia nei tunnel, Jade trova una strana radura con lastre di roccia e una luce che le illumina. Pochi istanti dopo, Jade vede i bambini delle visioni di Tabitha sdraiati sulle rocce, che indicano il cielo e ripetono la parola “anghkooey”.

I bambini deformi visti sulle rocce suggeriscono che potrebbero essere stati sottoposti a crudeli esperimenti o rituali.

Jade alza lo sguardo e vede il simbolo formato da gigantesche radici di alberi all’ingresso di una grotta, ma il simbolo e i bambini scompaiono quando si volta. Ciò potrebbe significare che la luce illumina il simbolo e lo proietta sulle rocce sottostanti, forse per qualche tipo di pratica rituale. I bambini deformi sulle rocce suggeriscono che potrebbero essere stati sottoposti a crudeli esperimenti o rituali nella foresta, collegati sia al faro che al simbolo nei tunnel.

È possibile che la visione di Jade del simbolo e dei bambini nel tunnel sia un ricordo del passato, simile a quando ha visto i soldati arrabbiati della Guerra Civile. Poiché il finale della seconda stagione di From non mostra Jade che lascia il tunnel, il vero significato del simbolo e della sua allucinazione non sarà svelato fino alla prossima stagione.

Il vero significato dell’avvertimento di Abby a Boyd

“La speranza alimenta la foresta”

Quando Boyd sta cercando di salvare Julie, Randall e Marielle dal loro stato di trance, appare una visione della sua defunta moglie Abby che gli dice che distruggere il carillon non porrà fine alle loro sofferenze. Piuttosto, il fantasma di Abby afferma che i personaggi moriranno comunque urlando e che la distruzione del carillon non farà altro che ritardare le loro sofferenze. Abby riferisce che “Esso” sa che Boyd non ascolterà perché ha speranza, che è ciò che “alimenta la foresta”, non la paura.

L’avvertimento di Abby suggerisce che la speranza che i residenti un giorno

La speranza è ciò che fa sì che i personaggi sopportino le loro sofferenze e continuino ad andare avanti invece di sottomettersi ai mali della foresta, quindi produce più incubi per combattere questa sensazione. L’avvertimento di Abby suggerisce che la speranza che gli abitanti tornino a casa un giorno è ciò che rende più forti le forze della città, quindi lui dovrebbe semplicemente sottomettersi ai mali di From.

Le visioni di Abby sembrano essere tattiche delle forze soprannaturali per convincere Boyd a morire, poiché lui è una delle maggiori fonti di speranza che i personaggi hanno. Abby rappresenta anche i conflitti interiori di Boyd, che vuole essere l’eroe, vuole impedire la sofferenza e vuole redimersi, cosa che riesce a fare infondendo speranza negli altri. La speranza può essere ciò che rende i personaggi disposti a soffrire nella città, ma è anche ciò che li libererà, come dimostra il finale della seconda stagione di Tabitha in From.

Cosa è successo a Julie, Randall e Marielle nella stagione 2, episodio 10

Sono stati torturati

Julie, Randall e Marielle erano sotto il terrificante possesso dei poteri soprannaturali della foresta, con i personaggi torturati mentre erano intrappolati nell’oscurità. Mentre i loro occhi diventano vuoti e muoiono lentamente in uno stato quasi catatonico, Boyd trova i loro corpi incatenati nell’edificio all’inizio della stagione. Boyd usa una torcia per riportare la radura nella caverna, anche se i suoi sforzi sono quasi vanificati dall’attacco di Reggie e dalle sue visioni di Abby.

Boyd si rifiuta di ascoltare, distruggendo invece il carillon e liberando Julie, Randall e Marielle. I tre personaggi sopravvivono alla fine della stagione 2 di From dopo che Boyd si redime e abbraccia la speranza contro cui Abby lo mette in guardia.

Cosa succederà nella terza stagione di From?

Come si prepara il finale della seconda stagione di From

MGM+ ha rinnovato la terza stagione di From grazie alla sua accoglienza positiva. La notizia migliore è che la terza stagione di Fear arriverà presto, con una data di uscita fissata per il 22 settembre 2024. C’era anche un trailer presentato al San Diego Comic-Com. Mostra che ci saranno molte tragedie, dato che Boyd porta i cadaveri in città e gli viene detto che ha perso. Nel frattempo, Tabitha si sveglia a casa in un ospedale, senza avere idea di come salvare la sua famiglia.

Quando la gente inizia a dire che le cose stanno peggiorando, gli abitanti di Fromville iniziano a disperarsi. Nel frattempo, Tabitha cerca delle risposte e scopre che alcune persone potrebbero sapere più di quanto dicono. Per quanto le prime due stagioni fossero spaventose, il trailer fa sembrare questa ancora peggiore. Come ha detto qualcuno, morire non è la cosa peggiore che possa succedere. Il cast è rimasto quasi intatto (a parte i morti) e tutto sembra più intenso nei nuovi episodi.

Come è stato accolto il finale della seconda stagione di From

I critici e il pubblico hanno amato From

Il punteggio complessivo della critica per le prime due stagioni di From è un impressionante 94% su Rotten Tomatoes. Anche il punteggio del pubblico è simile, con l’86%. Sebbene la seconda stagione abbia registrato un leggero calo, dal 96% al 92% da parte della critica, ha comunque mantenuto un punteggio elevato, rendendo la terza stagione molto attesa dai fan e dalla critica. Parlando della seconda stagione, il critico di Slate David Whelan ha apprezzato il fatto che le risposte fossero limitate e che i problemi continuassero ad accumularsi.

“Ogni giorno c’è una nuova crisi da aggiungere alla lista; ogni giorno sembra che tutto questo sia già successo e continuerà a succedere… C’è sempre qualcosa di peggio in arrivo. Non è molto diverso dalla situazione in cui si trovano gli abitanti di Fromville. Se il realismo è uno specchio che riflette il momento attuale dell’umanità, allora From si avvicina abbastanza alla realtà”.

La reazione del pubblico è stata ancora più forte, soprattutto per i colpi di scena nel finale della seconda stagione. Su Rotten Tomatoes, le reazioni includevano commenti di spettatori che dicevano: “L’ultimo episodio mi ha lasciato con la voglia di vedere altro, non vedo l’ora”, “Ti tiene con il fiato sospeso e svela pezzi del grande puzzle in ogni episodio” e “Che serie misteriosa e sbalorditiva, fantastica quanto la prima stagione.” Sembra che quando From tornerà con la terza stagione, molti fan saranno pronti a seguire nuovamente la serie.

Berlinguer – La grande ambizione: recensione del film di Andrea Segre

È affidato ad Andrea Segre con il suo Berlinguer – La grande ambizione l’onore e l’onere di aprire la sezione Concorso Progressive Cinema della 19esima edizione della Festa del Cinema di Roma. Tante figure di politici italiani il nostro cinema ha raccontato, provando a immaginare il privato al di là del personaggio pubblico, portando agli spettatori la vicenda umana assieme all’agire politico. De Gasperi, Moro, Andreotti, Craxi, solo per citarne alcuni tra i più rappresentati dalla settima arte. Mancava però un film di finzione, incentrato sulla figura dello storico leader del PCI, Enrico Berlinguer (c’era stato invece, nel 2014, il documentario di Walter Veltroni Quando c’era Berlinguer). 

Una figura, quella del segretario, amatissima dalla gente e portatrice di una visione politica che – dalla via italiana al socialismo al compromesso storico con la Democrazia Cristiana – cercava con incrollabile determinazione di coniugare il sogno e l’utopia con il realismo politico. Il timore da parte del mondo del cinema era forse, legittimamente, quello di togliere qualcosa, di non riuscire a rendere efficacemente sullo schermo le molteplici sfaccettature del politico e dell’uomo Berlinguer. Tenta l’impresa però oggi, a quarant’anni dalla morte del Segretario del PCI, avvenuta l’11 giugno 1984 a Padova, proprio il regista Andrea Segre, autore di film e documentari – Io sono Li, L’ordine delle cose, Welcome Venice.

Pochi ma intensi anni nella vita di Enrico Berlinguer

Berlinguer – La grande ambizione prende in esame una manciata di anni: dall’elezione di Allende in Cile, seguita dal golpe di Pinochet nel 1973, all’uccisione di Moro nel 1978. L’evento che decretò di fatto la fine del compromesso storico, così come Berlinguer e Moro stesso lo avevano pensato. Sono gli anni in cui il Pci guidato da Enrico Berlinguer raggiunge l’acme dei consensi. Il film racconta la determinazione e la fatica del segretario per affermare la possibilità di una via democratica al socialismo, distaccandosi dall’influenza sovietica e dalle sue derive autoritarie. Mostra poi come la sua visione politica, condivisa con Aldo Moro per dar vita al compromesso storico, venga pagata a caro prezzo fin da subito. Da Berlinguer con l’attentato subíto a Sofia nel 1973 e più tardi da Moro con la vita. Sono anni di lotte e di successi per il Pci, culminati con quello elettorale del 1976. Poi il clima cambia. Il compromesso storico divide la politica e la cittadinanza e il terrorismo inizia a mietere vittime, fino al rapimento e all’uccisione di Moro, che gela le speranze del PCI al governo e di un possibile patto con la Democrazia Cristiana.

Berlinguer e le sue parole

Il regista parte dal presupposto che un racconto di Berlinguer non si possa fare senza le sue parole. I suoi discorsi in pubblico la fanno da padroni nel film, il suo linguaggio. Questo accade soprattutto nella prima parte del lavoro e sembra essere un limite. Sebbene si tratti di un linguaggio chiaro e comprensibile a tutti, ma non semplicistico, nato dall’esigenza di portare concetti complessi alla portata del più vasto uditorio possibile, un approccio così legato alla parola appesantisce e a tratti rallenta la narrazione.

Berlinguer e il rapporto con la gente

A fare da contrappeso all’elemento verbale, vi sono le immagini. Quelle di repertorio restituiscono momenti vividi e di grande partecipazione popolare, di forte impatto emotivo, specie in un’epoca come la attuale, in cui si misura tutta la distanza che si è consumata tra i cittadini e la politica. I volti della gente ai comizi, le manifestazioni. Le immagini di finzione mostrano momenti di incontro ravvicinato con i lavoratori. Incontri in cui Berlinguer si mette a disposizione di un confronto alla pari in maniera del tutto naturale. È anche per questo che la gente, che non gli risparmia critiche e richieste, lo percepisce vicino.

Berlinguer privato

Vi è poi il Berlinguer marito e padre, la condivisione in famiglia degli ideali e delle lotte politiche, la capacità di spiegare ai figli l’essenza della sua visione, comunista e socialista, in modo semplice ed efficace, senza eccessi, ma con passione. Ma ci sono anche l’amata Sardegna e le gite in barca con la famiglia. Si pone poi l’attenzione su piccoli elementi, gesti quotidiani, abitudini, che fanno emergere l’umanità del personaggio. Ciò contribuisce a comporre un quadro che pian piano, con garbo, delicatezza e coi suoi tempi, riesce a coinvolge il pubblico.

L’interpretazione di Elio Germano

Elio Germano in Berlinguer - La grande ambizione

Per questa interpretazione, Elio Germano sceglie una chiave minimalista, che si adatta al carattere schivo del leader politico in questione. La somiglianza fisica non ne è il punto di forza e l’accento sardo non è impeccabile. Da apprezzare invece la capacità di tratteggiare con piccoli cenni la parte emotiva: dall’aspetto ironico alla passione politica stessa, che non è urlata, né platealmente esibita, ma emerge ugualmente con forza. Berlinguer – La grande ambizione restituisce l’immagine di un uomo di grande rigore, innanzitutto con sé stesso, ancora prima che nel dettare la linea del partito, e al tempo stesso aperto e dialogante in modo autentico.

Il cast di Berlinguer – La grande ambizione

Un cast di tutto rispetto vede impegnati, accanto a Elio Germano, Elena Radonicich nel ruolo della moglie Letizia, Roberto Citran, che interpreta Aldo Moro, Francesco Acquaroli, Pietro Ingrao, Paolo Pierobon, Andreotti, Fabrizia Sacchi, Nilde Iotti, senza dimenticare Paolo Calabresi, Giorgio Tirabassi, Andrea Pennacchi. Berlinguer – La grande ambizione no riesce forse a pieno a far ritrovare al pubblico Enrico Berlinguer, ma riporta sullo schermo lo spirito dell’uomo e soprattutto la potenza di quel rapporto con la gente che forse nessun altro come lui ha saputo creare.

Outer Banks 4, Parte 1, la spiegazione del finale: chi è il vero padre di JJ?

I Pogues sono tornati in Outer Banks 4 la Stagione 4, Parte 1, dà il via a un’altra avventura selvaggia per i ragazzi, reduci dalla loro ultima missione (RIP Ward e Big John). Continuate a leggere per scoprire i momenti più importanti dei primi cinqe episodi, compreso lo scioccante cliffhanger che nessuno avrebbe potuto prevedere.

Nella quarta stagione, i Pogues tornano a casa con l’oro scoperto a El Dorado. Dopo averlo scambiato con 1,1 milioni di dollari, usano il denaro per aprire un negozio di esche, attrezzature e tour charter sul terreno che hanno acquistato, chiamandolo “Poguelandia 2.0”. Ma, alla maniera di JJ, scommette l’ultima pepita d’oro dell’equipaggio in una gara contro Rafe e Topper, che alla fine perde.

Fortunatamente per i Pogues, gli archeologi scavarono El Dorado sei mesi dopo la loro scoperta e i ragazzi furono onorati dalla città in una cerimonia mostrata alla fine della terza stagione. Gli spettatori ricorderanno che un uomo di nome Wes Genrette (David Jensen) si è avvicinato al gruppo, chiedendo aiuto per trovare il tesoro di Barbanera. Nonostante siano spaventati dalle maledizioni della sua famiglia, i Pogues accettano di aiutarlo per ripagare i loro debiti.

Tuttavia, i Pogue scoprono subito di non essere gli unici a cercare il tesoro, che comprende un amuleto di valore inestimabile e una corona blu. Un uomo sconosciuto inizia a seguirli, rivelandosi poi un mercenario di nome Lightner, che quasi uccide Kiara e JJ e infine rapisce Cleo. In una svolta drammatica, il vecchio amico e figura paterna di Cleo, Terrance, sacrifica la sua vita per salvare la sua alla fine dell’episodio 4.

Cosa succede in Outer Banks 4, Episodio 5?

Mentre JJ e Kiara rimangono a Kildare Island, il resto della squadra si reca a Charleston per continuare la ricerca della corona blu. Ma anche Lighter e il suo capo, Dalia, sono lì e riescono a entrare in una cripta sotto una vecchia chiesa prima dei Pogues.

Pope e Sarah si offrono volontari per scendere nelle catacombe, ma rimangono intrappolati sottoterra quando si imbattono in Lighter e Dalia. I due si nascondono da Lighter, che fugge dalla tomba con una pergamena recuperata da una sepoltura.

Cleo vede Lightner e Dalia emergere dal sottosuolo e progetta di vendicarsi per la morte di Terrance, ma prima che possa agire, Lightner le piomba alle spalle. Dalia interviene dicendogli che non vale la pena ucciderla. Nel frattempo, John B segue Lightner, pronto a sparare, ma esita quando ha un flashback della terza stagione, ricordando come il suo defunto padre, Big John, sparò ad alcuni uomini di Singh proprio davanti a lui.

“C’è molta esitazione in John B quando si tratta di perseguire qualcosa orientato al tesoro, ed è perché sta combattendo con il fatto che non ha avuto il tempo che voleva con suo padre”, ha detto Stokes a Tudum di Netflix. “E il ricordo di suo padre è ora racchiuso in questa grande vittoria gigantesca di trovare El Dorado. Ma ha capito che suo padre era una persona di merda. [E non vuole seguire quella strada”.

Mentre Pope e Sarah cercano un’uscita, si scatena un forte temporale che allaga le catacombe. Notano dei cirripedi che raggiungono il soffitto, il che significa che presto lo spazio sarà completamente sott’acqua e questa è l’ultima volta che li vediamo nella prima parte.

Gli attori hanno dichiarato a The Hollywood Reporter di aver dato di matto nella vita reale, proprio come i loro personaggi. “Era esattamente come sembra. Maddie era lì dentro. Non era felice. L’acqua, anche quando si atterra all’interno, è come se gocciolasse, quindi è gelida”, ha detto Jonathan Daviss. “È stato divertente perché mi sembrava di girare un film di Indiana Jones o qualcosa del genere. Mi sono detto: ‘Ecco cosa si prova a stare su quel tipo di set’”.

Come finisce la prima parte della quarta stagione di Outer Banks?

Alla fine di Outer Banks Stagione 4, Parte 1, JJ è con suo padre, Luke, che finalmente rivela uno scioccante segreto di famiglia. Prima della morte di Wes Genrette nell’episodio 2, aveva lasciato una lettera indirizzata al “Maestro JJ Maybank” nel caso fosse successo qualcosa, che lo spingeva a chiedere al padre il significato di “Albatross”.

Dopo un po’ di convincimento, Luke dice a JJ che “Albatross” era il nome della barca su cui Larissa Genrette è morta anni prima. Poi lancia un’altra notizia bomba, dicendo a JJ che lui non è il suo padre biologico e che la donna che JJ credeva essere sua madre era solo una delle ex fidanzate di Luke.

Chi è il vero padre di JJ?

Luke rivela a JJ che Larissa è in realtà la sua vera madre, rendendo Wes suo nonno e Chandler Groff il suo padre biologico: ciò significa che JJ potrebbe avere sangue Kook.

“Era la cosa più estrema a cui potessimo pensare: Che JJ sia in realtà un Kook”, ha dichiarato Shannon Burke, co-creatrice di Outer Banks, a Tudum di Netflix.

Allora, cosa sappiamo del nuovo padre di JJ, Groff? Gli spettatori lo hanno visto interrogato dalla polizia sulla morte del suocero. Fa anche un’apparizione alla fine dell’episodio 5 con Hollis Robinson, l’agente immobiliare locale che per tutta la stagione ha tramato per mettere le mani sul terreno di Genrette, coinvolgendo anche Rafe Cameron per aiutare nell’affare di sviluppo.

Avvocato di difesa – The Lincoln Lawyer – Stagione 2 – Parte 2: la spiegazione del finale: chi ha davvero ucciso Mitchell Bondurant?

Il finale di Avvocato di difesa – The Lincoln Lawyer – Stagione 2 – Parte 2 porta a termine il processo di Lisa Trammell, ma dopo il gran finale rimangono ancora molti misteri irrisolti. Nonostante le circostanze sembrino giocare a loro sfavore, Mickey e gli altri personaggi del suo team in Avvocato di difesa – The Lincoln Lawyer riescono a ottenere un verdetto di “non colpevolezza” per Lisa Trammell. Questo non significa però che il personaggio sia innocente di tutto. Anche se è stata dichiarata innocente dell’omicidio di Mitchell Bondurant, Mickey inizia a sospettare che Lisa abbia altri scheletri nell’armadio. Inoltre, l’uso di Alex Grant nella difesa di Lisa sembra che possa finire per avere conseguenze mortali per Mickey. Tuttavia, il colpo di scena più grande arriva alla fine dell’episodio, anticipando il prossimo grande caso di Mickey nella terza stagione di Avvocato di difesa – The Lincoln Lawyer.

Alla fine, il finale della seconda parte della seconda stagione è ricco di sorprese che hanno un impatto drastico sui personaggi e sulla trama, creando grandi aspettative per la prossima stagione.

Chi ha ucciso Mitchell Bondurant nella seconda stagione di Avvocato di difesa – The Lincoln Lawyer

Uno dei momenti più importanti alla fine della seconda parte della seconda stagione di Avvocato di difesa – The Lincoln Lawyer è stato quando Lisa Trammell è stata dichiarata non colpevole nel suo processo. Ma se non è stata lei a uccidere Mitchell Bondurant, chi è stato? Al termine del processo, Andrea Freeman ha rivelato a Mickey che Walter Kim, socio di Grant, è stato trovato con il sangue di Bondurant sulle scarpe. Questo suggeriva che Kim fosse l’assassino, anche se non era chiaro se avesse agito di propria iniziativa o se fosse stato incaricato da qualcun altro di uccidere Bondurant.

Secondo Lorna, Walter potrebbe non aver agito da solo. Al ricevimento di nozze suo e Cisco, Lorna ha condiviso con Izzy la sua teoria secondo cui Lisa era in realtà dietro l’aggressione di Grant contro Mickey alla fine della seconda stagione di The Lincoln Lawyer, parte 1. Se la teoria di Lorna è vera, significa che Lisa conosceva sia Alex Grant che la mafia. Se così fosse, Lisa sarebbe potenzialmente la mente che ha orchestrato il coinvolgimento di Grant e Kim nell’omicidio di Bondurant, nonostante il verdetto di non colpevolezza.

Il ruolo di Alex Grant nell’omicidio di Mitchell Bondurant spiegato

Durante il processo per l’omicidio di Lisa, Mickey ha usato Alex Grant come prestanome, costruendo una teoria alternativa per l’omicidio di Mitchell Bondurant, ma sembra che Grant potrebbe essere più rilevante per l’omicidio di quanto sembrasse. Il livello esatto del coinvolgimento di Grant non è chiaro alla fine della seconda stagione di Avvocato di difesa – The Lincoln Lawyer, ma era sicuramente coinvolto in qualche modo. Dato che è noto che Grant e Walter Kim erano soci, è altamente probabile che sia stato Grant a ordinare a Walter di uccidere Bondurant. Tuttavia, la serie Netflix non conferma se sia stato Grant la mente dietro l’omicidio di Bondurant o se sia stata Lisa, come suggerisce la teoria di Lorna.

Gli uomini di Alex Grant hanno cercato di uccidere Mickey?

Alla fine del finale della seconda stagione di Avvocato di difesa – The Lincoln Lawyer, Mickey è stato quasi investito da un’auto dopo aver cenato con la sua figura paterna, David “Legal” Siegel. La velocità dell’auto sembrava suggerire che non si trattasse di un incidente, ma di un tentativo calcolato di uccidere Mickey. Durante la cena, la serie ha rivelato che Alex Grant ha perso il contratto con il Villaggio Olimpico a causa del processo. Siegel ha suggerito che, per questo motivo, Grant potrebbe voler vendicarsi di Mickey. L’auto corrispondeva anche alla descrizione di Izzy del veicolo di Grant, quindi, anche se non è stato confermato che Grant fosse dietro il tentato omicidio, alcuni indizi indicano che potrebbe aver cercato di uccidere Mickey.

Cosa è successo a Walter Kim?

Dopo la scomparsa di Walter Kim, l’investigatore di Mickey, Cisco, lo ha rintracciato e ha scoperto che la polizia aveva trovato la sua auto abbandonata. Sebbene il corpo di Walter non fosse nell’auto, Cisco sospettò il peggio, ipotizzando che Alex Grant potesse aver cercato di zittire Walter, in modo che non venisse fuori che Grant lo aveva pagato per corromperlo. Sebbene questa teoria non sia mai stata provata in modo esplicito, la rivelazione finale da parte del procuratore Andrea Freeman che Walter è presumibilmente morto sembra suggerire che Cisco avesse ragione nelle sue supposizioni sul destino di Walter.

Perché Lisa ha ucciso suo marito Jeff Trammell

Verso la fine del finale di stagione, Mickey ha finalmente capito che, anche se Lisa era innocente dell’omicidio di Mitchell Bondurant, era colpevole dell’omicidio di suo marito Jeff in Avvocato di difesa – The Lincoln Lawyer. Una volta fatta questa scoperta, Mickey è andato a casa di Lisa per confrontarsi con lei riguardo al suo sospetto, e la risposta aggressiva di Lisa alle accuse di Mickey ha sostanzialmente confermato la veridicità della teoria. Sebbene Lisa abbia cercato di difendere le sue azioni dicendo che Jeff la maltrattava, Mickey credeva che avesse un motivo più egoistico per uccidere Jeff.

Quando Lisa e Jeff Trammell stavano divorziando, lui voleva prendersi metà della loro casa e della loro attività come parte dell’accordo. Lisa non riusciva ad accettare l’idea di perdere il suo amato ristorante e la sua casa in quel quartiere, quindi, per impedire a Jeff di prenderseli con il divorzio, lo ha ucciso prima che la separazione potesse essere effettivamente finalizzata. Per coprire l’accaduto, Lisa seppellì Jeff nel suo giardino, piantando sopra di lui il coriandolo che lui odiava tanto, e inventò la storia della sua fuga in Messico per spiegare la sua assenza. Lo stratagemma funzionò fino a quando Mickey non riuscì finalmente a mettere insieme i pezzi, scoprendo il tragico destino di Jeff.

Come Mickey capì che Lisa era colpevole di omicidio

La sorte di Jeff Trammell è rimasta un mistero per tutta la seconda stagione di Avvocato di difesa – The Lincoln Lawyer, ma Mickey ha finalmente scoperto cosa è successo a Jeff mentre era a Venice Beach con Hayley. Mickey ha sentito diversi rumori che ha riconosciuto come quelli in sottofondo nella telefonata di Jeff, smascherando così la copertura che lo voleva in Messico. Dopo questo, Mickey e Cisco hanno indagato sul divorzio di Jeff e Lisa Trammell e hanno fatto alcune scoperte scioccanti. Cisco ha scoperto che il divorzio di Jeff e Lisa non era mai stato effettivamente finalizzato, mentre Mickey ha scoperto che l’uomo che aveva incontrato e che sosteneva di essere Jeff era in realtà un attore ed ex dipendente di Lisa.

L’atteggiamento difensivo di Lisa mentre discuteva la teoria di Mickey sembrava essere una conferma sufficiente, ma il colpo di grazia è arrivato quando Mickey ha collegato Jeff e il coriandolo.

Dopo aver trovato tutte queste incongruenze nelle storie di Lisa su Jeff e le esperienze personali di Mickey con l’ex marito di Lisa, Mickey ha costruito la sua teoria sull’omicidio di Jeff. L’atteggiamento difensivo di Lisa mentre discuteva la teoria di Mickey sembrava essere una conferma sufficiente, ma il colpo di grazia è arrivato quando Mickey ha collegato Jeff al coriandolo. Con i segreti che Mickey e Cisco hanno scoperto su Jeff e Lisa, oltre al giardino di Lisa, è diventato chiaro che, indipendentemente dal fatto che Lisa abbia ucciso Mitchell Bondurant, ha sicuramente ucciso Jeff.

Cosa succederà a Lisa ora che la morte di Jeff è stata rivelata?

Ora che l’omicidio di Jeff è stato scoperto da Mickey, il destino di Lisa rimane in bilico. Tuttavia, una telefonata di Lorna sembra confermare che Lisa sarà comunque assicurata alla giustizia. Mentre Mickey affrontava Lisa, Lorna ha deciso di fidarsi del suo istinto e ha chiamato preventivamente il detective Griggs riguardo al sospetto omicidio, che ha portato con sé altri agenti. Nel libro The Fifth Witness, la polizia scava nel giardino di Lisa sulla base di questa soffiata anonima e scopre il corpo di Jeff. Supponendo che questo sarà anche il risultato delle indagini della polizia in Avvocato di difesa – The Lincoln Lawyer di Netflix, Lisa sarà arrestata per l’omicidio di Jeff.

Izzy lascerà il team di Mickey? Cosa succederà al personaggio di The Lincoln LawyerAvvocato di difesa – The Lincoln Lawyer

Durante tutta la seconda stagione di Avvocato di difesa – The Lincoln Lawyer, Izzy ha cercato di dare una svolta alla sua carriera aprendo una scuola di danza tutta sua. Anche se sembrava che il suo sogno non potesse realizzarsi quando l’edificio che aveva scelto ha aumentato i prezzi, alla fine Izzy riesce a realizzare il suo sogno. Izzy ospita persino il ricevimento di nozze di Cisco e Lorna nel suo studio, dove restituisce con un po’ di amarezza le chiavi della Lincoln di Mickey. Anche se Izzy non sarà più l’autista di Mickey, non scomparirà da Avvocato di difesa – The Lincoln Lawyer. Izzy rimarrà nello studio di Mickey part-time mentre Lorna e Cisco saranno in luna di miele.

Come la morte in Glory Days prepara la terza stagione di Avvocato di difesa – The Lincoln Lawyer

L’omicidio in Glory Days sarà il mistero centrale della terza stagione

Con il processo di Lisa Trammell concluso alla fine della seconda stagione di Avvocato di difesa – The Lincoln Lawyer, l’adattamento Netflix ha anticipato la trama della terza stagione, che si preannuncia come una delle più tragiche della serie. Alla fine dell’episodio, Mickey viene chiamato a lavorare al caso dell’omicidio di una donna di nome “Giselle Dallinger”, dove dovrà difendere l’imputato. Quando Mickey va a indagare sui dettagli dell’omicidio e a identificare il corpo della donna, fa la sconvolgente scoperta che la vittima è in realtà una sua cliente abituale, Glory Days.

Sebbene la serie non abbia ancora rivelato esattamente cosa sia successo a Glory Days in The Lincoln Lawyer, i libri possono colmare le lacune per ora. Nei libri, Glory è rimasta a Los Angeles invece di andare alle Hawaii come aveva detto, e ha continuato a prostituirsi. Dopo una sessione sfortunata, lei e il suo manager hanno litigato e il giorno dopo Glory è stata trovata morta nel suo appartamento. Si spera che la terza stagione di Avvocato di difesa – The Lincoln Lawyer faccia luce sulle circostanze della morte di Glory Days.

Chi è Julian Lacosse?

Mentre tornava a casa dopo una cena con David “Legal” Siegel, dopo il potenziale attentato alla sua vita, Mickey viene informato da Izzy che ha un nuovo cliente, Julian Lacosse. Quando Mickey lo incontra in prigione, Julian gli spiega che l’avvocato gli è stato raccomandato dalla sua amica Giselle Dallinger. Julian disse di essere stato accusato di averla uccisa, ma affermò la sua innocenza. Anche se non si sa ancora molto su Julian nella serie Netflix Avvocato di difesa – The Lincoln Lawyer, il nuovo cliente di Mickey sarà probabilmente uno dei protagonisti della terza stagione.

Perché Glory Days usava il nome Giselle Dallinger?

Dopo l’incontro con Julian Lacosse, Mickey scopre che “Giselle Dallinger” era in realtà Glory Days. Tuttavia, rimane un mistero il motivo per cui Glory abbia iniziato a usare quel nome. Il nuovo nome era probabilmente per la sicurezza di Glory, soprattutto dopo la sua esperienza di morte sfiorata con Russell durante la prima parte della seconda stagione di Avvocato di difesa – The Lincoln Lawyer. Il tentativo di omicidio di Russell ha messo Glory faccia a faccia con i potenziali pericoli del suo lavoro, il che probabilmente ha accelerato la sua decisione di scegliere un nuovo nome. Sfortunatamente per Glory, il nome Giselle Dallinger non le ha portato protezione. Ma si spera che Mickey riesca a ottenere giustizia per lei nella prossima stagione di Avvocato di difesa – The Lincoln Lawyer.

Cosa ha detto il cast di Avvocato di difesa – The Lincoln Lawyer sul finale della seconda stagione

Considerati i colpi di scena della seconda stagione di Avvocato di difesa – The Lincoln Lawyer, gli spettatori potrebbero non sapere cosa pensare. La serie lascia molte domande senza risposta e non c’è alcuna garanzia che la terza stagione ne risolverà alcune. Tuttavia, il cast e la troupe di Avvocato di difesa – The Lincoln Lawyer hanno espresso le loro opinioni sul finale in un’intervista con Tudum. Ad esempio, la serie propone due possibili spiegazioni per l’omicidio del marito da parte di Lisa. Lana Parilla, che interpreta Lisa, suggerisce che la spiegazione dell’abuso sia la verità. Ha detto questo:

“È una donna. Penso che questo accada spesso alle persone che vivono situazioni violente e abusive, e se compiono un’azione per proteggersi e questa diventa illegale e omicida, immediatamente giudichiamo la persona che ha commesso l’atto sbagliato”.

Il co-showrunner Ted Humphrey ha discusso delle difficoltà di Mickey riguardo all’innocenza o alla colpevolezza di Lisa nel caso. Nonostante affermi che non importa se la sua cliente è innocente o meno, Mickey vuole davvero credere nell’innocenza di Lisa. Dice: “Sa che se lo è, la sua montagna da scalare sarà ancora più alta. Perché non può lasciarla andare per qualcosa che non ha fatto, non importa quanto sembri grave”. Alla fine, le sue difficoltà contribuiscono al finale, in cui riesce a far assolvere Lisa perché innocente dell’omicidio di Mitchell Bondurant, ma poi la affronta riguardo al suo primo marito.

Il produttore esecutivo Ross Fineman ha parlato del finale di Glory Days e di cosa possono aspettarsi gli spettatori da Mickey nella terza stagione. Ha descritto il caso imminente come “il caso più difficile che abbia mai avuto, sia dal punto di vista professionale che personale”. Mickey teneva davvero a Glory Days e voleva il meglio per lei, il che rende ancora più sconvolgente la sua morte.

Purtroppo, Fineman lascia intendere che Mickey potrebbe dover affrontare emozioni complesse nella terza stagione di The Lincoln Lawyer riguardo a quanto accaduto. Dice: “C’è la fastidiosa sensazione che lui possa essere in qualche modo responsabile”. In definitiva, i pensieri del cast e della troupe sul finale della seconda stagione di The Lincoln Lawyer dimostrano che sono altrettanto appassionati alla storia e si immedesimano nei personaggi proprio come il pubblico.

Andrew Garfield ricorda Heath Ledger: “Era uno spirito generoso e creativo”

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Durante un’intervista al podcast Happy Sad Confused, l’attore Andrew Garfield ha ricordato il periodo trascorso con Heath Ledger sul set di Parnassus – L’uomo che voleva ingannare il diavolo del 2009. Garfield ha infatti raccontato di aver lavorato con Ledger dopo che questi aveva terminato le riprese de Il cavaliere oscuro e, prima che il film di Christopher Nolan venisse presentato in anteprima. A quanto raccontato dall’amato interprete di Spider-Man, l’attore australiano sapeva già che quel film sarebbe stato un successo.

Aveva appena fatto il Joker, aveva appena finito di fare Il cavaliere oscuro, ed era così compiaciuto”, ha detto Garfield. “Gli ho chiesto: “Com’è andata?” e lui mi ha risposto: “Alla grande””. Garfield ha inoltre ricordato quando Ledger ha criticato la copertina di una rivista per cui aveva posato in vista della sua interpretazione del cattivo della DC Comics, il Joker. “Ricordo che uscì la copertina della rivista Empire e lui disse: ‘Oh, hanno usato una foto di merda’”, ha raccontato Garfield.

E io gli ho detto: ‘Mi stai prendendo in giro, amico, è incredibile’. E lui: “No, la posa è sbagliata, sembra una versione convenzionale di quello che un attore… vedrai”. E, beh, poi l’ho visto”, afferma Garfield in riferimento al valore dell’interpretazione del collega. Come noto, Heath Ledger è poi stato trovato morto nel gennaio 2008, mesi prima dell’uscita de Il cavaliere oscuro nel luglio dello stesso anno. Il film della DC divenne un successo al botteghino e Ledger vinse persino un Oscar postumo per la sua interpretazione del Joker.

Garfield ha imparato molto da Heath Ledger mentre lavorava con lui: “Era una specie di faro, era come un animale selvaggio. Era così libero, così selvaggio e così pericoloso sul set, in un modo che era di ispirazione e spontaneo. Prima di ogni ripresa, o di una ripresa per ogni scena, diceva: ‘Divertiamoci un po’ con questa’”. E ha continuato: “Ho ancora molti suoi ricordi. Ricordo che il primo giorno che l’ho incontrato indossava questi fantastici occhiali da sole Ray Ban mimetici e io gli ho detto: ‘Oh, ehi, che occhiali da sole fighi’. E il giorno dopo erano nel mio camerino, me li aveva lasciati. Era uno spirito molto generoso, bello e creativo”.

Nobody Wants This rinnovato per una seconda stagione da Netflix

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Netflix ha rinnovato la commedia romantica Nobody Wants This (qui la recensione), con protagonisti Kristen Bell e Adam Brody, per una seconda stagione. Il rinnovo, però, avviene con un cambio di showrunner, con l’ideatrice Erin Foster che rimarrà però voce creativa della serie. Al suo posto, gli ex allievi di Girls, Jenni Konner e Bruce Eric Kaplan, sono saliti a bordo come produttori esecutivi e showrunner per la seconda stagione, guidando una writers room aperta da un paio di settimane. A loro si aggiungono Nora Silver, presidente della Jenni Konner Productions, che sarà produttrice esecutiva insieme al duo.

Gli accordi con Konner, Kaplan e Silver – come riportati da Deadline – sono stati stipulati prima dell’uscita della commedia il 26 settembre, uno dei lanci più forti di sempre per una serie comica originale Netflix. Debuttando al n. 2 nel weekend di apertura, Nobody Wants This è salita al n. 1 nella sua prima settimana completa, ottenendo ben 26,2 milioni di visualizzazioni nei suoi primi 11 giorni di uscita e cogliendo lo zeitgeist e innescando una conversazione.

Aver ideato Nobody Wants This sarà per sempre un punto di forza della mia carriera”, ha dichiarato la Foster, che per la serie ha tratto ispirazione dalla sua esperienza personale. “L’incredibile cast, la troupe, i produttori e i dirigenti hanno fatto sì che questo show diventasse quello che è oggi, e sperimentare le reazioni degli spettatori a questa serie ora che è uscita nel mondo è stato più di quanto potessi sognare. Sono così fortunata a poter continuare questa storia e a farlo al fianco di Jenni Konner e Bruce Eric Kaplan, di cui sono una grande fan dai tempi di Girls… Giustizia per le relazioni sane che sono anche le più romantiche!”

È un sogno lavorare a Nobody Wants This”, ha dichiarato invece Konner. “Erin è la rara creatrice con una voce cristallina e uno spirito genuinamente collaborativo. Sono una vera fan dello show di Erin e mi sento anche molto fortunata a tornare in una stanza con due dei miei preferiti, Bruce Kaplan e [la scrittrice] Sarah Heyward di Girls”. Kaplan ha aggiunto: “Sono entusiasta oltre ogni dire di far parte della seconda stagione di Nobody Wants This, creata dalla divertentissima Erin Foster. È uno show così unico e bello e mi sto già divertendo moltissimo a lavorarci”.

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Peaky Blinders: Stephen Graham si unisce al cast del film

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L’attore Stephen Graham ha dichiarato a Deadline di essere tra i protagonisti del prossimo film di Netflix Peaky Blinders. La star di Line of Duty ha confermato la cosa sul red carpet del London Film Festival (LFF) di ieri sera che il film sarà il suo prossimo progetto, prima di interpretare il padre di Bruce Springsteen nel biopic Deliver Me from Nowhere. Graham ha aggiunto che “non vede l’ora di rivedere i ragazzi” del cast della serie. L’attore non ha specificato il suo ruolo, ma avendo interpretato Hayden Stagg nella sesta e ultima stagione della serie di successo della BBC di Steven Knight è lecito pensare che riprenderà proprio quel ruolo.

Tutto quello che sappiamo sul film Peaky Blinders

Il premio Oscar Cillian Murphy tornerà nel ruolo iconico di Tommy Shelby, leader dell’omonima famiglia di gangster di Birmingham. La produzione del film inizierà entro la fine dell’anno.

I dettagli sul film non sono ancora stati resi noti. Tuttavia, in un’intervista a Esquire, l’ideatore  Steven Knight ha lasciato intendere di avere un’idea generale della trama, che ruoterà intorno a due storie. Preferisce lasciare che sia il film stesso a guidare la direzione narrativa. Si prevede che il film esplorerà la nuova generazione di personaggi pur rimanendo legato agli Shelby, con Thomas Shelby che avrà un ruolo centrale. Ecco cosa ha detto sulla regia del film:

“Il film so esattamente di cosa parla. E so quali sono le due storie che racconterà. Come si svolgerà la storia, non lo so. Quello che succederà dopo, voglio che dipenda dal film. Per quanto ne sappiamo, qualcuno salterà fuori – credo di sapere chi sarà. Nella sesta serie stiamo introducendo la nuova generazione, che farà parte di ciò che accadrà nel film. Credo che si tratti di trovare quegli attori che, quando li guardi, pensi: “Ecco, questo è il futuro””. Ecco il futuro”.

Restate sintonizzati per ulteriori aggiornamenti su Peaky Blinders, la cui produzione inizierà il mese prossimo. Tutte le stagioni di Peaky Blinders sono disponibili su Netflix.

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Shazam!, la spiegazione del finale del film

Il film del DCEU Shazam! (qui la recensione) ha offerto generose dosi di divertimento ma anche tanta azione ed epicità. Il film, diretto da David F. Sandberg e interpretato da Zachary Levi nel ruolo del supereroe titolare, ha dunque proposto un lungometraggio diverso nel tono rispetto ai precedenti progetti, come L’uomo d’acciaio Batman v Superman, molto più cupi e seriosi. Allo stesso tempo, però il film ha anche proposto una serie di scenari potenzialmente inquientanti, seguiti da misteri non del tutto risolti che contribuiscono ad una certa curiosità nei confronti di questo racconto. Qui di seguito, dunque, andiamo ad esplorare il finale del film e i suoi significati nascosti.

La trama e il cast di Shazam!

Protagonista del film è Billy Batson (Asher Angel) è un quindicenne rimasto orfano che vive a Philadelphia con la famiglia Vasquez. Un giorno, scappando da alcuni bulli, viene teletrasportato in un’altra dimensione, un luogo magico chiamato Roccia dell’Eternità, dove incontra un mago, Shazam, che gli dona i suoi poteri al fine di sconfiggere il cattivo Dr. Thaddeus Sivana (Mark Strong) a capo dei Sette Peccati Capitali. Da quel momento, Billy si scopre dotato di un incredibile potere: gli basta pronunciare Shazam! per trasformarsi in un supereroe adulto (Zachary Levi) con abilità straordinarie. Come sempre, da questo grande potere deriveranno ben presto grandi responsabilità.

Cosa rendeva Thaddeus Sivana indegno da bambino?

Una delle rivelazioni più interessanti di Shazam! avviene proprio nei momenti iniziali del film. È un prologo ambientato a nord di New York nel 1974, e il giovane Thaddeus Sivana (Ethan Pugiotto) sta giocando con una Magic 8-Ball nel retro della sua auto, quando viene magicamente trasportato alla Roccia dell’Eternità in una dimensione alternativa. Lì, viene sfidato dal mago (Djimon Hounsou) in una prova di purezza, che fallisce dopo essere stato influenzato dai Sette Peccati Capitali, e viene scacciato – portando all’ossessione di trovare di nuovo la Roccia dell’Eternità e di ottenerne i poteri con ogni mezzo necessario.

È chiaro che il mago ha standard estremamente elevati nella sua ricerca di un nuovo campione a cui conferire i suoi poteri, poiché vediamo una serie di persone che hanno fallito la valutazione nel corso degli anni. Ma non è mai del tutto chiaro perché il giovane Thaddeus fallisca. Sembra un po’ troppo severo, visto che all’epoca era un ragazzino, e questo atto di rifiuto si rivela eccessivo per un giovane che sembra già essere stato respinto dal padre e dal fratello. Non c’è da stupirsi che il bambino sia poi diventato un malvagio megalomane e abbia cercato l’aiuto dei mostri dei Sette Peccati Capitali.

Zachary Levi e Jack Dylan Grazer in Shazam!
Zachary Levi e Jack Dylan Grazer in Shazam! Cortesia di Warner Bros.

La nascita della Famiglia Shazam!

Da adulto, Sivana ritrova così la strada per la Roccia dell’Eternità, sputa in faccia al Mago e intraprende la missione dei sette peccati capitali. Essi si impossessano del suo corpo conferendogli una forza paragonabile a quella di Shazam! e Philadelphia diventa il loro campo di battaglia. Ma un solo ragazzo non è in grado di difendere il pianeta dalle sette personificazioni del peccato, sono necessari i rinforzi. Billy decide così di condividere il proprio potere con i suoi fratelli e sorelle adottivi. Insieme invocano la parola magica e si trasformano nella Famiglia Shazam.

Insieme si occupano rapidamente di Sivana e dei suoi peccati. Usando la loro vanità contro di loro, Billy estrae ogni peccato dal contenitore di Sivana. L’invidia richiede un po’ di lavoro in più, ma la presa in giro delle sue dimensioni accende il fuoco appropriato. Libero dalla loro influenza, Sivana è ora un debole. Billy gli strappa pertanto l’occhio peccaminoso dal cranio, lasciandolo impotente e riportando i sette mortali alla loro prigione di pietra nella Roccia dell’Eternità. Philadelphia celebra così la Famiglia Shazam come eroi dal cuore puro.

Il film si conclude con Billy che definisce l’ultima casa che gli è stata affidata una vera casa. Impara che il rifiuto porta solo alla solitudine e che l’accettazione premia con la famiglia. Aiuta un fratello quando appare in forma di campione durante l’ora di pranzo a scuola di Freddy e, nel caso in cui la novità si sia esaurita, porta con sé un amico: Superman. Quando e come abbia trovato il tempo di diventare amico dell’Uomo d’Acciaio è una storia che non conosciamo ancora.

Mark Strong e Zachary Levi in Shazam!
Mark Strong e Zachary Levi in Shazam! Cortesia di Warner Bros.

Le scene post-credits del film

Nella prima sequenza di mid-credits, torniamo a Sivana che perde la testa nella sua cella. Sta scarabocchiando freneticamente i simboli magici che lo hanno originariamente portato alla Roccia dell’Eternità. Mentre cerca disperatamente di scoprire una nuova sequenza, una voce robotica riecheggia dall’angolo della sua stanza. Incontriamo così Mister Mind, il piccolo verme visto in precedenza intrappolato in una cupola di vetro nella Tana del Mago. Parlando attraverso un dispositivo meccanico sul suo corpo, la piccola creatura dice: “Oh, quanto ci divertiremo insieme! I Sette Regni stanno per essere nostri”.

Questo piccolo verme si tratta di un cattivo della vecchia scuola e nessuno pensava che la Warner Bros. lo avrebbe preso sul serio. Tuttavia, chi ha seguito la recente serie di fumetti di Shazam! sa già che lo scrittore e produttore esecutivo del DCEU Geoff Johns è determinato a mantenere il canone di questo inquietante personaggio. Mister Mind si basa su abilità telecinetiche per controllare gli altri e da quanto afferma sembra intenzionato a prendere il controllo dei sette regni della realtà, uno dei quali è quello della Terra.

Il sequel Shazam! Furia degli Dei

Nel 2023 è poi arrivato al cinema Shazam! Furia degli Dei (qui la recensione), che ha posto il protagonista contro le tre figlie di Atlante desiderose di riprendersi i poteri ora in possesso di Shazam! Il film, come noto, è stato un flop al botteghino e data anche la cancellazione del DCUE sappiamo che non ci sarà un terzo film dedicato al supereroe. Ad ogni modo, come si può intuire, il film non ha avuto tra i suoi villain né Sivana né Mister Mind, i quali compaiono però nuovamente in una scena post-credits dove il secondo dice al primo che il suo piano è sempre più prossimo all’attuarsi. Sappiamo però ora che ciò non avverrà mai.

Il trailer del film e dove vederlo in streaming e in TV

È possibile fruire di Shazam! grazie alla sua presenza su alcune delle più popolari piattaforme streaming presenti oggi in rete. Questo è infatti disponibile nei cataloghi di Apple TVTim VisionNetflix e Prime Video. Per vederlo, una volta scelta la piattaforma di riferimento, basterà noleggiare il singolo film o sottoscrivere un abbonamento generale. Si avrà così modo di guardarlo in totale comodità e ad un’ottima qualità video. Il film è inoltre presente nel palinsesto televisivo di giovedì 10 ottobre alle ore 21:00 sul canale 20 Mediaset.